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Alla Biblioteca Archimede di Settimo Torinese un viaggio tra le pagine de “L’officina dello sport”

Venerdì 11 aprile, alle ore 18, la Biblioteca Archimede di Settimo Torinese ospiterà la presentazione de “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”, il libro a cura della Fondazione Pirelli edito da Marsilio Arte. L’incontro, introdotto dalla Sindaca di Settimo Torinese Elena Piastra, vedrà dialogare il Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò e il team manager della nazionale italiana di pallavolo femminile, oro alle recenti Olimpiadi di Parigi (nonché della squadra di volley femminile Lilliput Settimo Torinese) Marcello Capucchio.

Un’occasione per riflettere sui temi portanti del progetto editoriale: la cultura sportiva, lo sport inteso come partecipazione, coinvolgimento, comunità e impegno civile, restituito nelle pagine del libro non attraverso la lente – spesso retorica – della competizione e della sfida, ma con il focus puntato su ciò che non si vede in campo o in pista. La scienza applicata alla performance degli atleti, le fabbriche dei prodotti sportivi, i cantieri, le musiche e gli inni dello sport, in cui i protagonisti non sono solo i campioni, ma anche i tifosi.

Corredato da fotografie e documenti provenienti dall’Archivio Storico Pirelli e impreziosito da tavole inedite realizzate dall’illustratore Lorenzo Mattotti, il libro è una narrazione corale in cui trovano voce le testimonianze di rappresentanti di istituzioni sportive, come il Presidente del CONI e della Fondazione Milano Cortina 2026 Giovanni Malagò e il Presidente e AD di Formula 1 Stefano Domenicali, riflessioni sulla storia dello sport a cura di grandi firme del giornalismo, come Emanuela Audisio, nonché racconti inediti di scrittori di fama internazionale, come Joe R. Lansdale, il brillante ideatore dello sgangherato duo di detective Hap & Leonard.

Venerdì 11 aprile, alle ore 18, la Biblioteca Archimede di Settimo Torinese ospiterà la presentazione de “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”, il libro a cura della Fondazione Pirelli edito da Marsilio Arte. L’incontro, introdotto dalla Sindaca di Settimo Torinese Elena Piastra, vedrà dialogare il Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò e il team manager della nazionale italiana di pallavolo femminile, oro alle recenti Olimpiadi di Parigi (nonché della squadra di volley femminile Lilliput Settimo Torinese) Marcello Capucchio.

Un’occasione per riflettere sui temi portanti del progetto editoriale: la cultura sportiva, lo sport inteso come partecipazione, coinvolgimento, comunità e impegno civile, restituito nelle pagine del libro non attraverso la lente – spesso retorica – della competizione e della sfida, ma con il focus puntato su ciò che non si vede in campo o in pista. La scienza applicata alla performance degli atleti, le fabbriche dei prodotti sportivi, i cantieri, le musiche e gli inni dello sport, in cui i protagonisti non sono solo i campioni, ma anche i tifosi.

Corredato da fotografie e documenti provenienti dall’Archivio Storico Pirelli e impreziosito da tavole inedite realizzate dall’illustratore Lorenzo Mattotti, il libro è una narrazione corale in cui trovano voce le testimonianze di rappresentanti di istituzioni sportive, come il Presidente del CONI e della Fondazione Milano Cortina 2026 Giovanni Malagò e il Presidente e AD di Formula 1 Stefano Domenicali, riflessioni sulla storia dello sport a cura di grandi firme del giornalismo, come Emanuela Audisio, nonché racconti inediti di scrittori di fama internazionale, come Joe R. Lansdale, il brillante ideatore dello sgangherato duo di detective Hap & Leonard.

“L’Italia in bicicletta” taglia il traguardo, tra Cinema & Storia

Si è conclusa l’edizione 2025 di “Cinema & Storia”, il corso di formazione e aggiornamento gratuito per docenti delle scuole secondarie, dal titolo “L’Italia in bicicletta. Modernità industriale, conflitti politici e sociali, immaginari artistici”, che ha coinvolto quest’anno circa 200 docenti da tutta Italia. Organizzato da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC e giunto alla sua tredicesima edizione, il corso ha visto per la prima volta la collaborazione della Cineteca di Bologna, la cui selezione di film – resi disponibili per i docenti in modalità streaming – ha affiancato i sei appuntamenti online e la visita degli spazi della Fondazione Pirelli.
Le lezioni storiche hanno indagato i diversi aspetti della bicicletta: figlia della modernità industriale, simbolo di libertà e oggetto del desiderio, prodotto di largo consumo capace di dialogare con le culture più diverse e strumento di mobilità sostenibile, questo mezzo di trasporto può utilmente entrare nelle aule scolastiche in quanto portatore di una storia straordinaria.

Ciascuna lezione del corso è stata introdotta da “L’archivio racconta”, un breve momento di riflessione sul valore del patrimonio storico conservato in Fondazione Pirelli, condotta attraverso una selezione di documenti legati al tema portante di questa edizione: dalla cartolina celebrativa per il primo Giro d’Italia nel 1909 agli scatti del Gran Premio Pirelli al Velodromo Vigorelli, dalle campagne pubblicitarie velo – realizzate da grandi nomi della grafica come Lora Lamm e Massimo Vignelli – ai servizi fotografici che mostrano l’evoluzione della mobilità ciclistica in Italia.

Il corso è stato inaugurato dall’intervento di Raimonda Riccini, storica del design, che ha approfondito l’universo simbolico del mito della due ruote – capace di lasciare un segno profondo nell’arte e nella pubblicità – attraverso un excursus sulla ricca iconografia che ha consacrato la bicicletta nell’immaginario collettivo, dal punto di vista estetico e culturale.
Il film d’animazione Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet ha condotto i corsisti lungo le tappe del Tour de France, seguendo le disavventure di Madame Souza e del nipote Champion, tra Marsiglia e l’immaginaria megalopoli di Belleville. Una pellicola ricca di citazioni e trovate geniali, caratterizzata da un’attenta cura del disegno e da personaggi memorabili.

Eleonora Belloni, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Siena, ha analizzato l’evoluzione più che centenaria della mobilità ciclistica nel nostro Paese: una battaglia combattuta per la conquista dello spazio pubblico, che ha accompagnato il lungo cammino di modernizzazione della Nazione, chiamando in causa, di volta in volta, visioni diverse di progresso e di democratizzazione.
Ed è proprio l’Italia del Dopoguerra, tra le tracce del conflitto da poco terminato e i segnali di una rinascita che sta per arrivare, la protagonista di Ladri di biciclette, il capolavoro neorealista realizzato da Vittorio de Sica e Cesare Zavattini. Un classico senza tempo, vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero nel 1950.

Con la terza lezione del corso, condotta da Francesca Tacchi, professoressa associata di Storia contemporanea all’Università di Firenze, si è esaminato il complesso rapporto tra le donne e la due ruote: dalla fine dell’Ottocento al ruolo fondamentale delle staffette partigiane nella lotta di Liberazione, dall’affermazione negli anni Sessanta del ciclismo femminile al primo Giro Donne nel 1988.
Tre storie, ognuna delle quali espressione di una fase della vita di una donna in Iran, sono al centro di The Day I Became a Woman di Marzieh Meshkini, tappa imprescindibile del cinema femminista iraniano. Nel secondo episodio, in particolare, la bicicletta – in sella alla quale la protagonista Ahoo è decisa a partecipare a una gara ciclistica – diventa simbolo di una estenuante lotta contro il patriarcato.

Il tema del legame tra bicicletta e storia politica è stato affrontato durante l’intervento di Stefano Pivato, professore emerito di Storia all’Università di Urbino Carlo Bo: un’indagine sull’utilizzo di questo mezzo di trasporto come veicolo di consenso e strumento di costruzione di un’identità nazionale, dalla fine del XIX secolo alla Seconda Guerra Mondiale fino al Dopoguerra, periodo segnato dalla contrapposizione tra Fausto Coppi e Gino Bartali.
Uno sguardo unico sulla società, i costumi e le atmosfere dei vari periodi storici è stato offerto invece da una selezione di film dell’archivio della Cineteca di Bologna, che spaziano dalla nascita del cinema – con il primo film dei fratelli Lumière – fino alla propaganda fascista dei primi anni Quaranta, quando la due ruote diventa non solo mezzo di svago, ma anche simbolo sportivo ed eroico.

La quinta lezione tenuta da Mimmo Franzinelli, saggista e storico, ha messo in luce le grandi competizioni ciclistiche italiane – la Milano-Sanremo, il Giro di Lombardia e, naturalmente, il Giro d’Italia – evidenziando l’importanza della città di Milano come centro economico e organizzativo e tracciando una storia culturale di questo sport, tra cronache, grandi campioni, tifoserie e rivalità.
Come catturare con la cinepresa l’atmosfera adrenalinica di queste competizioni? A questa domanda il regista Jørgen Leth risponde con A Sunday in Hell, documentario sportivo diventato subito un grande classico del genere, che ci racconta la Parigi-Roubaix del 1976, dai momenti precedenti alla partenza fino alle interviste al termine della gara.

I docenti hanno avuto poi l’occasione di scoprire lo stretto rapporto di Pirelli con il mondo del ciclismo visitando la Fondazione Pirelli, con la mostra “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali” e l’Archivio Storico aziendale, tra documenti, bozzetti originali, fotografie e stampati pubblicitari.

Il corso si è concluso con l’incontro In sella alla settima arte: viaggio cinematografico su due ruote a cura di Simone Fratini di Schermi e Lavagne, Dipartimento educativo della Cineteca di Bologna, che ha fornito una panoramica sul ruolo simbolico e narrativo della bicicletta nel cinema, tra film iconici e celebri personaggi del grande schermo: infatti, la due ruote non ha solo influenzato l’estetica e il linguaggio cinematografico, ma è diventato un elemento chiave per lo sviluppo della trama, nonché emblema di libertà, crescita, lotta sociale e avventura.

Si è conclusa l’edizione 2025 di “Cinema & Storia”, il corso di formazione e aggiornamento gratuito per docenti delle scuole secondarie, dal titolo “L’Italia in bicicletta. Modernità industriale, conflitti politici e sociali, immaginari artistici”, che ha coinvolto quest’anno circa 200 docenti da tutta Italia. Organizzato da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC e giunto alla sua tredicesima edizione, il corso ha visto per la prima volta la collaborazione della Cineteca di Bologna, la cui selezione di film – resi disponibili per i docenti in modalità streaming – ha affiancato i sei appuntamenti online e la visita degli spazi della Fondazione Pirelli.
Le lezioni storiche hanno indagato i diversi aspetti della bicicletta: figlia della modernità industriale, simbolo di libertà e oggetto del desiderio, prodotto di largo consumo capace di dialogare con le culture più diverse e strumento di mobilità sostenibile, questo mezzo di trasporto può utilmente entrare nelle aule scolastiche in quanto portatore di una storia straordinaria.

Ciascuna lezione del corso è stata introdotta da “L’archivio racconta”, un breve momento di riflessione sul valore del patrimonio storico conservato in Fondazione Pirelli, condotta attraverso una selezione di documenti legati al tema portante di questa edizione: dalla cartolina celebrativa per il primo Giro d’Italia nel 1909 agli scatti del Gran Premio Pirelli al Velodromo Vigorelli, dalle campagne pubblicitarie velo – realizzate da grandi nomi della grafica come Lora Lamm e Massimo Vignelli – ai servizi fotografici che mostrano l’evoluzione della mobilità ciclistica in Italia.

Il corso è stato inaugurato dall’intervento di Raimonda Riccini, storica del design, che ha approfondito l’universo simbolico del mito della due ruote – capace di lasciare un segno profondo nell’arte e nella pubblicità – attraverso un excursus sulla ricca iconografia che ha consacrato la bicicletta nell’immaginario collettivo, dal punto di vista estetico e culturale.
Il film d’animazione Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet ha condotto i corsisti lungo le tappe del Tour de France, seguendo le disavventure di Madame Souza e del nipote Champion, tra Marsiglia e l’immaginaria megalopoli di Belleville. Una pellicola ricca di citazioni e trovate geniali, caratterizzata da un’attenta cura del disegno e da personaggi memorabili.

Eleonora Belloni, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Siena, ha analizzato l’evoluzione più che centenaria della mobilità ciclistica nel nostro Paese: una battaglia combattuta per la conquista dello spazio pubblico, che ha accompagnato il lungo cammino di modernizzazione della Nazione, chiamando in causa, di volta in volta, visioni diverse di progresso e di democratizzazione.
Ed è proprio l’Italia del Dopoguerra, tra le tracce del conflitto da poco terminato e i segnali di una rinascita che sta per arrivare, la protagonista di Ladri di biciclette, il capolavoro neorealista realizzato da Vittorio de Sica e Cesare Zavattini. Un classico senza tempo, vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero nel 1950.

Con la terza lezione del corso, condotta da Francesca Tacchi, professoressa associata di Storia contemporanea all’Università di Firenze, si è esaminato il complesso rapporto tra le donne e la due ruote: dalla fine dell’Ottocento al ruolo fondamentale delle staffette partigiane nella lotta di Liberazione, dall’affermazione negli anni Sessanta del ciclismo femminile al primo Giro Donne nel 1988.
Tre storie, ognuna delle quali espressione di una fase della vita di una donna in Iran, sono al centro di The Day I Became a Woman di Marzieh Meshkini, tappa imprescindibile del cinema femminista iraniano. Nel secondo episodio, in particolare, la bicicletta – in sella alla quale la protagonista Ahoo è decisa a partecipare a una gara ciclistica – diventa simbolo di una estenuante lotta contro il patriarcato.

Il tema del legame tra bicicletta e storia politica è stato affrontato durante l’intervento di Stefano Pivato, professore emerito di Storia all’Università di Urbino Carlo Bo: un’indagine sull’utilizzo di questo mezzo di trasporto come veicolo di consenso e strumento di costruzione di un’identità nazionale, dalla fine del XIX secolo alla Seconda Guerra Mondiale fino al Dopoguerra, periodo segnato dalla contrapposizione tra Fausto Coppi e Gino Bartali.
Uno sguardo unico sulla società, i costumi e le atmosfere dei vari periodi storici è stato offerto invece da una selezione di film dell’archivio della Cineteca di Bologna, che spaziano dalla nascita del cinema – con il primo film dei fratelli Lumière – fino alla propaganda fascista dei primi anni Quaranta, quando la due ruote diventa non solo mezzo di svago, ma anche simbolo sportivo ed eroico.

La quinta lezione tenuta da Mimmo Franzinelli, saggista e storico, ha messo in luce le grandi competizioni ciclistiche italiane – la Milano-Sanremo, il Giro di Lombardia e, naturalmente, il Giro d’Italia – evidenziando l’importanza della città di Milano come centro economico e organizzativo e tracciando una storia culturale di questo sport, tra cronache, grandi campioni, tifoserie e rivalità.
Come catturare con la cinepresa l’atmosfera adrenalinica di queste competizioni? A questa domanda il regista Jørgen Leth risponde con A Sunday in Hell, documentario sportivo diventato subito un grande classico del genere, che ci racconta la Parigi-Roubaix del 1976, dai momenti precedenti alla partenza fino alle interviste al termine della gara.

I docenti hanno avuto poi l’occasione di scoprire lo stretto rapporto di Pirelli con il mondo del ciclismo visitando la Fondazione Pirelli, con la mostra “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali” e l’Archivio Storico aziendale, tra documenti, bozzetti originali, fotografie e stampati pubblicitari.

Il corso si è concluso con l’incontro In sella alla settima arte: viaggio cinematografico su due ruote a cura di Simone Fratini di Schermi e Lavagne, Dipartimento educativo della Cineteca di Bologna, che ha fornito una panoramica sul ruolo simbolico e narrativo della bicicletta nel cinema, tra film iconici e celebri personaggi del grande schermo: infatti, la due ruote non ha solo influenzato l’estetica e il linguaggio cinematografico, ma è diventato un elemento chiave per lo sviluppo della trama, nonché emblema di libertà, crescita, lotta sociale e avventura.

Vere storie d’impresa

Appena pubblicata una raccolta di racconti di “ordinarietà imprenditoriale”

Storie di gente d’impresa per comprendere meglio l’impresa. Metodo già sperimentato da tempo che, tuttavia, si rinnova ogni volta nel momento in cui nuovi racconti si aggiungono a quelli già resi noti. È il caso di “Ordinary leadership. La fenomenologia della leadership attraverso il potere di storie quotidiane” libro scritto a quattro mani da Dario Bussolin e Azzurra Maria Sorbi (psicologo del lavoro lui ed esperta in relazioni del personale lei), che hanno messo insieme nove storie d’imprenditori che sono altrettanti racconti d’impresa.

Vicende che gli autori definiscono, con ragione, come altrettante storie d’ispirazione e leadership che spesso rimangono nell’ombra. Sono storie di donne e di uomini che, senza clamore, hanno modellato il destino di imprese, comunità e interi settori attraverso la loro visione, la loro passione e il loro impegno. Il libro – voluto da Aegis Human Consulting Group – , mette quindi in fila le storie di aziende poco note ma che rappresentano, negli intenti dei curatori, “esperienze autentiche, ricche di insegnamenti e valori profondi”. Racconti che parlano di successi e fallimenti e che, soprattutto,  possono stimolare riflessioni, nuove prospettive e consapevolezze. Scorrono così sotto gli occhi di chi legge i passi imprenditoriali di chi sta dietro a Giovanardi SpA, Giano Srl., API Srl, Tre Elle Srl, Cifarelli SpA, Aegis Srl, Proel SpA, Gest Srl, Edam Soluzioni Ambientali Srl.

Tutto da leggere il libro di Dario Bussolin e Azzurra Maria Sorbi. E magari da far leggere a chi vuole provar a metter su un’impresa.

Ordinary leadership. La fenomenologia della leadership attraverso il potere di storie quotidiane

Dario Bussolin, Azzurra Maria Sorbi

Franco Angeli, 2025

Appena pubblicata una raccolta di racconti di “ordinarietà imprenditoriale”

Storie di gente d’impresa per comprendere meglio l’impresa. Metodo già sperimentato da tempo che, tuttavia, si rinnova ogni volta nel momento in cui nuovi racconti si aggiungono a quelli già resi noti. È il caso di “Ordinary leadership. La fenomenologia della leadership attraverso il potere di storie quotidiane” libro scritto a quattro mani da Dario Bussolin e Azzurra Maria Sorbi (psicologo del lavoro lui ed esperta in relazioni del personale lei), che hanno messo insieme nove storie d’imprenditori che sono altrettanti racconti d’impresa.

Vicende che gli autori definiscono, con ragione, come altrettante storie d’ispirazione e leadership che spesso rimangono nell’ombra. Sono storie di donne e di uomini che, senza clamore, hanno modellato il destino di imprese, comunità e interi settori attraverso la loro visione, la loro passione e il loro impegno. Il libro – voluto da Aegis Human Consulting Group – , mette quindi in fila le storie di aziende poco note ma che rappresentano, negli intenti dei curatori, “esperienze autentiche, ricche di insegnamenti e valori profondi”. Racconti che parlano di successi e fallimenti e che, soprattutto,  possono stimolare riflessioni, nuove prospettive e consapevolezze. Scorrono così sotto gli occhi di chi legge i passi imprenditoriali di chi sta dietro a Giovanardi SpA, Giano Srl., API Srl, Tre Elle Srl, Cifarelli SpA, Aegis Srl, Proel SpA, Gest Srl, Edam Soluzioni Ambientali Srl.

Tutto da leggere il libro di Dario Bussolin e Azzurra Maria Sorbi. E magari da far leggere a chi vuole provar a metter su un’impresa.

Ordinary leadership. La fenomenologia della leadership attraverso il potere di storie quotidiane

Dario Bussolin, Azzurra Maria Sorbi

Franco Angeli, 2025

Da Calamandrei a Mattarella, le regole e i valori per difendere e rilanciare libertà e democrazia

“La democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata, vissuta, consolidata e interpretata”. Ma anche: “La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.

In tempi così difficili e controversi, contro le cattive inclinazioni alla banalità e alla volgarità e le crescenti manifestazioni di fastidio verso la democrazia, vale la pena rileggere alcune delle pagine migliori della nostra letteratura politica. Come quelle dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rivolto nell’aprile 2015 ai giovani vincitori del concorso “Dalla Resistenza alla Cittadinanza attiva”. E come il discorso di Piero Calamandrei sulla Costituzione, del 1955, con un passaggio essenziale: “È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io. Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa”.

Però, continua Calamandrei, “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai”.

La conclusione è esemplare, a futura memoria: “Vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica”.

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, conclusa con la sconfitta del nazismo e del fascismo, abbiamo vissuto in Europa ottant’anni di pace, segnati dall’espansione di quella mirabile sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e welfare State, cioè tra libertà, intraprendenza, benessere e coesione sociale (tutte condizioni che, con troppa superficialità, abbiamo dato per acquisite una volta per tutte). L’implosione dell’impero sovietico, per i suoi profondi limiti politici, economici e sociali, dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, ha confortato l’idea – sarebbe meglio dire l’illusione – di un radicale successo dell’Occidente, delle sue culture e dei suoi valori, sino ad alimentare l’arrogante e fallace idea della “esportazione  della democrazia”.

Ma la Storia, a dispetto delle previsioni di un pur brillante politologo come Francis Fukuyama, non era affatto “finita” con la “vittoria” occidentale. Tutt’altro. E oggi ci troviamo a fare i conti con le sconvolgenti fratture dei tradizionali equilibri geo-politici e con le  rivendicazioni di primato di valori e interessi di grandi protagonisti internazionali (la Cina, la Russia, l’Iran, la Turchia, il variegato mondo arabo, in attesa del nuovo protagonismo che si farà sentire dall’Africa), mentre i cambiamenti politici e culturali in corso a Washington ci costringono a riconsiderare il ruolo degli Usa, vissuti abitualmente come cardine della democrazia occidentale.

La nuova stagione sembra, insomma, connotata dallo spazio crescente delle autocrazie. E la democrazia liberale annaspa. Vive la sensazione d’essere sotto scacco dall’esterno (la guerra in Ucraina ne offre un’esemplare testimonianza). E avverte scricchiolii anche al proprio interno. Aumenta, infatti, la disaffezione verso la partecipazione alla vita politica e al voto, momento fondamentale nella costruzione della “volontà popolare” (uno dei timori nutriti da Calamandrei, appunto). Cresce l’indifferenza o peggio ancora l’insofferenza verso alcuni pilastri della democrazia: la divisione dei poteri tra organi dello Stato, l’autonomia della magistratura, la libertà di stampa, il valore del pensiero critico, la sacralità del pluralismo di pensiero.

È il tempo del populismo, del sovranismo egoista, dell’intolleranza verso le diversità, del fastidio per la ricerca scientifica e le complessità del lavoro intellettuale. La diffusione dei social media, con il gioco povero dei “like” che immiseriscono pensieri e parole, amplifica la crisi.

Ecco perché è necessario, proprio per difendere e rilanciare “il respiro della libertà”, tornare a ragionare criticamente, a creare nuovi spazi dialettici delle relazioni internazionali, comunque necessarie. E a parlare di politica, a studiare la storia, il diritto e l’economia, a riflettere sui nostri valori e sui fondamenti della democrazia. Che vanno oltre il semplice voto elettorale. E non contemplano affatto lo schiacciamento della vita sociale e politica nella parodia d’una mano di poker “all in”, chi vince la tornata elettorale è padrone assoluto di tutto lo scenario democratico.

Leggere e discutere, dunque. Fermare l’attenzione sulle parole dei “padri della Costituzione”, figlia di una sintesi delle migliori correnti del pensiero politico italiano, quello cattolico, quello liberale e quello di socialisti e comunisti legati ai valori della democrazia parlamentare (gli Atti dell’Assemblea Costituente ne forniscono luminose testimonianze). Riprendere in mano gli autori europei del pensiero liberale e democratico (compresi i tre firmatari del “Manifesto di Ventotene” Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni). Ragionare sulle relazioni tra libertà e responsabilità, storia e futuro, ricordando la lezione di Aldo Moro sulla “nuova stagione dei doveri” necessaria al rinnovamento della democrazia italiana (fu ucciso per mano delle Brigate Rosse e su mandato anche di poteri finora non individuati con chiarezza giudiziaria, proprio per impedire quel rinnovamento).

Serve, per farlo, fermare l’attenzione su un libro essenziale, “Vi auguro la democrazia”, una raccolta di discorsi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella appena pubblicato da De Agostini (con una prefazione di Corrado Augias) e rivolta alle giovani generazioni, da cui abbiamo tratto la citazione iniziale di questo blog. Scrive, appunto, Mattarella: “La democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata, vissuta, consolidata e interpretata, perché i tempi mutano, mutano le forme della comunicazione. La democrazia va ogni volta, in ogni tempo, inverata, perché sia autentica nei suoi valori, nelle modalità che cambiano di stagione in stagione. Vive perché viene applicata e attuata. Realizzata sempre, nei tempi che mutano e nelle condizioni che cambiano, rispettando i suoi valori”.

Democrazia in movimento. Da vivere e fare vivere. Cultura da approfondire. Memoria da difendere (fondamentale impegno, in tempi in cui, incuranti dei fatti, ci sono poteri e potenti che teorizzano le “verità alternative” e sui social spacciano “fattoidi” per fatti). Futuro responsabilmente da costruire. E conoscenza su cui fondare scelte e comportamenti.

Anche le conoscenze giuridiche e istituzionali. Come mostrano le pagine di “I presidenti della Repubblica e le crisi di governo – Cinquant’anni di storia italiana 1971- 2021”, una raccolta di saggi curata da Stefano Sepe e Oriana Giacalone, pubblicata da Editoriale Scientifica nella collana dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”. Riflessioni acute e sapienti. Con un rinvio fondamentale alla lezione di Costantino Mortati (uno dei “padri Costituenti”, maestro di Diritto Costituzionale per generazioni di giuristi, dagli anni Cinquanta in poi) sul “potere moderatore” del Presidente della Repubblica nella composizione dei governi post elezioni e nella soluzione delle crisi di governo: il compito dell’inquilino del Quirinale è “accertare la corrispondenza degli orientamenti popolari con quelli degli organi rappresentativi e di questi ultimi tra loro, onde mantenere una costante armonia”. Democrazia come pluralità, appunto. Equilibrio tra poteri. Pesi e contrappesi. Tutto il contrario dell’ “uomo solo al comando”. La nostra democrazia da continuare a fare vivere e crescere.

(foto Getty Images)

“La democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata, vissuta, consolidata e interpretata”. Ma anche: “La libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.

In tempi così difficili e controversi, contro le cattive inclinazioni alla banalità e alla volgarità e le crescenti manifestazioni di fastidio verso la democrazia, vale la pena rileggere alcune delle pagine migliori della nostra letteratura politica. Come quelle dell’intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, rivolto nell’aprile 2015 ai giovani vincitori del concorso “Dalla Resistenza alla Cittadinanza attiva”. E come il discorso di Piero Calamandrei sulla Costituzione, del 1955, con un passaggio essenziale: “È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io. Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa”.

Però, continua Calamandrei, “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai”.

La conclusione è esemplare, a futura memoria: “Vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica”.

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, conclusa con la sconfitta del nazismo e del fascismo, abbiamo vissuto in Europa ottant’anni di pace, segnati dall’espansione di quella mirabile sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e welfare State, cioè tra libertà, intraprendenza, benessere e coesione sociale (tutte condizioni che, con troppa superficialità, abbiamo dato per acquisite una volta per tutte). L’implosione dell’impero sovietico, per i suoi profondi limiti politici, economici e sociali, dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989, ha confortato l’idea – sarebbe meglio dire l’illusione – di un radicale successo dell’Occidente, delle sue culture e dei suoi valori, sino ad alimentare l’arrogante e fallace idea della “esportazione  della democrazia”.

Ma la Storia, a dispetto delle previsioni di un pur brillante politologo come Francis Fukuyama, non era affatto “finita” con la “vittoria” occidentale. Tutt’altro. E oggi ci troviamo a fare i conti con le sconvolgenti fratture dei tradizionali equilibri geo-politici e con le  rivendicazioni di primato di valori e interessi di grandi protagonisti internazionali (la Cina, la Russia, l’Iran, la Turchia, il variegato mondo arabo, in attesa del nuovo protagonismo che si farà sentire dall’Africa), mentre i cambiamenti politici e culturali in corso a Washington ci costringono a riconsiderare il ruolo degli Usa, vissuti abitualmente come cardine della democrazia occidentale.

La nuova stagione sembra, insomma, connotata dallo spazio crescente delle autocrazie. E la democrazia liberale annaspa. Vive la sensazione d’essere sotto scacco dall’esterno (la guerra in Ucraina ne offre un’esemplare testimonianza). E avverte scricchiolii anche al proprio interno. Aumenta, infatti, la disaffezione verso la partecipazione alla vita politica e al voto, momento fondamentale nella costruzione della “volontà popolare” (uno dei timori nutriti da Calamandrei, appunto). Cresce l’indifferenza o peggio ancora l’insofferenza verso alcuni pilastri della democrazia: la divisione dei poteri tra organi dello Stato, l’autonomia della magistratura, la libertà di stampa, il valore del pensiero critico, la sacralità del pluralismo di pensiero.

È il tempo del populismo, del sovranismo egoista, dell’intolleranza verso le diversità, del fastidio per la ricerca scientifica e le complessità del lavoro intellettuale. La diffusione dei social media, con il gioco povero dei “like” che immiseriscono pensieri e parole, amplifica la crisi.

Ecco perché è necessario, proprio per difendere e rilanciare “il respiro della libertà”, tornare a ragionare criticamente, a creare nuovi spazi dialettici delle relazioni internazionali, comunque necessarie. E a parlare di politica, a studiare la storia, il diritto e l’economia, a riflettere sui nostri valori e sui fondamenti della democrazia. Che vanno oltre il semplice voto elettorale. E non contemplano affatto lo schiacciamento della vita sociale e politica nella parodia d’una mano di poker “all in”, chi vince la tornata elettorale è padrone assoluto di tutto lo scenario democratico.

Leggere e discutere, dunque. Fermare l’attenzione sulle parole dei “padri della Costituzione”, figlia di una sintesi delle migliori correnti del pensiero politico italiano, quello cattolico, quello liberale e quello di socialisti e comunisti legati ai valori della democrazia parlamentare (gli Atti dell’Assemblea Costituente ne forniscono luminose testimonianze). Riprendere in mano gli autori europei del pensiero liberale e democratico (compresi i tre firmatari del “Manifesto di Ventotene” Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni). Ragionare sulle relazioni tra libertà e responsabilità, storia e futuro, ricordando la lezione di Aldo Moro sulla “nuova stagione dei doveri” necessaria al rinnovamento della democrazia italiana (fu ucciso per mano delle Brigate Rosse e su mandato anche di poteri finora non individuati con chiarezza giudiziaria, proprio per impedire quel rinnovamento).

Serve, per farlo, fermare l’attenzione su un libro essenziale, “Vi auguro la democrazia”, una raccolta di discorsi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella appena pubblicato da De Agostini (con una prefazione di Corrado Augias) e rivolta alle giovani generazioni, da cui abbiamo tratto la citazione iniziale di questo blog. Scrive, appunto, Mattarella: “La democrazia non è una conquista definitiva, va continuamente realizzata, vissuta, consolidata e interpretata, perché i tempi mutano, mutano le forme della comunicazione. La democrazia va ogni volta, in ogni tempo, inverata, perché sia autentica nei suoi valori, nelle modalità che cambiano di stagione in stagione. Vive perché viene applicata e attuata. Realizzata sempre, nei tempi che mutano e nelle condizioni che cambiano, rispettando i suoi valori”.

Democrazia in movimento. Da vivere e fare vivere. Cultura da approfondire. Memoria da difendere (fondamentale impegno, in tempi in cui, incuranti dei fatti, ci sono poteri e potenti che teorizzano le “verità alternative” e sui social spacciano “fattoidi” per fatti). Futuro responsabilmente da costruire. E conoscenza su cui fondare scelte e comportamenti.

Anche le conoscenze giuridiche e istituzionali. Come mostrano le pagine di “I presidenti della Repubblica e le crisi di governo – Cinquant’anni di storia italiana 1971- 2021”, una raccolta di saggi curata da Stefano Sepe e Oriana Giacalone, pubblicata da Editoriale Scientifica nella collana dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”. Riflessioni acute e sapienti. Con un rinvio fondamentale alla lezione di Costantino Mortati (uno dei “padri Costituenti”, maestro di Diritto Costituzionale per generazioni di giuristi, dagli anni Cinquanta in poi) sul “potere moderatore” del Presidente della Repubblica nella composizione dei governi post elezioni e nella soluzione delle crisi di governo: il compito dell’inquilino del Quirinale è “accertare la corrispondenza degli orientamenti popolari con quelli degli organi rappresentativi e di questi ultimi tra loro, onde mantenere una costante armonia”. Democrazia come pluralità, appunto. Equilibrio tra poteri. Pesi e contrappesi. Tutto il contrario dell’ “uomo solo al comando”. La nostra democrazia da continuare a fare vivere e crescere.

(foto Getty Images)

Dove passa il cambiamento?

Un’indagine sulle relazioni tra età lavorativa e mutamenti nelle organizzazioni disegna relazioni diverse dalle consuete

Il futuro si costruisce anche sul presente e sul passato. Questione di esperienza, di pratiche sperimentate, di conoscenze patrimonio dell’organizzazione e della società in cui questa è posta. Vale anche per le imprese, oltre che per i sistemi sociali. Condizione che, è bene sottolinearlo, deve essere accolta con attenzione: il passato e il presente non possono prevaricare il futuro, cioè l’aspirazione a fare cose nuove e diverse.

È anche attorno a questi concetti che ragionano Giancarlo Lauto e Gouya Harirchi con il loro “Quando il cambiamento passa dalla vecchia guardia: come guidare le reazioni degli addetti esperti all’introduzione del lean management”, intervento ospitato in un numero recente di Prospettive in organizzazione dell’Associazione italiana di organizzazione aziendale.

L’attenzione dei due studiosi, in particolare, si concentra sulle relazioni che il cambiamento ha con l’anzianità lavorativa delle persone che lo devono affrontare. Tema affascinante, tutto sommato, perché ha anche fare anche con il passaggio generazionale nelle imprese, con la trasmissione delle conoscenze e delle professionalità all’interno delle organizzazioni.

Contrariamente agli stereotipi, anche gli addetti con maggiore anzianità aziendale possono contribuire all’efficace introduzione del lean management. È la tesi di Lauto e Harirchi che, tuttavia, precisano come sia necessario che l’azienda metta in atto un insieme coerente di pratiche di gestione delle risorse umane, in particolare la formazione, e sostenga i comportamenti di supporto attivo al cambiamento. Detto in altri termini, se il futuro è e deve essere di tutti, è necessario che tutti siano posti nelle condizioni di contribuirvi e di fruirne.

È utile leggere i risultati della ricerca di Giancarlo Lauto e Gouya Harirchi, che fa conoscere uno degli aspetti più controversi ma importanti della buona cultura d’impresa.

Quando il cambiamento passa dalla vecchia guardia: come guidare le reazioni degli addetti esperti all’introduzione del lean management

Giancarlo Lauto, Gouya Harirchi

In Prospettive in organizzazione, Rivista dell’Associazione italiana di organizzazione aziendale, 28/2025

Un’indagine sulle relazioni tra età lavorativa e mutamenti nelle organizzazioni disegna relazioni diverse dalle consuete

Il futuro si costruisce anche sul presente e sul passato. Questione di esperienza, di pratiche sperimentate, di conoscenze patrimonio dell’organizzazione e della società in cui questa è posta. Vale anche per le imprese, oltre che per i sistemi sociali. Condizione che, è bene sottolinearlo, deve essere accolta con attenzione: il passato e il presente non possono prevaricare il futuro, cioè l’aspirazione a fare cose nuove e diverse.

È anche attorno a questi concetti che ragionano Giancarlo Lauto e Gouya Harirchi con il loro “Quando il cambiamento passa dalla vecchia guardia: come guidare le reazioni degli addetti esperti all’introduzione del lean management”, intervento ospitato in un numero recente di Prospettive in organizzazione dell’Associazione italiana di organizzazione aziendale.

L’attenzione dei due studiosi, in particolare, si concentra sulle relazioni che il cambiamento ha con l’anzianità lavorativa delle persone che lo devono affrontare. Tema affascinante, tutto sommato, perché ha anche fare anche con il passaggio generazionale nelle imprese, con la trasmissione delle conoscenze e delle professionalità all’interno delle organizzazioni.

Contrariamente agli stereotipi, anche gli addetti con maggiore anzianità aziendale possono contribuire all’efficace introduzione del lean management. È la tesi di Lauto e Harirchi che, tuttavia, precisano come sia necessario che l’azienda metta in atto un insieme coerente di pratiche di gestione delle risorse umane, in particolare la formazione, e sostenga i comportamenti di supporto attivo al cambiamento. Detto in altri termini, se il futuro è e deve essere di tutti, è necessario che tutti siano posti nelle condizioni di contribuirvi e di fruirne.

È utile leggere i risultati della ricerca di Giancarlo Lauto e Gouya Harirchi, che fa conoscere uno degli aspetti più controversi ma importanti della buona cultura d’impresa.

Quando il cambiamento passa dalla vecchia guardia: come guidare le reazioni degli addetti esperti all’introduzione del lean management

Giancarlo Lauto, Gouya Harirchi

In Prospettive in organizzazione, Rivista dell’Associazione italiana di organizzazione aziendale, 28/2025

Nella
comunicazione dell’azienda
va in scena la città

Dal nostro Archivio Storico, una raccolta di testimonianze iconografiche sul vivido legame fra Pirelli e la cultura urbana

Pirelli, la città, la visione. Con il terzo appuntamento del nostro racconto dedicato all’intenso rapporto fra Pirelli e la città, ci addentriamo nella dimensione della comunicazione visiva, fra fotografia e campagne pubblicitarie, dove l’azienda ambienta sé stessa e il proprio prodotto in un paesaggio urbano di significato.

Nel primo articolo di questo approfondimento “Pirelli, la città, la visione” abbiamo visto come il legame fra l’azienda e la città di Milano diventi presto un carattere identitario, con “Milano” che entra nel nome dell’azienda e dei suoi prodotti, lasciando un segno nella costruzione della storia dell’impresa e del suo immaginario”. In questo articolo ci occupiamo invece dell’ingresso dell’immagine della città nella comunicazione visiva dell’azienda, a partire proprio dalle rappresentazioni delle sue fabbriche, in primis quelle milanesi, dove il ritratto degli stabilimenti dà conto della loro presenza in città, come nel cartello per l’allestimento del Museo Storico delle Industrie Pirelli dal titolo Lo stabilimento di Milano-città, di Domenico Bonamini, realizzato in occasione del cinquantenario nel 1922.

Rispetto alla comunicazione visiva del prodotto, è negli anni Cinquanta che la città diventa coprotagonista in molteplici campagne pubblicitarie: sono i tempi delle grandi trasformazioni che stanno interessando gli insediamenti urbani in seguito all’aumento dell’urbanizzazione, la cui spinta principale è proprio l’industrializzazione (ne abbiamo parlato sempre sul nostro sito nell’articolo  “Pirelli e la città del futuro”). In questo scenario i prodotti Pirelli – pneumatici e abbigliamento in particolare – sono ulteriormente valorizzabili in quanto beni di utilizzo cittadino. È del 1950 la celebre fotografia di una serie, realizzata in piazza Duomo a Milano, per la pubblicità dell’impermeabile Pirelli per vigili urbani; del 1952 la pubblicità del pneumatico Stelvio Pirelli firmata Franco Grignani, dove si associa l’immagine di una città con il concetto di sicurezza (“Stelvio il pneumatico che tiene la strada”); del 1957 la campagna pubblicitaria Rolle Stelvio Cinturato di Erberto Carboni (“Milano non è solo affari ha una storia nascosta”) presenta un messaggio che avvicina il concetto di “viaggio in auto” a quello di “turismo in città”, all’insegna del comfort.

Gli anni Sessanta ci regalano le splendide immagini dei cataloghi di Pirelli Confezioni, fra tutte quelle di Ugo Mulas per il catalogo “La Moda e il Grattacielo” disegnato da Bob Noorda del 1959, delle vere e proprie “vedute” della Milano che proprio in virtù del Grattacielo Pirelli e del suo cantiere sta cambiando volto. Con il catalogo “Pirelli Confezioni, 1961-62” si vola a Parigi: fra tutti gli scatti Dora, impermeabile trench da donna, che si presta a incorporare lo stile e l’eleganza dell’esprit parigino.

Spostandoci agli anni Settanta e alla sezione audiovisivi del nostro Archivio Storico, troviamo la serie dei caroselli “La nostra vita sulle strade”, con la regia di Roberto Gavioli. Si tratta di spot televisivi della durata di 1’50’’, che in buona parte inscenano situazioni paradossali per le strade, nel caso di nostro interesse cittadine, con una buona dose di ironia. Qui la città emerge nel suo aspetto più caotico, con il pneumatico Pirelli a dirimere problematiche e complessità.

Sempre più viene ricercato ed evidenziato il legame fra Pirelli, i suoi prodotti e la città, il vivere in città, in termini di praticità e sicurezza, ma anche sempre più di stile – estetico e di vita.

Una nuova accezione assume la città degli anni Novanta, nella pluripremiata campagna “Power is nothing without control” dell’agenzia Young & Rubicam, la prima globale per Pirelli. Nel celebre spot del 1995, con Carl Lewis testimonial, è New York con i suoi monumenti più iconici a fare da sfondo all’azione, nelle declinazioni successive arriveranno altre metropoli, come Rio de Janeiro, con un indimenticabile Ronaldo sul Corcovado a prendere il posto del Cristo Redentore. Siamo entrati nell’era della globalizzazione, le città ancora una volta trionfano, sono i nodi della grande rete mondiale, e anche il luogo dove avvengono gli incontri e si saldano legami, come quello fra la committenza delle imprese e il mondo della grafica, del design, della fotografia.

A questa relazione, che vive da oltre 150 anni, Fondazione Pirelli ha dedicato lo scorso 4 marzo il workshop “Il progetto, la comunicazione visiva, la città. Valorizzare gli archivi d’impresa” per scuole superiori, accademie e università, nell’ambito dell’iniziativa Milano Museocity 2025. Un’occasione per immergersi nel ricco patrimonio iconografico e documentale di un’azienda che ha fatto della comunicazione una storia d’arte e di città, fra costume e stili di vita, sempre ispirata alla modernità, in bilico fra funzionalità e ricerca estetica.

Dal nostro Archivio Storico, una raccolta di testimonianze iconografiche sul vivido legame fra Pirelli e la cultura urbana

Pirelli, la città, la visione. Con il terzo appuntamento del nostro racconto dedicato all’intenso rapporto fra Pirelli e la città, ci addentriamo nella dimensione della comunicazione visiva, fra fotografia e campagne pubblicitarie, dove l’azienda ambienta sé stessa e il proprio prodotto in un paesaggio urbano di significato.

Nel primo articolo di questo approfondimento “Pirelli, la città, la visione” abbiamo visto come il legame fra l’azienda e la città di Milano diventi presto un carattere identitario, con “Milano” che entra nel nome dell’azienda e dei suoi prodotti, lasciando un segno nella costruzione della storia dell’impresa e del suo immaginario”. In questo articolo ci occupiamo invece dell’ingresso dell’immagine della città nella comunicazione visiva dell’azienda, a partire proprio dalle rappresentazioni delle sue fabbriche, in primis quelle milanesi, dove il ritratto degli stabilimenti dà conto della loro presenza in città, come nel cartello per l’allestimento del Museo Storico delle Industrie Pirelli dal titolo Lo stabilimento di Milano-città, di Domenico Bonamini, realizzato in occasione del cinquantenario nel 1922.

Rispetto alla comunicazione visiva del prodotto, è negli anni Cinquanta che la città diventa coprotagonista in molteplici campagne pubblicitarie: sono i tempi delle grandi trasformazioni che stanno interessando gli insediamenti urbani in seguito all’aumento dell’urbanizzazione, la cui spinta principale è proprio l’industrializzazione (ne abbiamo parlato sempre sul nostro sito nell’articolo  “Pirelli e la città del futuro”). In questo scenario i prodotti Pirelli – pneumatici e abbigliamento in particolare – sono ulteriormente valorizzabili in quanto beni di utilizzo cittadino. È del 1950 la celebre fotografia di una serie, realizzata in piazza Duomo a Milano, per la pubblicità dell’impermeabile Pirelli per vigili urbani; del 1952 la pubblicità del pneumatico Stelvio Pirelli firmata Franco Grignani, dove si associa l’immagine di una città con il concetto di sicurezza (“Stelvio il pneumatico che tiene la strada”); del 1957 la campagna pubblicitaria Rolle Stelvio Cinturato di Erberto Carboni (“Milano non è solo affari ha una storia nascosta”) presenta un messaggio che avvicina il concetto di “viaggio in auto” a quello di “turismo in città”, all’insegna del comfort.

Gli anni Sessanta ci regalano le splendide immagini dei cataloghi di Pirelli Confezioni, fra tutte quelle di Ugo Mulas per il catalogo “La Moda e il Grattacielo” disegnato da Bob Noorda del 1959, delle vere e proprie “vedute” della Milano che proprio in virtù del Grattacielo Pirelli e del suo cantiere sta cambiando volto. Con il catalogo “Pirelli Confezioni, 1961-62” si vola a Parigi: fra tutti gli scatti Dora, impermeabile trench da donna, che si presta a incorporare lo stile e l’eleganza dell’esprit parigino.

Spostandoci agli anni Settanta e alla sezione audiovisivi del nostro Archivio Storico, troviamo la serie dei caroselli “La nostra vita sulle strade”, con la regia di Roberto Gavioli. Si tratta di spot televisivi della durata di 1’50’’, che in buona parte inscenano situazioni paradossali per le strade, nel caso di nostro interesse cittadine, con una buona dose di ironia. Qui la città emerge nel suo aspetto più caotico, con il pneumatico Pirelli a dirimere problematiche e complessità.

Sempre più viene ricercato ed evidenziato il legame fra Pirelli, i suoi prodotti e la città, il vivere in città, in termini di praticità e sicurezza, ma anche sempre più di stile – estetico e di vita.

Una nuova accezione assume la città degli anni Novanta, nella pluripremiata campagna “Power is nothing without control” dell’agenzia Young & Rubicam, la prima globale per Pirelli. Nel celebre spot del 1995, con Carl Lewis testimonial, è New York con i suoi monumenti più iconici a fare da sfondo all’azione, nelle declinazioni successive arriveranno altre metropoli, come Rio de Janeiro, con un indimenticabile Ronaldo sul Corcovado a prendere il posto del Cristo Redentore. Siamo entrati nell’era della globalizzazione, le città ancora una volta trionfano, sono i nodi della grande rete mondiale, e anche il luogo dove avvengono gli incontri e si saldano legami, come quello fra la committenza delle imprese e il mondo della grafica, del design, della fotografia.

A questa relazione, che vive da oltre 150 anni, Fondazione Pirelli ha dedicato lo scorso 4 marzo il workshop “Il progetto, la comunicazione visiva, la città. Valorizzare gli archivi d’impresa” per scuole superiori, accademie e università, nell’ambito dell’iniziativa Milano Museocity 2025. Un’occasione per immergersi nel ricco patrimonio iconografico e documentale di un’azienda che ha fatto della comunicazione una storia d’arte e di città, fra costume e stili di vita, sempre ispirata alla modernità, in bilico fra funzionalità e ricerca estetica.

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Cycling Made in Italy:
la fabbrica Pirelli di Bollate

Il 15 aprile si festeggia la Giornata nazionale del Made in Italy istituita dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, dedicata alla promozione della creatività e dell’eccellenza italiana. Questa giornata ha lo scopo di riconoscere al Made in Italy il ruolo sociale e il contributo allo sviluppo economico e culturale del Paese, anche in relazione al suo patrimonio identitario, responsabilizzare l’opinione pubblica per la promozione della tutela del valore e delle qualità peculiari delle opere e dei prodotti italiani e sensibilizzare i giovani a scegliere le professioni artigianali e creative legate alle eccellenze delle nostre manifatture.

Nell’ambito di questa giornata, Fondazione Pirelli e Pirelli Cycling plant di Bollate  propongono visite guidate agli studenti universitari allo stabilimento Pirelli di Milano Bollate dove si producono pneumatici per bici Made in Italy. Nello stabilimento, infatti, nascono i modelli top di gamma di questi pneumatici realizzati da una linea altamente automatizzata e con tecnologie all’avanguardia che assicurano il massimo della qualità non solo del prodotto ma anche del luogo di lavoro e dell’ambiente. Gli studenti avranno la possibilità di vedere da vicino come vengono realizzati i pneumatici in tutte le varie fasi di lavorazione e comprendere le trasformazioni industriali dal passato al presente anche attraverso un percorso allestitivo che racconta l’impegno di un’azienda – fondata 153 anni fa ma continuamente proiettata nel futuro – che ha fatto e continua a fare la storia del Made in Italy nel mondo.

L’iniziativa è gratuita e si terrà nella giornata del 15 aprile presso lo stabilimento Pirelli di Bollate in via Via S. Bernardo, 91.
Le università dovranno organizzarsi in maniera autonoma per raggiungere lo stabilimento.
La durata della visita è di circa 1 ora e mezza su due turni: ore 10.30 e 14.30 .
Per aderire all’iniziativa si prega di scrivere a Fondazione Pirelli scuole@fondazionepirelli.org entro il 24 marzo 2025.

Sempre in occasione della giornata del Made in Italy , Pirelli, all’interno dell’iniziativa “Fabbriche Aperte” del Comitato Leonardo apre le porte del Polo industriale di Settimo Torinese agli studenti del Politecnico di Torino.

Il 15 aprile si festeggia la Giornata nazionale del Made in Italy istituita dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, dedicata alla promozione della creatività e dell’eccellenza italiana. Questa giornata ha lo scopo di riconoscere al Made in Italy il ruolo sociale e il contributo allo sviluppo economico e culturale del Paese, anche in relazione al suo patrimonio identitario, responsabilizzare l’opinione pubblica per la promozione della tutela del valore e delle qualità peculiari delle opere e dei prodotti italiani e sensibilizzare i giovani a scegliere le professioni artigianali e creative legate alle eccellenze delle nostre manifatture.

Nell’ambito di questa giornata, Fondazione Pirelli e Pirelli Cycling plant di Bollate  propongono visite guidate agli studenti universitari allo stabilimento Pirelli di Milano Bollate dove si producono pneumatici per bici Made in Italy. Nello stabilimento, infatti, nascono i modelli top di gamma di questi pneumatici realizzati da una linea altamente automatizzata e con tecnologie all’avanguardia che assicurano il massimo della qualità non solo del prodotto ma anche del luogo di lavoro e dell’ambiente. Gli studenti avranno la possibilità di vedere da vicino come vengono realizzati i pneumatici in tutte le varie fasi di lavorazione e comprendere le trasformazioni industriali dal passato al presente anche attraverso un percorso allestitivo che racconta l’impegno di un’azienda – fondata 153 anni fa ma continuamente proiettata nel futuro – che ha fatto e continua a fare la storia del Made in Italy nel mondo.

L’iniziativa è gratuita e si terrà nella giornata del 15 aprile presso lo stabilimento Pirelli di Bollate in via Via S. Bernardo, 91.
Le università dovranno organizzarsi in maniera autonoma per raggiungere lo stabilimento.
La durata della visita è di circa 1 ora e mezza su due turni: ore 10.30 e 14.30 .
Per aderire all’iniziativa si prega di scrivere a Fondazione Pirelli scuole@fondazionepirelli.org entro il 24 marzo 2025.

Sempre in occasione della giornata del Made in Italy , Pirelli, all’interno dell’iniziativa “Fabbriche Aperte” del Comitato Leonardo apre le porte del Polo industriale di Settimo Torinese agli studenti del Politecnico di Torino.

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Storia avventurosa di un’azienda italiana

Le vicende del Nuovo Pignone raccontate tra innovazione e persone

Un’avventura industriale con più di 180 anni di storia che continua ancora oggi. È quella della Pignone di Firenze che, seppur con nomi diversi, “vive” dal 1842. Leggere delle vicende di quest’azienda è istruttivo e interessante. E lo si può fare, almeno per la parte più recente della storia, con il libro di Michele Stangarone “Nuovo Pignone 1954-1999. Un’entusiasmante storia tecnica. Da Firenze all’Italia al mondo” da qualche mese dato alle stampe.

Tutto, come si è detto, nasce nel 1842 quando a Firenze sulla riva meridionale dell’Arno la Fonderia del Pignone inizia la sua attività che in più di un secolo la porta a diventare una delle maggiori realtà produttive fiorentine inserita nel tessuto industriale e lavorativo della città. La fine della Seconda guerra mondiale pone però la Pignone di fronte a una gravissima crisi di riconversione e sull’orlo della chiusura. Una grande mobilitazione collettiva e l’intervento del governo si concludono però con l’acquisizione da parte dell’Eni di Enrico Mattei e la nascita del Nuovo Pignone. È da qui che inizia il libro di Stangarone.

Questo testo raccoglie alcune delle pietre miliari della storia tecnica dell’azienda, veri e propri momenti di svolta che dal 1954 al 1999 ne cambiano radicalmente il corso. Il libro, in particolare, copre tutto l’arco della gestione dell’Eni (1954-94) e l’inizio di quello successivo della statunitense General Electric.

Quanto scritto da Michele Stangarone è la storia appassionante di una scommessa, quella che in pochi decenni un’azienda possa risorgere quasi da zero all’eccellenza dando all’Italia lavoro e prestigio nel mondo. Il libro – fitto di foto – racconta tutto passo dopo passo, innovazione dopo innovazione.

Nuovo Pignone 1954-1999. Un’entusiasmante storia tecnica. Da Firenze all’Italia al mondo

Michele Stangarone

Giunti Editore, 2024

Le vicende del Nuovo Pignone raccontate tra innovazione e persone

Un’avventura industriale con più di 180 anni di storia che continua ancora oggi. È quella della Pignone di Firenze che, seppur con nomi diversi, “vive” dal 1842. Leggere delle vicende di quest’azienda è istruttivo e interessante. E lo si può fare, almeno per la parte più recente della storia, con il libro di Michele Stangarone “Nuovo Pignone 1954-1999. Un’entusiasmante storia tecnica. Da Firenze all’Italia al mondo” da qualche mese dato alle stampe.

Tutto, come si è detto, nasce nel 1842 quando a Firenze sulla riva meridionale dell’Arno la Fonderia del Pignone inizia la sua attività che in più di un secolo la porta a diventare una delle maggiori realtà produttive fiorentine inserita nel tessuto industriale e lavorativo della città. La fine della Seconda guerra mondiale pone però la Pignone di fronte a una gravissima crisi di riconversione e sull’orlo della chiusura. Una grande mobilitazione collettiva e l’intervento del governo si concludono però con l’acquisizione da parte dell’Eni di Enrico Mattei e la nascita del Nuovo Pignone. È da qui che inizia il libro di Stangarone.

Questo testo raccoglie alcune delle pietre miliari della storia tecnica dell’azienda, veri e propri momenti di svolta che dal 1954 al 1999 ne cambiano radicalmente il corso. Il libro, in particolare, copre tutto l’arco della gestione dell’Eni (1954-94) e l’inizio di quello successivo della statunitense General Electric.

Quanto scritto da Michele Stangarone è la storia appassionante di una scommessa, quella che in pochi decenni un’azienda possa risorgere quasi da zero all’eccellenza dando all’Italia lavoro e prestigio nel mondo. Il libro – fitto di foto – racconta tutto passo dopo passo, innovazione dopo innovazione.

Nuovo Pignone 1954-1999. Un’entusiasmante storia tecnica. Da Firenze all’Italia al mondo

Michele Stangarone

Giunti Editore, 2024

Ragionare sul Nord e mettere al centro l’industria: cosa dicono umori e speranze del “partito del Pil”

“Nord Nord”, scrive Marco Belpoliti, in un libro appena pubblicato da Einaudi, per raccontare un mondo che non è, essenzialmente, una localizzazione geografica (“… si sottrae a ogni nostro tentativo di raggiungerlo… il Nord che adesso mi indica la bussola è relativo, non è assoluto”) ma ha, soprattutto, una dimensione culturale, economica e sociale. In Italia, mostra una specifica connotazione sia geologica, tra le Alpi e le valli che ne discendono, che naturalistica (certi animali, certi alberi, anche se “la linea della palma” individuata da Leonardo Sciascia, con criteri botanici e soprattutto antropologici, l’ha raggiunto). E si colloca tra la Brianza operosa, Milano città aperta, Pavia e Bergamo e la pianura attraversata dal corso del Po e dei fiumi affluenti, compresa “quel gran pezzo dell’Emilia, terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe” ben descritta da Edmondo Berselli (in un libro così brillantemente intitolato e pubblicato da Mondadori nel 2004, da leggere e rileggere).

Un Nord che vive di economia produttiva e di cultura. E risente ancora, tra malinconia, lezioni civili e capacità di progetto, delle tracce di grandi intellettuali come Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Mario Dondero, Ugo Mulas, Enzo Mari, Arnaldo Pomodoro e Gabriele Basilico, gli artisti del Bar Jamaica affascinati negli anni Sessanta da Giancarlo Fusco e due siciliani “gran lombardi”, alla Vittorini, come Ferdinando Scianna e Vincenzo Consolo. Un Nord, insomma, molto europeo e altrettanto mediterraneo.

Ecco, dedicare tempo alle pagine sapide di Belpoliti (e, appunto, a quelle ironiche e lungimiranti di Berselli, troppo presto e dolorosamente scomparso) significa anche trovare delle chiavi originali di interpretazione di tensioni, passioni e speranze che segnano la parte più economicamente dinamica dell’Italia e fanno, nonostante tutto, da cardine per ogni processo di sviluppo sostenibile, economico e sociale, dell’intero sistema Paese. Perché il Nord è, tra l’altro, intraprendenza, industria, lavoro, cambiamento, ricerca del benessere, voglia di novità e però pure capacità di inclusione sociale, spirito civile, mito positivo del progresso, sofisticata ricerca culturale, umanistica e scientifica. Senso della storia, dunque. E inclinazione all’innovazione nel senso più ampio del termine. Gusto per la bellezza. E passione per le nuove tecnologie. Il Nord di Leonardo da Vinci, Leon Battista Alberti e Galileo. Di Giulio Natta e dei futuristi. Dei sindaci riformisti e degli imprenditori e manager (Olivetti, Pirelli, Agnelli, Falck, Mattei, Borghi, Luraghi etc.) che hanno scritto le pagine migliori della “civiltà delle macchine” in cui ancora oggi affondano le radici della nostra competitività e dunque del nostro sviluppo economico e sociale.

Oltre la memoria, c’è, in tempi così difficili e controversi, anche un disagio con cui fare i conti. Il disagio del cosiddetto “partito del Pil”, sui cui ha attirato ancora una volta l’attenzione Dario Di Vico (Il Foglio, 8 marzo). Si teme l’effetto dei dazi minacciati dal presidente Usa Donald Trump e si invita discretamente la politica europea a fare i conti per bene, dal nostro punto di vista, non solo sulla bilancia commerciale, ma soprattutto su quella valutaria e finanziaria, ricordando a Washington quali siano i vantaggi americani per avere nel dollaro la principale valuta degli scambi, per l’attrazione dei capitali europei verso Wall Street e per la ricaduta positiva di tutte le transazioni digitali.

Ci si lamenta, inoltre, qui al Nord, della crisi industriale in corso, strettamente legata alla decrescita dell’economia tedesca e ai prezzi che proprio i paesi europei pagano alle tensioni geopolitiche alimentate da Usa, Cina e Russia. E si chiede una vera e propria lungimirante politica industriale della Ue, fatta da mercato unico, investimenti per l’innovazione, abbattimento dei costi dell’energia e tagli intelligenti agli eccessi regolatori e burocratici. Anche la politica della sicurezza e della difesa in chiave Ue va iscritta in questo contesto: investimenti comuni, una strategia condivisa, anche superando rapidamente ed efficacemente l’obsoleta e negativa politica dell’unanimità obbligata e dei ricatti dei “veti” di singoli paesi.

Il “partito del Pil” e soprattutto la Confindustria presieduta da Emanuele Orsini hanno fatto un’ampia apertura di credito al governo di Giorgia Meloni. Adesso, oltre a una risposta Ue sui dazi, sollecitano scelte adeguate alla ripresa, al di là delle dichiarazioni di buone intenzioni: un piano triennale di investimenti e misure fiscali, per esempio. Guardano con allarme quello che “La Stampa” definisce “Fallimento 5.0” (11 marzo) e cioè la farraginosità per l’ottenimento degli incentivi per la transizione green e digitale e lo spostamento dei fondi dedicati ad altre destinazioni. Insistono sull’Ires premiale per chi investe. E sollecitano misure per i settori più in difficoltà, dall’automotive (senza illudersi di avere risposte dal passaggio alle produzioni di guerra) all’abbigliamento.

Chi conosce bene i territori industriali e condivide umori, progetti e preoccupazioni delle donne e degli uomini d’impresa sa che proprio in questi mesi sta maturando, accanto ai timori per il perdurare della crisi, una certa voglia di ripresa e di rilancio, un robusto orgoglio europeo e dunque anche una crescente richiesta ai poteri pubblici (europei, nazionali, ma anche degli enti locali più sensibili, a cominciare dai comuni come Milano, Bergamo e Brescia e dalla Regione Lombardia) di mettere al centro dell’attenzione i temi dell’industria. Non per sollecitare protezioni né tutele corporative e nazionaliste. Ma per non disperdere il patrimonio di competitività e produttività che negli anni, grazie a investimenti e cura per innovazione, qualità e sostenibilità, gran parte delle imprese del Nord hanno accumulato. Anche nell’interesse del Paese.

Mettere l’industria al centro, si sente dire dagli industriali di Trento nelle cerimonie per gli ottant’anni della Confindustria trentina. Rafforzare le filiere industriali, si sostiene in Assolombarda. Dare alle imprese gli strumenti per rilanciare produttività e competitività, si insiste in una Torino che, dopo la crisi dell’auto, cerca di rafforzare i nuovi settori, a cominciare dall’industria aerospaziale.

Attenzione al made in Italy, dunque, ribadiscono in Emilia-Romagna e nel Nord Est. Pensando non tanto al pittoresco artigianale o al “tipico”. Quanto alle tecnologie più avanzate, all’impasto originale di capacità produttive industriali e servizi high tech per l’impresa. Meccanica e meccatronica. Robotica. Chimica, gomma e farmaceutica. Space Economy e cantieristica navale. Con tutte le tecnologie collegate.

Una scelta produttiva. Ma anche un’idea forte della presenza dell’Italia nel mondo. Sapendo bene che chi non ha un’industria competitiva non conta sulla scena degli equilibri mondiali. E dunque non è protagonista del suo futuro.

L’orizzonte industriale si inserisce nel contesto della difesa dell’Europa. E della democrazia. Pensando non solo a una piazza con la bandiere Ue, ma a una fabbrica, un mercato, un terminale finanziario, un’aula universitaria o di Its, un istituto di ricerca. Alla storia di un Nord in cui, appunto anche attorno alla fabbrica, sono maturate le idee e le realizzazioni sulla cittadinanza, la partecipazione, il lavoro, il welfare. E in cui sono maturate riforme per continuare a coniugare libertà e impresa, diritti civili ed esigenze di equilibrio sociale. Le idee che innervano l’Europa democratica. E cioè la nostra vita civile. E, speriamo, il nostro futuro.

In un reticolo di relazioni, in un sistema di connessioni. E di infrastrutture. Mediterranee ed europee, appunto. Autostrade, porti, aeroporti, poli logistici, centri della conoscenza e della formazione. E Leonardo, il grande centro di supercalcolo che, da Bologna, può fare da riferimento per tutte le aree di maggiore industrializzazione del Paese, rendendo disponibili le opportunità di utilizzo dei dati necessari all’Intelligenza Artificiale.

Potremmo pur chiamare tutto ciò Nord Nord. O in altri modi. Sapendo comunque che la forza dell’Europa sta nelle relazioni Nord-Sud, così come Est-Ovest. In nuove mappe delle relazioni politiche e commerciali, In cui l’Europa, dialogante, deve saper rivendicare i suoi primati. Economici, ma anche e soprattutto culturali e civili.

(foto Getty Images)

“Nord Nord”, scrive Marco Belpoliti, in un libro appena pubblicato da Einaudi, per raccontare un mondo che non è, essenzialmente, una localizzazione geografica (“… si sottrae a ogni nostro tentativo di raggiungerlo… il Nord che adesso mi indica la bussola è relativo, non è assoluto”) ma ha, soprattutto, una dimensione culturale, economica e sociale. In Italia, mostra una specifica connotazione sia geologica, tra le Alpi e le valli che ne discendono, che naturalistica (certi animali, certi alberi, anche se “la linea della palma” individuata da Leonardo Sciascia, con criteri botanici e soprattutto antropologici, l’ha raggiunto). E si colloca tra la Brianza operosa, Milano città aperta, Pavia e Bergamo e la pianura attraversata dal corso del Po e dei fiumi affluenti, compresa “quel gran pezzo dell’Emilia, terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe” ben descritta da Edmondo Berselli (in un libro così brillantemente intitolato e pubblicato da Mondadori nel 2004, da leggere e rileggere).

Un Nord che vive di economia produttiva e di cultura. E risente ancora, tra malinconia, lezioni civili e capacità di progetto, delle tracce di grandi intellettuali come Carlo Emilio Gadda, Alberto Arbasino e Mario Dondero, Ugo Mulas, Enzo Mari, Arnaldo Pomodoro e Gabriele Basilico, gli artisti del Bar Jamaica affascinati negli anni Sessanta da Giancarlo Fusco e due siciliani “gran lombardi”, alla Vittorini, come Ferdinando Scianna e Vincenzo Consolo. Un Nord, insomma, molto europeo e altrettanto mediterraneo.

Ecco, dedicare tempo alle pagine sapide di Belpoliti (e, appunto, a quelle ironiche e lungimiranti di Berselli, troppo presto e dolorosamente scomparso) significa anche trovare delle chiavi originali di interpretazione di tensioni, passioni e speranze che segnano la parte più economicamente dinamica dell’Italia e fanno, nonostante tutto, da cardine per ogni processo di sviluppo sostenibile, economico e sociale, dell’intero sistema Paese. Perché il Nord è, tra l’altro, intraprendenza, industria, lavoro, cambiamento, ricerca del benessere, voglia di novità e però pure capacità di inclusione sociale, spirito civile, mito positivo del progresso, sofisticata ricerca culturale, umanistica e scientifica. Senso della storia, dunque. E inclinazione all’innovazione nel senso più ampio del termine. Gusto per la bellezza. E passione per le nuove tecnologie. Il Nord di Leonardo da Vinci, Leon Battista Alberti e Galileo. Di Giulio Natta e dei futuristi. Dei sindaci riformisti e degli imprenditori e manager (Olivetti, Pirelli, Agnelli, Falck, Mattei, Borghi, Luraghi etc.) che hanno scritto le pagine migliori della “civiltà delle macchine” in cui ancora oggi affondano le radici della nostra competitività e dunque del nostro sviluppo economico e sociale.

Oltre la memoria, c’è, in tempi così difficili e controversi, anche un disagio con cui fare i conti. Il disagio del cosiddetto “partito del Pil”, sui cui ha attirato ancora una volta l’attenzione Dario Di Vico (Il Foglio, 8 marzo). Si teme l’effetto dei dazi minacciati dal presidente Usa Donald Trump e si invita discretamente la politica europea a fare i conti per bene, dal nostro punto di vista, non solo sulla bilancia commerciale, ma soprattutto su quella valutaria e finanziaria, ricordando a Washington quali siano i vantaggi americani per avere nel dollaro la principale valuta degli scambi, per l’attrazione dei capitali europei verso Wall Street e per la ricaduta positiva di tutte le transazioni digitali.

Ci si lamenta, inoltre, qui al Nord, della crisi industriale in corso, strettamente legata alla decrescita dell’economia tedesca e ai prezzi che proprio i paesi europei pagano alle tensioni geopolitiche alimentate da Usa, Cina e Russia. E si chiede una vera e propria lungimirante politica industriale della Ue, fatta da mercato unico, investimenti per l’innovazione, abbattimento dei costi dell’energia e tagli intelligenti agli eccessi regolatori e burocratici. Anche la politica della sicurezza e della difesa in chiave Ue va iscritta in questo contesto: investimenti comuni, una strategia condivisa, anche superando rapidamente ed efficacemente l’obsoleta e negativa politica dell’unanimità obbligata e dei ricatti dei “veti” di singoli paesi.

Il “partito del Pil” e soprattutto la Confindustria presieduta da Emanuele Orsini hanno fatto un’ampia apertura di credito al governo di Giorgia Meloni. Adesso, oltre a una risposta Ue sui dazi, sollecitano scelte adeguate alla ripresa, al di là delle dichiarazioni di buone intenzioni: un piano triennale di investimenti e misure fiscali, per esempio. Guardano con allarme quello che “La Stampa” definisce “Fallimento 5.0” (11 marzo) e cioè la farraginosità per l’ottenimento degli incentivi per la transizione green e digitale e lo spostamento dei fondi dedicati ad altre destinazioni. Insistono sull’Ires premiale per chi investe. E sollecitano misure per i settori più in difficoltà, dall’automotive (senza illudersi di avere risposte dal passaggio alle produzioni di guerra) all’abbigliamento.

Chi conosce bene i territori industriali e condivide umori, progetti e preoccupazioni delle donne e degli uomini d’impresa sa che proprio in questi mesi sta maturando, accanto ai timori per il perdurare della crisi, una certa voglia di ripresa e di rilancio, un robusto orgoglio europeo e dunque anche una crescente richiesta ai poteri pubblici (europei, nazionali, ma anche degli enti locali più sensibili, a cominciare dai comuni come Milano, Bergamo e Brescia e dalla Regione Lombardia) di mettere al centro dell’attenzione i temi dell’industria. Non per sollecitare protezioni né tutele corporative e nazionaliste. Ma per non disperdere il patrimonio di competitività e produttività che negli anni, grazie a investimenti e cura per innovazione, qualità e sostenibilità, gran parte delle imprese del Nord hanno accumulato. Anche nell’interesse del Paese.

Mettere l’industria al centro, si sente dire dagli industriali di Trento nelle cerimonie per gli ottant’anni della Confindustria trentina. Rafforzare le filiere industriali, si sostiene in Assolombarda. Dare alle imprese gli strumenti per rilanciare produttività e competitività, si insiste in una Torino che, dopo la crisi dell’auto, cerca di rafforzare i nuovi settori, a cominciare dall’industria aerospaziale.

Attenzione al made in Italy, dunque, ribadiscono in Emilia-Romagna e nel Nord Est. Pensando non tanto al pittoresco artigianale o al “tipico”. Quanto alle tecnologie più avanzate, all’impasto originale di capacità produttive industriali e servizi high tech per l’impresa. Meccanica e meccatronica. Robotica. Chimica, gomma e farmaceutica. Space Economy e cantieristica navale. Con tutte le tecnologie collegate.

Una scelta produttiva. Ma anche un’idea forte della presenza dell’Italia nel mondo. Sapendo bene che chi non ha un’industria competitiva non conta sulla scena degli equilibri mondiali. E dunque non è protagonista del suo futuro.

L’orizzonte industriale si inserisce nel contesto della difesa dell’Europa. E della democrazia. Pensando non solo a una piazza con la bandiere Ue, ma a una fabbrica, un mercato, un terminale finanziario, un’aula universitaria o di Its, un istituto di ricerca. Alla storia di un Nord in cui, appunto anche attorno alla fabbrica, sono maturate le idee e le realizzazioni sulla cittadinanza, la partecipazione, il lavoro, il welfare. E in cui sono maturate riforme per continuare a coniugare libertà e impresa, diritti civili ed esigenze di equilibrio sociale. Le idee che innervano l’Europa democratica. E cioè la nostra vita civile. E, speriamo, il nostro futuro.

In un reticolo di relazioni, in un sistema di connessioni. E di infrastrutture. Mediterranee ed europee, appunto. Autostrade, porti, aeroporti, poli logistici, centri della conoscenza e della formazione. E Leonardo, il grande centro di supercalcolo che, da Bologna, può fare da riferimento per tutte le aree di maggiore industrializzazione del Paese, rendendo disponibili le opportunità di utilizzo dei dati necessari all’Intelligenza Artificiale.

Potremmo pur chiamare tutto ciò Nord Nord. O in altri modi. Sapendo comunque che la forza dell’Europa sta nelle relazioni Nord-Sud, così come Est-Ovest. In nuove mappe delle relazioni politiche e commerciali, In cui l’Europa, dialogante, deve saper rivendicare i suoi primati. Economici, ma anche e soprattutto culturali e civili.

(foto Getty Images)

Innovazione e identità di genere tra storia e cultura d’impresa

Una originale ricerca di Banca d’Italia indaga su eredità secolari che contano ancora oggi

La storia insegna, anche nella gestione e nella cultura d’impresa. Così come nell’innovazione. Non si tratta di retaggi polverosi del passato, ma di eredità importanti che – magari anche a distanza di secoli – lasciano ancora il segno.

È il messaggio al quale si arriva leggendo l’interessante ricerca di “Inventrici: l’eredità delle corporazioni medievali” di Sabrina Di Addario, Michela Giorcelli e Agata Maida ospitata dalla collana di Banca d’Italia  “Temi di discussione”.

La ricerca prende le mosse da una constatazione: la quota di donne inventrici è sensibilmente inferiore a quella degli uomini. Partendo da questa realtà, le autrici dell’indagine cercando di verificare se la bassa propensione femminile a brevettare in Italia dipenda dalla concezione storica del ruolo delle donne nella società, misurata con la loro incidenza tra i fondatori delle corporazioni nel Medioevo. La storia, dunque, come strumento per comprendere il presente. Anche nell’innovazione.

L’analisi utilizza quindi i dati sulle corporazioni dell’Archivio centrale dello Stato e i dati amministrativi sui datori di lavoro e i dipendenti e dati dell’Ufficio europeo dei brevetti.

I risultati mostrano che le province italiane che avevano una maggiore quota di donne tra i fondatori delle corporazioni medievali sono quelle in cui oggi è presente una più elevata quota di donne inventrici e una più intensa attività brevettuale femminile. E non basta, perché le stime mostrano anche che in quelle stesse province si ha oggi una più elevata percentuale di donne laureate, soprattutto da facoltà STEM, e una più alta partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

L’analisi condotta da Sabrina Di Addario, Michela Giorcelli e Agata Maida aiuta a comprendere un aspetto particolare della vita delle imprese e dei territori, un aspetto di grande importanza oggi ma che affonda le radici nel passato.

Inventrici: l’eredità delle corporazioni medievali

Sabrina Di Addario, Michela Giorcelli, Agata Maida

Banca d’Italia, Temi di discussione n. 1480, marzo 2025

Una originale ricerca di Banca d’Italia indaga su eredità secolari che contano ancora oggi

La storia insegna, anche nella gestione e nella cultura d’impresa. Così come nell’innovazione. Non si tratta di retaggi polverosi del passato, ma di eredità importanti che – magari anche a distanza di secoli – lasciano ancora il segno.

È il messaggio al quale si arriva leggendo l’interessante ricerca di “Inventrici: l’eredità delle corporazioni medievali” di Sabrina Di Addario, Michela Giorcelli e Agata Maida ospitata dalla collana di Banca d’Italia  “Temi di discussione”.

La ricerca prende le mosse da una constatazione: la quota di donne inventrici è sensibilmente inferiore a quella degli uomini. Partendo da questa realtà, le autrici dell’indagine cercando di verificare se la bassa propensione femminile a brevettare in Italia dipenda dalla concezione storica del ruolo delle donne nella società, misurata con la loro incidenza tra i fondatori delle corporazioni nel Medioevo. La storia, dunque, come strumento per comprendere il presente. Anche nell’innovazione.

L’analisi utilizza quindi i dati sulle corporazioni dell’Archivio centrale dello Stato e i dati amministrativi sui datori di lavoro e i dipendenti e dati dell’Ufficio europeo dei brevetti.

I risultati mostrano che le province italiane che avevano una maggiore quota di donne tra i fondatori delle corporazioni medievali sono quelle in cui oggi è presente una più elevata quota di donne inventrici e una più intensa attività brevettuale femminile. E non basta, perché le stime mostrano anche che in quelle stesse province si ha oggi una più elevata percentuale di donne laureate, soprattutto da facoltà STEM, e una più alta partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

L’analisi condotta da Sabrina Di Addario, Michela Giorcelli e Agata Maida aiuta a comprendere un aspetto particolare della vita delle imprese e dei territori, un aspetto di grande importanza oggi ma che affonda le radici nel passato.

Inventrici: l’eredità delle corporazioni medievali

Sabrina Di Addario, Michela Giorcelli, Agata Maida

Banca d’Italia, Temi di discussione n. 1480, marzo 2025

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