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L’Italia nella morsa dei giovani che non trovano lavoro e d’un governo che continua a fare scelte contro le imprese

L’Italia della torrida estate 2019 è lacerata, ancora una volta, da profonde contraddizioni. Tra un’economia stagnante, a crescita zero o poco più (a dispetto delle previsioni del premier Giuseppe Conte che ancora pochi mesi fa preannunciava “un anno bellissimo” e dell’ex ministro Paolo Savona che proclamava una crescita del 2% ) e un “Decreto Crescita” che promette vaghezze ma in concreto paralizza ancora di più il paese e suscita critiche sia di Confindustria che dei sindacati. Tra un governo che si muove pesantemente contro le imprese (gli attacchi del vicepremier Di Maio contro Atlantia-Autostrade, giudicata “decotta” a mercati aperti e all’Ilva sono solo l’ultima testimonianza, che suscita comunque una dura replica del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi: “Le aziende non possono più subire ricatti da chi governa” e del presidente di Confindustria Vicenza Luciano Vescovi: “Dal governo una gestione disastrosa della politica industriale”)) e il bisogno di fare crescere gli investimenti internazionali per risollevare l’economia: c’è un’Italia bipolare degli investimenti, “il Paese reale attira i capitali esteri, ma la politica può spaventarli”, secondo Ferruccio de Bortoli sul “Corriere Economia”, 1 luglio. Corrado Passera. Tra un Nord che, anche in tempi di crisi, fa passi avanti verso una sempre più evidente integrazione con il cuore forte dell’Europa (la vittoria per le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina ne è solo l’ultimo esempio) e un Sud che invece arranca tra povertà crescenti, lavoro nero, illusioni sul reddito di cittadinanza e vincoli di vecchie e nuove clientele.

C’è una contraddizione ancora più drammatica, perché condiziona negativamente il futuro del Paese: tra una condizione giovanile di lavoro insufficiente e precario e una ricerca delle imprese che offrono occupazione qualificata ma non trovano più di 200mila persone che vogliano o siano in grado di rispondere. E, ancora peggio, tra giovani che si sono arresi, non studiano né lavorano e altri giovani che fuggono dall’Italia e, soprattutto, dal Sud, per cercare all’estero nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita.

Ci sono dati recenti che rilanciano proprio questa drammatica situazione delle nuove generazioni. L’Eurostat, il 28 giugno, ha diffuso le statistiche sui neet (la sigla sta per noi in employment education or training), assegnando all’Italia il record negativo della Ue: il 28,9% dei giovani tra i 20 e i 34 anni non studia né lavora. Un po’ più di uno su quattro. Un disastro sociale (ne avevamo già fatto cenno nel blog della scorsa settimana, a proposito del libro di Niccolò Zancan intitolato appunto “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza). E’ il dato peggiore in Europa, quasi il doppio della media europea: il 16,5% della Ue, il 17,2% dell’eurozona. Prima di noi, viene la Grecia, con il 26,8%. I “grandi” europei, la Francia e la Germania, quanto mai distanti. I dati Eurostat dicono che, in Italia, va un po’ meglio dell’anno scorso, quando i neet erano il 29,5%. Ma quel lievissimo miglioramento statistico non indica affatto un’inversione di tendenza d’un fenomeno gravissimo che matura da tempo e che avrebbe bisogno di forti investimenti pubblici e privati in formazione, processi culturali e sociali inclusivi, ricostruzione di un clima di fiducia generale nelle possibilità d’un futuro migliore. Tutto il contrario dell’anti-industrialismo e dell’assistenzialismo da spesa pubblica di sussistenza tanto amati dal governo.

I giovani sfiduciati. E i “cervelli in fuga”. “I giovani invisibili, cittadini di seconda classe”, scrive Ferruccio de Bortoli sul “Corriere della Sera”, commentando i dati della Banca d’Italia, secondo cui nel 2018 sono andati all’estero 120mila italiani, aggravando un fenomeno migratorio già noto e sempre più allarmante (ne abbiamo parlato altre volte proprio su queste pagine). Moltissimi, appunto, i giovani, in tanti con un ottimo titolo di studio, grande intraprendenza, ambiziosa determinatezza.

I dati del Sud sono ben peggiori della media nazionale: nel decennio 2007-2017, sempre secondo la Banca d’Italia, il Mezzogiorno ha registrato un deflusso netto verso le altre regioni di 480mila persone (equivalenti più o meno alla metà degli abitanti di Palermo). 193mila i laureati (165mila se ne sono andati nelle regioni del Nord, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita).

Nello stesso periodo dal Nord sono andati via, all’estero 300mila italiani, di cui 69mila laureati. Fatte le somme, anche Milano e Torino, Brescia, Verona e Bologna perdono intelligenze e competenze, ottimo capitale umano. Ma soprattutto Milano resta comunque forte per il crescente arrivo di ragazzi dal Sud (il 28% dei laureati in Ingegneria non viene dalla Lombardia e la percentuale sale al 62,5% per i laureati in Medicina: lo documenta il Cineca, il Consorzio degli atenei che tiene l’anagrafe degli studenti universitari).

Ancora un dato: per attrattività dei talenti, l’Italia è quart’ultima tra i Paesi Ocse, prima di Grecia, Turchia e Messico, per i lavoratori altamente specializzati, con master o dottorati.

L’Italia, insomma, continua a bruciare le sue risorse migliori, le intelligenze, la cultura e la volontà di cambiamento dei suoi giovani e dunque la nostra economia è piatta, stagnante, con crescenti disparità territoriali e generazionali.

Chi governa, non se ne occupa adeguatamente: distribuisce pensioni e redditi di cittadinanza, condoni e sussidi ma nulla fa per garantire ai ragazzi un destino migliore. Diventiamo un paese di vecchi (tra 25 anni un italiano su tre sarà over 65). Ma non ci sono scelte di politica fiscale, industriale e sociale che investano sull’innovazione, la ricerca, la formazione, il lavoro, la valorizzazione del capitale sociale e culturale. II ricambio generazionale è carente, l’ascensore sociale bloccato. Un po’ in tutta Italia. Nel Mezzogiorno più e peggio che altrove.

L’unico ascensore che funziona, pur condizionato dai guasti del sistema Paese e dalla scadente produttività della Pubblica Amministrazione, è quello delle imprese: per potere competere su mercati esigenti e selettivi, hanno bisogno di assumere, fare crescere e valorizzare persone brave, a prescindere da vincoli familiari, razziali, religiosi, culturali. Le imprese competitive sono responsabili e inclusive, tengono in piedi l’economia e la socialità italiana. Proprio quelle imprese contro cui, giorno dopo giorno, si muove il governo più anti-industriale della storia italiana.

L’Italia della torrida estate 2019 è lacerata, ancora una volta, da profonde contraddizioni. Tra un’economia stagnante, a crescita zero o poco più (a dispetto delle previsioni del premier Giuseppe Conte che ancora pochi mesi fa preannunciava “un anno bellissimo” e dell’ex ministro Paolo Savona che proclamava una crescita del 2% ) e un “Decreto Crescita” che promette vaghezze ma in concreto paralizza ancora di più il paese e suscita critiche sia di Confindustria che dei sindacati. Tra un governo che si muove pesantemente contro le imprese (gli attacchi del vicepremier Di Maio contro Atlantia-Autostrade, giudicata “decotta” a mercati aperti e all’Ilva sono solo l’ultima testimonianza, che suscita comunque una dura replica del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi: “Le aziende non possono più subire ricatti da chi governa” e del presidente di Confindustria Vicenza Luciano Vescovi: “Dal governo una gestione disastrosa della politica industriale”)) e il bisogno di fare crescere gli investimenti internazionali per risollevare l’economia: c’è un’Italia bipolare degli investimenti, “il Paese reale attira i capitali esteri, ma la politica può spaventarli”, secondo Ferruccio de Bortoli sul “Corriere Economia”, 1 luglio. Corrado Passera. Tra un Nord che, anche in tempi di crisi, fa passi avanti verso una sempre più evidente integrazione con il cuore forte dell’Europa (la vittoria per le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina ne è solo l’ultimo esempio) e un Sud che invece arranca tra povertà crescenti, lavoro nero, illusioni sul reddito di cittadinanza e vincoli di vecchie e nuove clientele.

C’è una contraddizione ancora più drammatica, perché condiziona negativamente il futuro del Paese: tra una condizione giovanile di lavoro insufficiente e precario e una ricerca delle imprese che offrono occupazione qualificata ma non trovano più di 200mila persone che vogliano o siano in grado di rispondere. E, ancora peggio, tra giovani che si sono arresi, non studiano né lavorano e altri giovani che fuggono dall’Italia e, soprattutto, dal Sud, per cercare all’estero nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita.

Ci sono dati recenti che rilanciano proprio questa drammatica situazione delle nuove generazioni. L’Eurostat, il 28 giugno, ha diffuso le statistiche sui neet (la sigla sta per noi in employment education or training), assegnando all’Italia il record negativo della Ue: il 28,9% dei giovani tra i 20 e i 34 anni non studia né lavora. Un po’ più di uno su quattro. Un disastro sociale (ne avevamo già fatto cenno nel blog della scorsa settimana, a proposito del libro di Niccolò Zancan intitolato appunto “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza). E’ il dato peggiore in Europa, quasi il doppio della media europea: il 16,5% della Ue, il 17,2% dell’eurozona. Prima di noi, viene la Grecia, con il 26,8%. I “grandi” europei, la Francia e la Germania, quanto mai distanti. I dati Eurostat dicono che, in Italia, va un po’ meglio dell’anno scorso, quando i neet erano il 29,5%. Ma quel lievissimo miglioramento statistico non indica affatto un’inversione di tendenza d’un fenomeno gravissimo che matura da tempo e che avrebbe bisogno di forti investimenti pubblici e privati in formazione, processi culturali e sociali inclusivi, ricostruzione di un clima di fiducia generale nelle possibilità d’un futuro migliore. Tutto il contrario dell’anti-industrialismo e dell’assistenzialismo da spesa pubblica di sussistenza tanto amati dal governo.

I giovani sfiduciati. E i “cervelli in fuga”. “I giovani invisibili, cittadini di seconda classe”, scrive Ferruccio de Bortoli sul “Corriere della Sera”, commentando i dati della Banca d’Italia, secondo cui nel 2018 sono andati all’estero 120mila italiani, aggravando un fenomeno migratorio già noto e sempre più allarmante (ne abbiamo parlato altre volte proprio su queste pagine). Moltissimi, appunto, i giovani, in tanti con un ottimo titolo di studio, grande intraprendenza, ambiziosa determinatezza.

I dati del Sud sono ben peggiori della media nazionale: nel decennio 2007-2017, sempre secondo la Banca d’Italia, il Mezzogiorno ha registrato un deflusso netto verso le altre regioni di 480mila persone (equivalenti più o meno alla metà degli abitanti di Palermo). 193mila i laureati (165mila se ne sono andati nelle regioni del Nord, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita).

Nello stesso periodo dal Nord sono andati via, all’estero 300mila italiani, di cui 69mila laureati. Fatte le somme, anche Milano e Torino, Brescia, Verona e Bologna perdono intelligenze e competenze, ottimo capitale umano. Ma soprattutto Milano resta comunque forte per il crescente arrivo di ragazzi dal Sud (il 28% dei laureati in Ingegneria non viene dalla Lombardia e la percentuale sale al 62,5% per i laureati in Medicina: lo documenta il Cineca, il Consorzio degli atenei che tiene l’anagrafe degli studenti universitari).

Ancora un dato: per attrattività dei talenti, l’Italia è quart’ultima tra i Paesi Ocse, prima di Grecia, Turchia e Messico, per i lavoratori altamente specializzati, con master o dottorati.

L’Italia, insomma, continua a bruciare le sue risorse migliori, le intelligenze, la cultura e la volontà di cambiamento dei suoi giovani e dunque la nostra economia è piatta, stagnante, con crescenti disparità territoriali e generazionali.

Chi governa, non se ne occupa adeguatamente: distribuisce pensioni e redditi di cittadinanza, condoni e sussidi ma nulla fa per garantire ai ragazzi un destino migliore. Diventiamo un paese di vecchi (tra 25 anni un italiano su tre sarà over 65). Ma non ci sono scelte di politica fiscale, industriale e sociale che investano sull’innovazione, la ricerca, la formazione, il lavoro, la valorizzazione del capitale sociale e culturale. II ricambio generazionale è carente, l’ascensore sociale bloccato. Un po’ in tutta Italia. Nel Mezzogiorno più e peggio che altrove.

L’unico ascensore che funziona, pur condizionato dai guasti del sistema Paese e dalla scadente produttività della Pubblica Amministrazione, è quello delle imprese: per potere competere su mercati esigenti e selettivi, hanno bisogno di assumere, fare crescere e valorizzare persone brave, a prescindere da vincoli familiari, razziali, religiosi, culturali. Le imprese competitive sono responsabili e inclusive, tengono in piedi l’economia e la socialità italiana. Proprio quelle imprese contro cui, giorno dopo giorno, si muove il governo più anti-industriale della storia italiana.

Cammini diversi, destini comuni

L’analisi della transizione all’economia circolare svela modalità differenti di sviluppo

La crescita e lo sviluppo non percorrono strade univoche. Certo, ci possono essere tratti comuni, ma il traguardo finale (che spesso non è uno solo), viene raggiunto partendo da condizioni diverse e percorrendo sentieri differenti. Questa condizione vale anche oggi. Basta pensare alle differenti modalità di diffusione di Industria 4.0 per capire subito meglio la situazione. Che vale anche per la transizione delle imprese esistenti verso l’economia circolare.

A mettere a fuoco la complessità dei percorsi possibili è stata Sabine Urban con il suo The Transition of Existing Businesses Towards the Circular Economy: Circular Corporate Entrepreneurship contributo di ricerca nell’ambito di Circular Entrepreneurship appena pubblicato.

L’idea di base della ricerca è semplice: la transizione delle imprese verso l’economia circolare non funziona secondo un unico tipo di processo. Tutto dipende dalla varietà delle condizioni specifiche delle singole realtà aziendali. Da qui l’indicazione di Sabine Urban: per comprendere davvero cosa sta accadendo occorre “scoprire l’economia reale” cercando di individuare i modelli che sottendono a soluzioni efficienti ed efficaci di sviluppo.

Il pregio della ricerca, sta quindi nella limitatezza della teoria e nell’ampiezza della pratica. La prima sezione è dedicata alle grandi multinazionali, SUEZ e Saint-Gobain, assunte come precursori dell’economia circolare sulla base di percorsi evolutivi diversi. SUEZ ha promosso una radicale “rivoluzione delle risorse”; Saint-Gobain, fondata nel 1665, sta scegliendo l’innovazione di processo come strada per l’economia circolare. La seconda sezione della ricerca si concentra invece su due aziende di successo a conduzione familiare: il gruppo Hager e Soprema. Anche in questi due casi, lo stesso traguardo viene raggiunto partendo da condizioni e tradizioni simili ma con forti connotazioni specifiche basate sulle storie familiari e d’impresa. La terza sezione esamina problemi organizzativi per aziende molto grandi (come Engie) e piccole e agili (come EIM).

Leggere il lavoro di Sabine Urban è utile non solo per i singoli casi d’impresa che approfondisce, ma anche per comprendere meglio il ruolo di differenti colture del produrre a confronto con le nuove sfide dell’economia.

The Transition of Existing Businesses Towards the Circular Economy: Circular Corporate Entrepreneurship

Sabine Urban

in AA.VV., Circular Entrepreneurship,  Springer, 2019

L’analisi della transizione all’economia circolare svela modalità differenti di sviluppo

La crescita e lo sviluppo non percorrono strade univoche. Certo, ci possono essere tratti comuni, ma il traguardo finale (che spesso non è uno solo), viene raggiunto partendo da condizioni diverse e percorrendo sentieri differenti. Questa condizione vale anche oggi. Basta pensare alle differenti modalità di diffusione di Industria 4.0 per capire subito meglio la situazione. Che vale anche per la transizione delle imprese esistenti verso l’economia circolare.

A mettere a fuoco la complessità dei percorsi possibili è stata Sabine Urban con il suo The Transition of Existing Businesses Towards the Circular Economy: Circular Corporate Entrepreneurship contributo di ricerca nell’ambito di Circular Entrepreneurship appena pubblicato.

L’idea di base della ricerca è semplice: la transizione delle imprese verso l’economia circolare non funziona secondo un unico tipo di processo. Tutto dipende dalla varietà delle condizioni specifiche delle singole realtà aziendali. Da qui l’indicazione di Sabine Urban: per comprendere davvero cosa sta accadendo occorre “scoprire l’economia reale” cercando di individuare i modelli che sottendono a soluzioni efficienti ed efficaci di sviluppo.

Il pregio della ricerca, sta quindi nella limitatezza della teoria e nell’ampiezza della pratica. La prima sezione è dedicata alle grandi multinazionali, SUEZ e Saint-Gobain, assunte come precursori dell’economia circolare sulla base di percorsi evolutivi diversi. SUEZ ha promosso una radicale “rivoluzione delle risorse”; Saint-Gobain, fondata nel 1665, sta scegliendo l’innovazione di processo come strada per l’economia circolare. La seconda sezione della ricerca si concentra invece su due aziende di successo a conduzione familiare: il gruppo Hager e Soprema. Anche in questi due casi, lo stesso traguardo viene raggiunto partendo da condizioni e tradizioni simili ma con forti connotazioni specifiche basate sulle storie familiari e d’impresa. La terza sezione esamina problemi organizzativi per aziende molto grandi (come Engie) e piccole e agili (come EIM).

Leggere il lavoro di Sabine Urban è utile non solo per i singoli casi d’impresa che approfondisce, ma anche per comprendere meglio il ruolo di differenti colture del produrre a confronto con le nuove sfide dell’economia.

The Transition of Existing Businesses Towards the Circular Economy: Circular Corporate Entrepreneurship

Sabine Urban

in AA.VV., Circular Entrepreneurship,  Springer, 2019

Riordinare il caos

Un libro racconta la capacità dell’uomo di dare un senso a dati apparentemente casuali

Assenza di riferimenti, continuo cambiamento del contesto d’azione, necessità di avere una capacità di risposta rapida a sollecitazioni non determinabili. Sono alcune delle condizioni con le quali chi fa impresa deve oggi fare i conti. In un contesto di questo genere, è importante poter usufruire di idee nuove circa la gestione aziendale. E’ quanto è possibile fare leggendo “Lavorare nell’azienda liquida utilizzando l’apofenia. La capacità di riconoscere le connessioni nelle situazioni complesse” curato da Massimo Bornengo, Ezio Civitareale e Gianpiero Tufilli.

Il libro trae spunto dall’osservazione di una realtà – quella d’impresa appunto -, nella quale non si hanno più riferimenti certi: la tecnologia, la programmazione, l’organizzazione rendono sempre più sfumati i confini delle competenze e dei compiti. Nelle azienda sempre più spesso ci si può sentire come in un ambiente inafferrabile, senza confini, in continuo cambiamento. I curatori, per descrivere sinteticamente questa condizione, prendono a prestito il concetto di “società liquida” di Zygmunt Bauman  e coniano il concetto di “azienda liquida”.

Ma come fare di fronte ad una situazione di questo genere? Bornengo, Civitareale e Tufilli suggeriscono un percorso nuovo partendo da due termini ancora estranei al vissuto moderno – apofenia e pareidolia – che identificano una caratteristica dell’intelletto umano: il riconoscimento di schemi o connessioni in dati casuali o apparentemente senza alcun senso. Detto in altro modo, gli autori approfondiscono un’attività intellettiva da sempre usata dagli essere umani ma tutto sommato poco analizzata, quella di rendere ciò che è incoerente ed eterogeneo, semplice e leggibile. Detto in altre parole, la nostra mente tende naturalmente e normalmente a “mettere insieme” ciò che è separato, ad attribuire significati a cose che non ne hanno. L’apofenia, applicata al mondo del lavoro, aiuta a risolvere problemi, trovare soluzioni, semplificare e agevolare i rapporti interpersonali, condurre una riunione.

Il libro inizia quindi a sintetizzare le caratteristiche della “società liquida” e del “lavoro liquido”, per passare poi ad affrontare il possibile futuro del lavoro. Preparato lo scenario, Bornengo , Civitareale e Tufilli approfondiscono i concetti di apofenia (cioè la capacità di riconoscere schemi o connessioni in dati casuali o senza alcun senso) e di pareidolia (cioè la capacità di ricondurre a forme note, oggetti o profili dalla forma casuale), prima dal punto di vista storico e poi da quello pratico. Il libro è poi arricchito da una serie di contributi scritti da sociologi, avvocati, giornalisti, professori universitari, manager che di volta in volta toccano aspetti come i rapporti sindacali, il mercato del lavoro, l’associazionismo, la logistica e l’organizzazione aziendale.

Quanto scritto da Bornengo , Civitareale e Tufilli è tutto sommato un altro modo – interessante e utile -, di raccontare la cultura d’impresa che cambia e si adatta al mutare delle circostanze nelle quale ogni organizzazione della produzione si trova ad agire. Scrivono i tre curatori: “Noi crediamo che ancora una volta, come da sempre avviene nello sviluppo della storia, sarà la capacità intellettiva dell’uomo ad aiutarci a dare ordine al caos e quindi una forma alla liquidità”.

Lavorare nell’azienda liquida utilizzando l’apofenia. La capacità di riconoscere le connessioni nelle situazioni complesse

Massimo Bornengo , Ezio Civitareale, Gianpiero Tufilli (a cura di)

Franco Angeli, 2019

Un libro racconta la capacità dell’uomo di dare un senso a dati apparentemente casuali

Assenza di riferimenti, continuo cambiamento del contesto d’azione, necessità di avere una capacità di risposta rapida a sollecitazioni non determinabili. Sono alcune delle condizioni con le quali chi fa impresa deve oggi fare i conti. In un contesto di questo genere, è importante poter usufruire di idee nuove circa la gestione aziendale. E’ quanto è possibile fare leggendo “Lavorare nell’azienda liquida utilizzando l’apofenia. La capacità di riconoscere le connessioni nelle situazioni complesse” curato da Massimo Bornengo, Ezio Civitareale e Gianpiero Tufilli.

Il libro trae spunto dall’osservazione di una realtà – quella d’impresa appunto -, nella quale non si hanno più riferimenti certi: la tecnologia, la programmazione, l’organizzazione rendono sempre più sfumati i confini delle competenze e dei compiti. Nelle azienda sempre più spesso ci si può sentire come in un ambiente inafferrabile, senza confini, in continuo cambiamento. I curatori, per descrivere sinteticamente questa condizione, prendono a prestito il concetto di “società liquida” di Zygmunt Bauman  e coniano il concetto di “azienda liquida”.

Ma come fare di fronte ad una situazione di questo genere? Bornengo, Civitareale e Tufilli suggeriscono un percorso nuovo partendo da due termini ancora estranei al vissuto moderno – apofenia e pareidolia – che identificano una caratteristica dell’intelletto umano: il riconoscimento di schemi o connessioni in dati casuali o apparentemente senza alcun senso. Detto in altro modo, gli autori approfondiscono un’attività intellettiva da sempre usata dagli essere umani ma tutto sommato poco analizzata, quella di rendere ciò che è incoerente ed eterogeneo, semplice e leggibile. Detto in altre parole, la nostra mente tende naturalmente e normalmente a “mettere insieme” ciò che è separato, ad attribuire significati a cose che non ne hanno. L’apofenia, applicata al mondo del lavoro, aiuta a risolvere problemi, trovare soluzioni, semplificare e agevolare i rapporti interpersonali, condurre una riunione.

Il libro inizia quindi a sintetizzare le caratteristiche della “società liquida” e del “lavoro liquido”, per passare poi ad affrontare il possibile futuro del lavoro. Preparato lo scenario, Bornengo , Civitareale e Tufilli approfondiscono i concetti di apofenia (cioè la capacità di riconoscere schemi o connessioni in dati casuali o senza alcun senso) e di pareidolia (cioè la capacità di ricondurre a forme note, oggetti o profili dalla forma casuale), prima dal punto di vista storico e poi da quello pratico. Il libro è poi arricchito da una serie di contributi scritti da sociologi, avvocati, giornalisti, professori universitari, manager che di volta in volta toccano aspetti come i rapporti sindacali, il mercato del lavoro, l’associazionismo, la logistica e l’organizzazione aziendale.

Quanto scritto da Bornengo , Civitareale e Tufilli è tutto sommato un altro modo – interessante e utile -, di raccontare la cultura d’impresa che cambia e si adatta al mutare delle circostanze nelle quale ogni organizzazione della produzione si trova ad agire. Scrivono i tre curatori: “Noi crediamo che ancora una volta, come da sempre avviene nello sviluppo della storia, sarà la capacità intellettiva dell’uomo ad aiutarci a dare ordine al caos e quindi una forma alla liquidità”.

Lavorare nell’azienda liquida utilizzando l’apofenia. La capacità di riconoscere le connessioni nelle situazioni complesse

Massimo Bornengo , Ezio Civitareale, Gianpiero Tufilli (a cura di)

Franco Angeli, 2019

Pirelli. Una musa tra le ruote

Pirelli e le sue biblioteche

Fondazione Pirelli. La potenza è nulla senza controllo

Strategie contro le disuguaglianze, per salvare dal declino e dai rancori sociali il capitalismo e la democrazia liberale

“Le disuguaglianze stanno scuotendo profondamente il capitalismo e la politica”, titola in copertina Bloomberg Businessweek, settimanale letto con molta attenzione negli ambienti finanziari di Wall Street (nel numero di fine maggio), per un’inchiesta sui grandi divari di ricchezza negli Usa e nel mondo. E coglie in pieno un tema cardine del dibattito politico ed economico internazionale (sono temi, d’altronde, che ricorrono sempre più di frequente negli studi del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, ma anche dell’aristocratico World Economic Forum di Davos. Diseguaglianze tra aree del mondo, tra i paesi più favoriti dalla globalizzazione (i nuovi protagonisti dell’economia mondiale) e quelli che hanno visto ridimensionati redditi e aspettative (con effetti negativi sulla stabilità dei ceti medi). Tra generazioni, con i giovani che si sentono più precari e incerti. Tra chi è a suo agio con i nuovi processi produttivi digitali e con l’espansione dell’economia digitale e chi invece li subisce, sino alla perdita del posto di lavoro. Tra Nord e Sud. Come in Italia: quattro delle cinque regioni d’Europa con minore occupazione sono nel nostro Mezzogiorno, Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Le diseguaglianze stanno scardinando assetti politici e sociali consolidati, alimentano rancori e risentimenti (abilmente manipolati dai “venditori di paure” in cambio di consenso politico), creano nuove fratture culturali, impediscono strategie di sviluppo sostenibile. E’ dunque indispensabile che chi ancora ha senso di responsabilità e sguardo lungimirante, in politica, nelle imprese, nei luoghi in cui si forma l’opinione pubblica, se ne occupi con grande attenzione.

Serve “un capitalismo più equo”, per evitare le trappole dei populismi e dei nazionalismi. Lo teorizza Raghuram Rajan nelle pagine de “Il terzo pilastro – La comunità dimenticata da Stato e mercato”, Università Bocconi Editore. Rajan è uno dei maggiori economisti contemporanei: è stato ai vertici del Fondo Monetario Internazionale, ha fatto il Governatore della Banca centrale dell’India, adesso insegna a Chicago e potrebbe essere uno dei prossimi Premio Nobel. Aveva già scritto, con Luigi Zingales, nel 2003, “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (con un titolo analogo Colin Crouch aveva scritto nel 2018 “Salviamo il capitalismo da se stesso”). Oggi Rajan sostiene che lo Stato, con le sue inclinazioni sovraniste e il mercato, con il dominio di potenti gruppi globali nella finanza e nell’economia digitale, sono diventati sempre più forti e hanno creato nuovi gravi squilibri sociali, profonde disuguaglianze.

C’è una “maggiore polarizzazione” tra gruppi sociali: “Le comunità più esposte alla concorrenza di prezzo delle merci straniere hanno perso posti di lavoro a reddito medio, occupati da individui di istruzione medio-bassa e si sono avvitare a un progressivo declino, mentre per il ceto medio-alto si è aperta la possibilità di competere su base meritocratica e di competenza, per impieghi da sogno in aziende superstar”. Ma proprio questa polarizzazione infrange aspettative, scatena paure, accentua i conflitti. Da evitare, pena la crisi dell’economia di mercato con tutti i suoi aspetti positivi e delle stesse istituzioni di democrazia liberale. Rajan è convinto che “il vero capitalismo fiorisce in ambienti democratici”, che “il capitalismo e la democrazia sono simbiotici e la loro combinazione consente la prosperità”. Bisogna dunque evitare che la dialettica si chiuda tra Stato e mercato e recuperare la forza della società, “il terzo pilastro”, appunto. Fare crescere un “localismo inclusivo”, valorizzare le comunità locali aperte e accoglienti. E dare loro poteri e risorse per affrontare i bisogni dei cittadini e stimolarne la partecipazione, anche esercitando bene i meccanismi della sussidiarietà. Un nuovo equilibrio economico e democratico. Un’economia più giusta.

Per capire meglio, è utile anche leggere la “Breve storia della disuguaglianza” scritta per Laterza da Michele Alacevich e Anna Soci, economisti all’università di Bologna, dopo avere insegnato alla Columbia di New York. La teoria economica, rilevano gli autori, si è occupata poco del tema, lasciando spazio alle cosiddette dinamiche spontanee del mercato. Ma in tempi più recenti, gli effetti della globalizzazione e dei processi dell’economia digitale hanno sconvolto equilibri produttivi e sociali e tradizionali politiche di welfare, mettendo in discussione gli stessi valori della democrazia liberale. Occorre dunque una profonda riflessione critica. Gli autori citano una già vasta letteratura economica sul tema (le opere di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Dani Rodrik, Thomas Picketty, etc.), insistono sulle riforme sociali necessarie e sulle politiche attive, per esempio della Ue. E concludono: “Dipenderà da come risolveremo la questione della disuguaglianza, se riusciremo a dare un volto umano alla globalizzazione e a fare sì che la democrazia continui a essere un sistema politico credibile”.

Una delle principali disparità riguarda le nuove generazioni. Come racconta Niccolò Zancan in “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza. Sono un milione e duecentomila, in Italia, i cosiddetti neet (la sigla sta per not in employment, education or training). Hanno provato di tutto, dai lavoretti trovati dai centri per l’impiego agli stage mal retribuiti, dai mestieri precari in nero agli inutili corsi di formazione, prima di arrendersi al nulla. E proprio la loro resa è la conferma di un gigantesco spreco sociale e un durissimo atto di accusa a una società sempre meno inclusiva. Come reagire? Investire in istruzione, ricerca, innovazione anche sociale, nuovi meccanismi di welfare. In Italia. E in Europa.  

Un punto dev’essere comunque sempre chiaro: “Nessun pasto è gratis”, come sostiene Lorenzo Forni, economista all’università di Padova, Il Mulino. Il sottotitolo dice: “Perchè politici ed economisti non vanno d’accordo”. Ossessionati dal consenso di breve termine i primi, troppo legati alle dottrine i secondi. Il nodo è il “vincolo di bilancio”. Lo si può aggirare per un po’. Ma poi arriva il conto. E lo pagheranno i più deboli. Forni ricorda i casi di Argentina, Bielorussia e Spagna, sottolinea i limiti di espansione fiscale e protezionismo di Trump negli Usa, ricorda che la spesa pubblica “in disavanzo, che si paga da sola con la crescita” è “il tentativo moderno del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci” e insiste: la crescita si fa solo con riforme che rendono un’economia più digitale e competitiva, non con la spesa facile, i tagli di tasse in deficit o la stampa senza controllo della moneta. Sì a investimenti in istruzione, ricerca e sostenibilità ambientale. Ma no all’assistenzialismo fondato sui debiti.

Sì torna, anche lungo questa strada, alla lezione di John Maynard Keynes di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana: non si tratta di sovraccaricare di debiti lo Stato né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per usare correttamente Keynes con termini contemporanei: meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti per innovazione, produttività, competitività. Riforme, infrastrutture, formazione di qualità, welfare. La via della crescita sostenibile. Contro squilibri e diseguaglianze.

“Le disuguaglianze stanno scuotendo profondamente il capitalismo e la politica”, titola in copertina Bloomberg Businessweek, settimanale letto con molta attenzione negli ambienti finanziari di Wall Street (nel numero di fine maggio), per un’inchiesta sui grandi divari di ricchezza negli Usa e nel mondo. E coglie in pieno un tema cardine del dibattito politico ed economico internazionale (sono temi, d’altronde, che ricorrono sempre più di frequente negli studi del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, ma anche dell’aristocratico World Economic Forum di Davos. Diseguaglianze tra aree del mondo, tra i paesi più favoriti dalla globalizzazione (i nuovi protagonisti dell’economia mondiale) e quelli che hanno visto ridimensionati redditi e aspettative (con effetti negativi sulla stabilità dei ceti medi). Tra generazioni, con i giovani che si sentono più precari e incerti. Tra chi è a suo agio con i nuovi processi produttivi digitali e con l’espansione dell’economia digitale e chi invece li subisce, sino alla perdita del posto di lavoro. Tra Nord e Sud. Come in Italia: quattro delle cinque regioni d’Europa con minore occupazione sono nel nostro Mezzogiorno, Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Le diseguaglianze stanno scardinando assetti politici e sociali consolidati, alimentano rancori e risentimenti (abilmente manipolati dai “venditori di paure” in cambio di consenso politico), creano nuove fratture culturali, impediscono strategie di sviluppo sostenibile. E’ dunque indispensabile che chi ancora ha senso di responsabilità e sguardo lungimirante, in politica, nelle imprese, nei luoghi in cui si forma l’opinione pubblica, se ne occupi con grande attenzione.

Serve “un capitalismo più equo”, per evitare le trappole dei populismi e dei nazionalismi. Lo teorizza Raghuram Rajan nelle pagine de “Il terzo pilastro – La comunità dimenticata da Stato e mercato”, Università Bocconi Editore. Rajan è uno dei maggiori economisti contemporanei: è stato ai vertici del Fondo Monetario Internazionale, ha fatto il Governatore della Banca centrale dell’India, adesso insegna a Chicago e potrebbe essere uno dei prossimi Premio Nobel. Aveva già scritto, con Luigi Zingales, nel 2003, “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (con un titolo analogo Colin Crouch aveva scritto nel 2018 “Salviamo il capitalismo da se stesso”). Oggi Rajan sostiene che lo Stato, con le sue inclinazioni sovraniste e il mercato, con il dominio di potenti gruppi globali nella finanza e nell’economia digitale, sono diventati sempre più forti e hanno creato nuovi gravi squilibri sociali, profonde disuguaglianze.

C’è una “maggiore polarizzazione” tra gruppi sociali: “Le comunità più esposte alla concorrenza di prezzo delle merci straniere hanno perso posti di lavoro a reddito medio, occupati da individui di istruzione medio-bassa e si sono avvitare a un progressivo declino, mentre per il ceto medio-alto si è aperta la possibilità di competere su base meritocratica e di competenza, per impieghi da sogno in aziende superstar”. Ma proprio questa polarizzazione infrange aspettative, scatena paure, accentua i conflitti. Da evitare, pena la crisi dell’economia di mercato con tutti i suoi aspetti positivi e delle stesse istituzioni di democrazia liberale. Rajan è convinto che “il vero capitalismo fiorisce in ambienti democratici”, che “il capitalismo e la democrazia sono simbiotici e la loro combinazione consente la prosperità”. Bisogna dunque evitare che la dialettica si chiuda tra Stato e mercato e recuperare la forza della società, “il terzo pilastro”, appunto. Fare crescere un “localismo inclusivo”, valorizzare le comunità locali aperte e accoglienti. E dare loro poteri e risorse per affrontare i bisogni dei cittadini e stimolarne la partecipazione, anche esercitando bene i meccanismi della sussidiarietà. Un nuovo equilibrio economico e democratico. Un’economia più giusta.

Per capire meglio, è utile anche leggere la “Breve storia della disuguaglianza” scritta per Laterza da Michele Alacevich e Anna Soci, economisti all’università di Bologna, dopo avere insegnato alla Columbia di New York. La teoria economica, rilevano gli autori, si è occupata poco del tema, lasciando spazio alle cosiddette dinamiche spontanee del mercato. Ma in tempi più recenti, gli effetti della globalizzazione e dei processi dell’economia digitale hanno sconvolto equilibri produttivi e sociali e tradizionali politiche di welfare, mettendo in discussione gli stessi valori della democrazia liberale. Occorre dunque una profonda riflessione critica. Gli autori citano una già vasta letteratura economica sul tema (le opere di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Dani Rodrik, Thomas Picketty, etc.), insistono sulle riforme sociali necessarie e sulle politiche attive, per esempio della Ue. E concludono: “Dipenderà da come risolveremo la questione della disuguaglianza, se riusciremo a dare un volto umano alla globalizzazione e a fare sì che la democrazia continui a essere un sistema politico credibile”.

Una delle principali disparità riguarda le nuove generazioni. Come racconta Niccolò Zancan in “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza. Sono un milione e duecentomila, in Italia, i cosiddetti neet (la sigla sta per not in employment, education or training). Hanno provato di tutto, dai lavoretti trovati dai centri per l’impiego agli stage mal retribuiti, dai mestieri precari in nero agli inutili corsi di formazione, prima di arrendersi al nulla. E proprio la loro resa è la conferma di un gigantesco spreco sociale e un durissimo atto di accusa a una società sempre meno inclusiva. Come reagire? Investire in istruzione, ricerca, innovazione anche sociale, nuovi meccanismi di welfare. In Italia. E in Europa.  

Un punto dev’essere comunque sempre chiaro: “Nessun pasto è gratis”, come sostiene Lorenzo Forni, economista all’università di Padova, Il Mulino. Il sottotitolo dice: “Perchè politici ed economisti non vanno d’accordo”. Ossessionati dal consenso di breve termine i primi, troppo legati alle dottrine i secondi. Il nodo è il “vincolo di bilancio”. Lo si può aggirare per un po’. Ma poi arriva il conto. E lo pagheranno i più deboli. Forni ricorda i casi di Argentina, Bielorussia e Spagna, sottolinea i limiti di espansione fiscale e protezionismo di Trump negli Usa, ricorda che la spesa pubblica “in disavanzo, che si paga da sola con la crescita” è “il tentativo moderno del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci” e insiste: la crescita si fa solo con riforme che rendono un’economia più digitale e competitiva, non con la spesa facile, i tagli di tasse in deficit o la stampa senza controllo della moneta. Sì a investimenti in istruzione, ricerca e sostenibilità ambientale. Ma no all’assistenzialismo fondato sui debiti.

Sì torna, anche lungo questa strada, alla lezione di John Maynard Keynes di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana: non si tratta di sovraccaricare di debiti lo Stato né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per usare correttamente Keynes con termini contemporanei: meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti per innovazione, produttività, competitività. Riforme, infrastrutture, formazione di qualità, welfare. La via della crescita sostenibile. Contro squilibri e diseguaglianze.

L’impresa come “luogo” che genera ricchezza per tutti

Un documento della Diocesi di Torino approfondisce i legami fra produzione, lavoro e territorio

Impresa e lavoro intesi correttamente, e per il futuro. Obiettivo che dovrebbe essere comune e che, invece, periodicamente stenta ad essere condiviso. Questione di condizioni avverse, spesso, ma anche di cultura d’impresa e del lavoro che deve essere fatta nascere e sviluppare. A partire dalla reciproca conoscenza. Magari iniziando dai giovani. Sono  stati questi gli intenti che hanno mosso l’iniziativa della Diocesi di Torino: creare le condizioni per una reciproca conoscenza che toccasse giovani, imprese, enti di formazione e associazioni datoriali oltre che sindacali. Dall’attività – fatta di una serie di incontri su più temi collegati alla produzione e al lavoro -, è stato prodotto lo studio “Futuro al lavoro. Riflessione sull’esperienza e sui valori del lavoro”, insieme di analisi e dibattiti attorno ad alcuni temi: giovani e lavoro, lavoro e formazione, lavoro e rappresentanza, lavoro e imprese, accompagnamento al mondo del lavoro.  Il dibattito attorno ad ogni binomio di temi ha dato vita ad un capitolo dell’indagine a sua volta composto dall’enunciazione del problema, dal dibattito attorno ad esso e da una serie di buone pratiche e proposte operative per superare le difficoltà.

Ad aprire l’insieme delle ricerche un intervento dell’Arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, con il compito di “cucire” insieme le diverse parti dell’indagine. “La necessità di disegnare traiettorie e politiche per lo sviluppo economico – spiega Nosiglia -, s’inserisce (…) nell’idea di promuovere il lavoro umano, fattore non solo decisivo per la crescita economica di un territorio, ma anche della persona umana e nella società nel suo complesso”; sempre Nosiglia poi precisa: “La solidarietà spesso viene deprezzata perché chiama le persone che vivono il mondo del lavoro a favorire relazioni che vadano oltre il proprio interesse e tornaconto personale. Le sfide della storia se vissute da soli sono una sconfitta, se affrontate insieme diventano nuove opportunità…”. L’Arcivescovo, parlando dell’impresa e del suo ruolo, sottolinea poi la possibilità che questa sia vista “come nuova forma di solidarietà e possibilità di creazione della ricchezza, intesa non solo in termini monetari, riscoprendo la via inedita dell’economia civile”. Lo stesso poi aggiunge circa il ruolo proprio degli imprenditori che fare impresa può “essere uno spazio e un luogo in cui generare ricchezza per altri (non accumulo personale), possibilità di lavoro per il territorio e soprattutto lavoro buono, di qualità, al servizio della persona e della società”. E ancora: “Essere imprenditori significa investire prima di tutto sulle capacità dell’uomo, senza soggiogarle alla forza ineluttabile del denaro, del profitto fine a sé stesso e del potere”.

“Futuro al lavoro” propone un’idea d’imprenditorialità che può anche calzare stretta ad alcuni, ma che certamente ha molti punti in comune con la migliore cultura d’impresa da tempo diffusa in Italia.

Futuro al lavoro. Riflessione sull’esperienza e sui valori del lavoro

AA.VV.

Arcidiocesi di Torino, maggio 2019

Clicca qui per scaricare il PDF

Un documento della Diocesi di Torino approfondisce i legami fra produzione, lavoro e territorio

Impresa e lavoro intesi correttamente, e per il futuro. Obiettivo che dovrebbe essere comune e che, invece, periodicamente stenta ad essere condiviso. Questione di condizioni avverse, spesso, ma anche di cultura d’impresa e del lavoro che deve essere fatta nascere e sviluppare. A partire dalla reciproca conoscenza. Magari iniziando dai giovani. Sono  stati questi gli intenti che hanno mosso l’iniziativa della Diocesi di Torino: creare le condizioni per una reciproca conoscenza che toccasse giovani, imprese, enti di formazione e associazioni datoriali oltre che sindacali. Dall’attività – fatta di una serie di incontri su più temi collegati alla produzione e al lavoro -, è stato prodotto lo studio “Futuro al lavoro. Riflessione sull’esperienza e sui valori del lavoro”, insieme di analisi e dibattiti attorno ad alcuni temi: giovani e lavoro, lavoro e formazione, lavoro e rappresentanza, lavoro e imprese, accompagnamento al mondo del lavoro.  Il dibattito attorno ad ogni binomio di temi ha dato vita ad un capitolo dell’indagine a sua volta composto dall’enunciazione del problema, dal dibattito attorno ad esso e da una serie di buone pratiche e proposte operative per superare le difficoltà.

Ad aprire l’insieme delle ricerche un intervento dell’Arcivescovo di Torino, Cesare Nosiglia, con il compito di “cucire” insieme le diverse parti dell’indagine. “La necessità di disegnare traiettorie e politiche per lo sviluppo economico – spiega Nosiglia -, s’inserisce (…) nell’idea di promuovere il lavoro umano, fattore non solo decisivo per la crescita economica di un territorio, ma anche della persona umana e nella società nel suo complesso”; sempre Nosiglia poi precisa: “La solidarietà spesso viene deprezzata perché chiama le persone che vivono il mondo del lavoro a favorire relazioni che vadano oltre il proprio interesse e tornaconto personale. Le sfide della storia se vissute da soli sono una sconfitta, se affrontate insieme diventano nuove opportunità…”. L’Arcivescovo, parlando dell’impresa e del suo ruolo, sottolinea poi la possibilità che questa sia vista “come nuova forma di solidarietà e possibilità di creazione della ricchezza, intesa non solo in termini monetari, riscoprendo la via inedita dell’economia civile”. Lo stesso poi aggiunge circa il ruolo proprio degli imprenditori che fare impresa può “essere uno spazio e un luogo in cui generare ricchezza per altri (non accumulo personale), possibilità di lavoro per il territorio e soprattutto lavoro buono, di qualità, al servizio della persona e della società”. E ancora: “Essere imprenditori significa investire prima di tutto sulle capacità dell’uomo, senza soggiogarle alla forza ineluttabile del denaro, del profitto fine a sé stesso e del potere”.

“Futuro al lavoro” propone un’idea d’imprenditorialità che può anche calzare stretta ad alcuni, ma che certamente ha molti punti in comune con la migliore cultura d’impresa da tempo diffusa in Italia.

Futuro al lavoro. Riflessione sull’esperienza e sui valori del lavoro

AA.VV.

Arcidiocesi di Torino, maggio 2019

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Il diverso futuro possibile

L’ultimo libro di Paul Mason delinea i problemi di oggi e indica le soluzioni per un domani migliore

Recuperare e assicurare il ruolo dell’uomo nell’ambito della produzione e dell’economia. E’ quanto indicato da ogni buona cultura del produrre, ma anche da più parti della società. Il messaggio è chiaro, anche se può essere declinato con toni diversi. E’ in questo ambito che deve essere letto “Il futuro migliore” di Paul Mason, giornalista economico sicuramente “non allineato”, ma certamente fonte di più d’uno spunto d’analisi della realtà della produzione e dell’economia in generale.

Il libro di Mason ha un sottotitolo significativo: “In difesa dell’essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale”. E in effetti le circa 350 pagine appena tradotte in italiano servono da un lato per raccontare la situazione più che problematica della condizione economica e sociale attuale, e, dall’altro, per lanciare un messaggio di ottimismo. Mason spiega come il periodo difficile che stiamo vivendo abbia lasciato campo libero alle forze arcaiche del razzismo, della misoginia e del più cieco nazionalismo autoritario. Secondo Mason, per esempio, la Silicon Valley produce sempre più raffinati algoritmi che concretizzano l’incubo del controllo totale e sempre nuovi gadget che in breve realizzeranno la trasformazione dell’uomo in robot. Detto tutto questo, il messaggio, secondo Paul Mason, è che vi sia ancora spazio per reagire e “riprendere il controllo delle nostre vite e del nostro futuro”. Tutto partendo anche dai comportamenti personali oltre che d’impresa. Si va, per esempio, dalla possibilità di compiere le giuste scelte quotidiane negli acquisti a quella di agire per far promulgare leggi che “liberino il potenziale positivo delle nuove tecnologie”.

La scrittura di Mason è accattivante e provocatoria, vivace e sorprendente, certamente non banale e riesce a cucire insieme la cronaca civile ed economica mondiale con la teoria sociale degli ultimi duecento anni, passando dal marxismo al cristianesimo e al buddhismo, citando di volta in volta alcune delle migliori menti analitiche accanto alle Brigate Rosse, ma anche a Calvin Klein e Donald Trump. Sicuramente non tutto quello che Mason scrive troverà il consenso di chi legge, ma certamente riuscirà a far pensare ogni lettore attento e avveduto.

Il futuro migliore. In difesa dell’essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale

Paul Mason

il Saggiatore, 2019

L’ultimo libro di Paul Mason delinea i problemi di oggi e indica le soluzioni per un domani migliore

Recuperare e assicurare il ruolo dell’uomo nell’ambito della produzione e dell’economia. E’ quanto indicato da ogni buona cultura del produrre, ma anche da più parti della società. Il messaggio è chiaro, anche se può essere declinato con toni diversi. E’ in questo ambito che deve essere letto “Il futuro migliore” di Paul Mason, giornalista economico sicuramente “non allineato”, ma certamente fonte di più d’uno spunto d’analisi della realtà della produzione e dell’economia in generale.

Il libro di Mason ha un sottotitolo significativo: “In difesa dell’essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale”. E in effetti le circa 350 pagine appena tradotte in italiano servono da un lato per raccontare la situazione più che problematica della condizione economica e sociale attuale, e, dall’altro, per lanciare un messaggio di ottimismo. Mason spiega come il periodo difficile che stiamo vivendo abbia lasciato campo libero alle forze arcaiche del razzismo, della misoginia e del più cieco nazionalismo autoritario. Secondo Mason, per esempio, la Silicon Valley produce sempre più raffinati algoritmi che concretizzano l’incubo del controllo totale e sempre nuovi gadget che in breve realizzeranno la trasformazione dell’uomo in robot. Detto tutto questo, il messaggio, secondo Paul Mason, è che vi sia ancora spazio per reagire e “riprendere il controllo delle nostre vite e del nostro futuro”. Tutto partendo anche dai comportamenti personali oltre che d’impresa. Si va, per esempio, dalla possibilità di compiere le giuste scelte quotidiane negli acquisti a quella di agire per far promulgare leggi che “liberino il potenziale positivo delle nuove tecnologie”.

La scrittura di Mason è accattivante e provocatoria, vivace e sorprendente, certamente non banale e riesce a cucire insieme la cronaca civile ed economica mondiale con la teoria sociale degli ultimi duecento anni, passando dal marxismo al cristianesimo e al buddhismo, citando di volta in volta alcune delle migliori menti analitiche accanto alle Brigate Rosse, ma anche a Calvin Klein e Donald Trump. Sicuramente non tutto quello che Mason scrive troverà il consenso di chi legge, ma certamente riuscirà a far pensare ogni lettore attento e avveduto.

Il futuro migliore. In difesa dell’essere umano. Manifesto per un ottimismo radicale

Paul Mason

il Saggiatore, 2019

Strategie contro le disuguaglianze, per salvare dal declino e dai rancori sociali il capitalismo e la democrazia liberale

“Le disuguaglianze stanno scuotendo profondamente il capitalismo e la politica”, titola in copertina Bloomberg Businessweek, settimanale letto con molta attenzione negli ambienti finanziari di Wall Street (nel numero di fine maggio), per un’inchiesta sui grandi divari di ricchezza negli Usa e nel mondo. E coglie in pieno un tema cardine del dibattito politico ed economico internazionale (sono temi, d’altronde, che ricorrono sempre più di frequente negli studi del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, ma anche dell’aristocratico World Economic Forum di Davos. Diseguaglianze tra aree del mondo, tra i paesi più favoriti dalla globalizzazione (i nuovi protagonisti dell’economia mondiale) e quelli che hanno visto ridimensionati redditi e aspettative (con effetti negativi sulla stabilità dei ceti medi). Tra generazioni, con i giovani che si sentono più precari e incerti. Tra chi è a suo agio con i nuovi processi produttivi digitali e con l’espansione dell’economia digitale e chi invece li subisce, sino alla perdita del posto di lavoro. Tra Nord e Sud. Come in Italia: quattro delle cinque regioni d’Europa con minore occupazione sono nel nostro Mezzogiorno, Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Le diseguaglianze stanno scardinando assetti politici e sociali consolidati, alimentano rancori e risentimenti (abilmente manipolati dai “venditori di paure” in cambio di consenso politico), creano nuove fratture culturali, impediscono strategie di sviluppo sostenibile. E’ dunque indispensabile che chi ancora ha senso di responsabilità e sguardo lungimirante, in politica, nelle imprese, nei luoghi in cui si forma l’opinione pubblica, se ne occupi con grande attenzione.

Serve “un capitalismo più equo”, per evitare le trappole dei populismi e dei nazionalismi. Lo teorizza Raghuram Rajan nelle pagine de “Il terzo pilastro – La comunità dimenticata da Stato e mercato”, Università Bocconi Editore. Rajan è uno dei maggiori economisti contemporanei: è stato ai vertici del Fondo Monetario Internazionale, ha fatto il Governatore della Banca centrale dell’India, adesso insegna a Chicago e potrebbe essere uno dei prossimi Premio Nobel. Aveva già scritto, con Luigi Zingales, nel 2003, “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (con un titolo analogo Colin Crouch aveva scritto nel 2018 “Salviamo il capitalismo da se stesso”). Oggi Rajan sostiene che lo Stato, con le sue inclinazioni sovraniste e il mercato, con il dominio di potenti gruppi globali nella finanza e nell’economia digitale, sono diventati sempre più forti e hanno creato nuovi gravi squilibri sociali, profonde disuguaglianze.

C’è una “maggiore polarizzazione” tra gruppi sociali: “Le comunità più esposte alla concorrenza di prezzo delle merci straniere hanno perso posti di lavoro a reddito medio, occupati da individui di istruzione medio-bassa e si sono avvitare a un progressivo declino, mentre per il ceto medio-alto si è aperta la possibilità di competere su base meritocratica e di competenza, per impieghi da sogno in aziende superstar”. Ma proprio questa polarizzazione infrange aspettative, scatena paure, accentua i conflitti. Da evitare, pena la crisi dell’economia di mercato con tutti i suoi aspetti positivi e delle stesse istituzioni di democrazia liberale. Rajan è convinto che “il vero capitalismo fiorisce in ambienti democratici”, che “il capitalismo e la democrazia sono simbiotici e la loro combinazione consente la prosperità”. Bisogna dunque evitare che la dialettica si chiuda tra Stato e mercato e recuperare la forza della società, “il terzo pilastro”, appunto. Fare crescere un “localismo inclusivo”, valorizzare le comunità locali aperte e accoglienti. E dare loro poteri e risorse per affrontare i bisogni dei cittadini e stimolarne la partecipazione, anche esercitando bene i meccanismi della sussidiarietà. Un nuovo equilibrio economico e democratico. Un’economia più giusta.

Per capire meglio, è utile anche leggere la “Breve storia della disuguaglianza” scritta per Laterza da Michele Alacevich e Anna Soci, economisti all’università di Bologna, dopo avere insegnato alla Columbia di New York. La teoria economica, rilevano gli autori, si è occupata poco del tema, lasciando spazio alle cosiddette dinamiche spontanee del mercato. Ma in tempi più recenti, gli effetti della globalizzazione e dei processi dell’economia digitale hanno sconvolto equilibri produttivi e sociali e tradizionali politiche di welfare, mettendo in discussione gli stessi valori della democrazia liberale. Occorre dunque una profonda riflessione critica. Gli autori citano una già vasta letteratura economica sul tema (le opere di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Dani Rodrik, Thomas Picketty, etc.), insistono sulle riforme sociali necessarie e sulle politiche attive, per esempio della Ue. E concludono: “Dipenderà da come risolveremo la questione della disuguaglianza, se riusciremo a dare un volto umano alla globalizzazione e a fare sì che la democrazia continui a essere un sistema politico credibile”.

Una delle principali disparità riguarda le nuove generazioni. Come racconta Niccolò Zancan in “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza. Sono un milione e duecentomila, in Italia, i cosiddetti neet (la sigla sta per not in employment, education or training). Hanno provato di tutto, dai lavoretti trovati dai centri per l’impiego agli stage mal retribuiti, dai mestieri precari in nero agli inutili corsi di formazione, prima di arrendersi al nulla. E proprio la loro resa è la conferma di un gigantesco spreco sociale e un durissimo atto di accusa a una società sempre meno inclusiva. Come reagire? Investire in istruzione, ricerca, innovazione anche sociale, nuovi meccanismi di welfare. In Italia. E in Europa.  

Un punto dev’essere comunque sempre chiaro: “Nessun pasto è gratis”, come sostiene Lorenzo Forni, economista all’università di Padova, Il Mulino. Il sottotitolo dice: “Perchè politici ed economisti non vanno d’accordo”. Ossessionati dal consenso di breve termine i primi, troppo legati alle dottrine i secondi. Il nodo è il “vincolo di bilancio”. Lo si può aggirare per un po’. Ma poi arriva il conto. E lo pagheranno i più deboli. Forni ricorda i casi di Argentina, Bielorussia e Spagna, sottolinea i limiti di espansione fiscale e protezionismo di Trump negli Usa, ricorda che la spesa pubblica “in disavanzo, che si paga da sola con la crescita” è “il tentativo moderno del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci” e insiste: la crescita si fa solo con riforme che rendono un’economia più digitale e competitiva, non con la spesa facile, i tagli di tasse in deficit o la stampa senza controllo della moneta. Sì a investimenti in istruzione, ricerca e sostenibilità ambientale. Ma no all’assistenzialismo fondato sui debiti.

Sì torna, anche lungo questa strada, alla lezione di John Maynard Keynes di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana: non si tratta di sovraccaricare di debiti lo Stato né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per usare correttamente Keynes con termini contemporanei: meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti per innovazione, produttività, competitività. Riforme, infrastrutture, formazione di qualità, welfare. La via della crescita sostenibile. Contro squilibri e diseguaglianze.

“Le disuguaglianze stanno scuotendo profondamente il capitalismo e la politica”, titola in copertina Bloomberg Businessweek, settimanale letto con molta attenzione negli ambienti finanziari di Wall Street (nel numero di fine maggio), per un’inchiesta sui grandi divari di ricchezza negli Usa e nel mondo. E coglie in pieno un tema cardine del dibattito politico ed economico internazionale (sono temi, d’altronde, che ricorrono sempre più di frequente negli studi del Fondo monetario internazionale, dell’Ocse, ma anche dell’aristocratico World Economic Forum di Davos. Diseguaglianze tra aree del mondo, tra i paesi più favoriti dalla globalizzazione (i nuovi protagonisti dell’economia mondiale) e quelli che hanno visto ridimensionati redditi e aspettative (con effetti negativi sulla stabilità dei ceti medi). Tra generazioni, con i giovani che si sentono più precari e incerti. Tra chi è a suo agio con i nuovi processi produttivi digitali e con l’espansione dell’economia digitale e chi invece li subisce, sino alla perdita del posto di lavoro. Tra Nord e Sud. Come in Italia: quattro delle cinque regioni d’Europa con minore occupazione sono nel nostro Mezzogiorno, Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Le diseguaglianze stanno scardinando assetti politici e sociali consolidati, alimentano rancori e risentimenti (abilmente manipolati dai “venditori di paure” in cambio di consenso politico), creano nuove fratture culturali, impediscono strategie di sviluppo sostenibile. E’ dunque indispensabile che chi ancora ha senso di responsabilità e sguardo lungimirante, in politica, nelle imprese, nei luoghi in cui si forma l’opinione pubblica, se ne occupi con grande attenzione.

Serve “un capitalismo più equo”, per evitare le trappole dei populismi e dei nazionalismi. Lo teorizza Raghuram Rajan nelle pagine de “Il terzo pilastro – La comunità dimenticata da Stato e mercato”, Università Bocconi Editore. Rajan è uno dei maggiori economisti contemporanei: è stato ai vertici del Fondo Monetario Internazionale, ha fatto il Governatore della Banca centrale dell’India, adesso insegna a Chicago e potrebbe essere uno dei prossimi Premio Nobel. Aveva già scritto, con Luigi Zingales, nel 2003, “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (con un titolo analogo Colin Crouch aveva scritto nel 2018 “Salviamo il capitalismo da se stesso”). Oggi Rajan sostiene che lo Stato, con le sue inclinazioni sovraniste e il mercato, con il dominio di potenti gruppi globali nella finanza e nell’economia digitale, sono diventati sempre più forti e hanno creato nuovi gravi squilibri sociali, profonde disuguaglianze.

C’è una “maggiore polarizzazione” tra gruppi sociali: “Le comunità più esposte alla concorrenza di prezzo delle merci straniere hanno perso posti di lavoro a reddito medio, occupati da individui di istruzione medio-bassa e si sono avvitare a un progressivo declino, mentre per il ceto medio-alto si è aperta la possibilità di competere su base meritocratica e di competenza, per impieghi da sogno in aziende superstar”. Ma proprio questa polarizzazione infrange aspettative, scatena paure, accentua i conflitti. Da evitare, pena la crisi dell’economia di mercato con tutti i suoi aspetti positivi e delle stesse istituzioni di democrazia liberale. Rajan è convinto che “il vero capitalismo fiorisce in ambienti democratici”, che “il capitalismo e la democrazia sono simbiotici e la loro combinazione consente la prosperità”. Bisogna dunque evitare che la dialettica si chiuda tra Stato e mercato e recuperare la forza della società, “il terzo pilastro”, appunto. Fare crescere un “localismo inclusivo”, valorizzare le comunità locali aperte e accoglienti. E dare loro poteri e risorse per affrontare i bisogni dei cittadini e stimolarne la partecipazione, anche esercitando bene i meccanismi della sussidiarietà. Un nuovo equilibrio economico e democratico. Un’economia più giusta.

Per capire meglio, è utile anche leggere la “Breve storia della disuguaglianza” scritta per Laterza da Michele Alacevich e Anna Soci, economisti all’università di Bologna, dopo avere insegnato alla Columbia di New York. La teoria economica, rilevano gli autori, si è occupata poco del tema, lasciando spazio alle cosiddette dinamiche spontanee del mercato. Ma in tempi più recenti, gli effetti della globalizzazione e dei processi dell’economia digitale hanno sconvolto equilibri produttivi e sociali e tradizionali politiche di welfare, mettendo in discussione gli stessi valori della democrazia liberale. Occorre dunque una profonda riflessione critica. Gli autori citano una già vasta letteratura economica sul tema (le opere di Joseph Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi, Dani Rodrik, Thomas Picketty, etc.), insistono sulle riforme sociali necessarie e sulle politiche attive, per esempio della Ue. E concludono: “Dipenderà da come risolveremo la questione della disuguaglianza, se riusciremo a dare un volto umano alla globalizzazione e a fare sì che la democrazia continui a essere un sistema politico credibile”.

Una delle principali disparità riguarda le nuove generazioni. Come racconta Niccolò Zancan in “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza. Sono un milione e duecentomila, in Italia, i cosiddetti neet (la sigla sta per not in employment, education or training). Hanno provato di tutto, dai lavoretti trovati dai centri per l’impiego agli stage mal retribuiti, dai mestieri precari in nero agli inutili corsi di formazione, prima di arrendersi al nulla. E proprio la loro resa è la conferma di un gigantesco spreco sociale e un durissimo atto di accusa a una società sempre meno inclusiva. Come reagire? Investire in istruzione, ricerca, innovazione anche sociale, nuovi meccanismi di welfare. In Italia. E in Europa.  

Un punto dev’essere comunque sempre chiaro: “Nessun pasto è gratis”, come sostiene Lorenzo Forni, economista all’università di Padova, Il Mulino. Il sottotitolo dice: “Perchè politici ed economisti non vanno d’accordo”. Ossessionati dal consenso di breve termine i primi, troppo legati alle dottrine i secondi. Il nodo è il “vincolo di bilancio”. Lo si può aggirare per un po’. Ma poi arriva il conto. E lo pagheranno i più deboli. Forni ricorda i casi di Argentina, Bielorussia e Spagna, sottolinea i limiti di espansione fiscale e protezionismo di Trump negli Usa, ricorda che la spesa pubblica “in disavanzo, che si paga da sola con la crescita” è “il tentativo moderno del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci” e insiste: la crescita si fa solo con riforme che rendono un’economia più digitale e competitiva, non con la spesa facile, i tagli di tasse in deficit o la stampa senza controllo della moneta. Sì a investimenti in istruzione, ricerca e sostenibilità ambientale. Ma no all’assistenzialismo fondato sui debiti.

Sì torna, anche lungo questa strada, alla lezione di John Maynard Keynes di cui avevamo parlato nel blog della scorsa settimana: non si tratta di sovraccaricare di debiti lo Stato né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per usare correttamente Keynes con termini contemporanei: meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti per innovazione, produttività, competitività. Riforme, infrastrutture, formazione di qualità, welfare. La via della crescita sostenibile. Contro squilibri e diseguaglianze.

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?