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Umanesimo industriale: la sintesi del rapporto di Pirelli con la cultura

Oltre 500 le persone che hanno partecipato alla presentazione del libro “Umanesimo industriale. Antologia di pensieri, parole, immagini e innovazioni” che si è tenuto mercoledì 19 giugno 2019 al Teatro Franco Parenti di Milano. Una serata di letture, racconti, musica e approfondimenti con Marco Tronchetti ProveraAntonio Calabrò, Gian Arturo Ferrari e con la  partecipazione di Ornella Vanoni.

“La ripubblicazione dell’antologia della storica rivista Pirelli non è un’operazione nostalgica o per farne un amarcord” ma “per discutere oggi dell’attualità del rapporto che una grande impresa come Pirelli ha creato tra il fare impresa e il fare cultura”  ed è “un legame, quello tra cultura e impresa, che Pirelli ha voluto stringere fin dalla sua fondazione” sono le parole di Antonio Calabrò che ricorda l’obiettivo del nuovo progetto editoriale.  Il rapporto storico  di Pirelli con la cultura viene ripreso anche da Marco Tronchetti Provera che ricorda che: “La memoria è importante, con la memoria si costruisce il futuro. La Pirelli è sopravvissuta a tre secoli, è imprescindibile che un’impresa abbia un legame con la cultura”.

Il dibattito è stato intervallato da letture tratte dalla rivista “Pirelli” interpretate dall’attrice Anna Ammirati e dai grandi successi di Ornella Vanoni che ha interpretato canzoni di Giorgio Strehler, Dario Fo, Gino Paoli, Toquinho e Vinícius de Moraes.

La serata è proseguita nei Bagni Misteriosi insieme a Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik con musiche tratte dal loro repertorio.

Guarda i video e la gallery per ripercorrere tutti i momenti della serata.

Oltre 500 le persone che hanno partecipato alla presentazione del libro “Umanesimo industriale. Antologia di pensieri, parole, immagini e innovazioni” che si è tenuto mercoledì 19 giugno 2019 al Teatro Franco Parenti di Milano. Una serata di letture, racconti, musica e approfondimenti con Marco Tronchetti ProveraAntonio Calabrò, Gian Arturo Ferrari e con la  partecipazione di Ornella Vanoni.

“La ripubblicazione dell’antologia della storica rivista Pirelli non è un’operazione nostalgica o per farne un amarcord” ma “per discutere oggi dell’attualità del rapporto che una grande impresa come Pirelli ha creato tra il fare impresa e il fare cultura”  ed è “un legame, quello tra cultura e impresa, che Pirelli ha voluto stringere fin dalla sua fondazione” sono le parole di Antonio Calabrò che ricorda l’obiettivo del nuovo progetto editoriale.  Il rapporto storico  di Pirelli con la cultura viene ripreso anche da Marco Tronchetti Provera che ricorda che: “La memoria è importante, con la memoria si costruisce il futuro. La Pirelli è sopravvissuta a tre secoli, è imprescindibile che un’impresa abbia un legame con la cultura”.

Il dibattito è stato intervallato da letture tratte dalla rivista “Pirelli” interpretate dall’attrice Anna Ammirati e dai grandi successi di Ornella Vanoni che ha interpretato canzoni di Giorgio Strehler, Dario Fo, Gino Paoli, Toquinho e Vinícius de Moraes.

La serata è proseguita nei Bagni Misteriosi insieme a Pietruccio Montalbetti dei Dik Dik con musiche tratte dal loro repertorio.

Guarda i video e la gallery per ripercorrere tutti i momenti della serata.

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L’Umanesimo “targato” Pirelli

La fabbrica, gli intellettuali, il futuro. L’Italia senza paura vista da «Pirelli»

Unire tecnica e umanesimo è un’«impresa». Ecco come Pirelli riuscì nel miracolo

Pirelli, un libro per rileggere l’Italia tramite la sua Rivista

Musica d’impresa

Un libro racconta i collegamenti fra l’organizzazione della produzione e il jazz

Ogni organizzazione della produzione ha bisogno di regole severe per funzionare bene. Ma ogni buona impresa deve anche essere capace di infrangere le regole per funzionare meglio. Che, detto in altri termini, significa avere fantasia oltre che capacità di calcolo, visione oltre che pianificazione. Vuol dire improvvisare oltre che pianificare. E’ per questo che la cultura d’impresa non è cosa che si presti ad essere definita una volta per tutte. Ed è per questo che alla buona gestione d’impresa fa bene una cultura a tutto tondo. Anche musicale, come ha pensato Erika Leonardi con il suo “Impresa & jazz. Il lavoro di gruppo  a tempo di swing” pubblicato da poco.

Il punto di partenza del ragionamento di Leonardi (che dalla sua formazione scientifica, è biologa ed etologa, è partita per occuparsi di organizzazione aziendale), è che darsi regole è necessario, ma lo è anche infrangerle con senso di responsabilità. Un paradosso, solo apparente, per vincere, secondo Leonardi, la sfida di sempre: lavorare serenamente, tutti insieme. La fonte d’ispirazione per applicare un metodo di questo genere è inconsueta come il metodo stesso: il jazz. Secondo l’autrice del libro, ci sono straordinarie affinità con l’organizzazione di un’impresa: regole e flessibilità, spirito di squadra e responsabilità individuale sono le componenti della quotidianità aziendale che, come una jazz band, alterna gruppo e individuo, regole e caos, competenza e innovazione.

Per declinare e raccontare questa visione della gestione aziendale, Leonardi inizia quindi dalla parte più “seria” e cioè dal lavoro aziendale prendendo in considerazione l’organizzazione della produzione, le relazioni fra interno ed esterno dell’azienda, le regole organizzative e produttive. Nella seconda parte, poi, il libro ragiona sui collegamenti fra attività d’impresa e jazz. L’autrice prende quindi in considerazioni aspetti importanti del suonare jazz come la pluralità dei ruoli, l’equilibrio fra diritti e doveri, la capacità di ascolto e di comunicazione, il governo del senso del tempo.

Il risultato del ragionare di Erika Leonardi attorno al tema dei collegamenti fra gestione d’impresa e jazz può apparire a prima vista poco ortodosso e per certi versi al limite di una buona gestione d’azienda, ma ha più di un fondamento e molto fascino. Ed è certamente da prendere in grande considerazione. Scrive l’autrice proprio sul finire delle circa 140 pagine: “Il jazz ti ricorda che devi far funzionare le cose assieme agli altri. È difficile, ma si può fare. Quando un gruppo di persone cerca di inventare qualcosa insieme, è facile che nascano conflitti. Il jazz esprime l’importanza di esprimere l’essenza dei tuoi sentimenti e la disponibilità a condividere un progetto con altri”. Puro spirito d’impresa, appunto.

Impresa & jazz. Il lavoro di gruppo a tempo di swing

Erika Leonardi

Guerini Next, 2019

Un libro racconta i collegamenti fra l’organizzazione della produzione e il jazz

Ogni organizzazione della produzione ha bisogno di regole severe per funzionare bene. Ma ogni buona impresa deve anche essere capace di infrangere le regole per funzionare meglio. Che, detto in altri termini, significa avere fantasia oltre che capacità di calcolo, visione oltre che pianificazione. Vuol dire improvvisare oltre che pianificare. E’ per questo che la cultura d’impresa non è cosa che si presti ad essere definita una volta per tutte. Ed è per questo che alla buona gestione d’impresa fa bene una cultura a tutto tondo. Anche musicale, come ha pensato Erika Leonardi con il suo “Impresa & jazz. Il lavoro di gruppo  a tempo di swing” pubblicato da poco.

Il punto di partenza del ragionamento di Leonardi (che dalla sua formazione scientifica, è biologa ed etologa, è partita per occuparsi di organizzazione aziendale), è che darsi regole è necessario, ma lo è anche infrangerle con senso di responsabilità. Un paradosso, solo apparente, per vincere, secondo Leonardi, la sfida di sempre: lavorare serenamente, tutti insieme. La fonte d’ispirazione per applicare un metodo di questo genere è inconsueta come il metodo stesso: il jazz. Secondo l’autrice del libro, ci sono straordinarie affinità con l’organizzazione di un’impresa: regole e flessibilità, spirito di squadra e responsabilità individuale sono le componenti della quotidianità aziendale che, come una jazz band, alterna gruppo e individuo, regole e caos, competenza e innovazione.

Per declinare e raccontare questa visione della gestione aziendale, Leonardi inizia quindi dalla parte più “seria” e cioè dal lavoro aziendale prendendo in considerazione l’organizzazione della produzione, le relazioni fra interno ed esterno dell’azienda, le regole organizzative e produttive. Nella seconda parte, poi, il libro ragiona sui collegamenti fra attività d’impresa e jazz. L’autrice prende quindi in considerazioni aspetti importanti del suonare jazz come la pluralità dei ruoli, l’equilibrio fra diritti e doveri, la capacità di ascolto e di comunicazione, il governo del senso del tempo.

Il risultato del ragionare di Erika Leonardi attorno al tema dei collegamenti fra gestione d’impresa e jazz può apparire a prima vista poco ortodosso e per certi versi al limite di una buona gestione d’azienda, ma ha più di un fondamento e molto fascino. Ed è certamente da prendere in grande considerazione. Scrive l’autrice proprio sul finire delle circa 140 pagine: “Il jazz ti ricorda che devi far funzionare le cose assieme agli altri. È difficile, ma si può fare. Quando un gruppo di persone cerca di inventare qualcosa insieme, è facile che nascano conflitti. Il jazz esprime l’importanza di esprimere l’essenza dei tuoi sentimenti e la disponibilità a condividere un progetto con altri”. Puro spirito d’impresa, appunto.

Impresa & jazz. Il lavoro di gruppo a tempo di swing

Erika Leonardi

Guerini Next, 2019

Digitalizzare con giudizio

Una ricerca cerca di mettere ordine nelle relazioni fra l’economia digitale e la cultura del produrre

L’ultima frontiera dell’impresa è la digitalizzazione della produzione e dell’economia in generale. Quarta rivoluzione industriale. Da prendere sul serio, in tutti i sensi. Anche – anzi soprattutto -, dal punto di vista culturale. Digitalizzare non può significare spodestare l’aspetto umano del produrre.

È attorno a questo nodo di argomenti che si svolge “Culture of economy in the digital society” scritto a più mani da  Dmitriy Stozhko, Lyudmila Zhuravleva, Tatyana Kruzhkova e Ekaterina Kot un gruppo di storici, filosofi ed economisti che fanno capo alla University Ekaterinburg (Russia). L’articolo ragiona attorno all’uso delle tecnologie digitali nell’economia moderna e all’impatto di queste tecnologie sul contenuto e la natura della cultura dell’economia. Si parte quindi da una sistematizzazione delle fonti per passare poi ad un approfondimento sul metodo di confronto delle stesse e arrivare a definire alcuni principi di base del rapporto necessario fra digitale e valori culturali della produzione.

“Qualsiasi accelerazione nello sviluppo di un fenomeno (economia, cultura, istruzione) – spiegano nelle conclusioni gli autori -, crea le condizioni per la crescita di incertezza, instabilità e rischi. (…)”. Di fronte a una prospettiva di questo genere, emerge la “necessità di aggiornare i seguenti principi: il principio di sicurezza sociale (uomo e società), il principio di giustizia sociale, il principio di responsabilità sociale (responsabilità del governo e degli affari verso la società) e il principio di partenariato sociale (rifiuto di scenari violenti per costruire relazioni sociali)”. E ciò che più conta, di fronte alla digitalizzazione dell’economia e della produzione, è il mantenimento di una “cultura dell’economia come sistema di valori” un traguardo da raggiungere dando sempre più importanza ai “beni intellettuali (capitale) delle imprese e, in secondo luogo, allo sviluppo del potenziale creativo dell’individuo (dipendente)”.

Culture of economy in the digital society” è la sintesi di uno sforzo apprezzabile di armonizzare  istanze diverse di sviluppo economico e produttivo, che non necessariamente confliggono ma che devono essere ben comprese e gestite.

Culture of economy in the digital society

Dmitriy Stozhko, Lyudmila Zhuravleva, Tatyana Kruzhkova, Ekaterina Kot

Advances in Intelligent Systems Research, volume 167

International Scientific and Practical Conference “Digitization of Agriculture – Development Strategy” (ISPC 2019)

Clicca qui per scaricare PDF

Una ricerca cerca di mettere ordine nelle relazioni fra l’economia digitale e la cultura del produrre

L’ultima frontiera dell’impresa è la digitalizzazione della produzione e dell’economia in generale. Quarta rivoluzione industriale. Da prendere sul serio, in tutti i sensi. Anche – anzi soprattutto -, dal punto di vista culturale. Digitalizzare non può significare spodestare l’aspetto umano del produrre.

È attorno a questo nodo di argomenti che si svolge “Culture of economy in the digital society” scritto a più mani da  Dmitriy Stozhko, Lyudmila Zhuravleva, Tatyana Kruzhkova e Ekaterina Kot un gruppo di storici, filosofi ed economisti che fanno capo alla University Ekaterinburg (Russia). L’articolo ragiona attorno all’uso delle tecnologie digitali nell’economia moderna e all’impatto di queste tecnologie sul contenuto e la natura della cultura dell’economia. Si parte quindi da una sistematizzazione delle fonti per passare poi ad un approfondimento sul metodo di confronto delle stesse e arrivare a definire alcuni principi di base del rapporto necessario fra digitale e valori culturali della produzione.

“Qualsiasi accelerazione nello sviluppo di un fenomeno (economia, cultura, istruzione) – spiegano nelle conclusioni gli autori -, crea le condizioni per la crescita di incertezza, instabilità e rischi. (…)”. Di fronte a una prospettiva di questo genere, emerge la “necessità di aggiornare i seguenti principi: il principio di sicurezza sociale (uomo e società), il principio di giustizia sociale, il principio di responsabilità sociale (responsabilità del governo e degli affari verso la società) e il principio di partenariato sociale (rifiuto di scenari violenti per costruire relazioni sociali)”. E ciò che più conta, di fronte alla digitalizzazione dell’economia e della produzione, è il mantenimento di una “cultura dell’economia come sistema di valori” un traguardo da raggiungere dando sempre più importanza ai “beni intellettuali (capitale) delle imprese e, in secondo luogo, allo sviluppo del potenziale creativo dell’individuo (dipendente)”.

Culture of economy in the digital society” è la sintesi di uno sforzo apprezzabile di armonizzare  istanze diverse di sviluppo economico e produttivo, che non necessariamente confliggono ma che devono essere ben comprese e gestite.

Culture of economy in the digital society

Dmitriy Stozhko, Lyudmila Zhuravleva, Tatyana Kruzhkova, Ekaterina Kot

Advances in Intelligent Systems Research, volume 167

International Scientific and Practical Conference “Digitization of Agriculture – Development Strategy” (ISPC 2019)

Clicca qui per scaricare PDF

Un patto dei produttori e una seria rilettura di Keynes contro il governo della spesa pubblica assistenziale

Un patto dei produttori, per la competitività delle imprese e per il lavoro, contro il governo della spesa pubblica, dei redditi di cittadinanza, delle pensioni anzitempo a “quota 100”, dei condoni, delle fantasie perverse sui pericolosi minibot anti-euro e delle promesse di generici tagli fiscali. Alla vigilia di un’estate carica di tensioni sociali e difficili partite politiche, a cominciare da quelle con la Ue, chi s’impegna ogni giorno per costruire ricchezza e benessere per tutto il sistema Paese esprime un sempre più profondo disagio di fronte a decisioni politiche che premiano l’assistenzialismo piuttosto che la produzione e il lavoro.

Il ritratto dell’Italia contemporanea vede, dunque, le piazze piene di metalmeccanici in sciopero (manifestazioni unitarie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm, come non se ne vedevano dal 2011) contro l’assenza di politiche industriali del governo. E le assemblee degli imprenditori, da Milano a Treviso, da Bologna a Napoli, da Pavia a Venezia, agitate da richieste molto nette: scelte chiare di governo e Parlamento per rimettere in moto gli investimenti, sostenere l’innovazione e l’export, favorire la creazione di occupazione, soprattutto per le nuove generazioni. Sino al giudizio tagliente dei giovani imprenditori di Confindustria, riuniti nell’annuale convegno a Rapallo: “La pazienza è finita”, per dirla con le parole ruvide del loro presidente, Alessio Rossi.

Ecco, appunto, i produttori. Gli imprenditori che, nonostante tutto, ancora investono, innovano, esportano, credendo nelle qualità del Paese (come provano i dati Istat sulla delocalizzazione: 700 imprese andate via dall’Italia dal 2015 al 2017, il 3,3% appena delle medie e grandi aziende, contro il 13,4% tra il 2001 e il 2006) e consentendo così all’Italia di reggere una sempre difficile competizione internazionale. E i lavoratori che danno grande prova di senso di responsabilità, di sincero attaccamento alle loro attività e di impegno per cambiare una condizione di stagnazione, di crisi.

Sono i cardini di un “patto sociale” che lega manifattura, scienza, cultura, capacità di “fare, e fare bene”. E che meriterebbe attenzione e ascolto da un governo seriamente attento al destino dell’Italia e non alla demagogia del “popolo”, al populismo che cela strane idee di conflitto con l’Europa e di “decrescita infelice”. Sostiene Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “Se si vuole creare lavoro occorre ridurre le tasse e i contributi sui salari, varare una detassazione e una decontribuzione dei premi di produttività, approvare un grande piano di inclusione dei giovani”, partendo “dalla manifattura”. In sintonia, ecco Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl: “Coinvolgere imprese e sindacato in un patto sociale per un nuovo modello di sviluppo che punti alla riduzione del cuneo fiscale per alzare i salari, favorire gli investimenti, introdurre in Italia la democrazia economica con la partecipazione azionaria dei lavoratori”. E anche per lei la base sta “nell’eccellenza e nella qualità del sistema manifatturiero”.

L’idea di fondo: un fisco favorevole ai redditi e allo sviluppo. Lo sintetizza bene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda: “Prima della flat tax abbiamo altri problemi strutturali irrisolti da venti anni. Uno tra tutti la produttività, che non credo si possa migliorare parlando di flat tax. Se poi vogliamo mettere più soldi in tasca alla gente, facciamo il taglio del cuneo fiscale tutto a favore dei lavoratori. Non chiedo niente per l’impresa, le risorse ci sono. Prendiamo gli 80 euro del bonus Renzi, quello che è avanzato da quota 100 e dal reddito di cittadinanza e mettiamo tutto in un taglio del cuneo fiscale a favore dei soli dipendenti. Più soldi in tasca a più gente”.

Associazioni degli imprenditori e sindacati sono preoccupati: l’Italia continua a non crescere (più o meno crescita zero, decimale in più, decimale in meno) anche nel 2019, la produzione industriale va giù (-0.7% su base annua), con frenate allarmanti nei settori cardine dell’auto e della chimica, gli investimenti rallentano anche per la mancanza di fiducia delle imprese sulla situazione politica italiana, sui contrasti tra governo e Ue (siamo un paese esportatore e le nostre imprese più dinamiche e competitive sono saldamente connesse con le grandi “catene del valore” europee), sulle tensioni commerciali internazionali aggravate dalle politiche spericolate dei sovranisti (da Trump a Putin ai governanti italiani). “Allarme rosso” per l’economia, insomma, per dirla con un efficace titolo de “Il Sole24Ore” (15 giugno).

E il governo? Azzarda un vago “Decreto crescita” con un taglio del cuneo fiscale ma strutturale solo dal 2023, annuncia flat tax, insiste sui minibot (che per 6 italiani su 10 sono “inutili o pericolosi”, secondo una ricerca Ipsos pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 giugno) e promette un salario minimo per tutti i lavoratori da 9 euro all’ora (con un aggravio di costi per le imprese che l’Istat ha già quantificato in 4,3 miliardi di euro). Idee in disordine, strumenti per “comprare consenso” di breve periodo, tutt’altro che una politica lungimirante di sviluppo. I “produttori” hanno buone ragioni per protestare.

Il debito pubblico, intanto, continua ad aumentare: ad aprile, 14,8 miliardi in più rispetto a marzo, toccando il totale di di 2.373,3 miliardi. Ben oltre il 130% del Pil. Il presidente della Consob Paolo Savona azzarda previsioni che stimano sostenibile un debito pubblico pari al 200% del Pil. Le preoccupazioni dei produttori crescono.

In queste condizioni, proprio sui temi del debito pubblico, della competitività e delle politiche economiche per lo sviluppo vale la pena rileggere il più originale e innovativo economista del Novecento, John Maynard Keynes, approfittando della ripubblicazione dei suoi scritti, a cominciare dalla “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” nella prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori, a cura di Giorgio La Malfa, con la collaborazione di Giovanni Farese. “I sovranisti vogliono curare l’economia? Prima rileggiamo un po’ di Keynes”, titola efficacemente “La Stampa” per una bella recensione di Domenico Siniscalco (1 giugno).

Né protezionismi né paradigmi liberisti. Ma una responsabile sinergia tra Stato e mercato. Al centro delle teorie di Keynes, ci sono le idee sulla “politica del redditi” (un circuito virtuoso tra produttività, salari e utili d’impresa) e sul ruolo della politica economica e degli interventi pubblici, per arrivare agli obiettivi che il mercato, spontaneamente, non riesce a raggiungere: lavoro, benessere, sicurezza. Non si tratta, per Keynes, di sovraccaricare di debiti lo Stato. Né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per dirla con una lucida sintesi di Pierluigi Ciocca, ex direttore dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia (“Il Sole24Ore”, 14 aprile): “Orientare il bilancio pubblico all’equilibrio, con meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti. E’ questa la via keynesiana da intraprendere, con l’urgenza imposta dalla recessione, per tornare alla crescita”.

E’ una lezione seria, di buona politica economica, senza illusionismi, né pensieri magici né demagogie. Una lezione valida ancora oggi.

Un patto dei produttori, per la competitività delle imprese e per il lavoro, contro il governo della spesa pubblica, dei redditi di cittadinanza, delle pensioni anzitempo a “quota 100”, dei condoni, delle fantasie perverse sui pericolosi minibot anti-euro e delle promesse di generici tagli fiscali. Alla vigilia di un’estate carica di tensioni sociali e difficili partite politiche, a cominciare da quelle con la Ue, chi s’impegna ogni giorno per costruire ricchezza e benessere per tutto il sistema Paese esprime un sempre più profondo disagio di fronte a decisioni politiche che premiano l’assistenzialismo piuttosto che la produzione e il lavoro.

Il ritratto dell’Italia contemporanea vede, dunque, le piazze piene di metalmeccanici in sciopero (manifestazioni unitarie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm, come non se ne vedevano dal 2011) contro l’assenza di politiche industriali del governo. E le assemblee degli imprenditori, da Milano a Treviso, da Bologna a Napoli, da Pavia a Venezia, agitate da richieste molto nette: scelte chiare di governo e Parlamento per rimettere in moto gli investimenti, sostenere l’innovazione e l’export, favorire la creazione di occupazione, soprattutto per le nuove generazioni. Sino al giudizio tagliente dei giovani imprenditori di Confindustria, riuniti nell’annuale convegno a Rapallo: “La pazienza è finita”, per dirla con le parole ruvide del loro presidente, Alessio Rossi.

Ecco, appunto, i produttori. Gli imprenditori che, nonostante tutto, ancora investono, innovano, esportano, credendo nelle qualità del Paese (come provano i dati Istat sulla delocalizzazione: 700 imprese andate via dall’Italia dal 2015 al 2017, il 3,3% appena delle medie e grandi aziende, contro il 13,4% tra il 2001 e il 2006) e consentendo così all’Italia di reggere una sempre difficile competizione internazionale. E i lavoratori che danno grande prova di senso di responsabilità, di sincero attaccamento alle loro attività e di impegno per cambiare una condizione di stagnazione, di crisi.

Sono i cardini di un “patto sociale” che lega manifattura, scienza, cultura, capacità di “fare, e fare bene”. E che meriterebbe attenzione e ascolto da un governo seriamente attento al destino dell’Italia e non alla demagogia del “popolo”, al populismo che cela strane idee di conflitto con l’Europa e di “decrescita infelice”. Sostiene Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “Se si vuole creare lavoro occorre ridurre le tasse e i contributi sui salari, varare una detassazione e una decontribuzione dei premi di produttività, approvare un grande piano di inclusione dei giovani”, partendo “dalla manifattura”. In sintonia, ecco Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl: “Coinvolgere imprese e sindacato in un patto sociale per un nuovo modello di sviluppo che punti alla riduzione del cuneo fiscale per alzare i salari, favorire gli investimenti, introdurre in Italia la democrazia economica con la partecipazione azionaria dei lavoratori”. E anche per lei la base sta “nell’eccellenza e nella qualità del sistema manifatturiero”.

L’idea di fondo: un fisco favorevole ai redditi e allo sviluppo. Lo sintetizza bene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda: “Prima della flat tax abbiamo altri problemi strutturali irrisolti da venti anni. Uno tra tutti la produttività, che non credo si possa migliorare parlando di flat tax. Se poi vogliamo mettere più soldi in tasca alla gente, facciamo il taglio del cuneo fiscale tutto a favore dei lavoratori. Non chiedo niente per l’impresa, le risorse ci sono. Prendiamo gli 80 euro del bonus Renzi, quello che è avanzato da quota 100 e dal reddito di cittadinanza e mettiamo tutto in un taglio del cuneo fiscale a favore dei soli dipendenti. Più soldi in tasca a più gente”.

Associazioni degli imprenditori e sindacati sono preoccupati: l’Italia continua a non crescere (più o meno crescita zero, decimale in più, decimale in meno) anche nel 2019, la produzione industriale va giù (-0.7% su base annua), con frenate allarmanti nei settori cardine dell’auto e della chimica, gli investimenti rallentano anche per la mancanza di fiducia delle imprese sulla situazione politica italiana, sui contrasti tra governo e Ue (siamo un paese esportatore e le nostre imprese più dinamiche e competitive sono saldamente connesse con le grandi “catene del valore” europee), sulle tensioni commerciali internazionali aggravate dalle politiche spericolate dei sovranisti (da Trump a Putin ai governanti italiani). “Allarme rosso” per l’economia, insomma, per dirla con un efficace titolo de “Il Sole24Ore” (15 giugno).

E il governo? Azzarda un vago “Decreto crescita” con un taglio del cuneo fiscale ma strutturale solo dal 2023, annuncia flat tax, insiste sui minibot (che per 6 italiani su 10 sono “inutili o pericolosi”, secondo una ricerca Ipsos pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 giugno) e promette un salario minimo per tutti i lavoratori da 9 euro all’ora (con un aggravio di costi per le imprese che l’Istat ha già quantificato in 4,3 miliardi di euro). Idee in disordine, strumenti per “comprare consenso” di breve periodo, tutt’altro che una politica lungimirante di sviluppo. I “produttori” hanno buone ragioni per protestare.

Il debito pubblico, intanto, continua ad aumentare: ad aprile, 14,8 miliardi in più rispetto a marzo, toccando il totale di di 2.373,3 miliardi. Ben oltre il 130% del Pil. Il presidente della Consob Paolo Savona azzarda previsioni che stimano sostenibile un debito pubblico pari al 200% del Pil. Le preoccupazioni dei produttori crescono.

In queste condizioni, proprio sui temi del debito pubblico, della competitività e delle politiche economiche per lo sviluppo vale la pena rileggere il più originale e innovativo economista del Novecento, John Maynard Keynes, approfittando della ripubblicazione dei suoi scritti, a cominciare dalla “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” nella prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori, a cura di Giorgio La Malfa, con la collaborazione di Giovanni Farese. “I sovranisti vogliono curare l’economia? Prima rileggiamo un po’ di Keynes”, titola efficacemente “La Stampa” per una bella recensione di Domenico Siniscalco (1 giugno).

Né protezionismi né paradigmi liberisti. Ma una responsabile sinergia tra Stato e mercato. Al centro delle teorie di Keynes, ci sono le idee sulla “politica del redditi” (un circuito virtuoso tra produttività, salari e utili d’impresa) e sul ruolo della politica economica e degli interventi pubblici, per arrivare agli obiettivi che il mercato, spontaneamente, non riesce a raggiungere: lavoro, benessere, sicurezza. Non si tratta, per Keynes, di sovraccaricare di debiti lo Stato. Né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per dirla con una lucida sintesi di Pierluigi Ciocca, ex direttore dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia (“Il Sole24Ore”, 14 aprile): “Orientare il bilancio pubblico all’equilibrio, con meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti. E’ questa la via keynesiana da intraprendere, con l’urgenza imposta dalla recessione, per tornare alla crescita”.

E’ una lezione seria, di buona politica economica, senza illusionismi, né pensieri magici né demagogie. Una lezione valida ancora oggi.

Un patto dei produttori e una seria rilettura di Keynes contro il governo della spesa pubblica assistenziale

Un patto dei produttori, per la competitività delle imprese e per il lavoro, contro il governo della spesa pubblica, dei redditi di cittadinanza, delle pensioni anzitempo a “quota 100”, dei condoni, delle fantasie perverse sui pericolosi minibot anti-euro e delle promesse di generici tagli fiscali. Alla vigilia di un’estate carica di tensioni sociali e difficili partite politiche, a cominciare da quelle con la Ue, chi s’impegna ogni giorno per costruire ricchezza e benessere per tutto il sistema Paese esprime un sempre più profondo disagio di fronte a decisioni politiche che premiano l’assistenzialismo piuttosto che la produzione e il lavoro.

Il ritratto dell’Italia contemporanea vede, dunque, le piazze piene di metalmeccanici in sciopero (manifestazioni unitarie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm, come non se ne vedevano dal 2011) contro l’assenza di politiche industriali del governo. E le assemblee degli imprenditori, da Milano a Treviso, da Bologna a Napoli, da Pavia a Venezia, agitate da richieste molto nette: scelte chiare di governo e Parlamento per rimettere in moto gli investimenti, sostenere l’innovazione e l’export, favorire la creazione di occupazione, soprattutto per le nuove generazioni. Sino al giudizio tagliente dei giovani imprenditori di Confindustria, riuniti nell’annuale convegno a Rapallo: “La pazienza è finita”, per dirla con le parole ruvide del loro presidente, Alessio Rossi.

Ecco, appunto, i produttori. Gli imprenditori che, nonostante tutto, ancora investono, innovano, esportano, credendo nelle qualità del Paese (come provano i dati Istat sulla delocalizzazione: 700 imprese andate via dall’Italia dal 2015 al 2017, il 3,3% appena delle medie e grandi aziende, contro il 13,4% tra il 2001 e il 2006) e consentendo così all’Italia di reggere una sempre difficile competizione internazionale. E i lavoratori che danno grande prova di senso di responsabilità, di sincero attaccamento alle loro attività e di impegno per cambiare una condizione di stagnazione, di crisi.

Sono i cardini di un “patto sociale” che lega manifattura, scienza, cultura, capacità di “fare, e fare bene”. E che meriterebbe attenzione e ascolto da un governo seriamente attento al destino dell’Italia e non alla demagogia del “popolo”, al populismo che cela strane idee di conflitto con l’Europa e di “decrescita infelice”. Sostiene Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “Se si vuole creare lavoro occorre ridurre le tasse e i contributi sui salari, varare una detassazione e una decontribuzione dei premi di produttività, approvare un grande piano di inclusione dei giovani”, partendo “dalla manifattura”. In sintonia, ecco Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl: “Coinvolgere imprese e sindacato in un patto sociale per un nuovo modello di sviluppo che punti alla riduzione del cuneo fiscale per alzare i salari, favorire gli investimenti, introdurre in Italia la democrazia economica con la partecipazione azionaria dei lavoratori”. E anche per lei la base sta “nell’eccellenza e nella qualità del sistema manifatturiero”.

L’idea di fondo: un fisco favorevole ai redditi e allo sviluppo. Lo sintetizza bene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda: “Prima della flat tax abbiamo altri problemi strutturali irrisolti da venti anni. Uno tra tutti la produttività, che non credo si possa migliorare parlando di flat tax. Se poi vogliamo mettere più soldi in tasca alla gente, facciamo il taglio del cuneo fiscale tutto a favore dei lavoratori. Non chiedo niente per l’impresa, le risorse ci sono. Prendiamo gli 80 euro del bonus Renzi, quello che è avanzato da quota 100 e dal reddito di cittadinanza e mettiamo tutto in un taglio del cuneo fiscale a favore dei soli dipendenti. Più soldi in tasca a più gente”.

Associazioni degli imprenditori e sindacati sono preoccupati: l’Italia continua a non crescere (più o meno crescita zero, decimale in più, decimale in meno) anche nel 2019, la produzione industriale va giù (-0.7% su base annua), con frenate allarmanti nei settori cardine dell’auto e della chimica, gli investimenti rallentano anche per la mancanza di fiducia delle imprese sulla situazione politica italiana, sui contrasti tra governo e Ue (siamo un paese esportatore e le nostre imprese più dinamiche e competitive sono saldamente connesse con le grandi “catene del valore” europee), sulle tensioni commerciali internazionali aggravate dalle politiche spericolate dei sovranisti (da Trump a Putin ai governanti italiani). “Allarme rosso” per l’economia, insomma, per dirla con un efficace titolo de “Il Sole24Ore” (15 giugno).

E il governo? Azzarda un vago “Decreto crescita” con un taglio del cuneo fiscale ma strutturale solo dal 2023, annuncia flat tax, insiste sui minibot (che per 6 italiani su 10 sono “inutili o pericolosi”, secondo una ricerca Ipsos pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 giugno) e promette un salario minimo per tutti i lavoratori da 9 euro all’ora (con un aggravio di costi per le imprese che l’Istat ha già quantificato in 4,3 miliardi di euro). Idee in disordine, strumenti per “comprare consenso” di breve periodo, tutt’altro che una politica lungimirante di sviluppo. I “produttori” hanno buone ragioni per protestare.

Il debito pubblico, intanto, continua ad aumentare: ad aprile, 14,8 miliardi in più rispetto a marzo, toccando il totale di di 2.373,3 miliardi. Ben oltre il 130% del Pil. Il presidente della Consob Paolo Savona azzarda previsioni che stimano sostenibile un debito pubblico pari al 200% del Pil. Le preoccupazioni dei produttori crescono.

In queste condizioni, proprio sui temi del debito pubblico, della competitività e delle politiche economiche per lo sviluppo vale la pena rileggere il più originale e innovativo economista del Novecento, John Maynard Keynes, approfittando della ripubblicazione dei suoi scritti, a cominciare dalla “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” nella prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori, a cura di Giorgio La Malfa, con la collaborazione di Giovanni Farese. “I sovranisti vogliono curare l’economia? Prima rileggiamo un po’ di Keynes”, titola efficacemente “La Stampa” per una bella recensione di Domenico Siniscalco (1 giugno).

Né protezionismi né paradigmi liberisti. Ma una responsabile sinergia tra Stato e mercato. Al centro delle teorie di Keynes, ci sono le idee sulla “politica del redditi” (un circuito virtuoso tra produttività, salari e utili d’impresa) e sul ruolo della politica economica e degli interventi pubblici, per arrivare agli obiettivi che il mercato, spontaneamente, non riesce a raggiungere: lavoro, benessere, sicurezza. Non si tratta, per Keynes, di sovraccaricare di debiti lo Stato. Né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per dirla con una lucida sintesi di Pierluigi Ciocca, ex direttore dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia (“Il Sole24Ore”, 14 aprile): “Orientare il bilancio pubblico all’equilibrio, con meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti. E’ questa la via keynesiana da intraprendere, con l’urgenza imposta dalla recessione, per tornare alla crescita”.

E’ una lezione seria, di buona politica economica, senza illusionismi, né pensieri magici né demagogie. Una lezione valida ancora oggi.

Un patto dei produttori, per la competitività delle imprese e per il lavoro, contro il governo della spesa pubblica, dei redditi di cittadinanza, delle pensioni anzitempo a “quota 100”, dei condoni, delle fantasie perverse sui pericolosi minibot anti-euro e delle promesse di generici tagli fiscali. Alla vigilia di un’estate carica di tensioni sociali e difficili partite politiche, a cominciare da quelle con la Ue, chi s’impegna ogni giorno per costruire ricchezza e benessere per tutto il sistema Paese esprime un sempre più profondo disagio di fronte a decisioni politiche che premiano l’assistenzialismo piuttosto che la produzione e il lavoro.

Il ritratto dell’Italia contemporanea vede, dunque, le piazze piene di metalmeccanici in sciopero (manifestazioni unitarie di Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm, come non se ne vedevano dal 2011) contro l’assenza di politiche industriali del governo. E le assemblee degli imprenditori, da Milano a Treviso, da Bologna a Napoli, da Pavia a Venezia, agitate da richieste molto nette: scelte chiare di governo e Parlamento per rimettere in moto gli investimenti, sostenere l’innovazione e l’export, favorire la creazione di occupazione, soprattutto per le nuove generazioni. Sino al giudizio tagliente dei giovani imprenditori di Confindustria, riuniti nell’annuale convegno a Rapallo: “La pazienza è finita”, per dirla con le parole ruvide del loro presidente, Alessio Rossi.

Ecco, appunto, i produttori. Gli imprenditori che, nonostante tutto, ancora investono, innovano, esportano, credendo nelle qualità del Paese (come provano i dati Istat sulla delocalizzazione: 700 imprese andate via dall’Italia dal 2015 al 2017, il 3,3% appena delle medie e grandi aziende, contro il 13,4% tra il 2001 e il 2006) e consentendo così all’Italia di reggere una sempre difficile competizione internazionale. E i lavoratori che danno grande prova di senso di responsabilità, di sincero attaccamento alle loro attività e di impegno per cambiare una condizione di stagnazione, di crisi.

Sono i cardini di un “patto sociale” che lega manifattura, scienza, cultura, capacità di “fare, e fare bene”. E che meriterebbe attenzione e ascolto da un governo seriamente attento al destino dell’Italia e non alla demagogia del “popolo”, al populismo che cela strane idee di conflitto con l’Europa e di “decrescita infelice”. Sostiene Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “Se si vuole creare lavoro occorre ridurre le tasse e i contributi sui salari, varare una detassazione e una decontribuzione dei premi di produttività, approvare un grande piano di inclusione dei giovani”, partendo “dalla manifattura”. In sintonia, ecco Annamaria Furlan, segretaria generale della Cisl: “Coinvolgere imprese e sindacato in un patto sociale per un nuovo modello di sviluppo che punti alla riduzione del cuneo fiscale per alzare i salari, favorire gli investimenti, introdurre in Italia la democrazia economica con la partecipazione azionaria dei lavoratori”. E anche per lei la base sta “nell’eccellenza e nella qualità del sistema manifatturiero”.

L’idea di fondo: un fisco favorevole ai redditi e allo sviluppo. Lo sintetizza bene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda: “Prima della flat tax abbiamo altri problemi strutturali irrisolti da venti anni. Uno tra tutti la produttività, che non credo si possa migliorare parlando di flat tax. Se poi vogliamo mettere più soldi in tasca alla gente, facciamo il taglio del cuneo fiscale tutto a favore dei lavoratori. Non chiedo niente per l’impresa, le risorse ci sono. Prendiamo gli 80 euro del bonus Renzi, quello che è avanzato da quota 100 e dal reddito di cittadinanza e mettiamo tutto in un taglio del cuneo fiscale a favore dei soli dipendenti. Più soldi in tasca a più gente”.

Associazioni degli imprenditori e sindacati sono preoccupati: l’Italia continua a non crescere (più o meno crescita zero, decimale in più, decimale in meno) anche nel 2019, la produzione industriale va giù (-0.7% su base annua), con frenate allarmanti nei settori cardine dell’auto e della chimica, gli investimenti rallentano anche per la mancanza di fiducia delle imprese sulla situazione politica italiana, sui contrasti tra governo e Ue (siamo un paese esportatore e le nostre imprese più dinamiche e competitive sono saldamente connesse con le grandi “catene del valore” europee), sulle tensioni commerciali internazionali aggravate dalle politiche spericolate dei sovranisti (da Trump a Putin ai governanti italiani). “Allarme rosso” per l’economia, insomma, per dirla con un efficace titolo de “Il Sole24Ore” (15 giugno).

E il governo? Azzarda un vago “Decreto crescita” con un taglio del cuneo fiscale ma strutturale solo dal 2023, annuncia flat tax, insiste sui minibot (che per 6 italiani su 10 sono “inutili o pericolosi”, secondo una ricerca Ipsos pubblicata dal “Corriere della Sera” il 15 giugno) e promette un salario minimo per tutti i lavoratori da 9 euro all’ora (con un aggravio di costi per le imprese che l’Istat ha già quantificato in 4,3 miliardi di euro). Idee in disordine, strumenti per “comprare consenso” di breve periodo, tutt’altro che una politica lungimirante di sviluppo. I “produttori” hanno buone ragioni per protestare.

Il debito pubblico, intanto, continua ad aumentare: ad aprile, 14,8 miliardi in più rispetto a marzo, toccando il totale di di 2.373,3 miliardi. Ben oltre il 130% del Pil. Il presidente della Consob Paolo Savona azzarda previsioni che stimano sostenibile un debito pubblico pari al 200% del Pil. Le preoccupazioni dei produttori crescono.

In queste condizioni, proprio sui temi del debito pubblico, della competitività e delle politiche economiche per lo sviluppo vale la pena rileggere il più originale e innovativo economista del Novecento, John Maynard Keynes, approfittando della ripubblicazione dei suoi scritti, a cominciare dalla “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” nella prestigiosa collana dei Meridiani di Mondadori, a cura di Giorgio La Malfa, con la collaborazione di Giovanni Farese. “I sovranisti vogliono curare l’economia? Prima rileggiamo un po’ di Keynes”, titola efficacemente “La Stampa” per una bella recensione di Domenico Siniscalco (1 giugno).

Né protezionismi né paradigmi liberisti. Ma una responsabile sinergia tra Stato e mercato. Al centro delle teorie di Keynes, ci sono le idee sulla “politica del redditi” (un circuito virtuoso tra produttività, salari e utili d’impresa) e sul ruolo della politica economica e degli interventi pubblici, per arrivare agli obiettivi che il mercato, spontaneamente, non riesce a raggiungere: lavoro, benessere, sicurezza. Non si tratta, per Keynes, di sovraccaricare di debiti lo Stato. Né di indulgere a politiche assistenziali (come certe letture superficiali e strumentali hanno affermato in anni recenti). Ma di stimolare, con bilanci in tendenziale equilibrio, investimenti che moltiplicano domanda e occupazione. Per dirla con una lucida sintesi di Pierluigi Ciocca, ex direttore dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia (“Il Sole24Ore”, 14 aprile): “Orientare il bilancio pubblico all’equilibrio, con meno sprechi, consumi, trasferimenti, evasione fiscale. E più investimenti. E’ questa la via keynesiana da intraprendere, con l’urgenza imposta dalla recessione, per tornare alla crescita”.

E’ una lezione seria, di buona politica economica, senza illusionismi, né pensieri magici né demagogie. Una lezione valida ancora oggi.

Pasolini, il mio cinema della crudeltà in un mondo che nasconde le tragedie

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