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19 giugno 2019 – Presentazione del libro “Umanesimo Industriale”

La Luna vista dal Grattacielo

“Non vi porta sulla luna, d’accordo!”: così esordisce la pubblicità per il Cinturato Pirelli realizzata nell’estate del 1969 dalla Centro, l’agenzia di comunicazione interna al Gruppo, che aveva allora il suo quartier generale al 25esimo piano del Pirellone. “Però, sulla terra, il Cinturato vi porta dove volete, su qualsiasi tipo di strada, con qualsiasi tempo…”: a fianco dell’annuncio, il profilo di quella Luna che nel luglio di cinquant’anni fa è entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo, con il piccolo grande passo di Neil Armstrong e l’esclamazione “Ha toccato!” del telecronista Tito Stagno in diretta notturna RAI.

Allo sbarco di Apollo 11, l’house organ “Fatti e Notizie” dedica la copertina del numero di luglio-agosto, a celebrare “un’impresa umana che dischiude per tutta la Terra nuove speranza di pace e di fratellanza”. All’interno del numero si ricorda che alcuni elementi del sofisticatissimo sistema di count-down sono stati forniti dall’azienda Solari, consociata Pirelli con sede a Udine. Per tutto il primo semestre del 1969 nella rubrica “Carosello” – contenitore pubblicitario trasmesso dalla RAI in fascia preserale – va in onda il ciclo di spot “Le avventure dell’uomo”: realizzati dalla Gamma Film per la regia di Roberto Gavioli, i filmati, introdotti dal Cinturato Pirelli,  ricordano al pubblico italiano le grandi tappe nella corsa alla conquista dello spazio, dal satellite Sputnik del 1957 al primo cosmonauta Jurij Gagarin del 1961, alla missione Gemini 6 del 1965. E nel dicembre del 1968 parte in missione l’Apollo 8: la Luna si avvicina. L’impresa lunare ha un impatto forte sull’opinione pubblica: la Rivista Pirelli non può non dare a sua volta una lettura di questo clima denso di entusiasmi ma anche di dubbi etici. La Rivista già inizia ad occuparsi di spazio nel lontano 1956, quando Sir George Thompson, Premio Nobel 1937 per la Fisica, interviene su “Ciò che penso dei viaggi interplanetari”: una prima certezza che la conquista delle stelle è ben altro che fantascienza da fumetti. Nel 1965 Ugo Maraldi firma “Quell’astronave per la luna”, cronaca della missione dei cosmonauti americani LeRoy Gordon Cooper e Charles Pete Conrad: otto giorni in orbita, 120 giri attorno alla Terra, cinque milioni e mezzo di chilometri.

Ormai la Luna è vicinissima: nello stesso 1965 Riccardo Musatti pubblica l’articolo “Design per la luna”, che a partire dal design del casco spaziale per gli astronauti prefigura “il lavoro delle centinaia di disegnatori americani che si occupano del progetto astronautico Apollo”. Del marzo 1969 è l’articolo “Il cervello di Houston” di Antonio De Falco, che racconta “Tre uomini hanno girato attorno alla Luna, altri tre uomini si preparano a mettere piede sulla superficie lunare”: è l’esordio. E’ appena partito Apollo 9, penultima tappa di avvicinamento all’orbita lunare: presto partirà Apollo 10, e la Luna sarà ormai a un passo. La partenza di Apollo 11, prevista per il 20 luglio dello stesso anno ci ricorda che “il mondo ha tremato, si è commosso e si è esaltato un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro”.

“Non vi porta sulla luna, d’accordo!”: così esordisce la pubblicità per il Cinturato Pirelli realizzata nell’estate del 1969 dalla Centro, l’agenzia di comunicazione interna al Gruppo, che aveva allora il suo quartier generale al 25esimo piano del Pirellone. “Però, sulla terra, il Cinturato vi porta dove volete, su qualsiasi tipo di strada, con qualsiasi tempo…”: a fianco dell’annuncio, il profilo di quella Luna che nel luglio di cinquant’anni fa è entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo, con il piccolo grande passo di Neil Armstrong e l’esclamazione “Ha toccato!” del telecronista Tito Stagno in diretta notturna RAI.

Allo sbarco di Apollo 11, l’house organ “Fatti e Notizie” dedica la copertina del numero di luglio-agosto, a celebrare “un’impresa umana che dischiude per tutta la Terra nuove speranza di pace e di fratellanza”. All’interno del numero si ricorda che alcuni elementi del sofisticatissimo sistema di count-down sono stati forniti dall’azienda Solari, consociata Pirelli con sede a Udine. Per tutto il primo semestre del 1969 nella rubrica “Carosello” – contenitore pubblicitario trasmesso dalla RAI in fascia preserale – va in onda il ciclo di spot “Le avventure dell’uomo”: realizzati dalla Gamma Film per la regia di Roberto Gavioli, i filmati, introdotti dal Cinturato Pirelli,  ricordano al pubblico italiano le grandi tappe nella corsa alla conquista dello spazio, dal satellite Sputnik del 1957 al primo cosmonauta Jurij Gagarin del 1961, alla missione Gemini 6 del 1965. E nel dicembre del 1968 parte in missione l’Apollo 8: la Luna si avvicina. L’impresa lunare ha un impatto forte sull’opinione pubblica: la Rivista Pirelli non può non dare a sua volta una lettura di questo clima denso di entusiasmi ma anche di dubbi etici. La Rivista già inizia ad occuparsi di spazio nel lontano 1956, quando Sir George Thompson, Premio Nobel 1937 per la Fisica, interviene su “Ciò che penso dei viaggi interplanetari”: una prima certezza che la conquista delle stelle è ben altro che fantascienza da fumetti. Nel 1965 Ugo Maraldi firma “Quell’astronave per la luna”, cronaca della missione dei cosmonauti americani LeRoy Gordon Cooper e Charles Pete Conrad: otto giorni in orbita, 120 giri attorno alla Terra, cinque milioni e mezzo di chilometri.

Ormai la Luna è vicinissima: nello stesso 1965 Riccardo Musatti pubblica l’articolo “Design per la luna”, che a partire dal design del casco spaziale per gli astronauti prefigura “il lavoro delle centinaia di disegnatori americani che si occupano del progetto astronautico Apollo”. Del marzo 1969 è l’articolo “Il cervello di Houston” di Antonio De Falco, che racconta “Tre uomini hanno girato attorno alla Luna, altri tre uomini si preparano a mettere piede sulla superficie lunare”: è l’esordio. E’ appena partito Apollo 9, penultima tappa di avvicinamento all’orbita lunare: presto partirà Apollo 10, e la Luna sarà ormai a un passo. La partenza di Apollo 11, prevista per il 20 luglio dello stesso anno ci ricorda che “il mondo ha tremato, si è commosso e si è esaltato un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro”.

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Imparare…che impresa! Un dialogo tra scienza e umanesimo

Sostenibilità ambientale e smart cities, arte e grafica, scienza e innovazione tecnologica, letteratura e giornalismo, storia d’impresa e storia delle invenzioni, sono solo alcuni dei temi che saranno approfonditi nei percorsi formativi e workshop di Fondazione Pirelli Educational durante il prossimo anno scolastico.

Il progetto didattico, che dal 2013 offre attività gratuite alle scuole, si pone infatti l’obiettivo di avvicinare i ragazzi al mondo della produzione e ai valori fondanti dell’azienda, fornendo loro gli strumenti utili a interpretare temi di attualità e provando ad immaginarne gli sviluppi futuri.

In particolare, al centro del programma per l’anno 2019/2020 c’è lo stretto dialogo tra ricerca tecnico-scientifica e dimensione umanistica che è alla base della cultura d’impresa di Pirelli. Il legame tra arte e scienza si arricchirà della collaborazione di esperti di diverse direzioni dell’azienda tra cui “Proprietà Industriale”, “Innovative Machinery Automation” e “Ricerca e Sviluppo” che interverranno per raccontare la propria esperienza.

Saperi umanistici e scienza animano anche le pagine della Rivista Pirelli durante gli anni del boom economico, che vede coinvolte le più grandi firme del panorama italiano: Dino Buzzati, Camilla Cederna, Umberto Eco, Carlo Emilio Gadda, Giulio Minoletti, Giulio Natta, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Umberto Veronesi e molti altri ancora. A partire dai  numeri della rivista e grazie al ricco patrimonio storico aziendale, gli studenti saranno protagonisti di storie di innovazione e daranno vita a progetti trasversali legando discipline scolastiche a temi contemporanei.

Per gli studenti delle scuole superiori proseguiranno inoltre le visite guidate al Centro di Ricerca e Sviluppo, polo d’eccellenza dell’azienda, dove vedranno da vicino la strumentazione utilizzata per le analisi chimiche dei materiali che compongono i pneumatici, i test sulla gomma e sui prototipi.

I ragazzi dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado potranno infine seguire la linea produttiva del penumatico all’interno degli stabilimenti di Milano Bicocca e del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese.

Martedì 10 settembre 2019 alle ore 18.00 si terrà presso la Fondazione Pirelli la presentazione dei nuovi percorsi formativi. In questa occasione i docenti potranno conoscere lo svolgimento delle attività didattiche e visitare la Fondazione Pirelli.

Per iscriversi all’incontro di martedì 10 settembre è possibile compilare il form al seguente link:

www.fondazionepirelli.org/prenotazioni-registrazione

Per ulteriori informazioni:

Fondazione Pirelli Educational
02 – 644249145

Sostenibilità ambientale e smart cities, arte e grafica, scienza e innovazione tecnologica, letteratura e giornalismo, storia d’impresa e storia delle invenzioni, sono solo alcuni dei temi che saranno approfonditi nei percorsi formativi e workshop di Fondazione Pirelli Educational durante il prossimo anno scolastico.

Il progetto didattico, che dal 2013 offre attività gratuite alle scuole, si pone infatti l’obiettivo di avvicinare i ragazzi al mondo della produzione e ai valori fondanti dell’azienda, fornendo loro gli strumenti utili a interpretare temi di attualità e provando ad immaginarne gli sviluppi futuri.

In particolare, al centro del programma per l’anno 2019/2020 c’è lo stretto dialogo tra ricerca tecnico-scientifica e dimensione umanistica che è alla base della cultura d’impresa di Pirelli. Il legame tra arte e scienza si arricchirà della collaborazione di esperti di diverse direzioni dell’azienda tra cui “Proprietà Industriale”, “Innovative Machinery Automation” e “Ricerca e Sviluppo” che interverranno per raccontare la propria esperienza.

Saperi umanistici e scienza animano anche le pagine della Rivista Pirelli durante gli anni del boom economico, che vede coinvolte le più grandi firme del panorama italiano: Dino Buzzati, Camilla Cederna, Umberto Eco, Carlo Emilio Gadda, Giulio Minoletti, Giulio Natta, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Umberto Veronesi e molti altri ancora. A partire dai  numeri della rivista e grazie al ricco patrimonio storico aziendale, gli studenti saranno protagonisti di storie di innovazione e daranno vita a progetti trasversali legando discipline scolastiche a temi contemporanei.

Per gli studenti delle scuole superiori proseguiranno inoltre le visite guidate al Centro di Ricerca e Sviluppo, polo d’eccellenza dell’azienda, dove vedranno da vicino la strumentazione utilizzata per le analisi chimiche dei materiali che compongono i pneumatici, i test sulla gomma e sui prototipi.

I ragazzi dell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado potranno infine seguire la linea produttiva del penumatico all’interno degli stabilimenti di Milano Bicocca e del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese.

Martedì 10 settembre 2019 alle ore 18.00 si terrà presso la Fondazione Pirelli la presentazione dei nuovi percorsi formativi. In questa occasione i docenti potranno conoscere lo svolgimento delle attività didattiche e visitare la Fondazione Pirelli.

Per iscriversi all’incontro di martedì 10 settembre è possibile compilare il form al seguente link:

www.fondazionepirelli.org/prenotazioni-registrazione

Per ulteriori informazioni:

Fondazione Pirelli Educational
02 – 644249145

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L’industria italiana hi-tech non trova decine di migliaia di tecnici. E il governo pensa solo a reddito di cittadinanza e salario minimo

469mila tecnici. Un numero imponente. Arrotondando appena, potremmo dire mezzo milione di persone. Sono quelle cui l’impresa italiana è pronta a offrire un posto di lavoro da oggi al 2022, tra tecnici, diplomati negli Its (gli istituti tecnici superiori) e laureati nelle discipline stem (e cioè science, technology, engineering e mathematics) ma che non trova o comunque trova con moltissima difficoltà, almeno in un terzo dei casi. Ecco il punto: le nostre industrie più dinamiche, investendo in ricerca, innovazione, trasformazioni digital, produzioni e servizi hi tech da “Industria 4.0”, stanno facendo di tutto per tenere testa alle nuove dimensioni della competitività internazionale, ma si scontrano con i limiti di un mercato del lavoro inadeguato alle sfide dello sviluppo.

Altri dati, da settori diversi dell’industria, parlano con preoccupazione del lavoro che si offre, ma senza risposte, proprio in un’Italia palude a crescita zero (+0,1% del Pil nel 2019, ha confermato nei giorni scorsi la Banca d’Italia) e con livelli di disoccupazione record nell’area della Ue, soprattutto tra i giovani. “Fincantieri cerca 6mila addetti, tecnici, carpentieri e saldatori, ma non sappiamo dove trovarli”, denuncia l’amministratore delegato del gruppo Giuseppe Bono (Corriere della Sera e Il Sole24Ore, 11 luglio), cosciente delle prospettive di sviluppo, con commesse per oltre 10 anni, grazie anche all’acquisizione della francese Stx.

Pure dal mondo dell’industria dell’abbigliamento e del lusso si fa sapere che da oggi al 2023 sono previste 48mila assunzioni, di tecnici con retribuzioni nette da 1.700 a 3.000 euro, ma per un terzo di quelle posizioni non ci sono specialisti.
“Sviluppatori, analisti, progettisti per impianti di telecomunicazioni, l’hi tech cerca 45mila specialisti”, titola Il Sole24Ore (12 luglio), raccogliendo le indicazioni delle imprese Ict, il mondo digitale, essenziale per la crescita delle imprese manifatturiere e di servizi, secondo i paradigmi competitivi di “Industria 4.0”. E i numeri sono ancora più elevati se si guarda al settore dell’automazione, all’industria meccanica e meccatronica: “La robotica cerca 96mila addetti ma non ne trova uno su tre”, titola sempre Il Sole24Ore (13 luglio). Non ce ne sono già pronti sul mercato, non ce ne saranno nei prossimi anni, se solo 17mila iscritti agli istituti tecnici (nel settore tecnologia) hanno scelto di studiare le materie legate alla meccatronica.

Le imprese migliori vanno in una direzione, la scuola in tutt’altra. E qui si ripropongono tutte le questioni legate agli Its (gli Istituti tecnici superiori) snobbati sia dalle famiglie che dalle istituzioni pubbliche di governo della scuola (poco più di 10mila iscritti appena, contro gli 800mila che alimentano la formidabile macchina produttiva tedesca, la prima manifattura d’Europa, davanti a un’Italia che fa sempre più fatica a tenere il passo della seconda posizione, incalzata dalla Francia che rilancia gli investimenti di politica industriale e sta di conseguenza orientando tutti i processi di formazione). C’è una chiara correlazione tra la digitalizzazione e la crescita economica, documenta, per l’Europa, l’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano (Corriere della Sera, 14 luglio), con un grafico che lega la crescita del Pil procapite annuale ai dati del Digital Economy and social Index: l’Italia è nella parte bassa della linea, appena prima di Bulgaria, Romania, Grecia e Polonia, mentre in testa ci sono Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, seguite da Regno Unito, Belgio, Germania. Anche la Spagna sta meglio di noi.

Torniamo così al tema della formazione e degli investimenti pubblici. La scuola guarda all’industria, alla produttività, alle professioni tecniche? No. Le scelte in materia d’istruzione del governo giallo-verde confermano questa deriva negativa. Un esempio: l’alternanza scuola-lavoro è stata fortemente ridimensionata e nella definizione dei nuovi assetti manca completamente la parola “lavoro”, come se fosse una dimensione negativa, un errore, una dizione di cui vergognarsi.
D’altronde, non è affatto una novità che i partiti che tengono in piedi il governo (Cinque Stelle e Lega) facciano scelte ostili all’impresa, alla cultura scientifica, alle infrastrutture produttive, alla competitività. La spesa pubblica è orientata all’assistenzialismo (reddito di cittadinanza, “quota 100” per le pensioni), si insiste sul “salario minimo” (incuranti dei danni che l’aumento del costo del lavoro farà alle imprese), si parla sempre più confusamente di flat tax ma non di strategie fiscali a sostegno dell’innovazione (come avevano fatto, con ottimi effetti sulla crescita e la competitività, i precedenti governi sia di centro-destra che di centro-sinistra), si distorcono gli investimenti pubblici per rafforzare la presa del potere politico sulle imprese in difficoltà (il caso Alitalia, tornata in mani pubbliche, ne è solo l’ultima conferma).
La sintesi: governo incompetente in economia, disattento alla produttività, incurante delle scelte necessarie per favorire il rafforzamento della nostra industria nel contesto Ue. Tutto questo crea un’ulteriore distorsione: la fuga dall’Italia di molti dei nostri giovani più competenti, preparati, intraprendenti (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog). E’ vero, fioriscono iniziative per trattenere i nostri “giovani cervelli” o riportare in Italia parte di quelli che se ne sono andati, come per esempio “Talents in motion”, promossa ai primi di luglio a Milano da una dinamica head hunter, Patrizia Fontana, con il supporto di Pwc (Price Waterhouse Cooper, multinazionale della consulenza) e il sostegno di parecchie imprese private in cerca di persone di qualità da assumere. Ma l’esodo comunque continua: l’estero offre maggiori e migliori opportunità di affermazione professionale. E, in assenza di chiare scelte di governo di politica economica, industriale e fiscale a favore delle imprese e della competitività, il quadro non potrà che peggiorare.

469mila tecnici. Un numero imponente. Arrotondando appena, potremmo dire mezzo milione di persone. Sono quelle cui l’impresa italiana è pronta a offrire un posto di lavoro da oggi al 2022, tra tecnici, diplomati negli Its (gli istituti tecnici superiori) e laureati nelle discipline stem (e cioè science, technology, engineering e mathematics) ma che non trova o comunque trova con moltissima difficoltà, almeno in un terzo dei casi. Ecco il punto: le nostre industrie più dinamiche, investendo in ricerca, innovazione, trasformazioni digital, produzioni e servizi hi tech da “Industria 4.0”, stanno facendo di tutto per tenere testa alle nuove dimensioni della competitività internazionale, ma si scontrano con i limiti di un mercato del lavoro inadeguato alle sfide dello sviluppo.

Altri dati, da settori diversi dell’industria, parlano con preoccupazione del lavoro che si offre, ma senza risposte, proprio in un’Italia palude a crescita zero (+0,1% del Pil nel 2019, ha confermato nei giorni scorsi la Banca d’Italia) e con livelli di disoccupazione record nell’area della Ue, soprattutto tra i giovani. “Fincantieri cerca 6mila addetti, tecnici, carpentieri e saldatori, ma non sappiamo dove trovarli”, denuncia l’amministratore delegato del gruppo Giuseppe Bono (Corriere della Sera e Il Sole24Ore, 11 luglio), cosciente delle prospettive di sviluppo, con commesse per oltre 10 anni, grazie anche all’acquisizione della francese Stx.

Pure dal mondo dell’industria dell’abbigliamento e del lusso si fa sapere che da oggi al 2023 sono previste 48mila assunzioni, di tecnici con retribuzioni nette da 1.700 a 3.000 euro, ma per un terzo di quelle posizioni non ci sono specialisti.
“Sviluppatori, analisti, progettisti per impianti di telecomunicazioni, l’hi tech cerca 45mila specialisti”, titola Il Sole24Ore (12 luglio), raccogliendo le indicazioni delle imprese Ict, il mondo digitale, essenziale per la crescita delle imprese manifatturiere e di servizi, secondo i paradigmi competitivi di “Industria 4.0”. E i numeri sono ancora più elevati se si guarda al settore dell’automazione, all’industria meccanica e meccatronica: “La robotica cerca 96mila addetti ma non ne trova uno su tre”, titola sempre Il Sole24Ore (13 luglio). Non ce ne sono già pronti sul mercato, non ce ne saranno nei prossimi anni, se solo 17mila iscritti agli istituti tecnici (nel settore tecnologia) hanno scelto di studiare le materie legate alla meccatronica.

Le imprese migliori vanno in una direzione, la scuola in tutt’altra. E qui si ripropongono tutte le questioni legate agli Its (gli Istituti tecnici superiori) snobbati sia dalle famiglie che dalle istituzioni pubbliche di governo della scuola (poco più di 10mila iscritti appena, contro gli 800mila che alimentano la formidabile macchina produttiva tedesca, la prima manifattura d’Europa, davanti a un’Italia che fa sempre più fatica a tenere il passo della seconda posizione, incalzata dalla Francia che rilancia gli investimenti di politica industriale e sta di conseguenza orientando tutti i processi di formazione). C’è una chiara correlazione tra la digitalizzazione e la crescita economica, documenta, per l’Europa, l’Osservatorio Agenda Digitale del Politecnico di Milano (Corriere della Sera, 14 luglio), con un grafico che lega la crescita del Pil procapite annuale ai dati del Digital Economy and social Index: l’Italia è nella parte bassa della linea, appena prima di Bulgaria, Romania, Grecia e Polonia, mentre in testa ci sono Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, seguite da Regno Unito, Belgio, Germania. Anche la Spagna sta meglio di noi.

Torniamo così al tema della formazione e degli investimenti pubblici. La scuola guarda all’industria, alla produttività, alle professioni tecniche? No. Le scelte in materia d’istruzione del governo giallo-verde confermano questa deriva negativa. Un esempio: l’alternanza scuola-lavoro è stata fortemente ridimensionata e nella definizione dei nuovi assetti manca completamente la parola “lavoro”, come se fosse una dimensione negativa, un errore, una dizione di cui vergognarsi.
D’altronde, non è affatto una novità che i partiti che tengono in piedi il governo (Cinque Stelle e Lega) facciano scelte ostili all’impresa, alla cultura scientifica, alle infrastrutture produttive, alla competitività. La spesa pubblica è orientata all’assistenzialismo (reddito di cittadinanza, “quota 100” per le pensioni), si insiste sul “salario minimo” (incuranti dei danni che l’aumento del costo del lavoro farà alle imprese), si parla sempre più confusamente di flat tax ma non di strategie fiscali a sostegno dell’innovazione (come avevano fatto, con ottimi effetti sulla crescita e la competitività, i precedenti governi sia di centro-destra che di centro-sinistra), si distorcono gli investimenti pubblici per rafforzare la presa del potere politico sulle imprese in difficoltà (il caso Alitalia, tornata in mani pubbliche, ne è solo l’ultima conferma).
La sintesi: governo incompetente in economia, disattento alla produttività, incurante delle scelte necessarie per favorire il rafforzamento della nostra industria nel contesto Ue. Tutto questo crea un’ulteriore distorsione: la fuga dall’Italia di molti dei nostri giovani più competenti, preparati, intraprendenti (ne abbiamo parlato più volte, in questi blog). E’ vero, fioriscono iniziative per trattenere i nostri “giovani cervelli” o riportare in Italia parte di quelli che se ne sono andati, come per esempio “Talents in motion”, promossa ai primi di luglio a Milano da una dinamica head hunter, Patrizia Fontana, con il supporto di Pwc (Price Waterhouse Cooper, multinazionale della consulenza) e il sostegno di parecchie imprese private in cerca di persone di qualità da assumere. Ma l’esodo comunque continua: l’estero offre maggiori e migliori opportunità di affermazione professionale. E, in assenza di chiare scelte di governo di politica economica, industriale e fiscale a favore delle imprese e della competitività, il quadro non potrà che peggiorare.

Cultura dell’intelligenza artificiale

Un libro appena pubblicato in italiano descrive e analizza il ruolo dell’AI e i suoi effetti sul lavoro

Capire il presente ed avere una ragionevole idea del futuro. Alla fine dei conti la “formula” per agire consapevolmente è questa. Anche – e forse soprattutto -, nelle imprese. Sapere dove si è e dove si va, d’altra parte, non è un approccio nuovo per gli imprenditori e i manager  avveduti. Ciò che cambia, e che complica la situazione, è però l’oggetto che occorre comprendere e le cui evoluzioni occorre prevedere. E’ in questo ambito che si colloca l’intelligenza artificiale (AI). Entità ormai non più astratta l’AI, deve essere compresa, non demonizzata ma usata correttamente. Leggere “Human + Machine. Ripensare il lavoro nell’età dell’intelligenza artificiale” di Paul R. Daugherty e di H. James Wilson è allora una buona cosa per chi voglia procurarsi una buona base conoscitiva sul tema.

L’assunto di partenza del libro è doppio. Prima di tutto viene precisato che l’intelligenza artificiale non è più una nozione futuristica. In secondo luogo i due autori spiegano che “i sistemi intelligenti non si limitano ad automatizzare molti processi, per renderli più efficienti; al contrario, stanno permettendo a persone e macchine di lavorare in maniera collaborativa e in modalità inusitate”. La parola d’ordine del libro, quindi, non è contrapposizione ma collaborazione. Lavoro in comune fra uomo e macchina intelligente appunto.

Daugherty e Wilson affrontano il tema partendo dal racconto di cosa sia già oggi l’AI vista sotto differenti aspetti: dall’automazione della produzione manifatturiera per arrivare alle attività di customer service  e di marketing passando per la ricerca, l’innovazione e lo sviluppo. Nella seconda parte, invece, viene affrontato il tema – complesso -, di come adattare le potenzialità e il modo di lavorare dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi attuali e soprattutto al lavoro. Un passaggio delicato, nel quale molta conta la formazione.

“Quando si parla di intelligenza artificiale – scrivono nelle conclusioni Daugherty e Wilson -, una gran parte della conversazione tende a concentrarsi sulla sostituzione nei posti di lavoro e sulla paura che i computer un giorno conquisteranno il mondo. L’assunto implicito è che uomini e macchine siano in competizione, e che i sistemi intelligenti, con la loro velocità superiore, la capacità di processare e la resistenza in così tante situazioni, alla fine ci sostituiranno nelle aziende e alla fine forse anche fuori”. Il messaggio lanciato dal libro è però diverso. Esiste un nuovo spazio nel quale nuove possibilità di lavoro e di produzione possono nascere. Il libro, per esempio, spiega come una delle conclusioni della ricerca sia “il concetto di «fusion skill»: uomini e macchine insieme formano nuovi tipi di lavoro ed esperienze professionali. Ciò costituisce lo «spazio fantasma», assente dal dibattito polarizzante sul lavoro che ha messo gli uomini da un lato e le macchine dall’altro. Ed è in questo spazio fantasma centrale che le aziende all’avanguardia hanno reinventato i loro processi lavorativi”.

La conclusione generale di “Human + Machine”è che le “organizzazioni che sapranno sfruttarne il potenziale andranno avanti, quelle che non ci riusciranno sono destinate a cadere”. Il libro di Daugherty e Wilson è una buona lettura, soprattutto perché fornisce strumenti adeguati per pensare e valutare quanto accade dentro e fuori le fabbriche e gli uffici.

Human + Machine. Ripensare il lavoro nell’età dell’intelligenza artificiale

Daugherty Paul R., Wilson H. James

GueriniNext, 2019

Un libro appena pubblicato in italiano descrive e analizza il ruolo dell’AI e i suoi effetti sul lavoro

Capire il presente ed avere una ragionevole idea del futuro. Alla fine dei conti la “formula” per agire consapevolmente è questa. Anche – e forse soprattutto -, nelle imprese. Sapere dove si è e dove si va, d’altra parte, non è un approccio nuovo per gli imprenditori e i manager  avveduti. Ciò che cambia, e che complica la situazione, è però l’oggetto che occorre comprendere e le cui evoluzioni occorre prevedere. E’ in questo ambito che si colloca l’intelligenza artificiale (AI). Entità ormai non più astratta l’AI, deve essere compresa, non demonizzata ma usata correttamente. Leggere “Human + Machine. Ripensare il lavoro nell’età dell’intelligenza artificiale” di Paul R. Daugherty e di H. James Wilson è allora una buona cosa per chi voglia procurarsi una buona base conoscitiva sul tema.

L’assunto di partenza del libro è doppio. Prima di tutto viene precisato che l’intelligenza artificiale non è più una nozione futuristica. In secondo luogo i due autori spiegano che “i sistemi intelligenti non si limitano ad automatizzare molti processi, per renderli più efficienti; al contrario, stanno permettendo a persone e macchine di lavorare in maniera collaborativa e in modalità inusitate”. La parola d’ordine del libro, quindi, non è contrapposizione ma collaborazione. Lavoro in comune fra uomo e macchina intelligente appunto.

Daugherty e Wilson affrontano il tema partendo dal racconto di cosa sia già oggi l’AI vista sotto differenti aspetti: dall’automazione della produzione manifatturiera per arrivare alle attività di customer service  e di marketing passando per la ricerca, l’innovazione e lo sviluppo. Nella seconda parte, invece, viene affrontato il tema – complesso -, di come adattare le potenzialità e il modo di lavorare dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi attuali e soprattutto al lavoro. Un passaggio delicato, nel quale molta conta la formazione.

“Quando si parla di intelligenza artificiale – scrivono nelle conclusioni Daugherty e Wilson -, una gran parte della conversazione tende a concentrarsi sulla sostituzione nei posti di lavoro e sulla paura che i computer un giorno conquisteranno il mondo. L’assunto implicito è che uomini e macchine siano in competizione, e che i sistemi intelligenti, con la loro velocità superiore, la capacità di processare e la resistenza in così tante situazioni, alla fine ci sostituiranno nelle aziende e alla fine forse anche fuori”. Il messaggio lanciato dal libro è però diverso. Esiste un nuovo spazio nel quale nuove possibilità di lavoro e di produzione possono nascere. Il libro, per esempio, spiega come una delle conclusioni della ricerca sia “il concetto di «fusion skill»: uomini e macchine insieme formano nuovi tipi di lavoro ed esperienze professionali. Ciò costituisce lo «spazio fantasma», assente dal dibattito polarizzante sul lavoro che ha messo gli uomini da un lato e le macchine dall’altro. Ed è in questo spazio fantasma centrale che le aziende all’avanguardia hanno reinventato i loro processi lavorativi”.

La conclusione generale di “Human + Machine”è che le “organizzazioni che sapranno sfruttarne il potenziale andranno avanti, quelle che non ci riusciranno sono destinate a cadere”. Il libro di Daugherty e Wilson è una buona lettura, soprattutto perché fornisce strumenti adeguati per pensare e valutare quanto accade dentro e fuori le fabbriche e gli uffici.

Human + Machine. Ripensare il lavoro nell’età dell’intelligenza artificiale

Daugherty Paul R., Wilson H. James

GueriniNext, 2019

Creare valore condiviso

La cultura dell’economia circolare raccontata nelle sue diverse declinazioni

Creare valore e condividerlo. E’ la sostanza dell’economia circolare, particolare approccio alla produzione e al mercato che, ad iniziare dalla crisi del 2008, si è sempre più diffuso nelle economie occidentali. Sintomo di un nuovo modello di sviluppo parallelo a quello del capitalismo pre-crisi, oltre che di un’economia “incorporata nella società dopo decenni di separazione”, l’economia circolare va ben compresa per essere correttamente utilizzata. E’ a questo che serve leggere “Perché parlare di economia circolare?” intervento scritto da Laura Gherardi per Equilibri e apparso recentemente.

Quanto proposto dell’articolo è una buona sintesi del concetto e delle sue applicazioni viste da più punti di vista – quelli dei cittadini, dei produttori, dei “contributori” -, e quindi sia delle imprese che delle famiglie. L’economia circolare viene quindi descritta sia dal punto di vista della produzione materiale che di quelle “ambientale” oltre che “sociale”. Gherardi riesce così a raccontare la complessità del tema, declinandone i diversi aspetti e le criticità. In altri termini, l’economia circolare viene raccontata come capace di creare valore non solo economico ma anche sociale, ambientale e umano insieme.

Tutto senza dimenticare il traguardo ultimo di questo approccio – rendere più vivibile il pianeta –,  ma tentando di scorgerne anche i risultati più vicini alla quotidianità della produzione  e dei rapporti sociali. Ne emerge così un tema che sta fra l’economia e lo studio più generale della società, fra l’organizzazione della produzione e una nuova e più completa cultura d’impresa.

L’articolo di Laura Gherardi – scritto in un linguaggio piano e concreto – è utile per lo sforzo di sintesi di un tema non solo complesso ma anche, e soprattutto, in continua evoluzione: da leggere insieme ad altri sullo stesso argomento.

Perché parlare di economia circolare?

Laura Gherardi

Equilibri, 1, 2019

La cultura dell’economia circolare raccontata nelle sue diverse declinazioni

Creare valore e condividerlo. E’ la sostanza dell’economia circolare, particolare approccio alla produzione e al mercato che, ad iniziare dalla crisi del 2008, si è sempre più diffuso nelle economie occidentali. Sintomo di un nuovo modello di sviluppo parallelo a quello del capitalismo pre-crisi, oltre che di un’economia “incorporata nella società dopo decenni di separazione”, l’economia circolare va ben compresa per essere correttamente utilizzata. E’ a questo che serve leggere “Perché parlare di economia circolare?” intervento scritto da Laura Gherardi per Equilibri e apparso recentemente.

Quanto proposto dell’articolo è una buona sintesi del concetto e delle sue applicazioni viste da più punti di vista – quelli dei cittadini, dei produttori, dei “contributori” -, e quindi sia delle imprese che delle famiglie. L’economia circolare viene quindi descritta sia dal punto di vista della produzione materiale che di quelle “ambientale” oltre che “sociale”. Gherardi riesce così a raccontare la complessità del tema, declinandone i diversi aspetti e le criticità. In altri termini, l’economia circolare viene raccontata come capace di creare valore non solo economico ma anche sociale, ambientale e umano insieme.

Tutto senza dimenticare il traguardo ultimo di questo approccio – rendere più vivibile il pianeta –,  ma tentando di scorgerne anche i risultati più vicini alla quotidianità della produzione  e dei rapporti sociali. Ne emerge così un tema che sta fra l’economia e lo studio più generale della società, fra l’organizzazione della produzione e una nuova e più completa cultura d’impresa.

L’articolo di Laura Gherardi – scritto in un linguaggio piano e concreto – è utile per lo sforzo di sintesi di un tema non solo complesso ma anche, e soprattutto, in continua evoluzione: da leggere insieme ad altri sullo stesso argomento.

Perché parlare di economia circolare?

Laura Gherardi

Equilibri, 1, 2019

Conversazioni sulla gomma sotto i ciliegi

La crisi di fiducia nelle società “non profit” mette in pericolo il capitale sociale della solidarietà che regge la nostra Italia

La forza dell’Italia sta anche nel suo straordinario capitale sociale positivo, che ha garantito la tenuta del Paese come sistema pure nelle stagioni delle crisi più dure. Un capitale sociale fatto da comunità territoriali coese, imprese intraprendenti e inclusive, organizzazioni di volontariato. Oggi questo capitale sociale rivela preoccupanti segnali di erosione. L’allarme viene da uno dei più acuti e autorevoli osservatori dei fenomeni che segnano la società italiana, Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia: “Crollata la fiducia per le non profit”, scrive sul “Corriere della Sera” (6 luglio), commentando i dati di un sondaggio Ipsos“sulla scelta del ministro Salvini di impedire gli sbarchi sul territorio italiano dei migranti soccorsi in mare dalle navi delle organizzazioni umanitarie”.

Secondo quel sondaggio, il 59% degli italiani sta con Salvini, il 29% è contrario, con ovvie punte di consenso plebiscitario (il 99%) tra gli elettori delle Lega e dei Cinque Stelle (77%) e con un robuste quote di sostegno tra le persone con più di 35 anni, tra i lavoratori autonomi e tra gli operai.

E le “non profit”? La fiducia in queste organizzazioni è crollata dall’80% del 2010 al 39% di oggi. E adesso solo il 22% degli italiani pensa che siano mosse da intenti umanitari, mentre il 56% le giudica ispirate da “scopi economici”. E’ un dato forte, su cui riflettere attentamente.

Pagnoncelli nota come “si sia persa l’aura di bontà di cui godevano” da quando, nel 2017, Luigi Di Maio, leader dei Cinque Stelle, le definì “taxi del mare”. E come il fenomeno si sia aggravato proprio di recente, nel cuore dello scontro caldissimo sull’accoglienza degli immigrati.

Il discredito diffuso, nato dalle polemiche sui migranti (caso Diciotti, Sea Watch, etc.), si estende un po’ a tutto il mondo del “non profit”. E in tempi di comunicazione ansiogena, gridata, caratterizzata dal binomio aggressivo amico-nemico, ne fa le spese tutto quel vasto e straordinario mondo del cosiddetto “terzo settore” (“terzo” tra il settore pubblico e le imprese private profit) che si occupa di temi sociali, assistenza, cooperazione, solidarietà: appunto quel “capitale sociale positivo” di cui dicevamo.

Nota Pagnoncelli: “Il discredito colpisce duramente un intero settore che non comprende solo le Ong (organizzazioni non governative) impegnate nei soccorsi in mare e nell’accoglienza dei migranti, ma rappresenta oltre 340mila realtà che operano nei settori più disparati, dai servizi alla persona (infanzia, anziani, disabili, etc.) alla cultura, dallo sport alla cooperazione internazionale”. Un mondo vario, compresso, benemerito, che conta più di un milione di addetti stabilmente impiegati e 5,5 milioni di volontari, in società, cooperative, associazioni, fondazioni, enti sociali di grande umanità e fondamentale utilità sociale, da Milano alla Brianza operosa, dal Veneto all’Emilia, dalla Campania alla Sicilia, con forte radicamento nel mondo cattolico e con qualificate presenze anche in ambienti laici e di “club service”. Più di un italiano su dieci lavora nel “non profit” o fa volontariato, dicono i dati dell’Istat rielaborati dalla Fondazione Social Venture “Giordano Dell’Amore”.

Insiste ancora Pagnoncelli, preoccupato: “Con la fiducia, stanno diminuendo anche le donazioni destinate al non profit”. E conclude: “E’ solo uno dei tanti effetti collaterali del greve stile comunicativo della stagione politica attuale”. La preoccupazione è assolutamente condivisibile. Nella retorica estremizzata che su paura e rancore cerca e trova crescenti consensi politici, si rischia di mettere in crisi profonda i fondamenti della nostra vita civile.

Le tendenze anti-impresa diffuse nel governo stanno amplificando le difficoltà di un mondo economico da cui dipendono benessere, lavoro, welfare, solidarietà (l’impresa è il principale ascensore sociale attivo nel nostro paese, strumento indispensabile per premiare e fare crescere “i capaci e meritevoli”, come peraltro indica anche la nostra Costituzione). L’attacco da parte di ambienti governativi al mondo non profit, partendo dagli immigrati ed estendendo propagandisticamente il giudizio, aggrava il quadro.

Non si tratta naturalmente di fare un “partito delle ong” (nessuno ne sente il bisogno) né di renderle protagoniste d’uno scontro tra maggioranza e opposizione, tra Salvini-Di Maio e il Pd, ma di evitare appunto gli effetti della strumentalizzazione politica e salvaguardare, con società non profit, ong, strutture del “terzo settore”, un grande patrimonio civile della comunità italiana

A prescindere, infatti, dai singoli casi di cronaca su navi di soccorso, “porti chiusi”, eventuali violazioni di leggi (il cui accertamento spetta alla magistratura) e dalla necessità di regolare, in Italia e in Europa, un fenomeno di grandi dimensioni qual è quello dei flussi migratori, qui vale la pena insistere sui danni che un certo tipo di propaganda politica può fare a tutto il Paese. A danno, soprattutto, di quei ceti deboli che, proprio nelle organizzazioni non profit e nel volontariato sociale, trovano risposte quotidiane ai loro problemi di sostegno, supporto, aiuto di cui abbiamo detto.

La buona politica responsabile ha, naturalmente, bisogno di regole. Ma anche d’intelligenza di distinzioni, tra chi eventualmente viola leggi e chi dedica il suo tempo a soccorrere e assistere anziani, malati, persone sole, comunità segnate da un forte disagio sociale. La crisi di fiducia nelle organizzazioni del volontariato è una grave ferita, nel fragile corpo sociale dell’Italia. Una ferita che questo paese non merita.

La forza dell’Italia sta anche nel suo straordinario capitale sociale positivo, che ha garantito la tenuta del Paese come sistema pure nelle stagioni delle crisi più dure. Un capitale sociale fatto da comunità territoriali coese, imprese intraprendenti e inclusive, organizzazioni di volontariato. Oggi questo capitale sociale rivela preoccupanti segnali di erosione. L’allarme viene da uno dei più acuti e autorevoli osservatori dei fenomeni che segnano la società italiana, Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos Italia: “Crollata la fiducia per le non profit”, scrive sul “Corriere della Sera” (6 luglio), commentando i dati di un sondaggio Ipsos“sulla scelta del ministro Salvini di impedire gli sbarchi sul territorio italiano dei migranti soccorsi in mare dalle navi delle organizzazioni umanitarie”.

Secondo quel sondaggio, il 59% degli italiani sta con Salvini, il 29% è contrario, con ovvie punte di consenso plebiscitario (il 99%) tra gli elettori delle Lega e dei Cinque Stelle (77%) e con un robuste quote di sostegno tra le persone con più di 35 anni, tra i lavoratori autonomi e tra gli operai.

E le “non profit”? La fiducia in queste organizzazioni è crollata dall’80% del 2010 al 39% di oggi. E adesso solo il 22% degli italiani pensa che siano mosse da intenti umanitari, mentre il 56% le giudica ispirate da “scopi economici”. E’ un dato forte, su cui riflettere attentamente.

Pagnoncelli nota come “si sia persa l’aura di bontà di cui godevano” da quando, nel 2017, Luigi Di Maio, leader dei Cinque Stelle, le definì “taxi del mare”. E come il fenomeno si sia aggravato proprio di recente, nel cuore dello scontro caldissimo sull’accoglienza degli immigrati.

Il discredito diffuso, nato dalle polemiche sui migranti (caso Diciotti, Sea Watch, etc.), si estende un po’ a tutto il mondo del “non profit”. E in tempi di comunicazione ansiogena, gridata, caratterizzata dal binomio aggressivo amico-nemico, ne fa le spese tutto quel vasto e straordinario mondo del cosiddetto “terzo settore” (“terzo” tra il settore pubblico e le imprese private profit) che si occupa di temi sociali, assistenza, cooperazione, solidarietà: appunto quel “capitale sociale positivo” di cui dicevamo.

Nota Pagnoncelli: “Il discredito colpisce duramente un intero settore che non comprende solo le Ong (organizzazioni non governative) impegnate nei soccorsi in mare e nell’accoglienza dei migranti, ma rappresenta oltre 340mila realtà che operano nei settori più disparati, dai servizi alla persona (infanzia, anziani, disabili, etc.) alla cultura, dallo sport alla cooperazione internazionale”. Un mondo vario, compresso, benemerito, che conta più di un milione di addetti stabilmente impiegati e 5,5 milioni di volontari, in società, cooperative, associazioni, fondazioni, enti sociali di grande umanità e fondamentale utilità sociale, da Milano alla Brianza operosa, dal Veneto all’Emilia, dalla Campania alla Sicilia, con forte radicamento nel mondo cattolico e con qualificate presenze anche in ambienti laici e di “club service”. Più di un italiano su dieci lavora nel “non profit” o fa volontariato, dicono i dati dell’Istat rielaborati dalla Fondazione Social Venture “Giordano Dell’Amore”.

Insiste ancora Pagnoncelli, preoccupato: “Con la fiducia, stanno diminuendo anche le donazioni destinate al non profit”. E conclude: “E’ solo uno dei tanti effetti collaterali del greve stile comunicativo della stagione politica attuale”. La preoccupazione è assolutamente condivisibile. Nella retorica estremizzata che su paura e rancore cerca e trova crescenti consensi politici, si rischia di mettere in crisi profonda i fondamenti della nostra vita civile.

Le tendenze anti-impresa diffuse nel governo stanno amplificando le difficoltà di un mondo economico da cui dipendono benessere, lavoro, welfare, solidarietà (l’impresa è il principale ascensore sociale attivo nel nostro paese, strumento indispensabile per premiare e fare crescere “i capaci e meritevoli”, come peraltro indica anche la nostra Costituzione). L’attacco da parte di ambienti governativi al mondo non profit, partendo dagli immigrati ed estendendo propagandisticamente il giudizio, aggrava il quadro.

Non si tratta naturalmente di fare un “partito delle ong” (nessuno ne sente il bisogno) né di renderle protagoniste d’uno scontro tra maggioranza e opposizione, tra Salvini-Di Maio e il Pd, ma di evitare appunto gli effetti della strumentalizzazione politica e salvaguardare, con società non profit, ong, strutture del “terzo settore”, un grande patrimonio civile della comunità italiana

A prescindere, infatti, dai singoli casi di cronaca su navi di soccorso, “porti chiusi”, eventuali violazioni di leggi (il cui accertamento spetta alla magistratura) e dalla necessità di regolare, in Italia e in Europa, un fenomeno di grandi dimensioni qual è quello dei flussi migratori, qui vale la pena insistere sui danni che un certo tipo di propaganda politica può fare a tutto il Paese. A danno, soprattutto, di quei ceti deboli che, proprio nelle organizzazioni non profit e nel volontariato sociale, trovano risposte quotidiane ai loro problemi di sostegno, supporto, aiuto di cui abbiamo detto.

La buona politica responsabile ha, naturalmente, bisogno di regole. Ma anche d’intelligenza di distinzioni, tra chi eventualmente viola leggi e chi dedica il suo tempo a soccorrere e assistere anziani, malati, persone sole, comunità segnate da un forte disagio sociale. La crisi di fiducia nelle organizzazioni del volontariato è una grave ferita, nel fragile corpo sociale dell’Italia. Una ferita che questo paese non merita.

La cultura d’impresa italiana nel tempo severo dell’oggi

L’indagine periodica della banca d’Italia fornisce il quadro esatto della situazione dell’industria del Paese

Tempi severi per le imprese. Tempi nei quali occorre anche avere informazioni corrette sul contesto in cui le aziende agiscono. E una consapevole cultura del produrre, che anche dall’informazione corretta può trarre linfa vitale. E’ quanto è possibile acquisire leggendo la “Indagine sulle imprese industriali e dei servizi” appena resa nota da Banca d’Italia e che costituisce un documento unico e affidabile per capire come si è comportato il settore delle imprese industriali e dei servizi nel 2018, oltre che quali siano le prospettive per il 2019.

Secondo l’indagine condotta dalla Banca d’Italia dunque, nel 2018 le vendite delle imprese industriali e dei servizi privati non finanziari con almeno 20 addetti hanno sensibilmente rallentato. Colpa dell’indebolimento della domanda interna e dell’inatteso progressivo deterioramento del ciclo internazionale. Intanto, è diminuita la quota delle imprese che hanno ridotto i prezzi ed è salita quella di chi li ha aumentati. Ciò che più conta, poi, sono le previsioni di oggi per il domani. Nelle attese delle imprese – spiega Banca d’Italia -, sia il ritmo di crescita delle vendite sia quello dei prezzi restano deboli anche nel 2019. Eppure, la domanda di lavoro è ancora cresciuta nel complesso dell’anno; così come pare cresciuta, nel 2018, la spesa per investimenti. S’è mossa, sembra, anche l’edilizia.

Detto questo, nonostante la congiuntura non certo favorevole, il sistema delle imprese industriali e dei servizi in Italia non demorde e cerca vie di sviluppo. La crescita degli investimenti – soprattutto nelle medie aziende -, indica la volontà di guardare avanti, l’esistenza di una cultura d’impresa che si preoccupa del futuro in senso costruttivo. L’attenzione alle nuove tecnologie, anche. Pur con tutte le difficoltà del caso. E’ il movimento lungo della buona imprenditoria che trapela dalle rilevazioni di Banca d’Italia che, proprio circa le nuove tecnologie, sottolinea: “E’ cresciuta la percentuale di imprese che ha dichiarato di aver investito in tecnologie avanzate nel 2018 (…); la quota della spesa riconducibile a questa categoria è però rimasta inferiore al 5% per metà di esse”. E poi: “Nel complesso, si può stimare che l’adozione di tecnologie digitali avanzate rappresenti circa il 15% della spesa complessiva per investimenti registrata dall’indagine”. Strada lunga e in salita, quindi, per quella cultura dell’organizzazione produttiva che punta all’innovazione. Eppure l’unica strada possibile.

In termini generali, al di là dei numeri di dettaglio, il documento di Banca d’Italia è poi per tutti da leggere.

Indagine sulle imprese industriali e dei servizi 2018

AA.VV.

Banca d’Italia, 2019

Clicca qui per scaricare il PDF

L’indagine periodica della banca d’Italia fornisce il quadro esatto della situazione dell’industria del Paese

Tempi severi per le imprese. Tempi nei quali occorre anche avere informazioni corrette sul contesto in cui le aziende agiscono. E una consapevole cultura del produrre, che anche dall’informazione corretta può trarre linfa vitale. E’ quanto è possibile acquisire leggendo la “Indagine sulle imprese industriali e dei servizi” appena resa nota da Banca d’Italia e che costituisce un documento unico e affidabile per capire come si è comportato il settore delle imprese industriali e dei servizi nel 2018, oltre che quali siano le prospettive per il 2019.

Secondo l’indagine condotta dalla Banca d’Italia dunque, nel 2018 le vendite delle imprese industriali e dei servizi privati non finanziari con almeno 20 addetti hanno sensibilmente rallentato. Colpa dell’indebolimento della domanda interna e dell’inatteso progressivo deterioramento del ciclo internazionale. Intanto, è diminuita la quota delle imprese che hanno ridotto i prezzi ed è salita quella di chi li ha aumentati. Ciò che più conta, poi, sono le previsioni di oggi per il domani. Nelle attese delle imprese – spiega Banca d’Italia -, sia il ritmo di crescita delle vendite sia quello dei prezzi restano deboli anche nel 2019. Eppure, la domanda di lavoro è ancora cresciuta nel complesso dell’anno; così come pare cresciuta, nel 2018, la spesa per investimenti. S’è mossa, sembra, anche l’edilizia.

Detto questo, nonostante la congiuntura non certo favorevole, il sistema delle imprese industriali e dei servizi in Italia non demorde e cerca vie di sviluppo. La crescita degli investimenti – soprattutto nelle medie aziende -, indica la volontà di guardare avanti, l’esistenza di una cultura d’impresa che si preoccupa del futuro in senso costruttivo. L’attenzione alle nuove tecnologie, anche. Pur con tutte le difficoltà del caso. E’ il movimento lungo della buona imprenditoria che trapela dalle rilevazioni di Banca d’Italia che, proprio circa le nuove tecnologie, sottolinea: “E’ cresciuta la percentuale di imprese che ha dichiarato di aver investito in tecnologie avanzate nel 2018 (…); la quota della spesa riconducibile a questa categoria è però rimasta inferiore al 5% per metà di esse”. E poi: “Nel complesso, si può stimare che l’adozione di tecnologie digitali avanzate rappresenti circa il 15% della spesa complessiva per investimenti registrata dall’indagine”. Strada lunga e in salita, quindi, per quella cultura dell’organizzazione produttiva che punta all’innovazione. Eppure l’unica strada possibile.

In termini generali, al di là dei numeri di dettaglio, il documento di Banca d’Italia è poi per tutti da leggere.

Indagine sulle imprese industriali e dei servizi 2018

AA.VV.

Banca d’Italia, 2019

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L’economia di tutti

Sintetizzati in un libro scritto a più mani i tratti di un nuovo approccio alla produzione e al profitto

Il sistema sociale come un tutt’uno, fatto di donne e uomini e di macchine, organizzazioni della produzione e per il welfare, di aspirazioni per il futuro e problemi dell’oggi da risolvere. Un sistema nel quale le imprese e chi ci vive e lavora, hanno un ruolo fondamentale ma non assoluto; e nel quale profitto e benessere vanno di pari passo, con tutti i vincoli del caso.

Traguardo non utopistico eppure difficile da raggiungere, quello di una società che sia al contempo efficace ed efficiente e per tutti davvero, è  quanto descritto da “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana”, scritto da un gruppo di osservatori della realtà (economisti, sociologici e altro ancora), che si sono posti l’obiettivo di delineare – partendo dall’analisi del presente -, un futuro possibile.

Nucleo del ragionamento è l’idea stessa di economia fondamentale indicata come la base materiale del benessere e della coesione sociale. E cioè quello che ogni giorno dovremmo poter dare per scontato: acqua potabile sicura, energia elettrica non razionata, servizi sanitari evoluti e accessibili, istruzione avanzata gratuita, infrastrutture e trasporti pubblici efficienti, servizi di cura per bambini e anziani, mercati alimentari orientati al benessere dei consumatori e dei produttori di cibo. “Cose normali”, detto in altri termini, che, tuttavia, spesso non sono tali.

Il libro quindi inizia dall’analisi della condizione dell’oggi e dalla constatazione che  da molti anni i Paesi europei seguono una strada diversa: l’economia fondamentale è messa al servizio del business, esasperando competitività e orientamento al profitto. Il prezzo che paghiamo è l’inasprimento delle disuguaglianze, la dissoluzione dei legami sociali, la deriva populista e nazionalista.

Da tutto questo, l’esigenza di riprendere le fila di quelle “cose normali” che costituiscono appunto l’economia fondamentale. Compito non semplice e non facile, che richiede quello che gli autori indicano come un “un enorme sforzo di immaginazione istituzionale”.

Il libro ha una struttura semplice ed efficace. Prima viene descritta l’economia fondamentale così come si è evoluto e così come dovrebbe essere, poi ne vengono raccontati la sua “distruzione” e i tratti essenziali di un percorso di ricostituzione e rinnovo. Tutto si chiude con l’indicazione di quattro presupposti: il maggiore coinvolgimento dei cittadini, il  rafforzamento del legame fra società e imprese, la reinvenzione del sistema della tassazione, la creazione di “alleanze ibride” attraverso la creazione di istituzioni intermedia in grado di interpretare meglio le esigenze dei cittadini.

“Economia fondamentale” delinea probabilmente i tratti di qualcosa che è (forse) in gran parte utopistico, ma tocca anche aspetti sui quali occorre ragionare con attenzione e nei quali le imprese (e chi le governa) hanno certamente un ruolo. Un libro da leggere con attenzione (e non solo per ritrovarsi su posizione opposte), che può alimentare anche la crescita della buona cultura d’impresa.

Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana

Collettivo per l’economia fondamentale

Einaudi, 2019

Sintetizzati in un libro scritto a più mani i tratti di un nuovo approccio alla produzione e al profitto

Il sistema sociale come un tutt’uno, fatto di donne e uomini e di macchine, organizzazioni della produzione e per il welfare, di aspirazioni per il futuro e problemi dell’oggi da risolvere. Un sistema nel quale le imprese e chi ci vive e lavora, hanno un ruolo fondamentale ma non assoluto; e nel quale profitto e benessere vanno di pari passo, con tutti i vincoli del caso.

Traguardo non utopistico eppure difficile da raggiungere, quello di una società che sia al contempo efficace ed efficiente e per tutti davvero, è  quanto descritto da “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana”, scritto da un gruppo di osservatori della realtà (economisti, sociologici e altro ancora), che si sono posti l’obiettivo di delineare – partendo dall’analisi del presente -, un futuro possibile.

Nucleo del ragionamento è l’idea stessa di economia fondamentale indicata come la base materiale del benessere e della coesione sociale. E cioè quello che ogni giorno dovremmo poter dare per scontato: acqua potabile sicura, energia elettrica non razionata, servizi sanitari evoluti e accessibili, istruzione avanzata gratuita, infrastrutture e trasporti pubblici efficienti, servizi di cura per bambini e anziani, mercati alimentari orientati al benessere dei consumatori e dei produttori di cibo. “Cose normali”, detto in altri termini, che, tuttavia, spesso non sono tali.

Il libro quindi inizia dall’analisi della condizione dell’oggi e dalla constatazione che  da molti anni i Paesi europei seguono una strada diversa: l’economia fondamentale è messa al servizio del business, esasperando competitività e orientamento al profitto. Il prezzo che paghiamo è l’inasprimento delle disuguaglianze, la dissoluzione dei legami sociali, la deriva populista e nazionalista.

Da tutto questo, l’esigenza di riprendere le fila di quelle “cose normali” che costituiscono appunto l’economia fondamentale. Compito non semplice e non facile, che richiede quello che gli autori indicano come un “un enorme sforzo di immaginazione istituzionale”.

Il libro ha una struttura semplice ed efficace. Prima viene descritta l’economia fondamentale così come si è evoluto e così come dovrebbe essere, poi ne vengono raccontati la sua “distruzione” e i tratti essenziali di un percorso di ricostituzione e rinnovo. Tutto si chiude con l’indicazione di quattro presupposti: il maggiore coinvolgimento dei cittadini, il  rafforzamento del legame fra società e imprese, la reinvenzione del sistema della tassazione, la creazione di “alleanze ibride” attraverso la creazione di istituzioni intermedia in grado di interpretare meglio le esigenze dei cittadini.

“Economia fondamentale” delinea probabilmente i tratti di qualcosa che è (forse) in gran parte utopistico, ma tocca anche aspetti sui quali occorre ragionare con attenzione e nei quali le imprese (e chi le governa) hanno certamente un ruolo. Un libro da leggere con attenzione (e non solo per ritrovarsi su posizione opposte), che può alimentare anche la crescita della buona cultura d’impresa.

Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana

Collettivo per l’economia fondamentale

Einaudi, 2019

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?