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Sostenibilità e valori d’impresa: una scelta per la competitività dell’industria italiana

Dieci grandi organizzazioni d’impresa, da Confindustria a Confcommercio, dalle Associazioni delle copoperative a quelle dell’agricoltura e dell’artigianato, dalla Febaf (società finanziarie) all’Unioncamere hanno firmato alla fine di maggio un documento con un titolo impegnativo: “Acceleriamo la transizione alla sostenibilità”. E l’hanno mandato al governo, con un appello per rimuovere gli ostacoli normativi, burocratici e culturali verso una maggiore diffusione dei valori legati ai Sustainable Development Goals dell’Onu. Difficile che l’attuale governo sia in grado di tenerne concretamente conto, essendo in tutt’altre conflittuali faccende indaffarato. Ma restano comunque forti il senso e il valore di un’iniziativa che conferma quanto il mondo produttivo italiano sia in prima linea sul versante della green economy.

L’appello è stato presentato, nei giorni scorsi, in Assolombarda, durante l’appuntamento milanese del “Festival dello sviluppo sostenibile” dell’Asvis (l’Associazione per la sostenibilità guidata da Enrico Giovannini”, con un dibattito tra imprenditori, economisti e opinion leader su “Le imprese e la finanza per lo sviluppo sostenibile: opportunità da cogliere e ostacoli da rimuovere”. E su un punto il consenso è stato unanime: la sostenibilità, ambientale e sociale, va considerata come un cardine della competitività delle nostre imprese più attive sui mercati internazionali.

La posizione di Assolombarda è chiara da tempo ed è stata ribadita proprio durante il convegno Asvis:  “Se la sostenibilità è una scelta di comunicazione di breve periodo non ha un grande futuro”. La scelta invece è “strategica”, di lungo periodo, “una scelta di economia civile, di economia circolare, un’assunzione di responsabilità sociale, nei confronti sia dei territori su cui crescono le imprese sia di tutti gli stakeholders”. Ma anche, contemporaneamente un’indicazione che ha a che fare con la competitività. Per reggere sui mercati nell’alta gamma dei prodotti e dei servizi, infatti, è necessario avere un grande rispetto per l’ambiente, le persone, i diritti, l’inclusione sociale, la qualità e la sicurezza: tutti elementi che consentono di affrontare la concorrenza e legittimano e fanno crescere le imprese. “La sostenibilità – per dirla con Assolombarda – sta dentro il nostro modo di fare impresa”.

Ci sono settori particolarmente avanzati, nella sintesi tra green economy e valori sociali, proprio quelli che hanno un rapporto più diretto con il territorio e con le persone e sono più impegnati sul fronte della competizione globale di qualità: l’automotive, la chimica, la farmaceutica, la gomma, la meccanica e la meccatronica, oltre che le tradizionali punte d’eccellenza del made in Italy, arredamento, agroindustria e abbigliamento: tutti quei settori, cioè, in cui la ricerca, la spinta d’innovazione e la qualità di prodotti e servizi sono più avanzati.

Di fronte alle grandi trasformazioni tecnologiche in corso anche l’economia digitale aiuti i processi economici sul versante della qualità, anche se si pongono nuovi e difficili problemi di sostenibilità per quel che riguarda il mercato del lavoro. Ci sono mestieri e professioni che cambiano profondamente, lavori che scompaiono, lavori che si creano. Equilibri economici e sociali sottoposti a fortissimi stress. Disagi che maturano. Nuove speranze che crescono. Tutto un mondo in movimento.

Proprio pensando ai temi della sostenibilità e agli SDG (appunto i Sustainable Development Goals) in Assolombarda si sostiene che la responsabilità delle imprese è quella di investire molto sull’innovazione e sollecitare investimenti pubblici su formazione, ricerca, nuovi ammortizzatori sociali legati anche alla riqualificazione professionale: bisogna costruire le competenze e farle evolvere man mano che l’economia digitale modifica i rapporti di produzione e ne crea di nuovi.

Innovazione, sostenibilità e competitività, appunto: “Fare impresa con attenzione verso l’ambiente non è buonismo, ma è una scelta necessaria, che crea valore ed è fondamentale, per il nostro futuro: un obiettivo economico e sociale da continuare a perseguire”, conferma Sergio Dompè, presidente dell’omonimo gruppo farmaceutico e vicepresidente di Assolombarda, durante un recente convegno di Sodalitas.

Ci sono buoni esempi, che vengono, su tutti questi versanti, proprio dalle imprese più innovative. Le testimonianze, al convegno milanese dell’Asvis, di Pirelli, Enel, Unipol, Lega delle Cooperative, Cassa Depositi e Prestiti, Invitalia, etc. Ne sono state conferma.

“Per noi la sostenibilità significa attenzione per le persone e per il territorio”, sostiene Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli. Un impegno che non riguarda solo l’ecologia, ma anche l’aiuto per le comunità a crescere in modo equilibrato”: le comunità interne alla fabbrica, lavorando sui temi della sicurezza e della qualità dell’ambiente di lavoro; e le comunità esterne alle fabbriche, investendo insieme a loro per ospedali o centri di assistenza, scuole, centri sportivi. Sostiene Tronchetti: “Non ci può essere crescita sostenibile nel tempo se la società intorno all’impresa non cresce”.

Ci sono, naturalmente, ostacoli da superare: “Le tante normative differenziate, che dovrebbero essere tutte armonizzate”, a livello sia nazionale che della Ue, dando vita contemporaneamente a una nuova e migliore regolamentazione che permetta al sistema delle imprese di avere i tempi per potersi aggiornare” e reggere le sfide della competitività e dell’innovazione”. Insiste Tronchetti: “Per il futuro d’una impresa la sostenibilità è fondamentale. E noi ne siamo leader, in tutti gli indici internazionali del nostro settore”.

Dieci grandi organizzazioni d’impresa, da Confindustria a Confcommercio, dalle Associazioni delle copoperative a quelle dell’agricoltura e dell’artigianato, dalla Febaf (società finanziarie) all’Unioncamere hanno firmato alla fine di maggio un documento con un titolo impegnativo: “Acceleriamo la transizione alla sostenibilità”. E l’hanno mandato al governo, con un appello per rimuovere gli ostacoli normativi, burocratici e culturali verso una maggiore diffusione dei valori legati ai Sustainable Development Goals dell’Onu. Difficile che l’attuale governo sia in grado di tenerne concretamente conto, essendo in tutt’altre conflittuali faccende indaffarato. Ma restano comunque forti il senso e il valore di un’iniziativa che conferma quanto il mondo produttivo italiano sia in prima linea sul versante della green economy.

L’appello è stato presentato, nei giorni scorsi, in Assolombarda, durante l’appuntamento milanese del “Festival dello sviluppo sostenibile” dell’Asvis (l’Associazione per la sostenibilità guidata da Enrico Giovannini”, con un dibattito tra imprenditori, economisti e opinion leader su “Le imprese e la finanza per lo sviluppo sostenibile: opportunità da cogliere e ostacoli da rimuovere”. E su un punto il consenso è stato unanime: la sostenibilità, ambientale e sociale, va considerata come un cardine della competitività delle nostre imprese più attive sui mercati internazionali.

La posizione di Assolombarda è chiara da tempo ed è stata ribadita proprio durante il convegno Asvis:  “Se la sostenibilità è una scelta di comunicazione di breve periodo non ha un grande futuro”. La scelta invece è “strategica”, di lungo periodo, “una scelta di economia civile, di economia circolare, un’assunzione di responsabilità sociale, nei confronti sia dei territori su cui crescono le imprese sia di tutti gli stakeholders”. Ma anche, contemporaneamente un’indicazione che ha a che fare con la competitività. Per reggere sui mercati nell’alta gamma dei prodotti e dei servizi, infatti, è necessario avere un grande rispetto per l’ambiente, le persone, i diritti, l’inclusione sociale, la qualità e la sicurezza: tutti elementi che consentono di affrontare la concorrenza e legittimano e fanno crescere le imprese. “La sostenibilità – per dirla con Assolombarda – sta dentro il nostro modo di fare impresa”.

Ci sono settori particolarmente avanzati, nella sintesi tra green economy e valori sociali, proprio quelli che hanno un rapporto più diretto con il territorio e con le persone e sono più impegnati sul fronte della competizione globale di qualità: l’automotive, la chimica, la farmaceutica, la gomma, la meccanica e la meccatronica, oltre che le tradizionali punte d’eccellenza del made in Italy, arredamento, agroindustria e abbigliamento: tutti quei settori, cioè, in cui la ricerca, la spinta d’innovazione e la qualità di prodotti e servizi sono più avanzati.

Di fronte alle grandi trasformazioni tecnologiche in corso anche l’economia digitale aiuti i processi economici sul versante della qualità, anche se si pongono nuovi e difficili problemi di sostenibilità per quel che riguarda il mercato del lavoro. Ci sono mestieri e professioni che cambiano profondamente, lavori che scompaiono, lavori che si creano. Equilibri economici e sociali sottoposti a fortissimi stress. Disagi che maturano. Nuove speranze che crescono. Tutto un mondo in movimento.

Proprio pensando ai temi della sostenibilità e agli SDG (appunto i Sustainable Development Goals) in Assolombarda si sostiene che la responsabilità delle imprese è quella di investire molto sull’innovazione e sollecitare investimenti pubblici su formazione, ricerca, nuovi ammortizzatori sociali legati anche alla riqualificazione professionale: bisogna costruire le competenze e farle evolvere man mano che l’economia digitale modifica i rapporti di produzione e ne crea di nuovi.

Innovazione, sostenibilità e competitività, appunto: “Fare impresa con attenzione verso l’ambiente non è buonismo, ma è una scelta necessaria, che crea valore ed è fondamentale, per il nostro futuro: un obiettivo economico e sociale da continuare a perseguire”, conferma Sergio Dompè, presidente dell’omonimo gruppo farmaceutico e vicepresidente di Assolombarda, durante un recente convegno di Sodalitas.

Ci sono buoni esempi, che vengono, su tutti questi versanti, proprio dalle imprese più innovative. Le testimonianze, al convegno milanese dell’Asvis, di Pirelli, Enel, Unipol, Lega delle Cooperative, Cassa Depositi e Prestiti, Invitalia, etc. Ne sono state conferma.

“Per noi la sostenibilità significa attenzione per le persone e per il territorio”, sostiene Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli. Un impegno che non riguarda solo l’ecologia, ma anche l’aiuto per le comunità a crescere in modo equilibrato”: le comunità interne alla fabbrica, lavorando sui temi della sicurezza e della qualità dell’ambiente di lavoro; e le comunità esterne alle fabbriche, investendo insieme a loro per ospedali o centri di assistenza, scuole, centri sportivi. Sostiene Tronchetti: “Non ci può essere crescita sostenibile nel tempo se la società intorno all’impresa non cresce”.

Ci sono, naturalmente, ostacoli da superare: “Le tante normative differenziate, che dovrebbero essere tutte armonizzate”, a livello sia nazionale che della Ue, dando vita contemporaneamente a una nuova e migliore regolamentazione che permetta al sistema delle imprese di avere i tempi per potersi aggiornare” e reggere le sfide della competitività e dell’innovazione”. Insiste Tronchetti: “Per il futuro d’una impresa la sostenibilità è fondamentale. E noi ne siamo leader, in tutti gli indici internazionali del nostro settore”.

Ornella canta per Tronchetti – L’Umanesimo di Pirelli

Le intelligenze creative della Rivista Pirelli

Le imprese: investire di più in innovazione e infrastrutture per poter reggere meglio la competizione internazionale

“Occorre investire di più”, dicono le imprese italiane, brave a reggere la competizione internazionale ma in affanno tutte le volte in cui la loro crescita è frenata dalle carenze delle infrastrutture, dalla burocrazia pesante, dalla giustizia lenta, dalla scarso impegno dello Stato su ricerca, formazione, innovazione, trasferimento tecnologico. Investire di più da parte della mano pubblica. E naturalmente mettere le imprese in condizione di continuare a lavorare e a incrementare i loro investimenti: stimoli fiscali e soprattutto ricostruzione delle fiducia.

Sono queste le opinioni che si ascoltano da Milano a Torino, dal Veneto all’Emilia, nei territori in cui i protagonisti più dinamici della nostra manifattura hanno finora fatto di tutto per superare la stagione della Grande Crisi e costruire nuove e migliori ragioni di competitività. Le loro voci sono state raccolte dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, quando all’Assemblea generale dell’organizzazione, il 22 maggio, ha parlato di “tre Sì: alla Tav, alle infrastrutture e alla crescita” e ha insistito sull’”urgenza di riaprire i cantieri e avviare una grande stagione di investimenti pubblici”. Ad ascoltare, oltre al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (accolto da applausi lunghi, insistenti, molto convinti), c’erano anche il premier Giuseppe Conte e il ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, entrambi però incapaci di articolare un discorso non banale sulla politica economica e industriale che il governo dovrebbe pensare e tradurre in scelte (gli applausi per loro sono stati brevi, gelidi, a stento di cortesia).

Queste opinioni del “partito del Pil” (le imprese che producono ricchezza, benessere, lavoro e inclusione sociale, essenziale in un’Italia malgovernata e agitata da rancori e paure, alimentate da irresponsabili populisti) tornano di strettissima attualità proprio adesso che i risultati delle elezioni europee dicono che l’Europa, ben oltre gli egoismi nazionali, va rilanciata e resa più equilibrata e attenta sia allo sviluppo che a una migliore coesione sociale.

“Trasformare il Patto di Stabilità e Crescita in Patto di Crescita e Stabilità”, chiede Confindustria, consapevole che “solo attraverso la crescita è possibile garantire stabilità”, sollecitando dunque “un’Europa più coesa e forte”, tutto il contrario, cioè, del protezionismo nazionalistico e impaurito dei sovranisti. “L’Europa rimane la solida base su cui costruire il futuro”, chiarisce Confindustria, peraltro in piena concordanza con le altre grandi organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania (dove oltre 100mila grandi e medie imprese e un milione di Pmi, con 15 milioni di dipendenti in totale hanno espresso con nettezza il proprio sostegno al rilancio e al miglioramento dell’Unione Europea).

Senza un’Europa più forte non c’è sviluppo, dicono giustamente le imprese, preoccupate d’essere stritolate dalle conseguenze delle guerre commerciali tra Usa e Cina e dalle tensioni geopolitiche (in cui la Russia di Putin gioca un ruolo pericoloso, squilibrante e denso di incognite).

Questo ragionamento vale a maggior ragione in un’Italia in cui la crescita economica si rivela ancora una volta fragile, precaria, effimera e l’attuale governo, oltre che appesantire la spesa pubblica corrente e aggravare deficit e debito pubblico, ben poco ha fatto per cercare di portare il Paese fuori dalla stagnazione (“Questo governo fa retrocedere le imprese in serie B”, denuncia Michelangelo Agrusti, presidente di Unindustria di Pordenone, territorio di manifattura dinamica e servizi d’avanguardia, con il 60% di produzioni destinate all’export).

Il premier Conte si dice “ferocemente convinto” che il peggio sia passato e che l’Italia sia tornata a crescere dopo il semestre di recessione. I dati non confermano un avviso così spericolato. Perché l’Istat prevede che la crescita del 2019 sia dello 0,3% appena, dunque sostanzialmente piatta. E gran parte dei principali centri studi (Prometeia, Ref, Intesa San Paolo e Confindustria) temono che “il quadro congiunturale stia peggiorando” e stimano con preoccupazione l’andamento tra fermo e negativo di investimenti, produzione industriale, consumi e dunque occupazione: “Export e investimenti gelano il Pil”, titola “Il Sole24Ore” (25 maggio) parlando di “consumi deboli e domanda estera in calo” e prevedendo una “crescita negativa nel secondo semestre”, anche a causa della “incertezza internazionale: non solo l’Eurozona rallenta, ma anche in Usa e nei paesi asiatici il quadro si sta deteriorando”.

Andando a guardare più in profondità i dati sulla situazione economica italiana, secondo il Rapporto “Analisi dei settori industriali” curato da Prometeia e Intesa San Paolo, rielaborato da Assolombarda, si nota che “l’industria italiana ha fatturato stabile nel 2018”, con una “lenta crescita” prevista nel 2020-2023. E gli investimenti “sono in contrazione”, perché “pesa l’incertezza internazionale e nazionale”. Ecco un punto chiave: “Negli ultimi 10 anni l’Italia ha maturato un gap di investimenti del 35% da colmare rispetto alla Germania” e dunque la timida ripresa degli investimenti stessi, stimata nel 2020 tra l’1,1% per macchinari e attrezzature, il 2,5% nei mezzi di trasporto e l’1,8% nelle costruzioni è del tutto insufficiente per cercare di reggere il passo con i nostri competitor: “Questa ripresa degli investimenti è ancora troppo debole”.

C’è un altro punto su cui riflettere: nel corso della Grande Crisi le nostre imprese sono cresciute, sono più “resilienti” rispetto a dieci anni fa e hanno “spalle più ampie” rispetto al 2008, sono più forti o dal punto di vista della redditività e dell’equilibrio patrimoniale, ma non investono appunto per il clima di incertezza prevalente. Non hanno fiducia. E ha dunque ragione il presidente di Confindustria Boccia, ben consapevole del clima diffuso tra i suoi associati, quando denuncia: “Le parole che producono sfiducia sono contro l’interesse nazionale”.

Si va, insomma, verso un periodo ancora difficile, tra una confusa primavera e le preoccupazioni d’un autunno in cui bisognerà fare una legge finanziaria da almeno 30 miliardi di interventi, tra tagli e tasse (con l’incubo delle clausole di salvaguardia che farebbero crescere il peso dell’Iva, con conseguenze quanto mai negative sul commercio, i consumi, il lavoro).

Anche per questo serve un rilancio dell’Europa. Senza regole, investimenti, progetti di sviluppo ambiziosi per un nuovo grande piano di interventi per le infrastrutture materiali e immateriali, digitali (quello che le imprese chiamano “un nuovo Piano Delors: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), anche l’Italia soffrirà moltissimo. E la nostra crescita resterà rachitica, incapace cioè di dare risposte alle necessità di larghi settori dell’opinione pubblica italiana in termini di benessere, lavoro, sicurezza, prospettive d’un migliore futuro.

“Occorre investire di più”, dicono le imprese italiane, brave a reggere la competizione internazionale ma in affanno tutte le volte in cui la loro crescita è frenata dalle carenze delle infrastrutture, dalla burocrazia pesante, dalla giustizia lenta, dalla scarso impegno dello Stato su ricerca, formazione, innovazione, trasferimento tecnologico. Investire di più da parte della mano pubblica. E naturalmente mettere le imprese in condizione di continuare a lavorare e a incrementare i loro investimenti: stimoli fiscali e soprattutto ricostruzione delle fiducia.

Sono queste le opinioni che si ascoltano da Milano a Torino, dal Veneto all’Emilia, nei territori in cui i protagonisti più dinamici della nostra manifattura hanno finora fatto di tutto per superare la stagione della Grande Crisi e costruire nuove e migliori ragioni di competitività. Le loro voci sono state raccolte dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, quando all’Assemblea generale dell’organizzazione, il 22 maggio, ha parlato di “tre Sì: alla Tav, alle infrastrutture e alla crescita” e ha insistito sull’”urgenza di riaprire i cantieri e avviare una grande stagione di investimenti pubblici”. Ad ascoltare, oltre al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (accolto da applausi lunghi, insistenti, molto convinti), c’erano anche il premier Giuseppe Conte e il ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, entrambi però incapaci di articolare un discorso non banale sulla politica economica e industriale che il governo dovrebbe pensare e tradurre in scelte (gli applausi per loro sono stati brevi, gelidi, a stento di cortesia).

Queste opinioni del “partito del Pil” (le imprese che producono ricchezza, benessere, lavoro e inclusione sociale, essenziale in un’Italia malgovernata e agitata da rancori e paure, alimentate da irresponsabili populisti) tornano di strettissima attualità proprio adesso che i risultati delle elezioni europee dicono che l’Europa, ben oltre gli egoismi nazionali, va rilanciata e resa più equilibrata e attenta sia allo sviluppo che a una migliore coesione sociale.

“Trasformare il Patto di Stabilità e Crescita in Patto di Crescita e Stabilità”, chiede Confindustria, consapevole che “solo attraverso la crescita è possibile garantire stabilità”, sollecitando dunque “un’Europa più coesa e forte”, tutto il contrario, cioè, del protezionismo nazionalistico e impaurito dei sovranisti. “L’Europa rimane la solida base su cui costruire il futuro”, chiarisce Confindustria, peraltro in piena concordanza con le altre grandi organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania (dove oltre 100mila grandi e medie imprese e un milione di Pmi, con 15 milioni di dipendenti in totale hanno espresso con nettezza il proprio sostegno al rilancio e al miglioramento dell’Unione Europea).

Senza un’Europa più forte non c’è sviluppo, dicono giustamente le imprese, preoccupate d’essere stritolate dalle conseguenze delle guerre commerciali tra Usa e Cina e dalle tensioni geopolitiche (in cui la Russia di Putin gioca un ruolo pericoloso, squilibrante e denso di incognite).

Questo ragionamento vale a maggior ragione in un’Italia in cui la crescita economica si rivela ancora una volta fragile, precaria, effimera e l’attuale governo, oltre che appesantire la spesa pubblica corrente e aggravare deficit e debito pubblico, ben poco ha fatto per cercare di portare il Paese fuori dalla stagnazione (“Questo governo fa retrocedere le imprese in serie B”, denuncia Michelangelo Agrusti, presidente di Unindustria di Pordenone, territorio di manifattura dinamica e servizi d’avanguardia, con il 60% di produzioni destinate all’export).

Il premier Conte si dice “ferocemente convinto” che il peggio sia passato e che l’Italia sia tornata a crescere dopo il semestre di recessione. I dati non confermano un avviso così spericolato. Perché l’Istat prevede che la crescita del 2019 sia dello 0,3% appena, dunque sostanzialmente piatta. E gran parte dei principali centri studi (Prometeia, Ref, Intesa San Paolo e Confindustria) temono che “il quadro congiunturale stia peggiorando” e stimano con preoccupazione l’andamento tra fermo e negativo di investimenti, produzione industriale, consumi e dunque occupazione: “Export e investimenti gelano il Pil”, titola “Il Sole24Ore” (25 maggio) parlando di “consumi deboli e domanda estera in calo” e prevedendo una “crescita negativa nel secondo semestre”, anche a causa della “incertezza internazionale: non solo l’Eurozona rallenta, ma anche in Usa e nei paesi asiatici il quadro si sta deteriorando”.

Andando a guardare più in profondità i dati sulla situazione economica italiana, secondo il Rapporto “Analisi dei settori industriali” curato da Prometeia e Intesa San Paolo, rielaborato da Assolombarda, si nota che “l’industria italiana ha fatturato stabile nel 2018”, con una “lenta crescita” prevista nel 2020-2023. E gli investimenti “sono in contrazione”, perché “pesa l’incertezza internazionale e nazionale”. Ecco un punto chiave: “Negli ultimi 10 anni l’Italia ha maturato un gap di investimenti del 35% da colmare rispetto alla Germania” e dunque la timida ripresa degli investimenti stessi, stimata nel 2020 tra l’1,1% per macchinari e attrezzature, il 2,5% nei mezzi di trasporto e l’1,8% nelle costruzioni è del tutto insufficiente per cercare di reggere il passo con i nostri competitor: “Questa ripresa degli investimenti è ancora troppo debole”.

C’è un altro punto su cui riflettere: nel corso della Grande Crisi le nostre imprese sono cresciute, sono più “resilienti” rispetto a dieci anni fa e hanno “spalle più ampie” rispetto al 2008, sono più forti o dal punto di vista della redditività e dell’equilibrio patrimoniale, ma non investono appunto per il clima di incertezza prevalente. Non hanno fiducia. E ha dunque ragione il presidente di Confindustria Boccia, ben consapevole del clima diffuso tra i suoi associati, quando denuncia: “Le parole che producono sfiducia sono contro l’interesse nazionale”.

Si va, insomma, verso un periodo ancora difficile, tra una confusa primavera e le preoccupazioni d’un autunno in cui bisognerà fare una legge finanziaria da almeno 30 miliardi di interventi, tra tagli e tasse (con l’incubo delle clausole di salvaguardia che farebbero crescere il peso dell’Iva, con conseguenze quanto mai negative sul commercio, i consumi, il lavoro).

Anche per questo serve un rilancio dell’Europa. Senza regole, investimenti, progetti di sviluppo ambiziosi per un nuovo grande piano di interventi per le infrastrutture materiali e immateriali, digitali (quello che le imprese chiamano “un nuovo Piano Delors: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), anche l’Italia soffrirà moltissimo. E la nostra crescita resterà rachitica, incapace cioè di dare risposte alle necessità di larghi settori dell’opinione pubblica italiana in termini di benessere, lavoro, sicurezza, prospettive d’un migliore futuro.

I risvolti sociali d’impresa e occhio giuridico

Regole, leggi e vincoli per un’attività in continuo movimento

Non è da tempi recenti che l’impresa avveduta pone attenzione ai risvolti sociali della propria attività. Pur se posta sotto i riflettori della buona gestione solo negli ultimi anni, quella che si chiama Responsabilità Sociale d’Impresa è, di fatto, conosciuta da tempo (magari sotto altri nomi), da una parte significativa del sistema industriale italiano e non solo. Vittorio Traversa, con la sua tesi “I ‘fini sociali’ dell’impresa. Dall’impresa sociale alla società benefit” discussa all’Università di Torino, ha provato a mettere in ordine cronologico proprio il tema degli effetti sociali dell’attività d’impresa partendo da una constatazione: quello che viene indicato come business sociale “talvolta rischia di assumere un significato generico e atecnico ed è pertanto utile operare alcune precisazioni”.

Traversa inizia analizzando l’esempio di “impresa sociale” fornito dal microcredito per passare poi ad approfondire il più vasto tema della definizione stessa di “impresa sociale” e poi quello del nuovo assetto della cosiddetta “società benefit” per tornare ad approfondire gli aspetti della responsabilità sociale d’impresa. Chiudono il lavoro due capitoli sugli aspetti finanziari e di bilancio delle imprese con finalità sociali.

Nell’affrontare il tema, Traversa usa gli schemi interpretativi giuridici, ma il suo ragionamento è valido anche in termini generali. Da tutto il lavoro, si comprende come la cultura dell’impresa con fini sociali sia andata più avanti delle regole di legge e di bilancio che sono state costruite attorno ad essa, creando anche una situazione di rischio per le stesse attività che dovrebbero regolare e incentivare. “Per quanto riguarda la normativa sull’impresa sociale – viene spiegato -, possiamo affermare che questa non risulti del tutto soddisfacente. (…) l’assenza di benefici fiscali specifici, almeno con riferimento agli utili non distribuiti, rischia di scoraggiare l’adozione dell’impresa sociale”. Ma lo stesso Traversa poi aggiunge: “Questi limiti, tuttavia, più che giustificare un giudizio complessivamente negativo, confermano la difficoltà a coniugare impresa e finalità sociali, fino ad ora tenute ben separate nel mondo del diritto”.

Il lavoro di Vittorio Traversa è un onesto panorama sul tema dei risvolti sociali dell’attività d’impresa visto con un occhio giuridico: anch’esso un approccio utile per capire di più e meglio di qualcosa complesso e in continuo movimento.

I “fini sociali” dell’impresa. Dall’impresa sociale alla società benefit

Vittorio Traversa

Tesi, Università di Torino. Dipartimento di Giurisprudenza

Clicca qui per scaricare il PDF

Regole, leggi e vincoli per un’attività in continuo movimento

Non è da tempi recenti che l’impresa avveduta pone attenzione ai risvolti sociali della propria attività. Pur se posta sotto i riflettori della buona gestione solo negli ultimi anni, quella che si chiama Responsabilità Sociale d’Impresa è, di fatto, conosciuta da tempo (magari sotto altri nomi), da una parte significativa del sistema industriale italiano e non solo. Vittorio Traversa, con la sua tesi “I ‘fini sociali’ dell’impresa. Dall’impresa sociale alla società benefit” discussa all’Università di Torino, ha provato a mettere in ordine cronologico proprio il tema degli effetti sociali dell’attività d’impresa partendo da una constatazione: quello che viene indicato come business sociale “talvolta rischia di assumere un significato generico e atecnico ed è pertanto utile operare alcune precisazioni”.

Traversa inizia analizzando l’esempio di “impresa sociale” fornito dal microcredito per passare poi ad approfondire il più vasto tema della definizione stessa di “impresa sociale” e poi quello del nuovo assetto della cosiddetta “società benefit” per tornare ad approfondire gli aspetti della responsabilità sociale d’impresa. Chiudono il lavoro due capitoli sugli aspetti finanziari e di bilancio delle imprese con finalità sociali.

Nell’affrontare il tema, Traversa usa gli schemi interpretativi giuridici, ma il suo ragionamento è valido anche in termini generali. Da tutto il lavoro, si comprende come la cultura dell’impresa con fini sociali sia andata più avanti delle regole di legge e di bilancio che sono state costruite attorno ad essa, creando anche una situazione di rischio per le stesse attività che dovrebbero regolare e incentivare. “Per quanto riguarda la normativa sull’impresa sociale – viene spiegato -, possiamo affermare che questa non risulti del tutto soddisfacente. (…) l’assenza di benefici fiscali specifici, almeno con riferimento agli utili non distribuiti, rischia di scoraggiare l’adozione dell’impresa sociale”. Ma lo stesso Traversa poi aggiunge: “Questi limiti, tuttavia, più che giustificare un giudizio complessivamente negativo, confermano la difficoltà a coniugare impresa e finalità sociali, fino ad ora tenute ben separate nel mondo del diritto”.

Il lavoro di Vittorio Traversa è un onesto panorama sul tema dei risvolti sociali dell’attività d’impresa visto con un occhio giuridico: anch’esso un approccio utile per capire di più e meglio di qualcosa complesso e in continuo movimento.

I “fini sociali” dell’impresa. Dall’impresa sociale alla società benefit

Vittorio Traversa

Tesi, Università di Torino. Dipartimento di Giurisprudenza

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Storia della cultura del Made in Italy

In un libro il racconto della formazione dell’immagine della sapienza industriale nazionale

La buona cultura d’impresa produce anche bellezza. E questa, poi, può tradursi in espressioni varie, ognuna delle quali impronta di se’ non solo la produzione ma anche il contorno di questa. E’ il senso, anche, del cosiddetto Made in Italy del quale e sul quale molto si è scritto e ragionato, e che ha, ovviamente, un importante significato economico oltre che culturale. Da una certa cultura del produrre, tuttavia, il Made in Italy ha preso le mosse. Ed è importante capirne la storia per scorgerne la possibile evoluzione.

È ciò che ha fatto Carlo Marco Belfanti (professore ordinario di Storia economica nell’Università di Brescia), con il suo “Storia culturale del Made in Italy”. Il libro è in effetti una vera storia dei legami fra cultura italiana e produzione italiana, ma è anche un racconto degli intrecci che nei secoli hanno dato vita a quello che oggi viene chiamato Made in Italy, partendo dalla moda ma non solo.

Ma perché una storia culturale? La risposta viene data dallo stesso Belfanti che all’inizio del libro spiega: “È una storia culturale perché la costruzione dell’immagine del Made in Italy merita altrettanta attenzione di quella dedicata alle dinamiche produttive e rappresenta una modalità attraverso la quale il capitale culturale, tangibile e intangibile, dell’Italia ha trovato forme di valorizzazione – ed è forse proprio questo il vero elemento di continuità”.

Il libro prende quindi le mosse dal Rinascimento per poi passare al periodo del declino economico della Penisola e alla scoperta della sua resilienza, fino all’Ottocento quando gli storici danno forma a un’idea di Rinascimento che si diffonderà soprattutto in America, alimentando un forte collezionismo di oggetti e opere d’arte italiane. Il libro poi prosegue approfondendo la situazione del secondo dopoguerra con la nascita dell’industria della moda italiana.

Certo Belfanti ragiona e racconta assumendo principalmente proprio la moda come paradigma del Made in Italy, ma gli elementi del ragionamento sono trasferibili in una certa misura anche ad altri settori produttivi nazionali. Emerge su tutto il senso di una cultura del produrre descritta e raccontata da narrazioni diverse che, a loro volta, hanno rispecchiato il meglio della sapienza manifatturiera e industriale italiana. Superando una scrittura non semplice e a tratti forse eccessivamente complessa, la lettura dell’ultimo libro di Belfanti è assolutamente da fare per comprendere meglio e più fondo la vera natura del Made in Italy, anche oggi.

Storia culturale del Made in Italy

Carlo Marco Belfanti

il Mulino, 2019

In un libro il racconto della formazione dell’immagine della sapienza industriale nazionale

La buona cultura d’impresa produce anche bellezza. E questa, poi, può tradursi in espressioni varie, ognuna delle quali impronta di se’ non solo la produzione ma anche il contorno di questa. E’ il senso, anche, del cosiddetto Made in Italy del quale e sul quale molto si è scritto e ragionato, e che ha, ovviamente, un importante significato economico oltre che culturale. Da una certa cultura del produrre, tuttavia, il Made in Italy ha preso le mosse. Ed è importante capirne la storia per scorgerne la possibile evoluzione.

È ciò che ha fatto Carlo Marco Belfanti (professore ordinario di Storia economica nell’Università di Brescia), con il suo “Storia culturale del Made in Italy”. Il libro è in effetti una vera storia dei legami fra cultura italiana e produzione italiana, ma è anche un racconto degli intrecci che nei secoli hanno dato vita a quello che oggi viene chiamato Made in Italy, partendo dalla moda ma non solo.

Ma perché una storia culturale? La risposta viene data dallo stesso Belfanti che all’inizio del libro spiega: “È una storia culturale perché la costruzione dell’immagine del Made in Italy merita altrettanta attenzione di quella dedicata alle dinamiche produttive e rappresenta una modalità attraverso la quale il capitale culturale, tangibile e intangibile, dell’Italia ha trovato forme di valorizzazione – ed è forse proprio questo il vero elemento di continuità”.

Il libro prende quindi le mosse dal Rinascimento per poi passare al periodo del declino economico della Penisola e alla scoperta della sua resilienza, fino all’Ottocento quando gli storici danno forma a un’idea di Rinascimento che si diffonderà soprattutto in America, alimentando un forte collezionismo di oggetti e opere d’arte italiane. Il libro poi prosegue approfondendo la situazione del secondo dopoguerra con la nascita dell’industria della moda italiana.

Certo Belfanti ragiona e racconta assumendo principalmente proprio la moda come paradigma del Made in Italy, ma gli elementi del ragionamento sono trasferibili in una certa misura anche ad altri settori produttivi nazionali. Emerge su tutto il senso di una cultura del produrre descritta e raccontata da narrazioni diverse che, a loro volta, hanno rispecchiato il meglio della sapienza manifatturiera e industriale italiana. Superando una scrittura non semplice e a tratti forse eccessivamente complessa, la lettura dell’ultimo libro di Belfanti è assolutamente da fare per comprendere meglio e più fondo la vera natura del Made in Italy, anche oggi.

Storia culturale del Made in Italy

Carlo Marco Belfanti

il Mulino, 2019

Per le imprese è necessaria un’Europa più integrata ed efficiente con grandi investimenti per infrastrutture hi tech, ricerca e lavoro

Le imprese italiane vivono in Europa, crescono sui suoi mercati aperti e competitivi. E tra gli imprenditori, in maggioranza, resta evidente la convinzione che senza Europa non ci sia sviluppo. Lo dicono le rilevazioni d’una società di comunicazione economica, Community Group, pubblicate di recente da “Il Sole24Ore” (10 maggio), secondo cui il 56,6% degli imprenditori sono convintamente europeisti, una quota maggiore di quella della popolazione in generale, il 50,4%. Dopo i disastri della Brexit, insomma, le ombre d’una eventuale Italexit non convincono affatto gli ambienti dell’industria e del lavoro. Anche se non mancano le preoccupazioni e le critiche su come l’Europa ha finora funzionato, almeno nella percezione diffusa del mondo economico.

Quel 56,6% di favorevoli alla Ue non è una percentuale entusiasmante, naturalmente. Sia a paragone con un’analoga rilevazione di tre anni fa (gli imprenditori pro Ue erano il 69%, i cittadini in generale il 67%), sia a confronto con le opinioni dei principali paesi europei.

Più colpita dalle conseguenze della Grande Crisi, più fragile economicamente e socialmente, più lenta a crescere per quel che riguarda il Pil, la produttività, l’occupazione, l’Italia si rivela ancora una volta come l’anello debole d’una Ue in difficoltà. Bloccato da tempo dall’incapacità dei suoi gruppi dirigenti di portare a termine con coraggio essenziali riforme di modernizzazione e migliore equità sociale, il Paese, in ampi settori popolari, cede alla tentazione di dare ascolto alle correnti politiche sovraniste e populiste che proprio nella Ue e nei “poteri forti” di Bruxelles trovano un facile capro espiatorio.

Il sondaggio di Community Group copre tutta la platea delle imprese, le grandi e medio-grandi aperte, competitive e internazionalizzate, ma anche le piccole e piccolissime e quelle artigiane in difficoltà perché più legate a un asfittico mercato interno, quelle che hanno innovato e ben utilizzato i finanziamenti Ue per la digital economy di Horizon2020 e quelle altre che invece hanno vissuto sempre più stentatamente di contributi e ricadute d’una spesa pubblica oramai in contrazione. E se le prime sono essenziali dal punto di vista della crescita del Pil sulla scia dell’export, le seconde, numerose soprattutto nel Mezzogiorno e nelle aree economiche meno dinamiche, hanno un forte peso elettorale.

Ancora un paio di dati, comunque, per riflettere meglio. Il 31% degli imprenditori sostiene che l’euro abbia creato “solo complicazioni” (era il 26% tre anni fa) ma il 50,4% ritiene che l’euro sia comunque necessario nonostante le difficoltà e il 62% è convinto che si starebbe peggio se si tornasse alla lira. Euro ed Europa nonostante tutto, si potrebbe concludere.

Cosa fare per trasformare l’euro in una vera opportunità? Il 78,6% ritiene indispensabile un maggior coordinamento tra le politiche economiche regionali. E coglie un punto essenziale: alle politiche monetarie e alle regole bancarie comuni vanno unite nuove politiche europee che riguardino il fisco, lo sviluppo economico, la ricerca, la formazione, il welfare. Più Europa, dunque, non meno, tenendo conto che tutte le scelte in queste materie sono o nazionali o affidate alle difficili mediazioni in sede di Consiglio d’Europa, là cioè dove contano i governi nazionali.

Quando dall’opinione diffusa rilevata dai sondaggi si passa alle opinioni di chi ha responsabilità nelle associazioni imprenditoriali, i giudizi sono più netti. Il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, sostiene che “il ritorno del sovranismo non è un errore… è un delitto” e, presentando un libro curato dall’associazione, “Il futuro dell’Europa”, in collaborazione con tutti i rettori delle università milanesi, ha aggiunto: “L’Europa non è un ostacolo ma il miglior rappresentante sullo scacchiere mondiale delle nostre idee e di ciò che sappiamo fare, perché ha quel peso che nessuno potrebbe vantare giocando la partita da solo”. La spiegazione è chiara: “Le undici regioni italiane che presentano oggi un tasso di interdipendenza a catene transfrontaliere del valore superiore al 20% della loro manifattura – e ovviamente in posizioni di punta ci sono Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – pesano da sole per l’80% del valore aggiunto industriale italiano. E i dati ci dicono che le nostre medie e piccole imprese internazionalizzate, a parità di classe dimensionale, negli ultimi anni hanno fatto meglio delle corrispondenti francesi e tedesche”. L’Europa è l’occasione di crescita, la leva di sviluppo.

E’ necessario dunque, anche dal punto di vista, pensare a come fare funzionare meglio l’Europa, rendere più efficace l’utilizzo dei fondi europei, stimolare una maggiore integrazione. Tutto il contrario del nazionalismo tanto propagandato.

Si discute molto delle necessità di un nuovo “piano Marshall” o di un nuovo “piano Delors” per le grandi infrastrutture, sia materiali (la Tav è un esempio) che immateriali, per unificare realmente mercati europei e comunità, dando proprio alle infrastrutture una responsabilità, simbolica e funzionale, di rafforzamento delle relazioni europee (ne abbiamo più volte parlato in questo blog). E’ indispensabile, insomma, andare oltre il pur necessario fiscal compact per insistere sull’economia reale e sugli investimenti pubblici e privati europei necessari per l’ambiente, le comunicazioni, la ricerca, una smart land che, nel segno della qualità della vita e del lavoro, rafforzi l’integrazione. Sugli investimenti, le imprese sono pronte a fare la loro parte, con maggiore impegno: la consapevolezza diffusa è che la sfida economica, con gli Usa e la Cina, si gioca proprio sulle partite più sofisticate della produzione e dei servizi innovativi, di qualità, a maggior valore aggiunto.

La partita delle infrastrutture è un’altra delle grandi sfide del rilancio della Ue: da finanziare anche con l’emissione di eurobond e da affidare a una gestione efficiente e ben coordinata tra strutture di Bruxelles e agenzie Ue e nazionali, con scelte di spesa che evitino il mancato o distorto uso dei fondi. Una vera e propria lungimirante strategia di sviluppo, produttiva e non assistenziale. Non solo un rafforzamento dell’attuale Piano Juncker, ma una nuova definizione dell’Investment Plan for Europa di cui si discute, a Bruxelles e nelle grandi capitali europee più sensibili (a cominciare da Berlino e Parigi) per guardare anche al di là delle prossime elezioni per il Parlamento Europeo ed elaborare idee e proposte nel difficile quadro competitivo internazionale.

In questo contesto, l’Italia non può essere affatto né isolata né marginale. Alle imprese italiane che, con attivismo crescente, continuano a guardare da attori europei al resto del mondo, stanno stretti nazionalismi e protezionismi, incombenti pretese di presenza pubblica nella gestione diretta dell’economia, disattenzioni per l’autonomia dei corpi sociali ma anche per l’indipendenza delle grandi istituzioni di controllo. La migliore economia italiana è ancora fortemente caratterizzata da imprese di mercato, liberali e riformiste, radicate nei territori dell’Italia produttiva, ben attrezzate alla competizione internazionale. L’Europa da rafforzare e rilanciare, per giocare di metafora, è appunto una buona impresa.

Le imprese italiane vivono in Europa, crescono sui suoi mercati aperti e competitivi. E tra gli imprenditori, in maggioranza, resta evidente la convinzione che senza Europa non ci sia sviluppo. Lo dicono le rilevazioni d’una società di comunicazione economica, Community Group, pubblicate di recente da “Il Sole24Ore” (10 maggio), secondo cui il 56,6% degli imprenditori sono convintamente europeisti, una quota maggiore di quella della popolazione in generale, il 50,4%. Dopo i disastri della Brexit, insomma, le ombre d’una eventuale Italexit non convincono affatto gli ambienti dell’industria e del lavoro. Anche se non mancano le preoccupazioni e le critiche su come l’Europa ha finora funzionato, almeno nella percezione diffusa del mondo economico.

Quel 56,6% di favorevoli alla Ue non è una percentuale entusiasmante, naturalmente. Sia a paragone con un’analoga rilevazione di tre anni fa (gli imprenditori pro Ue erano il 69%, i cittadini in generale il 67%), sia a confronto con le opinioni dei principali paesi europei.

Più colpita dalle conseguenze della Grande Crisi, più fragile economicamente e socialmente, più lenta a crescere per quel che riguarda il Pil, la produttività, l’occupazione, l’Italia si rivela ancora una volta come l’anello debole d’una Ue in difficoltà. Bloccato da tempo dall’incapacità dei suoi gruppi dirigenti di portare a termine con coraggio essenziali riforme di modernizzazione e migliore equità sociale, il Paese, in ampi settori popolari, cede alla tentazione di dare ascolto alle correnti politiche sovraniste e populiste che proprio nella Ue e nei “poteri forti” di Bruxelles trovano un facile capro espiatorio.

Il sondaggio di Community Group copre tutta la platea delle imprese, le grandi e medio-grandi aperte, competitive e internazionalizzate, ma anche le piccole e piccolissime e quelle artigiane in difficoltà perché più legate a un asfittico mercato interno, quelle che hanno innovato e ben utilizzato i finanziamenti Ue per la digital economy di Horizon2020 e quelle altre che invece hanno vissuto sempre più stentatamente di contributi e ricadute d’una spesa pubblica oramai in contrazione. E se le prime sono essenziali dal punto di vista della crescita del Pil sulla scia dell’export, le seconde, numerose soprattutto nel Mezzogiorno e nelle aree economiche meno dinamiche, hanno un forte peso elettorale.

Ancora un paio di dati, comunque, per riflettere meglio. Il 31% degli imprenditori sostiene che l’euro abbia creato “solo complicazioni” (era il 26% tre anni fa) ma il 50,4% ritiene che l’euro sia comunque necessario nonostante le difficoltà e il 62% è convinto che si starebbe peggio se si tornasse alla lira. Euro ed Europa nonostante tutto, si potrebbe concludere.

Cosa fare per trasformare l’euro in una vera opportunità? Il 78,6% ritiene indispensabile un maggior coordinamento tra le politiche economiche regionali. E coglie un punto essenziale: alle politiche monetarie e alle regole bancarie comuni vanno unite nuove politiche europee che riguardino il fisco, lo sviluppo economico, la ricerca, la formazione, il welfare. Più Europa, dunque, non meno, tenendo conto che tutte le scelte in queste materie sono o nazionali o affidate alle difficili mediazioni in sede di Consiglio d’Europa, là cioè dove contano i governi nazionali.

Quando dall’opinione diffusa rilevata dai sondaggi si passa alle opinioni di chi ha responsabilità nelle associazioni imprenditoriali, i giudizi sono più netti. Il presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, sostiene che “il ritorno del sovranismo non è un errore… è un delitto” e, presentando un libro curato dall’associazione, “Il futuro dell’Europa”, in collaborazione con tutti i rettori delle università milanesi, ha aggiunto: “L’Europa non è un ostacolo ma il miglior rappresentante sullo scacchiere mondiale delle nostre idee e di ciò che sappiamo fare, perché ha quel peso che nessuno potrebbe vantare giocando la partita da solo”. La spiegazione è chiara: “Le undici regioni italiane che presentano oggi un tasso di interdipendenza a catene transfrontaliere del valore superiore al 20% della loro manifattura – e ovviamente in posizioni di punta ci sono Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – pesano da sole per l’80% del valore aggiunto industriale italiano. E i dati ci dicono che le nostre medie e piccole imprese internazionalizzate, a parità di classe dimensionale, negli ultimi anni hanno fatto meglio delle corrispondenti francesi e tedesche”. L’Europa è l’occasione di crescita, la leva di sviluppo.

E’ necessario dunque, anche dal punto di vista, pensare a come fare funzionare meglio l’Europa, rendere più efficace l’utilizzo dei fondi europei, stimolare una maggiore integrazione. Tutto il contrario del nazionalismo tanto propagandato.

Si discute molto delle necessità di un nuovo “piano Marshall” o di un nuovo “piano Delors” per le grandi infrastrutture, sia materiali (la Tav è un esempio) che immateriali, per unificare realmente mercati europei e comunità, dando proprio alle infrastrutture una responsabilità, simbolica e funzionale, di rafforzamento delle relazioni europee (ne abbiamo più volte parlato in questo blog). E’ indispensabile, insomma, andare oltre il pur necessario fiscal compact per insistere sull’economia reale e sugli investimenti pubblici e privati europei necessari per l’ambiente, le comunicazioni, la ricerca, una smart land che, nel segno della qualità della vita e del lavoro, rafforzi l’integrazione. Sugli investimenti, le imprese sono pronte a fare la loro parte, con maggiore impegno: la consapevolezza diffusa è che la sfida economica, con gli Usa e la Cina, si gioca proprio sulle partite più sofisticate della produzione e dei servizi innovativi, di qualità, a maggior valore aggiunto.

La partita delle infrastrutture è un’altra delle grandi sfide del rilancio della Ue: da finanziare anche con l’emissione di eurobond e da affidare a una gestione efficiente e ben coordinata tra strutture di Bruxelles e agenzie Ue e nazionali, con scelte di spesa che evitino il mancato o distorto uso dei fondi. Una vera e propria lungimirante strategia di sviluppo, produttiva e non assistenziale. Non solo un rafforzamento dell’attuale Piano Juncker, ma una nuova definizione dell’Investment Plan for Europa di cui si discute, a Bruxelles e nelle grandi capitali europee più sensibili (a cominciare da Berlino e Parigi) per guardare anche al di là delle prossime elezioni per il Parlamento Europeo ed elaborare idee e proposte nel difficile quadro competitivo internazionale.

In questo contesto, l’Italia non può essere affatto né isolata né marginale. Alle imprese italiane che, con attivismo crescente, continuano a guardare da attori europei al resto del mondo, stanno stretti nazionalismi e protezionismi, incombenti pretese di presenza pubblica nella gestione diretta dell’economia, disattenzioni per l’autonomia dei corpi sociali ma anche per l’indipendenza delle grandi istituzioni di controllo. La migliore economia italiana è ancora fortemente caratterizzata da imprese di mercato, liberali e riformiste, radicate nei territori dell’Italia produttiva, ben attrezzate alla competizione internazionale. L’Europa da rafforzare e rilanciare, per giocare di metafora, è appunto una buona impresa.

Segnali di cultura d’impresa

L’analisi dei brevetti può essere utile per capire meglio la natura delle organizzazioni della produzione

La cultura del produrre si misura anche attraverso gli elementi intangibili che caratterizzano l’impresa e questi, a loro volta, possono essere colti nella loro essenza attraverso la collezione di brevetti che ogni organizzazione riesce a comporre. “Invenzioni d’impresa”, i brevetti costituiscono così un segno della cultura propria di ogni azienda. E ne indicano il cammino.

A ragionare attorno al tema dei brevetti e di ciò che oggi viene indicato come asset intangibile delle aziende, ha provato Michele Santoro con la sua tesi presentata al Politecnico di Torino. “La valutazione degli assets intangibili: dai modelli di patent value agli indicatori bibliometrici”, mette in fila gli elementi essenziali del tema ed è per questo una buona guida all’argomento.

Santoro inizia il suo percorso considerando che la valutazione degli assets intangibili, in particolar modo dei brevetti, “è diventata negli ultimi anni sempre più determinante per la gestione strategica ed economica delle imprese”. La ricerca ha quindi l’obiettivo di approfondire la valutazione del valore generato da questa componente.

Santoro pone attenzione al mondo degli assets intangibili, delineandone le tipologie più diffuse ed elencandone le caratteristiche principali. Successivamente approfondisce le caratteristiche dei brevetti e della loro valutazione, per poi arrivare all’uso degli “indicatori bibliometrici” per la migliore comprensione della loro efficacia, e cioè di particolari indici di ricerca che possono aiutare a capire quanto i singoli brevetti abbiano davvero avuto riconoscimenti operativi e scientifici. Sono quindi presi in considerazione le citazioni, i collegamenti fra brevetti simili, i “confini” dei singoli brevetti, i “conflitti” nei quali i brevetti possono essere coinvolti.

Ciò che il lavoro di Santoro delinea è quindi un tratto caratteristico e importante della cultura della produzione di ogni singola organizzazione – i brevetti -, visto attraverso lenti tecniche ed economiche che ne fanno scorgere meglio le caratteristiche e le peculiarità.

Non sempre di facilissima lettura, “La valutazione degli asset intangibili: dai modelli di patent value agli indicatori bibliometrici” è però una buona base per comprendere meglio il complesso sistema degli assets aziendali.

La valutazione degli asset intangibili: dai modelli di patent value agli indicatori bibliometrici

Michele Santoro

Tesi, Politecnico di Torino, Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2019

Clicca qui per scaricare il PDF

L’analisi dei brevetti può essere utile per capire meglio la natura delle organizzazioni della produzione

La cultura del produrre si misura anche attraverso gli elementi intangibili che caratterizzano l’impresa e questi, a loro volta, possono essere colti nella loro essenza attraverso la collezione di brevetti che ogni organizzazione riesce a comporre. “Invenzioni d’impresa”, i brevetti costituiscono così un segno della cultura propria di ogni azienda. E ne indicano il cammino.

A ragionare attorno al tema dei brevetti e di ciò che oggi viene indicato come asset intangibile delle aziende, ha provato Michele Santoro con la sua tesi presentata al Politecnico di Torino. “La valutazione degli assets intangibili: dai modelli di patent value agli indicatori bibliometrici”, mette in fila gli elementi essenziali del tema ed è per questo una buona guida all’argomento.

Santoro inizia il suo percorso considerando che la valutazione degli assets intangibili, in particolar modo dei brevetti, “è diventata negli ultimi anni sempre più determinante per la gestione strategica ed economica delle imprese”. La ricerca ha quindi l’obiettivo di approfondire la valutazione del valore generato da questa componente.

Santoro pone attenzione al mondo degli assets intangibili, delineandone le tipologie più diffuse ed elencandone le caratteristiche principali. Successivamente approfondisce le caratteristiche dei brevetti e della loro valutazione, per poi arrivare all’uso degli “indicatori bibliometrici” per la migliore comprensione della loro efficacia, e cioè di particolari indici di ricerca che possono aiutare a capire quanto i singoli brevetti abbiano davvero avuto riconoscimenti operativi e scientifici. Sono quindi presi in considerazione le citazioni, i collegamenti fra brevetti simili, i “confini” dei singoli brevetti, i “conflitti” nei quali i brevetti possono essere coinvolti.

Ciò che il lavoro di Santoro delinea è quindi un tratto caratteristico e importante della cultura della produzione di ogni singola organizzazione – i brevetti -, visto attraverso lenti tecniche ed economiche che ne fanno scorgere meglio le caratteristiche e le peculiarità.

Non sempre di facilissima lettura, “La valutazione degli asset intangibili: dai modelli di patent value agli indicatori bibliometrici” è però una buona base per comprendere meglio il complesso sistema degli assets aziendali.

La valutazione degli asset intangibili: dai modelli di patent value agli indicatori bibliometrici

Michele Santoro

Tesi, Politecnico di Torino, Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2019

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Storia vissuta di cento anni di fabbriche

Il libro pubblicato per il secolo di vita di Amma, serve per capire meglio la cultura industriale italiana

La prima foto coglie lo sguardo dagli occhi neri di un operaio. E poi le altre che riproducono le grandi macchine lucide, il movimento delle pulegge, le scintille delle fonderie, i disegni regolari dei capannoni, i particolari della produzione, le lotte in fabbrica e nelle strade, i volti del lavoro, le conquiste della produzione, i differenti ambienti d’azienda, gli attimi di vita varia di un Paese in cento anni della sua storia ripercorsa attraverso quella di Amma (Aziende meccaniche Meccatronica Associate), una delle associazioni di riferimento dell’industria italiana.

E’ quanto contenuto in “Amma 100. L’evoluzione dell’industria”, ricco libro appena pubblicato che, appunto, raccoglie in poco più di 200 ampie pagine scatti e testi che ripercorrono, i primi legati ai secondi, un secolo di storia industriale metalmeccanica italiana.

Approfondito racconto di cultura d’impresa, oltre che di vicende di fabbriche e quindi di uomini e donne al lavoro, il libro ha una partizione efficace prima di tutto perché semplice: si inizia così dall’anno della sua costituzione (il 1919) fino alla fine della guerra, poi si passa dal ’46 al 1968 e cioè dalla ricostruzione fino al boom economico, per arrivare al periodo 1969-2019 e cioè dall’autunno caldo all’epoca di Industria 4.0. Ogni tappa del cammino di Amma (e di quanto le ruota attorno) viene ripercorsa su più livelli dal racconto di Giuseppe Berta (storico dell’economia e dell’industria, oltre che soprattutto conoscitore delle vicende particolari del nord-ovest industriale italiano). Berta intreccia la grande storia italiana con la minuta ma non meno importante storia industriale locale, fatta di grandi aziende come la Fiat ma anche di piccole imprese. Ogni passo è segnato da immagini provenienti da diversi archivi che funzionano come necessario complemento del testo. Fotografie delle quali vale la pena cogliere i particolari, oltre che l’insieme; tratti che spesso colgono il vero succo industriale dell’epoca, così come dei suoi momenti sociali, culturali e politici. Testi e foto – occorre dirlo – non fanno sconti a nessuno: ritraggono, invece, un pezzo di Italia (fatto di industria, fatica, lavoro e altro ancora), che deve essere ricordato anche oggi. Un’Italia che ha saputo risollevarsi nonostante momenti durissimi fatti di guerre, scontri sociali, attentati, incertezze politiche e istituzionali.

“Amma 100” non è solo un libro per celebrare un compleanno. E non è nemmeno un noioso libro di storia economica. E’ qualcosa d’altro che serve leggere con attenzione per cogliere quella cultura del produrre i cui tratti oggi ci sono ancora tutti, ma che devono essere difesi e valorizzati.

Amma 100. L’evoluzione dell’industria

AA.VV.

Ansa, 2019

Il libro pubblicato per il secolo di vita di Amma, serve per capire meglio la cultura industriale italiana

La prima foto coglie lo sguardo dagli occhi neri di un operaio. E poi le altre che riproducono le grandi macchine lucide, il movimento delle pulegge, le scintille delle fonderie, i disegni regolari dei capannoni, i particolari della produzione, le lotte in fabbrica e nelle strade, i volti del lavoro, le conquiste della produzione, i differenti ambienti d’azienda, gli attimi di vita varia di un Paese in cento anni della sua storia ripercorsa attraverso quella di Amma (Aziende meccaniche Meccatronica Associate), una delle associazioni di riferimento dell’industria italiana.

E’ quanto contenuto in “Amma 100. L’evoluzione dell’industria”, ricco libro appena pubblicato che, appunto, raccoglie in poco più di 200 ampie pagine scatti e testi che ripercorrono, i primi legati ai secondi, un secolo di storia industriale metalmeccanica italiana.

Approfondito racconto di cultura d’impresa, oltre che di vicende di fabbriche e quindi di uomini e donne al lavoro, il libro ha una partizione efficace prima di tutto perché semplice: si inizia così dall’anno della sua costituzione (il 1919) fino alla fine della guerra, poi si passa dal ’46 al 1968 e cioè dalla ricostruzione fino al boom economico, per arrivare al periodo 1969-2019 e cioè dall’autunno caldo all’epoca di Industria 4.0. Ogni tappa del cammino di Amma (e di quanto le ruota attorno) viene ripercorsa su più livelli dal racconto di Giuseppe Berta (storico dell’economia e dell’industria, oltre che soprattutto conoscitore delle vicende particolari del nord-ovest industriale italiano). Berta intreccia la grande storia italiana con la minuta ma non meno importante storia industriale locale, fatta di grandi aziende come la Fiat ma anche di piccole imprese. Ogni passo è segnato da immagini provenienti da diversi archivi che funzionano come necessario complemento del testo. Fotografie delle quali vale la pena cogliere i particolari, oltre che l’insieme; tratti che spesso colgono il vero succo industriale dell’epoca, così come dei suoi momenti sociali, culturali e politici. Testi e foto – occorre dirlo – non fanno sconti a nessuno: ritraggono, invece, un pezzo di Italia (fatto di industria, fatica, lavoro e altro ancora), che deve essere ricordato anche oggi. Un’Italia che ha saputo risollevarsi nonostante momenti durissimi fatti di guerre, scontri sociali, attentati, incertezze politiche e istituzionali.

“Amma 100” non è solo un libro per celebrare un compleanno. E non è nemmeno un noioso libro di storia economica. E’ qualcosa d’altro che serve leggere con attenzione per cogliere quella cultura del produrre i cui tratti oggi ci sono ancora tutti, ma che devono essere difesi e valorizzati.

Amma 100. L’evoluzione dell’industria

AA.VV.

Ansa, 2019

La cultura abitativa d’impresa

In un libro il racconto di un aspetto particolare dell’esistenza e dell’attività di una grande azienda

L’impresa vicino al lavoratore. Non un falso atteggiamento di attenzione, ma qualcosa di differente. Qualcosa di complesso da spiegare e interpretare, e che si esplicita in forme diverse le une dalle altre, seppur con tratti comuni. Analizzare quello che modernamente si indica come welfare aziendale oppure Responsabilità sociale d’impresa (a seconda dei casi e delle declinazioni concrete), è sempre cosa buona e utile: aiuta a comprendere tratti importanti della cultura d’impresa di ogni organizzazione della produzione.

E’ per questo che serve leggere “Le case Olivetti a Ivrea. L’Ufficio Consulenza Case Dipendenti e Emilio A. Tarpino” scritto a più mani da Carlo Olmo, Patrizia Bonifazio e Luca Lazzarini (architetto e memoria storica dell’architettura il primo, architetti e urbanisti gli altri due autori), con il supporto fotografico di Paolo Mazzo. Il libro, attraverso ricerche condotte presso l’Associazione Archivio Storico Olivetti e presso altri archivi privati e pubblici, propone una prima ricognizione sui programmi di case per dipendenti dell’azienda a Ivrea, con una particolare attenzione al ruolo affidato all’Ufficio Consulenza Case Dipendenti Olivetti diretto dall’architetto Emilio A. Tarpino.

Sotto la lente degli autori, sono passati i modelli progettuali e le scelte politiche operate dalla Olivetti in un periodo importante della sua storia. Scelte che testimoniano la pluralità di soggetti e di culture – anche tecniche – che contribuirono a dare forma al paesaggio residenziale di Ivrea, investito da un singolare processo di modernizzazione che vide l’attività dei servizi sociali come fulcro della gestione della vita della fabbrica e catalizzatore dell’attenzione anche internazionale sul “caso Olivetti”. Fabbrica-territorio, dunque, che diventa modello. E’ insomma la storia (illustrata) di un aspetto cruciale dell’azienda-comunità che è stata una caso forse unico nella moderna storia industriale del nostro Paese (e non solo). Quell’azienda legata intimamente al territorio e alla sua gente, senza mancare però di perseguire una modernità tecnologica che per anni l’ha posta in vetta ai mercati. Almeno fino a quando il mutamento del clima culturale dentro e fuori la fabbrica non ha fatto cambiare orientamento e traguardi produttivi.

Il libro, dopo una premessa di Olmo, prosegue con la puntualizzazione dello scenario e del contesto che legano casa e territorio per passare poi al racconto di come i legami fra azienda, architettura e territorio si siano sviluppati negli anni, per arrivare quindi all’approfondimento dell’operatività e del lavoro concreti dell’ufficio “consulenza case dipendenti” dell’azienda stessa (con tanto di numerose planimetrie e disegni progettuali). Chiudono il volume una serie di scatti fotografici delle abitazioni Olivetti ad Ivrea oltre che alcuni documenti che aiutano a comprendere meglio tutta la vicenda.

Il libro di Olmo, Bonifazio e Lazzarini non è un semplice libro di architettura: è un viaggio in una vicenda che ancora oggi ha molto da insegnare e che, più di tutto, illustra quanto possa la cultura d’impresa raggiungere livelli d’eccellenza anche in un settore – quello delle abitazioni per i dipendenti – in apparenza così lontano dal cuore della produzione.

Le case Olivetti a Ivrea. L’Ufficio Consulenza Case Dipendenti e Emilio A. Tarpino

Carlo Olmo, Patrizia Bonifazio, Luca Lazzarini

il Mulino, 2019

In un libro il racconto di un aspetto particolare dell’esistenza e dell’attività di una grande azienda

L’impresa vicino al lavoratore. Non un falso atteggiamento di attenzione, ma qualcosa di differente. Qualcosa di complesso da spiegare e interpretare, e che si esplicita in forme diverse le une dalle altre, seppur con tratti comuni. Analizzare quello che modernamente si indica come welfare aziendale oppure Responsabilità sociale d’impresa (a seconda dei casi e delle declinazioni concrete), è sempre cosa buona e utile: aiuta a comprendere tratti importanti della cultura d’impresa di ogni organizzazione della produzione.

E’ per questo che serve leggere “Le case Olivetti a Ivrea. L’Ufficio Consulenza Case Dipendenti e Emilio A. Tarpino” scritto a più mani da Carlo Olmo, Patrizia Bonifazio e Luca Lazzarini (architetto e memoria storica dell’architettura il primo, architetti e urbanisti gli altri due autori), con il supporto fotografico di Paolo Mazzo. Il libro, attraverso ricerche condotte presso l’Associazione Archivio Storico Olivetti e presso altri archivi privati e pubblici, propone una prima ricognizione sui programmi di case per dipendenti dell’azienda a Ivrea, con una particolare attenzione al ruolo affidato all’Ufficio Consulenza Case Dipendenti Olivetti diretto dall’architetto Emilio A. Tarpino.

Sotto la lente degli autori, sono passati i modelli progettuali e le scelte politiche operate dalla Olivetti in un periodo importante della sua storia. Scelte che testimoniano la pluralità di soggetti e di culture – anche tecniche – che contribuirono a dare forma al paesaggio residenziale di Ivrea, investito da un singolare processo di modernizzazione che vide l’attività dei servizi sociali come fulcro della gestione della vita della fabbrica e catalizzatore dell’attenzione anche internazionale sul “caso Olivetti”. Fabbrica-territorio, dunque, che diventa modello. E’ insomma la storia (illustrata) di un aspetto cruciale dell’azienda-comunità che è stata una caso forse unico nella moderna storia industriale del nostro Paese (e non solo). Quell’azienda legata intimamente al territorio e alla sua gente, senza mancare però di perseguire una modernità tecnologica che per anni l’ha posta in vetta ai mercati. Almeno fino a quando il mutamento del clima culturale dentro e fuori la fabbrica non ha fatto cambiare orientamento e traguardi produttivi.

Il libro, dopo una premessa di Olmo, prosegue con la puntualizzazione dello scenario e del contesto che legano casa e territorio per passare poi al racconto di come i legami fra azienda, architettura e territorio si siano sviluppati negli anni, per arrivare quindi all’approfondimento dell’operatività e del lavoro concreti dell’ufficio “consulenza case dipendenti” dell’azienda stessa (con tanto di numerose planimetrie e disegni progettuali). Chiudono il volume una serie di scatti fotografici delle abitazioni Olivetti ad Ivrea oltre che alcuni documenti che aiutano a comprendere meglio tutta la vicenda.

Il libro di Olmo, Bonifazio e Lazzarini non è un semplice libro di architettura: è un viaggio in una vicenda che ancora oggi ha molto da insegnare e che, più di tutto, illustra quanto possa la cultura d’impresa raggiungere livelli d’eccellenza anche in un settore – quello delle abitazioni per i dipendenti – in apparenza così lontano dal cuore della produzione.

Le case Olivetti a Ivrea. L’Ufficio Consulenza Case Dipendenti e Emilio A. Tarpino

Carlo Olmo, Patrizia Bonifazio, Luca Lazzarini

il Mulino, 2019

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