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La geografia del welfare aziendale in Italia

Un articolo appena pubblicato analizza le forme attraverso le quali si sviluppano gli accordi sul territorio in sostituzione dello stato sociale

L’impresa in soccorso della società. Nessun buonismo, ma solo la realtà dei fatti che passa attraverso quello che ormai si chiama welfare aziendale. Che significa poi oggi il proseguimento di quanto alcune grandi aziende hanno già intrapreso da tempo: assistere chi lavora anche oltre il lavoro. Il passo nuovo compiuto adesso – anche nella contrattazione collettiva nazionale -, sta nella diffusione delle forme di welfare  aziendale che, fino a pochi anni fa, erano ancora isolate le une dalle altre.

A tentare una sistematizzazione dell’argomento ha provato Valentino Santoni (del Centro Studi Einaudi dell’Università di Milano), con il suo “Reti d’impresa e accordi territoriali per il welfare aziendale: i tratti distintivi delle esperienze italiane”, apparso recentemente in Sociologia del lavoro.

L’indagine di Santoni parte da una considerazione: i cambiamenti nella struttura sociale e demografica del nostro Paese, l’emergere di nuovi rischi sociali e le conseguenze connesse alla recente crisi economica, hanno profondamente cambiato il volto del sistema di welfare italiano. I termini della questione, riconosciuti dall’autore, sono due: da un lato il sistema di protezione sociale pubblico è apparso in crescente difficoltà; dall’altro, in risposta a questa difficoltà, la nascita di forme di intervento sociale che, mobilitando risorse economiche non pubbliche, hanno cercato di integrare e sostenere lo stato sociale.

E’ a questo punto che sono nate e si sono sviluppate le svariate attività di welfare aziendale (che adesso appunto sono inserite nei contratti nazionali di lavoro). Santoni esplora quindi i legami fra le reti d’impresa sul territorio e gli accordi territoriali per il welfare cercando di isolarne i tratti che distinguono l’esperienza italiana.

La constatazione di Santoni, infatti, è che la diffusione di tale fenomeno non sembra progredire in maniera uniforme nel territorio del nostro Paese e che una delle forme più efficaci per arrivare alla creazione di azioni di welfare aziendale sia l’aggregazione d’impresa. In particolare, viene spiegato nella ricerca, nell’ultimo periodo sono state molte le esperienze di imprese che – comprendendo le potenzialità del welfare aziendale – hanno costituito reti di aziende e hanno preso parte a network multi-attore formati anche da soggetti del Terzo Settore e da istituzioni pubbliche. L’indagine quindi ha cercato di individuare e approfondire le caratteristiche fondamentali che possono aiutare a descrivere in maniera sintetica le esperienze realizzate in Italia. Ne è nata così una sorta di mappa delle esperienze di welfare aziendale, utile a capire meglio come si stanno evolvendo queste attività nel nostro Paese. Da leggere.

Reti d’impresa e accordi territoriali per il welfare aziendale: i tratti distintivi delle esperienze italiane

Valentino Santoni (Centro Studi Einaudi, Università di Milano)

Sociologia del lavoro, 2019, Fascicolo: 153

Un articolo appena pubblicato analizza le forme attraverso le quali si sviluppano gli accordi sul territorio in sostituzione dello stato sociale

L’impresa in soccorso della società. Nessun buonismo, ma solo la realtà dei fatti che passa attraverso quello che ormai si chiama welfare aziendale. Che significa poi oggi il proseguimento di quanto alcune grandi aziende hanno già intrapreso da tempo: assistere chi lavora anche oltre il lavoro. Il passo nuovo compiuto adesso – anche nella contrattazione collettiva nazionale -, sta nella diffusione delle forme di welfare  aziendale che, fino a pochi anni fa, erano ancora isolate le une dalle altre.

A tentare una sistematizzazione dell’argomento ha provato Valentino Santoni (del Centro Studi Einaudi dell’Università di Milano), con il suo “Reti d’impresa e accordi territoriali per il welfare aziendale: i tratti distintivi delle esperienze italiane”, apparso recentemente in Sociologia del lavoro.

L’indagine di Santoni parte da una considerazione: i cambiamenti nella struttura sociale e demografica del nostro Paese, l’emergere di nuovi rischi sociali e le conseguenze connesse alla recente crisi economica, hanno profondamente cambiato il volto del sistema di welfare italiano. I termini della questione, riconosciuti dall’autore, sono due: da un lato il sistema di protezione sociale pubblico è apparso in crescente difficoltà; dall’altro, in risposta a questa difficoltà, la nascita di forme di intervento sociale che, mobilitando risorse economiche non pubbliche, hanno cercato di integrare e sostenere lo stato sociale.

E’ a questo punto che sono nate e si sono sviluppate le svariate attività di welfare aziendale (che adesso appunto sono inserite nei contratti nazionali di lavoro). Santoni esplora quindi i legami fra le reti d’impresa sul territorio e gli accordi territoriali per il welfare cercando di isolarne i tratti che distinguono l’esperienza italiana.

La constatazione di Santoni, infatti, è che la diffusione di tale fenomeno non sembra progredire in maniera uniforme nel territorio del nostro Paese e che una delle forme più efficaci per arrivare alla creazione di azioni di welfare aziendale sia l’aggregazione d’impresa. In particolare, viene spiegato nella ricerca, nell’ultimo periodo sono state molte le esperienze di imprese che – comprendendo le potenzialità del welfare aziendale – hanno costituito reti di aziende e hanno preso parte a network multi-attore formati anche da soggetti del Terzo Settore e da istituzioni pubbliche. L’indagine quindi ha cercato di individuare e approfondire le caratteristiche fondamentali che possono aiutare a descrivere in maniera sintetica le esperienze realizzate in Italia. Ne è nata così una sorta di mappa delle esperienze di welfare aziendale, utile a capire meglio come si stanno evolvendo queste attività nel nostro Paese. Da leggere.

Reti d’impresa e accordi territoriali per il welfare aziendale: i tratti distintivi delle esperienze italiane

Valentino Santoni (Centro Studi Einaudi, Università di Milano)

Sociologia del lavoro, 2019, Fascicolo: 153

Europa nonostante tutto: dieci libri per capire le sfide politiche ed economiche delle elezioni

Alla vigilia del voto per rinnovare il Parlamento europeo, cresce la consapevolezza di trovarsi di fronte a un appuntamento tutt’altro che usuale nell’evoluzione degli assetti politici ed economici dell’Europa. Le istituzioni e le regole Ue, dopo settant’anni dai primi accordi, sono sottoposte a un assalto rancoroso che nega quanto di positivo sia stato fatto e amplifica i dati di crisi, mentre soffia un vento preoccupante che riporta purtroppo d’attualità i vecchi mali novecenteschi dei nazionalismi e dei particolarismi locali. Siamo davanti a una sfida che investe non solo la Ue e le sue strutture, ma anche la sostanza stessa della democrazia liberale, dei mercati ben regolati, dello sviluppo che prova a fare convivere competizione e solidarietà sociale.

Vale la pena, anche dal punto di vista della cultura d’impresa, provare a capire meglio quali sono i temi chiave del dibattito in corso. Alcuni buoni libri sono di grande aiuto. A partire dalla storia, per arrivare all’attualità.

L’Europa, dunque, dalle fondamenta ai nostri giorni, seguendo “Il filo infinito” lasciato dalle tracce di San Benedetto e delle abbazie dell’ordine da lui fondato a metà del Cinquecento. Eccolo, il nuovo, intensissimo libro di Paolo Rumiz, Feltrinelli. E’ appunto un “viaggio alle radici dell’Europa” quello che comincia a Norcia (la città natale del santo), risale l’Italia e percorre Francia e Germania, per tornare a Norcia. Terre ben coltivate e biblioteche (“Ora et labora”), fabbriche e studi in cui fare nascere un nuovo diritto da quello romano in decadenza e quello visigoto, dialoghi su vincoli e libertà, storie da subire e storia nuova da costruire. Sino alla conclusione: “Non possiamo permettere che il nostro mondo si sottometta ancora al delirio nazionalista e suprematista. La nostra dea madre fenicia di nome Europa, che per prima attraversò il Mediterraneo con paura, ci ricorda che siamo sempre stati capolinea di popoli migranti e ci spinge a sciogliere altre matasse e a tendere altri fili”.

Dalla storia alle prospettive. Con “Ciò che possiamo fare” ovvero “la libertà di Edith Stein e lo spirito dell’Europa” nella riflessione di Lella Costa, edito da Solferino. Le parole d’una teologa nata ebrea e come tale deportata nell’orrore di Auschwitz e assassinata e proclamata santa dalla Chiesa cattolica sono rimeditate dalla Costa soprattutto per le parti che insistono su dialogo, pace, relazioni tra popoli e culture diverse, valori dell’Europa. Una meditazione profonda sulla convivenza, sulla necessità, attuale ancora oggi, di difenderci dai veleni dei nazionalismi e del populismi. Sono parole forti, che varrebbe la pena leggere insieme a quelle di un’altra grande protagonista del pensiero politico e della spiritualità del Novecento, Simone Weil.

Sono valori che risuonano anche in “Oltre le nazioni” di Zygmunt Bauman, un sintetico saggio del 2012 riproposto da Laterza per aiutarci a ragionare su “l’Europa tra sovranità e solidarietà”. Bauman è stato ottimo interprete dei cambiamenti sociali (la “società liquida”) e degli smarrimenti di fronte “alle forze incontrollate” dei mercati globali. Ha raccontato bene le tentazioni di rifugiarsi nelle rivendicazioni egoistiche per recuperare “la sovranità nazionale perduta” e ne ha denunciato l’errore. Adesso, rilancia la lezione di Richard Sennett secondo cui “il modo migliore per entrare in contatto con le differenze è quello di cooperare in modo informale e aperto” e suggerisce: “Gli uffici e le strade diventano disumani quando vi regnano la rigidità, l’utilitarismo e la competizione, mentre si umanizzano se si muovono interazioni informali, aperte, collaborative”. E’ l’idea di una maggiore e migliore integrazione europea, fatta di ponti e non di muri.

Un’Europa, dunque, da vivere con consapevolezza critica e provare a cambiare. Come? Riducendone banalità burocratiche, nel segno d’una migliore unione politica. Per farlo, è utile anche giocare d’ironia, di paradosso. Come fa Robert Menasse in “La capitale”, Sellerio. Menasse è austriaco, europeista convinto, saggista ma anche romanziere di fertile vena creativa. E questo è appunto un romanzo denso di fantasia e sarcasmo, che comincia con la fuga d’un maiale per le vie di Bruxelles. Un maiale che stimola l’idea di lucrosi affari con la Cina, ma rappresenta anche il simbolo d’una ostilità verso gli immigrati musulmani che non se ne cibano. E occupa discorsi pubblici, giochi culturali (un concorso per dargli un nome) e intrecci economici. Simili ai tanti altri che disperdono il tempo negli uffici di Bruxelles. Storie di burocrati s’arenano in malinconiche avventure sessuali (“Lui simulò il desiderio, lei l’orgasmo. Un’alchimia perfetta”). Un grande evento per ricordare Auschwitz e il monito del “Mai più” degenera in scontri nazionalistici. Generose visioni politiche si confondono con miserie di carriera. L’ombra della Brexit agita tutti. Dalla babele di lingue e interessi riemergerà l’Europa? Forse. A patto di non rinunciare mai al senso dei valori comuni. Nonostante ogni egoistica stupidità.

“Bruxelles” s’intitola il libro di Beda Romano, corrispondente de “Il Sole24Ore”, Il Mulino: ritratto competente “d’una capitale originale e insolita, vero meeting pot di culture ed esperienze, che meglio di altre incarna le molte anime del continente europeo”. Terra di storie e conflitti, di grandi intellettuali belgi o rifugiati (Marx, Baudelaire, Van Eyck, Magritte), di immigrati e teste coronate, di autonomia e integrazione con la forte economia francese, Bruxelles e il Belgio sono crogiolo di diversità e dialoghi. La capitale testimonia la forza delle radici e della fertilità delle culture sovranazionali. Con i suoi limiti, è un buon paradigma dell’Europa. Di cui Romano sa ben raccontare anche i lati migliori.

I valori. E le critiche. Anche rileggendo “Le tre profezie” e facendone strumento per “appunti per il futuro”, come scrive Giulio Tremonti per l’editore Solferino. Il libro parla di Europa in crisi, limiti della globalizzazione, conflitti politici e sociali. Si sofferma su Marx e il suo “Manifesto” sicuro che “all’antico isolamento nazionale subentrerà una interdipendenza universale”, su Goethe e la previsione sui “biglietti alati che voleranno tanto in alto” da non essere raggiungibili e controllabili dalla conoscenza della maggior parte degli uomini (una lucida premonizione delle follie della finanza e dell’economia “di carta”) e sul Leopardi dello Zibaldone, particolarmente critico sulle derive del costume nazionale: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmpolita, non si amò né Roma né il Mondo”. Tremonti va avanti citando Nietzsche e Shakespeare, la crisi di Weimar e il Manifesto di Ventotene, i progetti di Gates e Zuckerberg (che gli piacciono poco). E sottopone a critica l’ideologia mercatista, le burocrazie Ue, il fanatismo del futuro digitale, le radici da cui nascono populismi e sovranismi. Una lettura stimolante, per discutere di come costruire, su più solide e giuste fondamenta, un futuro comune migliore.

Sono temi che ricorrono, in modo diverso, pure in “Stare in Europa – Sogno, incubo e realtà” di Riccardo Perissich, Bollati Boringhieri. In vista del voto di maggio, vale la pena riflettere criticamente su un “modello comunitario” nato 70 anni fa e oramai in parte inadeguato, ma anche evitare retoriche negative anti-Bruxelles e prendere atto che di fronte a sfide globali (i poteri economici sovranazionali, gli sviluppi della cyber economy, il terrorismo islamico, le grandi ondate migratorie) il nazionalismo asfittico delle “piccole patrie” non consente risposte utili. Serve invece “una maggiore integrazione politica”. Perché “la battaglia per preservare la Ue, e con essa la democrazia liberale in Europa, merita di essere combattuta ed è forse la più grande sfida di questo secolo”.

L’Europa, con le sue regole, è stata a lungo considerata come un necessario “vincolo esterno” per costringere gli italiani “indisciplinati” a essere attenti a buon governo, riforme e conti pubblici in ordine. Ma una certa idea “sacrale” dei parametri di Maastricht e un’inclinazione ideologica dell’”ordoliberismo” dei Paesi del Nord hanno scatenato reazioni che hanno fatto male all’Italia e alla stessa Ue, alimentando sovranismi e populismi. Lo spiega bene Federico Fubini in “Per amor proprio”, Longanesi: “Perché l’Italia deve smettere di odiare l’Europa e di vergognarsi di se stessa”. Le “regole comuni” hanno provocato “effetti diversi” nei vari paesi. Le burocrazie hanno colmato i vuoti lasciati da una politica che ha perso slancio. Agli italiani, affascinati dal neo-nazionalismo, Fubini ricorda i meriti delle nostre imprese, il risparmio virtuoso di milioni di cittadini, il buon funzionamento di alcuni servizi pubblici e privati. E insiste su un’Europa migliore. La scelta da fare è fra l’integrazione europea “e qualche impero più lontano e meno democratico al quale finiremmo per doverci sottomettere in cambio di un po’ di aiuto, senza avere voce in capitolo sul nostro destino”.

Guardiamo, appunto, ai nuovi equilibri internazionali. Come fa bene Danilo Taino in “Scacco all’Europa – La guerra fredda tra Cina e Usa per il nuovo ordine mondiale”, Solferino, un libro denso di lucide analisi geopolitiche. Taino sa bene che “ogni ordine mondiale è destinato a crollare: quello eurocentrico è finito da tempo e la Pax Americana che ne ha preso il posto è in declino, sfidata dalla «giovane» potenza cinese”. Le riprove? La guerra commerciale aperta dalla Casa Bianca di Trump nei confronti della Cina e dei principali paesi europei. Ma anche nelle strategie cinesi per la Belt and Road Iniziative, con mille miliardi di investimenti in grandi infrastrutture per legare Pechino con l’Europa e l’Africa. Tensioni politiche ed economiche. Strategie conflittuali. Che investono “l’Europa malata, in preda a una crisi politica ed economica, e destinata a trasformarsi in terreno di conquista da parte di Pechino e Mosca, se non abbandonerà l’illusione di essere ancora al centro del mondo”. Un’Europa, dunque, da ripensare.

Potremmo dire, in conclusione, “Europa nonostante tutto”, riprendendo l’efficace titolo dello snello volume scritto da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa (oltre che dall’autore di questo blog) per La nave di Teseo, per fare un punto sulle principali caratteristiche della Ue: la storia di una straordinaria scelta politica, partendo dal “Manifesto di Ventotene” (redatto nel 1941 dalle generose intelligenze di tre italiani antifascisti al confino, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni), le istituzioni, la cittadinanza europea, l’euro e le questioni dell’economia e dei mercati, i sistemi di welfare migliori al mondo, da valorizzare, difendere, riformare e rafforzare. Europa valore positivo. Ed Europa futuro.

Alla vigilia del voto per rinnovare il Parlamento europeo, cresce la consapevolezza di trovarsi di fronte a un appuntamento tutt’altro che usuale nell’evoluzione degli assetti politici ed economici dell’Europa. Le istituzioni e le regole Ue, dopo settant’anni dai primi accordi, sono sottoposte a un assalto rancoroso che nega quanto di positivo sia stato fatto e amplifica i dati di crisi, mentre soffia un vento preoccupante che riporta purtroppo d’attualità i vecchi mali novecenteschi dei nazionalismi e dei particolarismi locali. Siamo davanti a una sfida che investe non solo la Ue e le sue strutture, ma anche la sostanza stessa della democrazia liberale, dei mercati ben regolati, dello sviluppo che prova a fare convivere competizione e solidarietà sociale.

Vale la pena, anche dal punto di vista della cultura d’impresa, provare a capire meglio quali sono i temi chiave del dibattito in corso. Alcuni buoni libri sono di grande aiuto. A partire dalla storia, per arrivare all’attualità.

L’Europa, dunque, dalle fondamenta ai nostri giorni, seguendo “Il filo infinito” lasciato dalle tracce di San Benedetto e delle abbazie dell’ordine da lui fondato a metà del Cinquecento. Eccolo, il nuovo, intensissimo libro di Paolo Rumiz, Feltrinelli. E’ appunto un “viaggio alle radici dell’Europa” quello che comincia a Norcia (la città natale del santo), risale l’Italia e percorre Francia e Germania, per tornare a Norcia. Terre ben coltivate e biblioteche (“Ora et labora”), fabbriche e studi in cui fare nascere un nuovo diritto da quello romano in decadenza e quello visigoto, dialoghi su vincoli e libertà, storie da subire e storia nuova da costruire. Sino alla conclusione: “Non possiamo permettere che il nostro mondo si sottometta ancora al delirio nazionalista e suprematista. La nostra dea madre fenicia di nome Europa, che per prima attraversò il Mediterraneo con paura, ci ricorda che siamo sempre stati capolinea di popoli migranti e ci spinge a sciogliere altre matasse e a tendere altri fili”.

Dalla storia alle prospettive. Con “Ciò che possiamo fare” ovvero “la libertà di Edith Stein e lo spirito dell’Europa” nella riflessione di Lella Costa, edito da Solferino. Le parole d’una teologa nata ebrea e come tale deportata nell’orrore di Auschwitz e assassinata e proclamata santa dalla Chiesa cattolica sono rimeditate dalla Costa soprattutto per le parti che insistono su dialogo, pace, relazioni tra popoli e culture diverse, valori dell’Europa. Una meditazione profonda sulla convivenza, sulla necessità, attuale ancora oggi, di difenderci dai veleni dei nazionalismi e del populismi. Sono parole forti, che varrebbe la pena leggere insieme a quelle di un’altra grande protagonista del pensiero politico e della spiritualità del Novecento, Simone Weil.

Sono valori che risuonano anche in “Oltre le nazioni” di Zygmunt Bauman, un sintetico saggio del 2012 riproposto da Laterza per aiutarci a ragionare su “l’Europa tra sovranità e solidarietà”. Bauman è stato ottimo interprete dei cambiamenti sociali (la “società liquida”) e degli smarrimenti di fronte “alle forze incontrollate” dei mercati globali. Ha raccontato bene le tentazioni di rifugiarsi nelle rivendicazioni egoistiche per recuperare “la sovranità nazionale perduta” e ne ha denunciato l’errore. Adesso, rilancia la lezione di Richard Sennett secondo cui “il modo migliore per entrare in contatto con le differenze è quello di cooperare in modo informale e aperto” e suggerisce: “Gli uffici e le strade diventano disumani quando vi regnano la rigidità, l’utilitarismo e la competizione, mentre si umanizzano se si muovono interazioni informali, aperte, collaborative”. E’ l’idea di una maggiore e migliore integrazione europea, fatta di ponti e non di muri.

Un’Europa, dunque, da vivere con consapevolezza critica e provare a cambiare. Come? Riducendone banalità burocratiche, nel segno d’una migliore unione politica. Per farlo, è utile anche giocare d’ironia, di paradosso. Come fa Robert Menasse in “La capitale”, Sellerio. Menasse è austriaco, europeista convinto, saggista ma anche romanziere di fertile vena creativa. E questo è appunto un romanzo denso di fantasia e sarcasmo, che comincia con la fuga d’un maiale per le vie di Bruxelles. Un maiale che stimola l’idea di lucrosi affari con la Cina, ma rappresenta anche il simbolo d’una ostilità verso gli immigrati musulmani che non se ne cibano. E occupa discorsi pubblici, giochi culturali (un concorso per dargli un nome) e intrecci economici. Simili ai tanti altri che disperdono il tempo negli uffici di Bruxelles. Storie di burocrati s’arenano in malinconiche avventure sessuali (“Lui simulò il desiderio, lei l’orgasmo. Un’alchimia perfetta”). Un grande evento per ricordare Auschwitz e il monito del “Mai più” degenera in scontri nazionalistici. Generose visioni politiche si confondono con miserie di carriera. L’ombra della Brexit agita tutti. Dalla babele di lingue e interessi riemergerà l’Europa? Forse. A patto di non rinunciare mai al senso dei valori comuni. Nonostante ogni egoistica stupidità.

“Bruxelles” s’intitola il libro di Beda Romano, corrispondente de “Il Sole24Ore”, Il Mulino: ritratto competente “d’una capitale originale e insolita, vero meeting pot di culture ed esperienze, che meglio di altre incarna le molte anime del continente europeo”. Terra di storie e conflitti, di grandi intellettuali belgi o rifugiati (Marx, Baudelaire, Van Eyck, Magritte), di immigrati e teste coronate, di autonomia e integrazione con la forte economia francese, Bruxelles e il Belgio sono crogiolo di diversità e dialoghi. La capitale testimonia la forza delle radici e della fertilità delle culture sovranazionali. Con i suoi limiti, è un buon paradigma dell’Europa. Di cui Romano sa ben raccontare anche i lati migliori.

I valori. E le critiche. Anche rileggendo “Le tre profezie” e facendone strumento per “appunti per il futuro”, come scrive Giulio Tremonti per l’editore Solferino. Il libro parla di Europa in crisi, limiti della globalizzazione, conflitti politici e sociali. Si sofferma su Marx e il suo “Manifesto” sicuro che “all’antico isolamento nazionale subentrerà una interdipendenza universale”, su Goethe e la previsione sui “biglietti alati che voleranno tanto in alto” da non essere raggiungibili e controllabili dalla conoscenza della maggior parte degli uomini (una lucida premonizione delle follie della finanza e dell’economia “di carta”) e sul Leopardi dello Zibaldone, particolarmente critico sulle derive del costume nazionale: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmpolita, non si amò né Roma né il Mondo”. Tremonti va avanti citando Nietzsche e Shakespeare, la crisi di Weimar e il Manifesto di Ventotene, i progetti di Gates e Zuckerberg (che gli piacciono poco). E sottopone a critica l’ideologia mercatista, le burocrazie Ue, il fanatismo del futuro digitale, le radici da cui nascono populismi e sovranismi. Una lettura stimolante, per discutere di come costruire, su più solide e giuste fondamenta, un futuro comune migliore.

Sono temi che ricorrono, in modo diverso, pure in “Stare in Europa – Sogno, incubo e realtà” di Riccardo Perissich, Bollati Boringhieri. In vista del voto di maggio, vale la pena riflettere criticamente su un “modello comunitario” nato 70 anni fa e oramai in parte inadeguato, ma anche evitare retoriche negative anti-Bruxelles e prendere atto che di fronte a sfide globali (i poteri economici sovranazionali, gli sviluppi della cyber economy, il terrorismo islamico, le grandi ondate migratorie) il nazionalismo asfittico delle “piccole patrie” non consente risposte utili. Serve invece “una maggiore integrazione politica”. Perché “la battaglia per preservare la Ue, e con essa la democrazia liberale in Europa, merita di essere combattuta ed è forse la più grande sfida di questo secolo”.

L’Europa, con le sue regole, è stata a lungo considerata come un necessario “vincolo esterno” per costringere gli italiani “indisciplinati” a essere attenti a buon governo, riforme e conti pubblici in ordine. Ma una certa idea “sacrale” dei parametri di Maastricht e un’inclinazione ideologica dell’”ordoliberismo” dei Paesi del Nord hanno scatenato reazioni che hanno fatto male all’Italia e alla stessa Ue, alimentando sovranismi e populismi. Lo spiega bene Federico Fubini in “Per amor proprio”, Longanesi: “Perché l’Italia deve smettere di odiare l’Europa e di vergognarsi di se stessa”. Le “regole comuni” hanno provocato “effetti diversi” nei vari paesi. Le burocrazie hanno colmato i vuoti lasciati da una politica che ha perso slancio. Agli italiani, affascinati dal neo-nazionalismo, Fubini ricorda i meriti delle nostre imprese, il risparmio virtuoso di milioni di cittadini, il buon funzionamento di alcuni servizi pubblici e privati. E insiste su un’Europa migliore. La scelta da fare è fra l’integrazione europea “e qualche impero più lontano e meno democratico al quale finiremmo per doverci sottomettere in cambio di un po’ di aiuto, senza avere voce in capitolo sul nostro destino”.

Guardiamo, appunto, ai nuovi equilibri internazionali. Come fa bene Danilo Taino in “Scacco all’Europa – La guerra fredda tra Cina e Usa per il nuovo ordine mondiale”, Solferino, un libro denso di lucide analisi geopolitiche. Taino sa bene che “ogni ordine mondiale è destinato a crollare: quello eurocentrico è finito da tempo e la Pax Americana che ne ha preso il posto è in declino, sfidata dalla «giovane» potenza cinese”. Le riprove? La guerra commerciale aperta dalla Casa Bianca di Trump nei confronti della Cina e dei principali paesi europei. Ma anche nelle strategie cinesi per la Belt and Road Iniziative, con mille miliardi di investimenti in grandi infrastrutture per legare Pechino con l’Europa e l’Africa. Tensioni politiche ed economiche. Strategie conflittuali. Che investono “l’Europa malata, in preda a una crisi politica ed economica, e destinata a trasformarsi in terreno di conquista da parte di Pechino e Mosca, se non abbandonerà l’illusione di essere ancora al centro del mondo”. Un’Europa, dunque, da ripensare.

Potremmo dire, in conclusione, “Europa nonostante tutto”, riprendendo l’efficace titolo dello snello volume scritto da Maurizio Ferrera, Piergaetano Marchetti, Alberto Martinelli, Antonio Padoa Schioppa (oltre che dall’autore di questo blog) per La nave di Teseo, per fare un punto sulle principali caratteristiche della Ue: la storia di una straordinaria scelta politica, partendo dal “Manifesto di Ventotene” (redatto nel 1941 dalle generose intelligenze di tre italiani antifascisti al confino, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni), le istituzioni, la cittadinanza europea, l’euro e le questioni dell’economia e dei mercati, i sistemi di welfare migliori al mondo, da valorizzare, difendere, riformare e rafforzare. Europa valore positivo. Ed Europa futuro.

“La storia siamo noi”. Bisogna dunque studiarne meglio e di più e lasciare spazio alla filosofia su senso, valore e perché delle scelte

“La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini”. L’appello lanciato alla fine di aprile dallo scrittore Andrea Camilleri, dallo storico Andrea Giardina e dalla senatrice a vita Liliana Segre per dare maggior spazio alla storia, sia nell’insegnamento scolastico e universitario sia agli esami di maturità è stato già sottoscritto da più di mille persone, tra storici, artisti, scienziati, donne e uomini della cultura, dello spettacolo, del mondo dell’editoria e dell’economia. E la raccolta delle firme continua (l’elenco è sul sito e sulle pagine de “la Repubblica”). Quasi in contemporanea è partita l’iniziativa di un “Manifesto per la filosofia”, lanciato da due professori di liceo, Marco Ferrari e Gian Paolo Terravechia (ne ha parlato il “Corriere della Sera” del 30 aprile) e già sottoscritto da numerosissimi docenti e personalità della cultura. La richiesta: più ore d’insegnamento di filosofia, non solo nei licei ma anche negli istituti tecnici e professionali e un riconoscimento della materia pure per gli esami di maturità.

C’è un nesso evidente, quanto mai positivo, tra le due iniziative: impegnarsi per la conoscenza, studiare per dare un peso alle domande di senso e di finalità del nostro essere persone coscienti, affinare gli strumenti per una maggiore e migliore capacità critica su tutte le questioni che interpellano la nostra umanità. La filosofia (parole di Kant) è “la teleologia della ragione umana”, ciò che dà il senso e indica il fine del conoscere e dell’agire, ci consente di capire e decidere cosa fare in piena consapevolezza. La storia, al di là della banalità sul suo essere magistra vitae, “è un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo. Lo storico ha le proprie idee politiche, ma deve sottoporle alle prove dei documenti e del dibattito, confrontandole con le idee altrui e impegnandosi nella loro diffusione” (sono parole dell’appello di Camilleri, Giardina e Segre).

Viviamo tempi mediocri, di passioni furiose ed effimere, di emozioni rabbiose e rancori inconsulti, di retori e demagoghi che del disagio e della paura fanno merce di scambio per racimolare consensi elettorali gonfi di risentimento ma poveri di prospettive concrete. Di polemiche volgari contro gli scienziati e le persone che della conoscenza e della competenza hanno fatto ragione di vita e sostanza di lavoro e d’impegno sociale e civile. L’ignoranza è esibita, ben accetta, coccolata, premiata. La critica, sbeffeggiata. Un’intollerabile inciviltà.

L’appello sulla storia e quello sulla filosofia hanno anche il senso della volontà di rialzare la testa, di non accettare il degrado del discorso pubblico e delle ragioni di fondo della convivenza civile.

Studiare meglio storia e filosofia, dunque. Voler sapere. Imparare a distinguere. Fare la tara alla retorica. Sviluppare pensiero critico, sul senso delle cose e i perché delle scelte. Non cedere mai, dunque, a chi alza la voce, mena le mani o anche soltanto le spara grosse, sperando nell’assenza del contraddittorio. Giocare, piuttosto, di contrasto competente. E, perché no?, di ironia. Chi conosce la storia recente, sa chi era Leo Longanesi, uomo colto, giornalista formidabile, spirito irriverente, fastidioso bastian contrario. È suo il motto “Il Duce ha sempre ragione”. Era una trovata ironica, uno sfottò per i retori della mascella volitiva e della dittatura benefica. Ma quei retori, digiuni d’intelligenza e capacità critica, lo presero sul serio. Poi si sa che fine fecero e che danni provocarono all’Italia e agli italiani, dalle mancanze di libertà all’infamia delle leggi razziali e ai disastri della guerra. Pagine da non dimenticare.

Più storia, appunto, guardando all’evoluzione delle vicende del mondo e alla complessa e contrastata costruzione della nostra composita identità nazionale (identità aperta e molteplice, dunque forte). Più filosofia, di fronte alle tante domande che i processi contemporanei della scienza, delle tecnologie e dell’economia ci pongono.

Da anni, peraltro, gli insegnamenti di filosofia sono tra le materie fondamentali di quelle scuole d’eccellenza che sono i Politecnici di Milano e di Torino, ma anche la Grandes Écoles d’ingegneria francesi. E chi legge questo blog sa quanta ricorrente attenzione sia dedicata agli “ingegneri filosofi” come capitale umano indispensabile per le imprese di fronte alle complessità delle tecniche e dei mercati. E quanto forte sia la necessità, per la nostra economia fondata sul “bello e ben fatto”, di rafforzare la sua competitività grazie alle sintesi originali, di cui noi italiani siamo particolarmente capaci, di unire saperi umanistici e conoscenze scientifiche.

La nostra è civiltà della bellezza e della sapienza. Il futuro ha un cuore antico, come ci ha insegnato Carlo Levi. La memoria nei nostri libri, nei nostri archivi storici e d’impresa, ha il buon sapore degli strumenti che progettano e costruiscono cambiamenti. “La storia siamo noi”, per dirla con le parole di una delle più belle canzoni di Francesco De Gregori. E’ indispensabile esserne consapevoli.

“La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini”. L’appello lanciato alla fine di aprile dallo scrittore Andrea Camilleri, dallo storico Andrea Giardina e dalla senatrice a vita Liliana Segre per dare maggior spazio alla storia, sia nell’insegnamento scolastico e universitario sia agli esami di maturità è stato già sottoscritto da più di mille persone, tra storici, artisti, scienziati, donne e uomini della cultura, dello spettacolo, del mondo dell’editoria e dell’economia. E la raccolta delle firme continua (l’elenco è sul sito e sulle pagine de “la Repubblica”). Quasi in contemporanea è partita l’iniziativa di un “Manifesto per la filosofia”, lanciato da due professori di liceo, Marco Ferrari e Gian Paolo Terravechia (ne ha parlato il “Corriere della Sera” del 30 aprile) e già sottoscritto da numerosissimi docenti e personalità della cultura. La richiesta: più ore d’insegnamento di filosofia, non solo nei licei ma anche negli istituti tecnici e professionali e un riconoscimento della materia pure per gli esami di maturità.

C’è un nesso evidente, quanto mai positivo, tra le due iniziative: impegnarsi per la conoscenza, studiare per dare un peso alle domande di senso e di finalità del nostro essere persone coscienti, affinare gli strumenti per una maggiore e migliore capacità critica su tutte le questioni che interpellano la nostra umanità. La filosofia (parole di Kant) è “la teleologia della ragione umana”, ciò che dà il senso e indica il fine del conoscere e dell’agire, ci consente di capire e decidere cosa fare in piena consapevolezza. La storia, al di là della banalità sul suo essere magistra vitae, “è un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo. Lo storico ha le proprie idee politiche, ma deve sottoporle alle prove dei documenti e del dibattito, confrontandole con le idee altrui e impegnandosi nella loro diffusione” (sono parole dell’appello di Camilleri, Giardina e Segre).

Viviamo tempi mediocri, di passioni furiose ed effimere, di emozioni rabbiose e rancori inconsulti, di retori e demagoghi che del disagio e della paura fanno merce di scambio per racimolare consensi elettorali gonfi di risentimento ma poveri di prospettive concrete. Di polemiche volgari contro gli scienziati e le persone che della conoscenza e della competenza hanno fatto ragione di vita e sostanza di lavoro e d’impegno sociale e civile. L’ignoranza è esibita, ben accetta, coccolata, premiata. La critica, sbeffeggiata. Un’intollerabile inciviltà.

L’appello sulla storia e quello sulla filosofia hanno anche il senso della volontà di rialzare la testa, di non accettare il degrado del discorso pubblico e delle ragioni di fondo della convivenza civile.

Studiare meglio storia e filosofia, dunque. Voler sapere. Imparare a distinguere. Fare la tara alla retorica. Sviluppare pensiero critico, sul senso delle cose e i perché delle scelte. Non cedere mai, dunque, a chi alza la voce, mena le mani o anche soltanto le spara grosse, sperando nell’assenza del contraddittorio. Giocare, piuttosto, di contrasto competente. E, perché no?, di ironia. Chi conosce la storia recente, sa chi era Leo Longanesi, uomo colto, giornalista formidabile, spirito irriverente, fastidioso bastian contrario. È suo il motto “Il Duce ha sempre ragione”. Era una trovata ironica, uno sfottò per i retori della mascella volitiva e della dittatura benefica. Ma quei retori, digiuni d’intelligenza e capacità critica, lo presero sul serio. Poi si sa che fine fecero e che danni provocarono all’Italia e agli italiani, dalle mancanze di libertà all’infamia delle leggi razziali e ai disastri della guerra. Pagine da non dimenticare.

Più storia, appunto, guardando all’evoluzione delle vicende del mondo e alla complessa e contrastata costruzione della nostra composita identità nazionale (identità aperta e molteplice, dunque forte). Più filosofia, di fronte alle tante domande che i processi contemporanei della scienza, delle tecnologie e dell’economia ci pongono.

Da anni, peraltro, gli insegnamenti di filosofia sono tra le materie fondamentali di quelle scuole d’eccellenza che sono i Politecnici di Milano e di Torino, ma anche la Grandes Écoles d’ingegneria francesi. E chi legge questo blog sa quanta ricorrente attenzione sia dedicata agli “ingegneri filosofi” come capitale umano indispensabile per le imprese di fronte alle complessità delle tecniche e dei mercati. E quanto forte sia la necessità, per la nostra economia fondata sul “bello e ben fatto”, di rafforzare la sua competitività grazie alle sintesi originali, di cui noi italiani siamo particolarmente capaci, di unire saperi umanistici e conoscenze scientifiche.

La nostra è civiltà della bellezza e della sapienza. Il futuro ha un cuore antico, come ci ha insegnato Carlo Levi. La memoria nei nostri libri, nei nostri archivi storici e d’impresa, ha il buon sapore degli strumenti che progettano e costruiscono cambiamenti. “La storia siamo noi”, per dirla con le parole di una delle più belle canzoni di Francesco De Gregori. E’ indispensabile esserne consapevoli.

La cultura della responsabilità

L’ultimo libro di Stefano Zamagni affronta uno dei temi cruciali dell’oggi

L’impresa moderna ha una grande responsabilità. Anzi, a ben vedere l’impresa – ieri e oggi -, ha sempre avuto una grande responsabilità. Così come, d’altra parte, ognuno di noi ha, sulle spalle, una dose di responsabilità personale. Capirne il senso è importante, per tutti e ancora di più per chi – imprenditori e manager  – deve governare organizzazioni della produzione (senza dire ovviamente di chi, invece, ha fra le mani i destini di intere comunità).

Leggere l’ultima fatica letteraria di Stefano Zamagni (che insegna Economia politica nell’Università di Bologna e nella Johns Hopkins University, ma soprattutto è uno dei più acuti osservatori del nostro tempo), dedicata proprio al concetto di responsabilità può essere cosa molto utile.

Zamagni ragiona attorno al significato dell’essere responsabili oggi, non tanto dal punto di vista dei singoli ma da quello delle collettività. Molte sono le domande che possono sorgere a questo proposito.  Chi è, ad esempio, responsabile delle disuguaglianze crescenti, della disoccupazione, della povertà, dei disastri climatici? E che cosa accadrà nella società dei big data e dei social network, dove le smart machine potranno “pensare” e decidere? E, poi, cosa ne è della responsabilità sociale d’impresa della quale tanto si ragiona?

Zamagni cerca di dare risposte, a questi e ad altri interrogativi, con un linguaggio piano anche quando affronta passaggi complessi, partendo dal considerare che nel mondo d’oggi (iperconnesso e globalizzato) ogni azione si carica di conseguenze non volute, e spesso neppure immaginate.  Condizione che, fra l’altro, vale per i governi ma anche per le imprese. Il messaggio di Zamagni indica quindi che essere responsabili non è solo non fare il male ma è agire per il bene e, nel mercato, adottare comportamenti che affermino la responsabilità come prendersi cura. Non solo “non fare” quindi, ma, anche e soprattutto, “fare bene”.

Il libro (poco più di duecento pagine che si devono leggere con calma e attenzione), contiene un racconto diviso in sei capitoli e un epilogo. L’autore inizia con le “forme della responsabilità” per proseguire con approfondire la “responsabilità degli esiti di mercato”, poi con l’esame della responsabilità sociale d’impresa e quindi della possibilità di esistenza di una “finanza responsabile” per arrivare ad affrontare il tema delle “macchine che pensano” e delle “macchine che decidono” per finire con il dire chiaro che “solo il neoumanesimo salverà l’economia”.  Nell’epilogo Zamagni cerca quindi di trarre un’indicazione che raccolga la sintesi del ragionamento condotto spiegando: “Essere responsabili significa, oggi, questo: non considerarsi né come il mero risultato di processi che cadono fuori del nostro controllo, né come una realtà autosufficiente senza bisogno di rapporti con l’altro. Significa, in altri termini, pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto determinato da quanto ci precede”. Da qui la necessità, secondo l’autore, di ripensare al modello di mercato e più in generale di economia che oggi risulta essere più diffuso.

Il libro di Zamagni ha, oltre quello di parlar chiaro, un grande merito: affronta un tema complesso non solo con un linguaggio comprensibile, ma pure mettendo insieme sollecitazioni e idee provenienti dall’economia così come dalla storia, dalla filosofia e dalla letteratura: così Musil finisce accanto a Keynes, Machiavelli a Marshall, Platone, Cicerone e Guicciardini a Mill, Friedmann e Drucker e tutto senza dimenticare Kafka, Einaudi, Eco e Leopardi e molti altri.

Responsabili. Come civilizzare il mercato

Stefano Zamagni

il Mulino, 2019

L’ultimo libro di Stefano Zamagni affronta uno dei temi cruciali dell’oggi

L’impresa moderna ha una grande responsabilità. Anzi, a ben vedere l’impresa – ieri e oggi -, ha sempre avuto una grande responsabilità. Così come, d’altra parte, ognuno di noi ha, sulle spalle, una dose di responsabilità personale. Capirne il senso è importante, per tutti e ancora di più per chi – imprenditori e manager  – deve governare organizzazioni della produzione (senza dire ovviamente di chi, invece, ha fra le mani i destini di intere comunità).

Leggere l’ultima fatica letteraria di Stefano Zamagni (che insegna Economia politica nell’Università di Bologna e nella Johns Hopkins University, ma soprattutto è uno dei più acuti osservatori del nostro tempo), dedicata proprio al concetto di responsabilità può essere cosa molto utile.

Zamagni ragiona attorno al significato dell’essere responsabili oggi, non tanto dal punto di vista dei singoli ma da quello delle collettività. Molte sono le domande che possono sorgere a questo proposito.  Chi è, ad esempio, responsabile delle disuguaglianze crescenti, della disoccupazione, della povertà, dei disastri climatici? E che cosa accadrà nella società dei big data e dei social network, dove le smart machine potranno “pensare” e decidere? E, poi, cosa ne è della responsabilità sociale d’impresa della quale tanto si ragiona?

Zamagni cerca di dare risposte, a questi e ad altri interrogativi, con un linguaggio piano anche quando affronta passaggi complessi, partendo dal considerare che nel mondo d’oggi (iperconnesso e globalizzato) ogni azione si carica di conseguenze non volute, e spesso neppure immaginate.  Condizione che, fra l’altro, vale per i governi ma anche per le imprese. Il messaggio di Zamagni indica quindi che essere responsabili non è solo non fare il male ma è agire per il bene e, nel mercato, adottare comportamenti che affermino la responsabilità come prendersi cura. Non solo “non fare” quindi, ma, anche e soprattutto, “fare bene”.

Il libro (poco più di duecento pagine che si devono leggere con calma e attenzione), contiene un racconto diviso in sei capitoli e un epilogo. L’autore inizia con le “forme della responsabilità” per proseguire con approfondire la “responsabilità degli esiti di mercato”, poi con l’esame della responsabilità sociale d’impresa e quindi della possibilità di esistenza di una “finanza responsabile” per arrivare ad affrontare il tema delle “macchine che pensano” e delle “macchine che decidono” per finire con il dire chiaro che “solo il neoumanesimo salverà l’economia”.  Nell’epilogo Zamagni cerca quindi di trarre un’indicazione che raccolga la sintesi del ragionamento condotto spiegando: “Essere responsabili significa, oggi, questo: non considerarsi né come il mero risultato di processi che cadono fuori del nostro controllo, né come una realtà autosufficiente senza bisogno di rapporti con l’altro. Significa, in altri termini, pensare che ciò che ci aspetta non è mai del tutto determinato da quanto ci precede”. Da qui la necessità, secondo l’autore, di ripensare al modello di mercato e più in generale di economia che oggi risulta essere più diffuso.

Il libro di Zamagni ha, oltre quello di parlar chiaro, un grande merito: affronta un tema complesso non solo con un linguaggio comprensibile, ma pure mettendo insieme sollecitazioni e idee provenienti dall’economia così come dalla storia, dalla filosofia e dalla letteratura: così Musil finisce accanto a Keynes, Machiavelli a Marshall, Platone, Cicerone e Guicciardini a Mill, Friedmann e Drucker e tutto senza dimenticare Kafka, Einaudi, Eco e Leopardi e molti altri.

Responsabili. Come civilizzare il mercato

Stefano Zamagni

il Mulino, 2019

Lavoro, formazione, cultura e Industria 4.0

La sintesi della situazione in una tesi discussa all’università LUISS

Industria 4.0 e imprese reali. E quindi lavoro e produzione. Persone, uomini e donne alle prese con la loro crescita umana e professionale. La quarta rivoluzione industriale non significa solamente aumento della produttività e nuovi modi per ottenerla, ma anche – e prima -, coinvolgimento di persone. Cultura d’impresa che cambia sostanza e apparenza.

È per questo che occorre affiancare sempre il paradigma tecnologico di Industria 4.0 con quello umano e sociale. Lo fa, per esempio, anche Matteo Consiglio con la sua tesi, presentata al Dipartimento di Economia e management, Cattedra di Organizzazione aziendale dell’Università LUISS. “Industria 4.0 nelle competenze e nei processi delle imprese: le professioni digitali nel mercato del lavoro italiano” ragiona attorno al tema partendo dalla considerazione che Industria 4.0 raggruppa “l’insieme di cambiamenti, tecnologie e innovazioni che stanno caratterizzando la nostra epoca e che condizioneranno in maniera radicale gli anni a venire”. Se questa è la prospettiva, Consiglio precisa subito che “le dinamiche della trasformazione non sono ancora del tutto chiare ma il grado di discontinuità con il precedente stato delle cose sarà altissimo”. Occorre capire di più e meglio, quindi. Soprattutto per governare il cambiamento e sfruttare pienamente le potenzialità del nuovo corso. Anche dal punto di vista umano sviluppando “atteggiamenti proattivi e competenze che forniscano la creatività e la flessibilità necessarie”.

Il lavoro quindi prende le mosse da un chiaro inquadramento della trasformazione in atto per poi passare ai cambiamenti necessari dal punto  di vista delle risorse umane e arrivare quindi a focalizzare l’attenzione di chi legge sui cambiamenti dal punto di vista delle professioni e dell’aggiornamento professionale in Italia.

Il lavoro di Consiglio ha il gran pregio di raccontare in un numero contenuto di pagine e con un linguaggio piano un tema complesso e in continuo cambiamento: quello che spesso manca nei testi in circolazione.

Industria 4.0 nelle competenze e nei processi delle imprese: le professioni digitali nel mercato del lavoro italiano

Matteo Consiglio

Tesi, LUISS, Dipartimento di Economia e management, Cattedra di Organizzazione aziendale, 2018

Clicca qui per scaricare il PDF

La sintesi della situazione in una tesi discussa all’università LUISS

Industria 4.0 e imprese reali. E quindi lavoro e produzione. Persone, uomini e donne alle prese con la loro crescita umana e professionale. La quarta rivoluzione industriale non significa solamente aumento della produttività e nuovi modi per ottenerla, ma anche – e prima -, coinvolgimento di persone. Cultura d’impresa che cambia sostanza e apparenza.

È per questo che occorre affiancare sempre il paradigma tecnologico di Industria 4.0 con quello umano e sociale. Lo fa, per esempio, anche Matteo Consiglio con la sua tesi, presentata al Dipartimento di Economia e management, Cattedra di Organizzazione aziendale dell’Università LUISS. “Industria 4.0 nelle competenze e nei processi delle imprese: le professioni digitali nel mercato del lavoro italiano” ragiona attorno al tema partendo dalla considerazione che Industria 4.0 raggruppa “l’insieme di cambiamenti, tecnologie e innovazioni che stanno caratterizzando la nostra epoca e che condizioneranno in maniera radicale gli anni a venire”. Se questa è la prospettiva, Consiglio precisa subito che “le dinamiche della trasformazione non sono ancora del tutto chiare ma il grado di discontinuità con il precedente stato delle cose sarà altissimo”. Occorre capire di più e meglio, quindi. Soprattutto per governare il cambiamento e sfruttare pienamente le potenzialità del nuovo corso. Anche dal punto di vista umano sviluppando “atteggiamenti proattivi e competenze che forniscano la creatività e la flessibilità necessarie”.

Il lavoro quindi prende le mosse da un chiaro inquadramento della trasformazione in atto per poi passare ai cambiamenti necessari dal punto  di vista delle risorse umane e arrivare quindi a focalizzare l’attenzione di chi legge sui cambiamenti dal punto di vista delle professioni e dell’aggiornamento professionale in Italia.

Il lavoro di Consiglio ha il gran pregio di raccontare in un numero contenuto di pagine e con un linguaggio piano un tema complesso e in continuo cambiamento: quello che spesso manca nei testi in circolazione.

Industria 4.0 nelle competenze e nei processi delle imprese: le professioni digitali nel mercato del lavoro italiano

Matteo Consiglio

Tesi, LUISS, Dipartimento di Economia e management, Cattedra di Organizzazione aziendale, 2018

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Fondazione Pirelli apre le porte della Bicocca ai bambini

La musica sbarca in fabbrica

Il canto della fabbrica. Salvatore Accardo dirige la grande musica a Settimo Torinese

Comunicazione d’autore

Il restauro dei bozzetti esecutivi per pubblicità degli anni 1965-1981

Tra il 2016 e il 2017 è stato affrontato il restauro di 260 bozzetti esecutivi per pubblicità, realizzati fra il 1968 e il 1981, di proprietà dell’Archivio Storico Pirelli: i 260 pezzi interessati dal recente intervento, presentano materiali e tecniche tipici del periodo e dell’ambito in cui sono stati progettati ed eseguiti.

Dalla fine degli anni sessanta scompare quasi totalmente la resa pittorica o caricaturale/vignettistica tipica di artisti e disegnatori, e si passa a immagini più grafiche con ampi inserimenti di testi. L’intervento manuale diretto si riduce molto, non sono molti i bozzetti eseguiti a tempera o china, mentre è in netta maggioranza l’utilizzo di immagini fotografiche e caratteri stampati. L’intervento di restauro ha permesso di compiere quindi un viaggio a ritroso negli studi di grafica per confrontarsi con i loro metodi di lavoro prima dell’avvento del computer.

La maggior parte dei bozzetti di questo gruppo è composta da più strati sovrapposti: la parte principale dell’immagine è realizzata su cartoncini “Shoellers”, che costituivano il supporto più tipico utilizzato negli studi di grafica, ma anche nel mondo dell’arte contemporanea a quegli anni. Si tratta di un cartoncino di spessore 1,5 mm circa, formato da un’anima interna in vari strati in pasta di legno, rivestita al recto da una carta patinata color avorio chiaro molto liscia e poco porosa e da una carta color verde/azzurro al verso. Sovente è visibile anche il marchio di fabbrica, costituito da un timbro a secco a rilievo. A causa della manipolazione e la conservazione non corretta, i danni principali riscontrati sui cartoncini, oltre ai forti depositi di polvere (rimossi con puliture superficiali con gomme wishab), sono le ammaccature ai margini e agli angoli e lo sfaldamento degli strati in cui il cartone era costituito che hanno richiesto operazioni di riadesione degli scollamenti e consolidamento dei margini, utilizzando pasta d’amido giapponese fra gli strati del cartone e colla mista composta da metilcellulosa ed emulsione acrilica per rinforzare, proteggere e impermeabilizzare i bordi.

Il lato liscio e non assorbente del cartoncino (patinato) era quello adatto per comporre l’immagine dei bozzetti: come già accennato poche sono le realizzazioni a tempera, un certo numero a china nera, ma per la maggior parte le immagini sono ottenute con assemblaggi di carte di vario tipo, fotografico o non, con stampe fotografiche o tipografiche, ritagliate sotto varie forme ed incollate al cartoncino. A questo punto è apparso il ricordo più evidente della scuola d’arte: il tipo di adesivo usato. Non è stato difficile capire che la maggior parte degli incollaggi fosse stata eseguita con la “famosa” (ai tempi) colla Cow Gum! Che non significa colla di mucca, ma prendeva il suo nome dal sig. Cow, che l’aveva inventata. Era una colla dalla consistenza del miele e dal forte odore di solvente, che veniva venduta in un barattolo di latta bianco e rosso con la parola Cow scritta ben evidente. E si stendeva con una paletta di plastica bianca, che ancora possiedo. Leggendo vari siti di grafica e confrontandomi con architetti e designer ho potuto appurare che, prima dell’avvento del computer, tutti gli studi ne facevano ampio uso, e non soltanto noi studenti della scuola d’arte: i testi, le immagini e i vari elementi della composizione venivano ritagliati (spesso appoggiandosi direttamente sul cartoncino stesso – e nei bozzetti Pirelli si notano numerosi i tagli superficiali) e poi applicati al cartoncino. Il vantaggio della Cow, rispetto alle colle a base d’acqua era che non arricciava la carta, inoltre permetteva per un certo tempo di riposizionare le varie parti, se si decideva di modificare la composizione. Al momento dell’uso la Cow era trasparente, ma ovviamente nessuno era consapevole delle trasformazioni che avrebbe subito negli anni. Nel tempo, ossidandosi, subisce una modifica cromatica che trasferisce anche alle carte incollate, su cui affiorano le tracce brune delle spatolate di colla (particolarmente evidenti ai versi); perde inoltre il suo potere adesivo portando al distacco parziale o completo delle varie parti applicate al cartoncino.

Questa descritta è la situazione del maggior numero dei bozzetti sui cui si è incentrato l’intervento: in passato alcuni piccoli pezzi dopo il distacco sono andati persi, ma fortunatamente con il restauro è stato possibile intervenire in tempo per verificare la tenuta di adesione e fissare tutti i pezzi rimanenti. Basta infatti semplicemente la leggera pressione della punta del bisturi per far staccare le parti in cui l’adesivo è ormai completamente ossidato (e quindi recuperare e consolidare tutte le varie parti applicate, utilizzando pasta di amido giapponese, dopo aver eliminato meccanicamente i residui della vecchia Cow ossidata e polverizzata.) Le riadesioni sono state eseguite completamente, o parzialmente (a seconda delle aree che avevano perso aderenza), o almeno agli angoli o margini per evitare perdite future. Non è stato invece possibile schiarire le macchie brune delle ossidazioni, diventate irreversibili. Come già accennato, tra i ritagli applicati ai cartoncini è presente un ampio uso di carte fotografiche di vario tipo, lucide o semimat, usate sia per la stampa di immagini che di molte delle scritte a stampa, un limitato utilizzo di stampe ai sali d’argento riconoscibili per il tipico fenomeno ossidativo detto “specchio d’argento”, il frequente utilizzo di immagini stampate su carte patinate tratte da riviste o in alcuni casi di scritte stampate su acetato. La perdita di adesione della colla Cow ha permesso in molti casi di visionare i versi e vedere le sigle delle carte fotografiche o le versioni sottostanti dei bozzetti, prima di riaderirle con la pasta d’amido giapponese o con adesivo a base di etere di cellulosa in alcool.

Altro tipo di materiale per me molto familiare e ritrovato in numerosi esemplari sono i “retini”. Si tratta di pellicole autoadesive, colorate o con piccoli disegni ripetuti, usati per riempire le campiture. A scuola venivano usate nel disegno geometrico per definire le ombre degli oggetti ed era molto interessante anche la sovrapposizione di colori diversi per trasparenza. Nei bozzetti trattati l’adesione nel tempo è rimasta molto buona, tranne minimi sollevamenti negli angoli e in piccole zone, rifissati con adesivo acrilico. I retini non presentavano alterazioni di colore, segno quindi, insieme alla buona adesione, che il collante originale delle pellicole è molto stabile e non ossidato. Una presenza molto importante su un buon numero di cartoncini è quella dei “crocini”, necessari riferimenti per la stampa dell’immagine, fissati principalmente con pezzetti di nastro adesivo. Come per la Cow Gum anche il collante del nastro si ossida, scurisce e perde adesione, causando il distacco dei crocini. Fortunatamente le macchie lasciate dalla colla sul cartoncino hanno permesso di individuare le posizioni iniziali per poterli rifissare correttamente. Un’altra tipologia di elementi ritrovati su vari cartoncini e con una situazione conservativa simile ai crocini è quella dei campioni colore, ritagli di carte colorate che servivano come riferimento per i colori da utilizzare in stampa, anch’esse spesso fissate con nastro adesivo, ma non più ben adese. Con lo stesso sistema erano applicate alcune scritte fissate sopra a versioni precedenti. Per i casi appena descritti si è deciso con la responsabile dell’Archivio Storico di mantenere le pellicole plastiche dei nastri adesivi dopo averle ripulite dal collante (che è la parte dannosa) utilizzando come solventi etere o acetone a seconda dell’ossidazione dell’adesivo, e ricollocare poi le pellicole nelle posizioni originarie fissandole con adesivo acrilico, riuscendo quindi a mantenere l’aspetto visivo che presentava il bozzetto appena fu realizzato.

Un ruolo importante sia visivo che tecnico è quello dei lucidi: uno o più fogli sovrapposti (in alcuni casi anche tre) fissati con nastri adesivi al di sopra dei cartoncini. La loro funzione, oltre che di protezione del bozzetto, era di contenere tutte le annotazioni utili per la stampa, le varianti e le aggiunte rispetto al bozzetto originario. Sui lucidi quindi sono presenti: scritte a matita, a penna a sfera (nera, blu o rossa) a inchiostro nero o rosso tracciato con rapidograph, a pennarelli, tratto-pen o pastelli colorati; ma si ritrovano anche parte degli stessi materiali usati sui cartoncini: carte ritagliate con scritte a stampa e incollate con la Cow Gum, crocini e campioni colore fissati con nastro adesivo o incollati, retini trasparenti colorati. I lucidi presentavano problemi conservativi che interessavano sia il supporto che i materiali sopra applicati. Per i primi si sono riscontrati principalmente: pieghe, strappi, parti mancanti a causa della manipolazione, distacco dal cartone per perdita di adesione dei nastri adesivi, e anche macchie e residui di collante degli scotch. Per i materiali applicati i problemi principali erano quelli già descritti per le carte fissate ai cartoncini: macchie causate dalla Cow Gum e distacchi parziali o totali.

Il restauro dei danni nei lucidi ha contemplato in primo luogo la pulitura superficiale: infatti, essendo la parte più esposta dei bozzetti, erano più o meno ricoperti da depositi di polvere. I resti dei nastri adesivi, usati per fissare i lucidi ai cartoncini o per riparare strappi, sono stati rimossi e le parti ripulite a solvente. Le pieghe e grinze presenti sono state attenuate apportando umidità minima e localizzata usando pennellini fini da ritocco e sono stati saldati gli strappi dal verso con sottili strisce di carte giapponesi molto leggere, utilizzando un adesivo a base alcoolica, per evitare di creare ondulazioni, in quanto i lucidi sono molto sensibili all’umidità e tendono a deformarsi in maniera permanente. Le lacune sono state integrate con vecchie carte da lucido, simili per colore, fissate con le medesime striscioline ed adesivo degli strappi. Quindi le varie carte con scritte e immagini sono state fissate, completamente o parzialmente, usando lo stesso collante in base alcolica. Alla fine degli interventi, i lucidi sono stati riposizionati sul cartoncino, utilizzando nastri da conservazione. Sotto al lucido di protezione, erano spesso allegate stampe fotografiche (corrispondenti o varianti della foto sul bozzetto) o fotocolor (cioè positivi su pellicola) raffiguranti i bozzetti preliminari all’esecutivo, a volte anche realizzati a mano secondo le tecniche tradizionali e che purtroppo non sono più esistenti. L’immagine tratta dal fotocolor è quella che si trova stampata ed applicata al cartoncino. I fotocolor sono sempre inseriti in buste di plastica non idonee alla conservazione, che a volte sono andate ad aderire alla pellicola del fotocolor. In alcuni casi la pellicola è danneggiata o rischia di esserlo per la presenza di nastri adesivi di varia natura, a volte parzialmente sciolti ed espansi sulla superficie con “gorature” biancastre Dopo l’attenta pulitura a solvente per eliminare i residui dei vecchi nastri adesivi dai fotocolor, sono stati posizionati nuovi nastri conservativi specifici per pellicole e materiale fotografico e sia i fotocolor che le stampe fotografiche sono state protette in buste conservative di polipropilene trasparente.

Il criterio seguito negli interventi è stato quello di considerare questi bozzetti non come opere finali, ma come strumenti d’uso, essendo infatti preparatori per la realizzazione a stampa di manifesti, locandine e pubblicità da inserire in riviste e pubblicazioni. Quindi, nel restauro, si è ritenuto fondamentale conservare tutte le tracce e gli elementi aggiunti per la realizzazione della stampa finale: note scritte direttamente sia sul cartoncino che sui lucidi oppure su foglietti a parte, commenti e suggerimenti di modifiche, scritte varie sia sui recti che anche sui versi, come documentazione e testimonianza di un processo creativo e di lavoro.

Lucia Tarantola (restauratrice)

Tra il 2016 e il 2017 è stato affrontato il restauro di 260 bozzetti esecutivi per pubblicità, realizzati fra il 1968 e il 1981, di proprietà dell’Archivio Storico Pirelli: i 260 pezzi interessati dal recente intervento, presentano materiali e tecniche tipici del periodo e dell’ambito in cui sono stati progettati ed eseguiti.

Dalla fine degli anni sessanta scompare quasi totalmente la resa pittorica o caricaturale/vignettistica tipica di artisti e disegnatori, e si passa a immagini più grafiche con ampi inserimenti di testi. L’intervento manuale diretto si riduce molto, non sono molti i bozzetti eseguiti a tempera o china, mentre è in netta maggioranza l’utilizzo di immagini fotografiche e caratteri stampati. L’intervento di restauro ha permesso di compiere quindi un viaggio a ritroso negli studi di grafica per confrontarsi con i loro metodi di lavoro prima dell’avvento del computer.

La maggior parte dei bozzetti di questo gruppo è composta da più strati sovrapposti: la parte principale dell’immagine è realizzata su cartoncini “Shoellers”, che costituivano il supporto più tipico utilizzato negli studi di grafica, ma anche nel mondo dell’arte contemporanea a quegli anni. Si tratta di un cartoncino di spessore 1,5 mm circa, formato da un’anima interna in vari strati in pasta di legno, rivestita al recto da una carta patinata color avorio chiaro molto liscia e poco porosa e da una carta color verde/azzurro al verso. Sovente è visibile anche il marchio di fabbrica, costituito da un timbro a secco a rilievo. A causa della manipolazione e la conservazione non corretta, i danni principali riscontrati sui cartoncini, oltre ai forti depositi di polvere (rimossi con puliture superficiali con gomme wishab), sono le ammaccature ai margini e agli angoli e lo sfaldamento degli strati in cui il cartone era costituito che hanno richiesto operazioni di riadesione degli scollamenti e consolidamento dei margini, utilizzando pasta d’amido giapponese fra gli strati del cartone e colla mista composta da metilcellulosa ed emulsione acrilica per rinforzare, proteggere e impermeabilizzare i bordi.

Il lato liscio e non assorbente del cartoncino (patinato) era quello adatto per comporre l’immagine dei bozzetti: come già accennato poche sono le realizzazioni a tempera, un certo numero a china nera, ma per la maggior parte le immagini sono ottenute con assemblaggi di carte di vario tipo, fotografico o non, con stampe fotografiche o tipografiche, ritagliate sotto varie forme ed incollate al cartoncino. A questo punto è apparso il ricordo più evidente della scuola d’arte: il tipo di adesivo usato. Non è stato difficile capire che la maggior parte degli incollaggi fosse stata eseguita con la “famosa” (ai tempi) colla Cow Gum! Che non significa colla di mucca, ma prendeva il suo nome dal sig. Cow, che l’aveva inventata. Era una colla dalla consistenza del miele e dal forte odore di solvente, che veniva venduta in un barattolo di latta bianco e rosso con la parola Cow scritta ben evidente. E si stendeva con una paletta di plastica bianca, che ancora possiedo. Leggendo vari siti di grafica e confrontandomi con architetti e designer ho potuto appurare che, prima dell’avvento del computer, tutti gli studi ne facevano ampio uso, e non soltanto noi studenti della scuola d’arte: i testi, le immagini e i vari elementi della composizione venivano ritagliati (spesso appoggiandosi direttamente sul cartoncino stesso – e nei bozzetti Pirelli si notano numerosi i tagli superficiali) e poi applicati al cartoncino. Il vantaggio della Cow, rispetto alle colle a base d’acqua era che non arricciava la carta, inoltre permetteva per un certo tempo di riposizionare le varie parti, se si decideva di modificare la composizione. Al momento dell’uso la Cow era trasparente, ma ovviamente nessuno era consapevole delle trasformazioni che avrebbe subito negli anni. Nel tempo, ossidandosi, subisce una modifica cromatica che trasferisce anche alle carte incollate, su cui affiorano le tracce brune delle spatolate di colla (particolarmente evidenti ai versi); perde inoltre il suo potere adesivo portando al distacco parziale o completo delle varie parti applicate al cartoncino.

Questa descritta è la situazione del maggior numero dei bozzetti sui cui si è incentrato l’intervento: in passato alcuni piccoli pezzi dopo il distacco sono andati persi, ma fortunatamente con il restauro è stato possibile intervenire in tempo per verificare la tenuta di adesione e fissare tutti i pezzi rimanenti. Basta infatti semplicemente la leggera pressione della punta del bisturi per far staccare le parti in cui l’adesivo è ormai completamente ossidato (e quindi recuperare e consolidare tutte le varie parti applicate, utilizzando pasta di amido giapponese, dopo aver eliminato meccanicamente i residui della vecchia Cow ossidata e polverizzata.) Le riadesioni sono state eseguite completamente, o parzialmente (a seconda delle aree che avevano perso aderenza), o almeno agli angoli o margini per evitare perdite future. Non è stato invece possibile schiarire le macchie brune delle ossidazioni, diventate irreversibili. Come già accennato, tra i ritagli applicati ai cartoncini è presente un ampio uso di carte fotografiche di vario tipo, lucide o semimat, usate sia per la stampa di immagini che di molte delle scritte a stampa, un limitato utilizzo di stampe ai sali d’argento riconoscibili per il tipico fenomeno ossidativo detto “specchio d’argento”, il frequente utilizzo di immagini stampate su carte patinate tratte da riviste o in alcuni casi di scritte stampate su acetato. La perdita di adesione della colla Cow ha permesso in molti casi di visionare i versi e vedere le sigle delle carte fotografiche o le versioni sottostanti dei bozzetti, prima di riaderirle con la pasta d’amido giapponese o con adesivo a base di etere di cellulosa in alcool.

Altro tipo di materiale per me molto familiare e ritrovato in numerosi esemplari sono i “retini”. Si tratta di pellicole autoadesive, colorate o con piccoli disegni ripetuti, usati per riempire le campiture. A scuola venivano usate nel disegno geometrico per definire le ombre degli oggetti ed era molto interessante anche la sovrapposizione di colori diversi per trasparenza. Nei bozzetti trattati l’adesione nel tempo è rimasta molto buona, tranne minimi sollevamenti negli angoli e in piccole zone, rifissati con adesivo acrilico. I retini non presentavano alterazioni di colore, segno quindi, insieme alla buona adesione, che il collante originale delle pellicole è molto stabile e non ossidato. Una presenza molto importante su un buon numero di cartoncini è quella dei “crocini”, necessari riferimenti per la stampa dell’immagine, fissati principalmente con pezzetti di nastro adesivo. Come per la Cow Gum anche il collante del nastro si ossida, scurisce e perde adesione, causando il distacco dei crocini. Fortunatamente le macchie lasciate dalla colla sul cartoncino hanno permesso di individuare le posizioni iniziali per poterli rifissare correttamente. Un’altra tipologia di elementi ritrovati su vari cartoncini e con una situazione conservativa simile ai crocini è quella dei campioni colore, ritagli di carte colorate che servivano come riferimento per i colori da utilizzare in stampa, anch’esse spesso fissate con nastro adesivo, ma non più ben adese. Con lo stesso sistema erano applicate alcune scritte fissate sopra a versioni precedenti. Per i casi appena descritti si è deciso con la responsabile dell’Archivio Storico di mantenere le pellicole plastiche dei nastri adesivi dopo averle ripulite dal collante (che è la parte dannosa) utilizzando come solventi etere o acetone a seconda dell’ossidazione dell’adesivo, e ricollocare poi le pellicole nelle posizioni originarie fissandole con adesivo acrilico, riuscendo quindi a mantenere l’aspetto visivo che presentava il bozzetto appena fu realizzato.

Un ruolo importante sia visivo che tecnico è quello dei lucidi: uno o più fogli sovrapposti (in alcuni casi anche tre) fissati con nastri adesivi al di sopra dei cartoncini. La loro funzione, oltre che di protezione del bozzetto, era di contenere tutte le annotazioni utili per la stampa, le varianti e le aggiunte rispetto al bozzetto originario. Sui lucidi quindi sono presenti: scritte a matita, a penna a sfera (nera, blu o rossa) a inchiostro nero o rosso tracciato con rapidograph, a pennarelli, tratto-pen o pastelli colorati; ma si ritrovano anche parte degli stessi materiali usati sui cartoncini: carte ritagliate con scritte a stampa e incollate con la Cow Gum, crocini e campioni colore fissati con nastro adesivo o incollati, retini trasparenti colorati. I lucidi presentavano problemi conservativi che interessavano sia il supporto che i materiali sopra applicati. Per i primi si sono riscontrati principalmente: pieghe, strappi, parti mancanti a causa della manipolazione, distacco dal cartone per perdita di adesione dei nastri adesivi, e anche macchie e residui di collante degli scotch. Per i materiali applicati i problemi principali erano quelli già descritti per le carte fissate ai cartoncini: macchie causate dalla Cow Gum e distacchi parziali o totali.

Il restauro dei danni nei lucidi ha contemplato in primo luogo la pulitura superficiale: infatti, essendo la parte più esposta dei bozzetti, erano più o meno ricoperti da depositi di polvere. I resti dei nastri adesivi, usati per fissare i lucidi ai cartoncini o per riparare strappi, sono stati rimossi e le parti ripulite a solvente. Le pieghe e grinze presenti sono state attenuate apportando umidità minima e localizzata usando pennellini fini da ritocco e sono stati saldati gli strappi dal verso con sottili strisce di carte giapponesi molto leggere, utilizzando un adesivo a base alcoolica, per evitare di creare ondulazioni, in quanto i lucidi sono molto sensibili all’umidità e tendono a deformarsi in maniera permanente. Le lacune sono state integrate con vecchie carte da lucido, simili per colore, fissate con le medesime striscioline ed adesivo degli strappi. Quindi le varie carte con scritte e immagini sono state fissate, completamente o parzialmente, usando lo stesso collante in base alcolica. Alla fine degli interventi, i lucidi sono stati riposizionati sul cartoncino, utilizzando nastri da conservazione. Sotto al lucido di protezione, erano spesso allegate stampe fotografiche (corrispondenti o varianti della foto sul bozzetto) o fotocolor (cioè positivi su pellicola) raffiguranti i bozzetti preliminari all’esecutivo, a volte anche realizzati a mano secondo le tecniche tradizionali e che purtroppo non sono più esistenti. L’immagine tratta dal fotocolor è quella che si trova stampata ed applicata al cartoncino. I fotocolor sono sempre inseriti in buste di plastica non idonee alla conservazione, che a volte sono andate ad aderire alla pellicola del fotocolor. In alcuni casi la pellicola è danneggiata o rischia di esserlo per la presenza di nastri adesivi di varia natura, a volte parzialmente sciolti ed espansi sulla superficie con “gorature” biancastre Dopo l’attenta pulitura a solvente per eliminare i residui dei vecchi nastri adesivi dai fotocolor, sono stati posizionati nuovi nastri conservativi specifici per pellicole e materiale fotografico e sia i fotocolor che le stampe fotografiche sono state protette in buste conservative di polipropilene trasparente.

Il criterio seguito negli interventi è stato quello di considerare questi bozzetti non come opere finali, ma come strumenti d’uso, essendo infatti preparatori per la realizzazione a stampa di manifesti, locandine e pubblicità da inserire in riviste e pubblicazioni. Quindi, nel restauro, si è ritenuto fondamentale conservare tutte le tracce e gli elementi aggiunti per la realizzazione della stampa finale: note scritte direttamente sia sul cartoncino che sui lucidi oppure su foglietti a parte, commenti e suggerimenti di modifiche, scritte varie sia sui recti che anche sui versi, come documentazione e testimonianza di un processo creativo e di lavoro.

Lucia Tarantola (restauratrice)

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