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Antitrust: ecco come superare il “capitalismo di relazione” e fare crescere mercato e merito

Il capitalismo di relazione danneggia la parte più vitale e competitiva dell’economia italiana”, favorisce “la spesa pubblica improduttiva e inefficiente”, molto spesso diretta “a soddisfare gli interessi particolaristici delle lobbies e dei cacciatori di rendite”. E’ dunque un grave freno per la crescita equilibrata del sistema Paese. E va bloccato, con scelte politiche e con riforme che insistano su competitività, produzione, buone culture d’impresa per un mercato aperto, trasparente, ben regolato e controllato. Il severo giudizio sui danni del “capitalismo di relazione” viene da una fonte autorevole, il professor Giovanni Pitruzzella, presidente dell’ “Autorità garante della concorrenza” (meglio nota come Antitrust), un costituzionalista attento agli aspetti economici della legislazione e delle politiche di governo. Ed è contenuto nella relazione annuale che l’Antitrust presenta alle autorità istituzionali e ai vertici del mondo politico ed economico (il 30 giugno, quest’anno).

Pitruzzella mette nel mirino, giustamente, un insieme di regole non scritte ma ben consolidate, che “si basa sui privilegi, piuttosto che sui meriti, aggrava le diseguaglianze, rende la società chiusa, statica, poco aperta alla concorrenza e all’innovazione”. E insiste sui guasti provocati da un sistema di corporazioni, dagli intrecci perversi tra burocrazie pubbliche (statali e locali) e imprese poco inclini alla competizione, dai rapporti oscuri tra favori e corruzioni, dalle distorsioni del mercato in nome delle clientele (con tutte le conseguenze che investono in pieno la drammatica crescita dell’influenza delle organizzazioni mafiose non solo nelle aree storiche di insediamento, ma anche nelle ricche regioni del Nord). E’ una denuncia con una forte valenza etica e politica, quella di Pitruzzella. Insiste sui temi della legalità (che trovano da tempo sensibilità crescenti tra gli imprenditori e le loro organizzazioni, da Confindustria alle territoriali di maggior rilievo, da Assolombarda alle strutture del Veneto e del Piemonte). Ma pone anche in primo piano la questione dell’efficienza, della produttività e della competitività dell’Italia, che il “capitalismo di relazione” frena e distorce.

C’è stata una lunga stagione, nella storia dell’economia italiana, caratterizzata dalle consuetudini d’un “capitalismo dei salotti buoni”, dalle relazioni privilegiate tra grandi imprese e sistema finanziario, sotto l’ombrello della Mediobanca guidata da Enrico Cuccia. Una rete di rapporti incrociati e saldati dai “patti di sindacato”, sostanzialmente conservativa e poco aperta alle dinamiche più vivaci di Borsa e di mercato. Servì a proteggere la parte migliore del capitalismo privato dalle incursioni della peggior politica (e anche dagli assalti di speculatori finanziari alla Sindona, che facevano da paravento a capitali mafiosi). Anche quello, per comodità di sintesi, veniva chiamato “capitalismo di relazione”. Ne aveva però, rispetto all’analisi di Pitruzzella, caratteristiche ben diverse (per capire meglio, può essere utile la lettura di un paio di libri recenti, come “Cuccia e il segreto di Mediobanca” scritto da Giorgio La Malfa e pubblicato da Feltrinelli e “Promemoria d’un banchiere d’affari”, una interessante raccolta di scritti di Cuccia, curata da Sandro Gerbi e Giandomenico Piluso e pubblicata da Aragno: dettagliate e talvolta originali ricostruzioni del ruolo di Mediobanca, nella seconda metà del Novecento italiano, con molte luci e alcune ombre, di sistema, soprattutto). Era un capitalismo protettivo e solidamente governato da una figura forte e integerrima. Poco incline alla trasparenza e al mercato, è vero, ma con un sistema di valorizzazione del merito e di sanzioni. Forte di una sua autonomia, dalla politica ma anche dalle peggiori tentazioni corsare di alcune delle stesse imprese. Ed è comunque un tipo di capitalismo entrato in crisi già negli anni Novanta. E poi definitivamente tramontato (tema interessante per gli storici, provare prima o poi a farne un bilancio serio, documentato, equilibrato). Addio patti di sindacato. Si impara a stare sul mercato, anzi meglio sui mercati della competizione internazionale.

Il “capitalismo di relazione” denunciato da Pitruzzella è tutt’altro. E va combattuto e superato. Come? Con un maggior impegno su privatizzazioni e liberalizzazioni, per non sostituire monopoli pubblici con monopoli privati e per chiudere con  un certo “capitalismo municipalistico” delle società pubbliche locali. E con un lavoro coerente da parte dell’Antitrust “che si è concentrato e continuerà a concentrarsi su quei settori in cui più forte è stata la presa del capitalismo di relazione e nei quali da una corretta dinamica concorrenziale c’è da attendersi una spinta alla competitività e alla crescita”: energia, trasporti, servizi, comunicazioni elettroniche, commercio online e servizi finanziari. Proprio gli stessi settori nel mirino della Commissione Ue.

C’è un gran lavoro da fare, dunque. Possibile. Meno burocrazia, corporazioni, clientele. Più mercato. E dunque più sviluppo. Le buone imprese e l’Italia che vuole crescere ne saranno grate.

Il capitalismo di relazione danneggia la parte più vitale e competitiva dell’economia italiana”, favorisce “la spesa pubblica improduttiva e inefficiente”, molto spesso diretta “a soddisfare gli interessi particolaristici delle lobbies e dei cacciatori di rendite”. E’ dunque un grave freno per la crescita equilibrata del sistema Paese. E va bloccato, con scelte politiche e con riforme che insistano su competitività, produzione, buone culture d’impresa per un mercato aperto, trasparente, ben regolato e controllato. Il severo giudizio sui danni del “capitalismo di relazione” viene da una fonte autorevole, il professor Giovanni Pitruzzella, presidente dell’ “Autorità garante della concorrenza” (meglio nota come Antitrust), un costituzionalista attento agli aspetti economici della legislazione e delle politiche di governo. Ed è contenuto nella relazione annuale che l’Antitrust presenta alle autorità istituzionali e ai vertici del mondo politico ed economico (il 30 giugno, quest’anno).

Pitruzzella mette nel mirino, giustamente, un insieme di regole non scritte ma ben consolidate, che “si basa sui privilegi, piuttosto che sui meriti, aggrava le diseguaglianze, rende la società chiusa, statica, poco aperta alla concorrenza e all’innovazione”. E insiste sui guasti provocati da un sistema di corporazioni, dagli intrecci perversi tra burocrazie pubbliche (statali e locali) e imprese poco inclini alla competizione, dai rapporti oscuri tra favori e corruzioni, dalle distorsioni del mercato in nome delle clientele (con tutte le conseguenze che investono in pieno la drammatica crescita dell’influenza delle organizzazioni mafiose non solo nelle aree storiche di insediamento, ma anche nelle ricche regioni del Nord). E’ una denuncia con una forte valenza etica e politica, quella di Pitruzzella. Insiste sui temi della legalità (che trovano da tempo sensibilità crescenti tra gli imprenditori e le loro organizzazioni, da Confindustria alle territoriali di maggior rilievo, da Assolombarda alle strutture del Veneto e del Piemonte). Ma pone anche in primo piano la questione dell’efficienza, della produttività e della competitività dell’Italia, che il “capitalismo di relazione” frena e distorce.

C’è stata una lunga stagione, nella storia dell’economia italiana, caratterizzata dalle consuetudini d’un “capitalismo dei salotti buoni”, dalle relazioni privilegiate tra grandi imprese e sistema finanziario, sotto l’ombrello della Mediobanca guidata da Enrico Cuccia. Una rete di rapporti incrociati e saldati dai “patti di sindacato”, sostanzialmente conservativa e poco aperta alle dinamiche più vivaci di Borsa e di mercato. Servì a proteggere la parte migliore del capitalismo privato dalle incursioni della peggior politica (e anche dagli assalti di speculatori finanziari alla Sindona, che facevano da paravento a capitali mafiosi). Anche quello, per comodità di sintesi, veniva chiamato “capitalismo di relazione”. Ne aveva però, rispetto all’analisi di Pitruzzella, caratteristiche ben diverse (per capire meglio, può essere utile la lettura di un paio di libri recenti, come “Cuccia e il segreto di Mediobanca” scritto da Giorgio La Malfa e pubblicato da Feltrinelli e “Promemoria d’un banchiere d’affari”, una interessante raccolta di scritti di Cuccia, curata da Sandro Gerbi e Giandomenico Piluso e pubblicata da Aragno: dettagliate e talvolta originali ricostruzioni del ruolo di Mediobanca, nella seconda metà del Novecento italiano, con molte luci e alcune ombre, di sistema, soprattutto). Era un capitalismo protettivo e solidamente governato da una figura forte e integerrima. Poco incline alla trasparenza e al mercato, è vero, ma con un sistema di valorizzazione del merito e di sanzioni. Forte di una sua autonomia, dalla politica ma anche dalle peggiori tentazioni corsare di alcune delle stesse imprese. Ed è comunque un tipo di capitalismo entrato in crisi già negli anni Novanta. E poi definitivamente tramontato (tema interessante per gli storici, provare prima o poi a farne un bilancio serio, documentato, equilibrato). Addio patti di sindacato. Si impara a stare sul mercato, anzi meglio sui mercati della competizione internazionale.

Il “capitalismo di relazione” denunciato da Pitruzzella è tutt’altro. E va combattuto e superato. Come? Con un maggior impegno su privatizzazioni e liberalizzazioni, per non sostituire monopoli pubblici con monopoli privati e per chiudere con  un certo “capitalismo municipalistico” delle società pubbliche locali. E con un lavoro coerente da parte dell’Antitrust “che si è concentrato e continuerà a concentrarsi su quei settori in cui più forte è stata la presa del capitalismo di relazione e nei quali da una corretta dinamica concorrenziale c’è da attendersi una spinta alla competitività e alla crescita”: energia, trasporti, servizi, comunicazioni elettroniche, commercio online e servizi finanziari. Proprio gli stessi settori nel mirino della Commissione Ue.

C’è un gran lavoro da fare, dunque. Possibile. Meno burocrazia, corporazioni, clientele. Più mercato. E dunque più sviluppo. Le buone imprese e l’Italia che vuole crescere ne saranno grate.

Mercati esteri, vince la “gestione culturale” d’impresa

Si sa: le imprese devono correre nel mondo per sopravvivere. Alle prese con congiunture complesse, le aziende – direttamente o indirettamente – sono costrette ad esplorare mercati che non sono più dietro l’angolo. L’assunto pare essere ormai accettato. Meno compresa – e accettata -, è però una condizione immediatamente seguente: nel momento in cui si parte cambia tutto, anche la cultura aziendale. Perché capire cosa si affronta dal punto di vista culturale quando si va all’estero è fondamentale: la base del successo.

Il lavoro di Diwakar Singh della Gujarat University, apparso qualche giorno fa sul Journal of Mechanical and Civil Engineering, è utile per comprendere meglio questo aspetto della gestione d’impresa comune alle grandi realtà così come alle piccole.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations” fornisce uno schema chiaro delle relazioni fra globalizzazione, imprese e aspetti culturali della gestione.

“I progressi nel campo delle tecnologie dell’informazione e la liberalizzazione del commercio e degli investimenti – dice l’autore -, hanno aumentato la facilità e la velocità con cui le aziende possono gestire le loro operazioni globali. A causa della globalizzazione, molte aziende operano in più di un paese”.

Oltre che quella di nuovi mercati, tutto ciò provoca però un’altra esperienza nelle imprese. “Questo attraversamento dei confini geografici delle società – dice ancora Singh -, fa nascere organizzazioni multiculturali dove dipendenti di più di un paese stanno lavorando insieme”. Il risultato? Ancora oggi – dopo anni di globalizzazione -, le imprese da un lato scoprono la redditività di situazioni di questo genere, ma, dall’altro, rilevano anche tutte le difficoltà di avviare relazioni con altri paesi. “Il business globale – dice la ricerca -, è influenzato da una serie di fattori come le differenze ambientali socio-economiche, culturali, giuridiche e politiche. Entrano in gioco anche svariati rischi culturali e finanziari oltre che politici”.

Da tutto questo una necessità: occorrono mappe chiare per non perdersi. Singh, quindi, fornisce un percorso a punti importante per tenere conto di tutti gli aspetti interculturali che un’impresa può incontrare andando all’estero. Ma soprattutto la ricerca arriva ad una conclusione più generale. Nella globalizzazione vincono quelle organizzazioni che hanno la capacità di “attrarre, trattenere e motivare le persone di diversa estrazione culturale”. Salta così in primo piano una dote rara e da sviluppare: la sensibilità del saper cogliere aspetti della gestione aziendale diversi dalla semplice produzione e ricerca di nuovi sbocchi commerciali.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations

Diwakar Singh

MBA(HR), MA(Psy)[Gujarat University], UGC NET (Management), PGDHE(IGNOU)

IOSR Journal of Mechanical and Civil Engineering (IOSR-JMCE), e-ISSN: 2278-1684, p-ISSN: 2320-334X, PP 43-50

Si sa: le imprese devono correre nel mondo per sopravvivere. Alle prese con congiunture complesse, le aziende – direttamente o indirettamente – sono costrette ad esplorare mercati che non sono più dietro l’angolo. L’assunto pare essere ormai accettato. Meno compresa – e accettata -, è però una condizione immediatamente seguente: nel momento in cui si parte cambia tutto, anche la cultura aziendale. Perché capire cosa si affronta dal punto di vista culturale quando si va all’estero è fondamentale: la base del successo.

Il lavoro di Diwakar Singh della Gujarat University, apparso qualche giorno fa sul Journal of Mechanical and Civil Engineering, è utile per comprendere meglio questo aspetto della gestione d’impresa comune alle grandi realtà così come alle piccole.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations” fornisce uno schema chiaro delle relazioni fra globalizzazione, imprese e aspetti culturali della gestione.

“I progressi nel campo delle tecnologie dell’informazione e la liberalizzazione del commercio e degli investimenti – dice l’autore -, hanno aumentato la facilità e la velocità con cui le aziende possono gestire le loro operazioni globali. A causa della globalizzazione, molte aziende operano in più di un paese”.

Oltre che quella di nuovi mercati, tutto ciò provoca però un’altra esperienza nelle imprese. “Questo attraversamento dei confini geografici delle società – dice ancora Singh -, fa nascere organizzazioni multiculturali dove dipendenti di più di un paese stanno lavorando insieme”. Il risultato? Ancora oggi – dopo anni di globalizzazione -, le imprese da un lato scoprono la redditività di situazioni di questo genere, ma, dall’altro, rilevano anche tutte le difficoltà di avviare relazioni con altri paesi. “Il business globale – dice la ricerca -, è influenzato da una serie di fattori come le differenze ambientali socio-economiche, culturali, giuridiche e politiche. Entrano in gioco anche svariati rischi culturali e finanziari oltre che politici”.

Da tutto questo una necessità: occorrono mappe chiare per non perdersi. Singh, quindi, fornisce un percorso a punti importante per tenere conto di tutti gli aspetti interculturali che un’impresa può incontrare andando all’estero. Ma soprattutto la ricerca arriva ad una conclusione più generale. Nella globalizzazione vincono quelle organizzazioni che hanno la capacità di “attrarre, trattenere e motivare le persone di diversa estrazione culturale”. Salta così in primo piano una dote rara e da sviluppare: la sensibilità del saper cogliere aspetti della gestione aziendale diversi dalla semplice produzione e ricerca di nuovi sbocchi commerciali.

Managing Cross-cultural Diversity: Issues and Challenges in Global Organizations

Diwakar Singh

MBA(HR), MA(Psy)[Gujarat University], UGC NET (Management), PGDHE(IGNOU)

IOSR Journal of Mechanical and Civil Engineering (IOSR-JMCE), e-ISSN: 2278-1684, p-ISSN: 2320-334X, PP 43-50

Impresa felice, società contenta

L’impresa e l’imprenditore possono essere le figure ispiratrici di un “nuovo inizio”. A patto che siano “felici” cioè guidati da principi chiari e, soprattutto, attenti alla crescita del benessere sociale. L’idea può apparire provocatoria – e per certi versi lo è per davvero -, ma è da prendere con grande serietà. Perché l’immagine dell’impresa felice che dà forma ad un nuovo modello di società è certamente da esplorare. Per farlo è possibile leggere l’ultima fatica di Renata Borgato (della Facoltà di psicologia di Milano Bicocca oltre che formatrice aziendale).

“L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita” – questo il tiolo del volume di poco meno di cento pagine -, cerca di mettere insieme alcuni concetti apparentemente distanti: l’impresa come macchina di produzione e profitto, la responsabilità sociale della stessa e il suo possibile ruolo di guida per – appunto -, la costruzione di un nuovo modello di convivenza.

“La percezione della gravità delle crisi attuali – dice Borgato -, permette di attendere un nuovo inizio. Occorre però individuare il soggetto adatto a guidare il processo di cambiamento, diventando quel punto di riferimento che i tradizionali attori sociali non sono più in grado di essere. Questo soggetto potrebbe essere individuato nell’impresa: non a caso il lavoro è sempre stato uno degli elementi strutturanti delle società”. L’impresa felice viene subito definita chiaramente. E’ quell’entità che fa parte di “un nucleo solido di aziende manifatturiere, agricole e terziarie che hanno riadattato le proprie strategie complessive e rappresentano un blocco solido di economia reale, contrapposto al disgregarsi dell’economia finanziaria”.

E’ su questa base che si dipana il testo che esplora, quindi, i legami fra l’impresa e il territorio, fra questa e l’etica dell’azione e ancora con le persone che la fanno vivere. Renata Borgato, quindi, tocca temi delicati come l’empatia che dovrebbe instaurarsi nell’organizzazione aziendale, la leadership, la comunicazione, la motivazione e la valutazione del personale, gli orari, il trattamento degli errori. Visto tutto questo, il volume passa ad esaminare i “sette vizi capitali” ma dal punto di vista aziendale: “superbia”, “avarizia” e “accidia” nella gestione e nei progetti, “invidia” e “ira” nell’organizzazione, “gola” e “lussuria” negli obiettivi da raggiungere. E’ cioè facile, per esempio, cadere  in rapporti organizzativi in cui l’invidia prende il posto della collaborazione oppure scivolare in gestioni che fanno spazio a singoli egoismi o ancora alla pigrizia del lasciar fare senza cercare formule innovative di produzione e di amministrazione. Negli obiettivi da raggiungere, d’altra parte, l’impresa felice è altro da quella che si crea quando prevalgono sete di potere oppure di denaro. Chiude poi il volume un’annotazione di Luciano Pero che racconta – come contrapposte ai vizi capitali -, le quattro virtù cardinali “prudenza”, “giustizia”, “fortezza” e “temperanza”, cercandole, naturalmente, nel modello imprenditoriale che potrebbe dare un senso alla comunità. L’azienda felice, a ben vedere, nasce infatti dalla prudenza nella progettazione e nella gestione unita però alla forza e alla determinazione dell’imprenditore e dei suoi collaboratori che lavorano insieme per obiettivi giusti.

E’ bello l’esempio di impresa felice, che somma le virtù e annulla i vizi, che l’autrice pone quasi all’inizio del volume. Brunello Cucinelli – imprenditore tessile – per raccontare  la sua impresa e l’interesse condiviso tra datore di lavoro, lavoratori e comunità, dice: “I profitti vengono ripartiti in quattro parti. La prima va all’azienda, per renderla forte, la seconda a me come imprenditore, la terza agli operai attraverso gli stipendi (che sono di circa il 20% più alti rispetto al contratto nazionale) e la quarta parte va ad abbellire l’umanità… cioè alla creazione di servizi, un teatro o un ospedale per esempio del quale gode l’intera comunità”.

L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita

Renata Borgato

Franco Angeli, 2014

L’impresa e l’imprenditore possono essere le figure ispiratrici di un “nuovo inizio”. A patto che siano “felici” cioè guidati da principi chiari e, soprattutto, attenti alla crescita del benessere sociale. L’idea può apparire provocatoria – e per certi versi lo è per davvero -, ma è da prendere con grande serietà. Perché l’immagine dell’impresa felice che dà forma ad un nuovo modello di società è certamente da esplorare. Per farlo è possibile leggere l’ultima fatica di Renata Borgato (della Facoltà di psicologia di Milano Bicocca oltre che formatrice aziendale).

“L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita” – questo il tiolo del volume di poco meno di cento pagine -, cerca di mettere insieme alcuni concetti apparentemente distanti: l’impresa come macchina di produzione e profitto, la responsabilità sociale della stessa e il suo possibile ruolo di guida per – appunto -, la costruzione di un nuovo modello di convivenza.

“La percezione della gravità delle crisi attuali – dice Borgato -, permette di attendere un nuovo inizio. Occorre però individuare il soggetto adatto a guidare il processo di cambiamento, diventando quel punto di riferimento che i tradizionali attori sociali non sono più in grado di essere. Questo soggetto potrebbe essere individuato nell’impresa: non a caso il lavoro è sempre stato uno degli elementi strutturanti delle società”. L’impresa felice viene subito definita chiaramente. E’ quell’entità che fa parte di “un nucleo solido di aziende manifatturiere, agricole e terziarie che hanno riadattato le proprie strategie complessive e rappresentano un blocco solido di economia reale, contrapposto al disgregarsi dell’economia finanziaria”.

E’ su questa base che si dipana il testo che esplora, quindi, i legami fra l’impresa e il territorio, fra questa e l’etica dell’azione e ancora con le persone che la fanno vivere. Renata Borgato, quindi, tocca temi delicati come l’empatia che dovrebbe instaurarsi nell’organizzazione aziendale, la leadership, la comunicazione, la motivazione e la valutazione del personale, gli orari, il trattamento degli errori. Visto tutto questo, il volume passa ad esaminare i “sette vizi capitali” ma dal punto di vista aziendale: “superbia”, “avarizia” e “accidia” nella gestione e nei progetti, “invidia” e “ira” nell’organizzazione, “gola” e “lussuria” negli obiettivi da raggiungere. E’ cioè facile, per esempio, cadere  in rapporti organizzativi in cui l’invidia prende il posto della collaborazione oppure scivolare in gestioni che fanno spazio a singoli egoismi o ancora alla pigrizia del lasciar fare senza cercare formule innovative di produzione e di amministrazione. Negli obiettivi da raggiungere, d’altra parte, l’impresa felice è altro da quella che si crea quando prevalgono sete di potere oppure di denaro. Chiude poi il volume un’annotazione di Luciano Pero che racconta – come contrapposte ai vizi capitali -, le quattro virtù cardinali “prudenza”, “giustizia”, “fortezza” e “temperanza”, cercandole, naturalmente, nel modello imprenditoriale che potrebbe dare un senso alla comunità. L’azienda felice, a ben vedere, nasce infatti dalla prudenza nella progettazione e nella gestione unita però alla forza e alla determinazione dell’imprenditore e dei suoi collaboratori che lavorano insieme per obiettivi giusti.

E’ bello l’esempio di impresa felice, che somma le virtù e annulla i vizi, che l’autrice pone quasi all’inizio del volume. Brunello Cucinelli – imprenditore tessile – per raccontare  la sua impresa e l’interesse condiviso tra datore di lavoro, lavoratori e comunità, dice: “I profitti vengono ripartiti in quattro parti. La prima va all’azienda, per renderla forte, la seconda a me come imprenditore, la terza agli operai attraverso gli stipendi (che sono di circa il 20% più alti rispetto al contratto nazionale) e la quarta parte va ad abbellire l’umanità… cioè alla creazione di servizi, un teatro o un ospedale per esempio del quale gode l’intera comunità”.

L’impresa felice. La responsabilità sociale come impulso alla crescita

Renata Borgato

Franco Angeli, 2014

Industry 4.0 tra strategie Ue e investimenti della migliore manifattura italiana

Un piano della Ue per rilanciare la manifattura. L’impegno è ribadito dal Documento sulle linee-guida strategiche della nuova commissione Ue, sotto la guida di Jean-Claude Juncker, pubblicato la scorsa settimana a Bruxelles. E punta su due pilastri: una maggiore attrattività dell’Europa per risorse internazionali (e dunque un rafforzamento della sua competitività) e una serie massiccia di investimenti nell’”economia digitale” e dunque sui raccordi tra economia della conoscenza e della comunicazione,  cultura e industria hi e medium tech. Una strategia ambiziosa. Che lavora in direzione dell’impegno già preso dalla Ue di portare entro il 2020 l’incidenza della manifattura europea sul Pil al 20% (adesso siamo al 15,1%). Si va, insomma, sempre più nettamente verso un industrial compact. E la presidenza italiana del semestre Ue rafforzerà questa strategia. “Basta con la turbofinanza, adesso torniamo all’economia reale”, ha confermato il premier Matteo Renzi in una recente intervista a “Il Messaggero” (23 giugno), raccogliendo le sollecitazioni di Romano Prodi e parlando esplicitamente di “politica industriale” (una strategia che ha archiviato gli investimenti pubblici in “cattedrali nel deserto”, grandi impianti petrolchimici e siderurgici, imprese assistite e guarda invece, molto più correttamente, alla promozione delle condizioni per favorire gli investimenti privati, italiani e internazionali).

Sulla strada dell’industrial compact l’Italia ha, com’è noto, solide basi di partenza, da secondo paese manifatturiero europeo, con una incidenza della manifattura sul Pil del 16,5%. Se si guarda più in profondità, oltre il dato medio, si scopre che quella quota, nel Nord Italia, è del 21,6% e supera comunque il 20% anche nelle Marche e in Abruzzo e, fatti i conti, in ben 37 province italiane. La crisi continua a mordere, ma l’industria si difende (e l’Indice di fiducia Istat a giugno segnala un aumento a 88,4 da 86,9 di maggio, con un miglioramento diffuso a tutti i settori: la manifattura sale a 100, il massimo da luglio 2011). E si conferma, anche da parte di autorevoli economisti, quel che in questo blog si ripete da sempre: senza fabbriche non c’è futuro. Una consapevolezza condivisa dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, che sta mettendo a punto “un piano per il made in Italy” forte di investimenti per 100 milioni e di iniziative per rafforzare l’export (aggiungere 50miliardi ai 470 miliardi attuali) e attrarre almeno 20 miliardi di investimenti internazionali. Una svolta di competitività e sviluppo.

Volendo, si può fare un’ulteriore riflessione strategica di medio periodo. E seguire le indicazioni di Roland Berger, grande società di consulenza tedesca, in un recente documento intitolato Industry 4.0, “una sorta di manifesto dell’industrialismo al tempo della produzione intelligente” (per riprendere l’acuta sintesi di Paolo Bricco su “Il Sole24Ore” del 27 maggio). Cosa dice Berger? Negli ultimi vent’anni il valore aggiunto industriale mondiale è passato da 3.500 a 6.500 miliardi di euro. Vent’anni fa Europa, Usa e Giappone ne controllavano il 79% (il 36% l’Europa). Ma adesso, solo il 60%, a causa di un rilevante processo di deindustrializzazione e alle illusioni che lo sviluppo dipendesse da finanza e servizi hi tech. Ci si è risvegliati, feriti della Grande Crisi della turbofinanza. E si è ricominciato a ragionare di economia reale, dando il via a robuste tendenze alla re-industrializzazione, al re-back shoring, al ritorno delle fabbriche negli stessi paesi di più antica industrializzazione. La Germania è rimasta, nonostante tutto, un grande paese industriale. L’Italia le è, appunto, seconda. Ma – sostiene lo studio di Roland Berger – “ogni singolo paese, compresa la Germania, non potrà realizzare appieno la trasformazione del proprio sistema industriale se mancherà un’agenda di politica industriale europea”. Ecco perché è indispensabile andare con decisione verso l’industrial compact Ue e dare sostanza di scelte concrete all’obiettivo del 20% “industriale” del Pil entro il 2020: investimenti da 90 miliardi all’anno, con uno sguardo ancora più lungo, per un totale di 1.500 miliardi entro il 2030.

E l’Italia? Servono investimenti da 15 miliardi all’anno, nel settori hi e medium tech in cui vantiamo già eccellenze industriali e produttive, da migliorare ancora. E scelte politiche sulle infrastrutture digitali (la diffusione più ampia della “banda larga”), la formazione e la ricerca e i raccordi con le imprese, la digitalizzazione diffusa della pubblica amministrazione, etc. “I modelli industriali – sostiene Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Italia – vanno trasformati completamente, con un salto di paradigma paragonabile a quello avvenuto negli anni Ottanta, con l’introduzione della robotica e dell’automazione nelle fabbriche italiane”. La sintesi de “Il Sole24Ore”: “Un disegno strategico in cui le fabbriche in rete si organizzano intorno alle tecnologie e in cui i tessuti connettivi tra le imprese mutano, innovazione di prodotto e manifattura ultraterziarizzata”. Industry 4.0, appunto.

Un piano della Ue per rilanciare la manifattura. L’impegno è ribadito dal Documento sulle linee-guida strategiche della nuova commissione Ue, sotto la guida di Jean-Claude Juncker, pubblicato la scorsa settimana a Bruxelles. E punta su due pilastri: una maggiore attrattività dell’Europa per risorse internazionali (e dunque un rafforzamento della sua competitività) e una serie massiccia di investimenti nell’”economia digitale” e dunque sui raccordi tra economia della conoscenza e della comunicazione,  cultura e industria hi e medium tech. Una strategia ambiziosa. Che lavora in direzione dell’impegno già preso dalla Ue di portare entro il 2020 l’incidenza della manifattura europea sul Pil al 20% (adesso siamo al 15,1%). Si va, insomma, sempre più nettamente verso un industrial compact. E la presidenza italiana del semestre Ue rafforzerà questa strategia. “Basta con la turbofinanza, adesso torniamo all’economia reale”, ha confermato il premier Matteo Renzi in una recente intervista a “Il Messaggero” (23 giugno), raccogliendo le sollecitazioni di Romano Prodi e parlando esplicitamente di “politica industriale” (una strategia che ha archiviato gli investimenti pubblici in “cattedrali nel deserto”, grandi impianti petrolchimici e siderurgici, imprese assistite e guarda invece, molto più correttamente, alla promozione delle condizioni per favorire gli investimenti privati, italiani e internazionali).

Sulla strada dell’industrial compact l’Italia ha, com’è noto, solide basi di partenza, da secondo paese manifatturiero europeo, con una incidenza della manifattura sul Pil del 16,5%. Se si guarda più in profondità, oltre il dato medio, si scopre che quella quota, nel Nord Italia, è del 21,6% e supera comunque il 20% anche nelle Marche e in Abruzzo e, fatti i conti, in ben 37 province italiane. La crisi continua a mordere, ma l’industria si difende (e l’Indice di fiducia Istat a giugno segnala un aumento a 88,4 da 86,9 di maggio, con un miglioramento diffuso a tutti i settori: la manifattura sale a 100, il massimo da luglio 2011). E si conferma, anche da parte di autorevoli economisti, quel che in questo blog si ripete da sempre: senza fabbriche non c’è futuro. Una consapevolezza condivisa dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, che sta mettendo a punto “un piano per il made in Italy” forte di investimenti per 100 milioni e di iniziative per rafforzare l’export (aggiungere 50miliardi ai 470 miliardi attuali) e attrarre almeno 20 miliardi di investimenti internazionali. Una svolta di competitività e sviluppo.

Volendo, si può fare un’ulteriore riflessione strategica di medio periodo. E seguire le indicazioni di Roland Berger, grande società di consulenza tedesca, in un recente documento intitolato Industry 4.0, “una sorta di manifesto dell’industrialismo al tempo della produzione intelligente” (per riprendere l’acuta sintesi di Paolo Bricco su “Il Sole24Ore” del 27 maggio). Cosa dice Berger? Negli ultimi vent’anni il valore aggiunto industriale mondiale è passato da 3.500 a 6.500 miliardi di euro. Vent’anni fa Europa, Usa e Giappone ne controllavano il 79% (il 36% l’Europa). Ma adesso, solo il 60%, a causa di un rilevante processo di deindustrializzazione e alle illusioni che lo sviluppo dipendesse da finanza e servizi hi tech. Ci si è risvegliati, feriti della Grande Crisi della turbofinanza. E si è ricominciato a ragionare di economia reale, dando il via a robuste tendenze alla re-industrializzazione, al re-back shoring, al ritorno delle fabbriche negli stessi paesi di più antica industrializzazione. La Germania è rimasta, nonostante tutto, un grande paese industriale. L’Italia le è, appunto, seconda. Ma – sostiene lo studio di Roland Berger – “ogni singolo paese, compresa la Germania, non potrà realizzare appieno la trasformazione del proprio sistema industriale se mancherà un’agenda di politica industriale europea”. Ecco perché è indispensabile andare con decisione verso l’industrial compact Ue e dare sostanza di scelte concrete all’obiettivo del 20% “industriale” del Pil entro il 2020: investimenti da 90 miliardi all’anno, con uno sguardo ancora più lungo, per un totale di 1.500 miliardi entro il 2030.

E l’Italia? Servono investimenti da 15 miliardi all’anno, nel settori hi e medium tech in cui vantiamo già eccellenze industriali e produttive, da migliorare ancora. E scelte politiche sulle infrastrutture digitali (la diffusione più ampia della “banda larga”), la formazione e la ricerca e i raccordi con le imprese, la digitalizzazione diffusa della pubblica amministrazione, etc. “I modelli industriali – sostiene Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Italia – vanno trasformati completamente, con un salto di paradigma paragonabile a quello avvenuto negli anni Ottanta, con l’introduzione della robotica e dell’automazione nelle fabbriche italiane”. La sintesi de “Il Sole24Ore”: “Un disegno strategico in cui le fabbriche in rete si organizzano intorno alle tecnologie e in cui i tessuti connettivi tra le imprese mutano, innovazione di prodotto e manifattura ultraterziarizzata”. Industry 4.0, appunto.

La qualità nell’impresa è una questione di cultura

Qualità prima di tutto. E’ il monito, la legge assoluta che impera nelle aziende moderne. Ed è giusto che sia così, ma non basta. Accanto alla  qualità del prodotto e delle procedure di produzione, infatti, ci si è resi conto che occorrono una qualità culturale, un cambiamento di passo nel management e più in generale in chi lavora nell’impresa. Cosa non facile  da fare, ma ormai impegno altrettanto assoluto per l’impresa che voglia davvero sopravvivere e, anzi, crescere.

La ricerca “TQM and Modern Marketing in Developing Countries – Theoretical and Conceptual Frameworks” scritta a sei mani da ricercatori sparsi in diversi continenti (Tahir Iqbal del Jubail University College, David Edwards  della Birmingham City University Business School e Eman El-Gohary dell’AMAC Centre del Cairo), rappresenta una buona base per comprendere meglio le relazioni fra il TQM (cioè uno dei metodi più diffusi di messa a punto e di applicazione della qualità nella produzione), e la cultura d’impresa che deve cambiare.

La ricerca inizia esaminando le relazioni fra TQM e produttività delle aziende manifatturiere. L’attenzione è posta sulle imprese dei Paesi in via di sviluppo, ma – a ben vedere -,  i principi del ragionamento valgono per qualsiasi imprese e qualsiasi Paese.
Il tema è svolto percorrendo l’attuale letteratura sull’argomento e cercando di individuare i legami e i cambiamenti culturali all’interno delle imprese. “Il primo esame della letteratura – scrivono gli autori -, ha confermato che la qualità ha un impatto significativo sulla produttività. La migliore produttività dà vantaggi di costo rispetto ai concorrenti, con conseguente possibilità di fare prezzi più bassi e avere margini di profitto più elevati”.

Ma dove entra per davvero la cultura d’impresa? Non solo nell’applicazione della TQM, ma soprattutto nella sua accettazione a livello mentale. Gli autori individuano nel diverso atteggiamento che devono avere il top management e i lavoratori la chiave di volta per il successo della TQM. Per far comprendere meglio quanto approccio, la ricerca contiene quindi un valido schema dei costi della qualità e degli aspetti dell’attività aziendale che influenzano la stessa.

Ma non è tutto. La consapevolezza che deve essere acquisita, secondo gli autori, è che il miglioramento della qualità si traduce anche in esigenze di beni e servizi più elevate e, soprattutto, nella possibilità che aziende con produttività superiore siano in grado di “pagare salari più alti, attirando così i dipendenti più altamente specializzati e qualificati”. Insomma, la qualità migliorata non fa bene solo all’imprenditore e ai suoi profitti, ma a tutti. Basta però capirlo.

TQM and Modern Marketing in Developing Countries – Theoretical and Conceptual Frameworks

Tahir Iqbal (Department of Business Administration, Jubail University College, KSA )
David Edwards (Professor of Industrial Innovation, Birmingham City University Business School)
Eman El-Gohary (AMAC Centre Cairo, Egypt)

International Journal of Business and Social Science Vol. 5, No. 6(1); May 2014

Qualità prima di tutto. E’ il monito, la legge assoluta che impera nelle aziende moderne. Ed è giusto che sia così, ma non basta. Accanto alla  qualità del prodotto e delle procedure di produzione, infatti, ci si è resi conto che occorrono una qualità culturale, un cambiamento di passo nel management e più in generale in chi lavora nell’impresa. Cosa non facile  da fare, ma ormai impegno altrettanto assoluto per l’impresa che voglia davvero sopravvivere e, anzi, crescere.

La ricerca “TQM and Modern Marketing in Developing Countries – Theoretical and Conceptual Frameworks” scritta a sei mani da ricercatori sparsi in diversi continenti (Tahir Iqbal del Jubail University College, David Edwards  della Birmingham City University Business School e Eman El-Gohary dell’AMAC Centre del Cairo), rappresenta una buona base per comprendere meglio le relazioni fra il TQM (cioè uno dei metodi più diffusi di messa a punto e di applicazione della qualità nella produzione), e la cultura d’impresa che deve cambiare.

La ricerca inizia esaminando le relazioni fra TQM e produttività delle aziende manifatturiere. L’attenzione è posta sulle imprese dei Paesi in via di sviluppo, ma – a ben vedere -,  i principi del ragionamento valgono per qualsiasi imprese e qualsiasi Paese.
Il tema è svolto percorrendo l’attuale letteratura sull’argomento e cercando di individuare i legami e i cambiamenti culturali all’interno delle imprese. “Il primo esame della letteratura – scrivono gli autori -, ha confermato che la qualità ha un impatto significativo sulla produttività. La migliore produttività dà vantaggi di costo rispetto ai concorrenti, con conseguente possibilità di fare prezzi più bassi e avere margini di profitto più elevati”.

Ma dove entra per davvero la cultura d’impresa? Non solo nell’applicazione della TQM, ma soprattutto nella sua accettazione a livello mentale. Gli autori individuano nel diverso atteggiamento che devono avere il top management e i lavoratori la chiave di volta per il successo della TQM. Per far comprendere meglio quanto approccio, la ricerca contiene quindi un valido schema dei costi della qualità e degli aspetti dell’attività aziendale che influenzano la stessa.

Ma non è tutto. La consapevolezza che deve essere acquisita, secondo gli autori, è che il miglioramento della qualità si traduce anche in esigenze di beni e servizi più elevate e, soprattutto, nella possibilità che aziende con produttività superiore siano in grado di “pagare salari più alti, attirando così i dipendenti più altamente specializzati e qualificati”. Insomma, la qualità migliorata non fa bene solo all’imprenditore e ai suoi profitti, ma a tutti. Basta però capirlo.

TQM and Modern Marketing in Developing Countries – Theoretical and Conceptual Frameworks

Tahir Iqbal (Department of Business Administration, Jubail University College, KSA )
David Edwards (Professor of Industrial Innovation, Birmingham City University Business School)
Eman El-Gohary (AMAC Centre Cairo, Egypt)

International Journal of Business and Social Science Vol. 5, No. 6(1); May 2014

L’azienda produttrice di contenuti

L’impresa produce anche “contenuti” e quindi cultura. L’affermazione appare scontata ma non lo è. Per tanto tempo – forse troppo – l’impresa è stata pensata, soprattutto quella manifatturiera, come un’entità in grado di sfornare (in molti casi letteralmente), prodotti fisici oppure servizi destinati ad altre aziende oppure al mercato finale. Certo, è sempre così. Ma non solo. Oggi – ma probabilmente anche ieri -, l’impresa produce anche altro rispetto a quanto si è portati a credere. E’ quanto affianca, precede, segue il prodotto.

E’ il “Branded Content”, oggetto ancora di incerta definizione che, tuttavia, costituisce uno degli impegni maggiori di numerose grandi aziende e che, gradualmente, si fa strada anche in quelle medie. Per capire meglio cosa sta accadendo è utile leggere il bel libro di Paolo Bonsignore e Joseph Sassoon composto da due parti:  un forte inquadramento teorico e una serie di casi d’impresa importanti per comprendere da vicino la realtà. Ad iniziare dal tentativo di definizione dello stesso “Branded Content” indicato come “un nuovo modo di comunicare che modifica radicalmente le relazioni che l’azienda intrattiene con i suoi pubblici, le sue agenzie di comunicazione e i media, nonché la natura stessa dell’azienda, la sua missione e la sua struttura organizzativa”. Insomma, il “Branded Content” è una specie di rivoluzione – spesso forzata -, che cambia la natura stessa dell’impresa e la sua cultura.

“Branded Content La nuova frontiera della comunicazione d’impresa”, indica in tre gli elementi principali che alimentano la diffusione di questo nuovo modo di intendere la comunicazione e la cultura d’impresa: l’esigenza per le aziende di limitare costosi investimenti in pubblicità; la spinta dei social media che stimola le aziende a diventare “editori” capaci di proporre validi contenuti informativi ed educativi; la notevole disponibilità di canali, anche televisivi, interessati a ospitare contenuti di qualità di fonte aziendale, a costi molto bassi o nulli.
Bonsignore e Sassoon, come si è detto, non si accontentano però solo della teoria, ma raccontano cinque casi d’azienda che fanno capire molto. Si tratta di Illy, Hyunday, CocaCola, Lacta Greece, IBM. Ed è dalla pratica che si comprende molto di più di ciò che sta accadendo.
Bonsignore e Sassoon sono riusciti a condensare in poco più di cento pagine le migliori informazioni sui nuovi orizzonti della comunicazione e della produzione di molte imprese: il loro è un testo che fa bene a tutti leggere.

Branded Content La nuova frontiera della comunicazione d’impresa
Paolo Bonsignore, Joseph Sassoon
Franco Angeli, 2014

L’impresa produce anche “contenuti” e quindi cultura. L’affermazione appare scontata ma non lo è. Per tanto tempo – forse troppo – l’impresa è stata pensata, soprattutto quella manifatturiera, come un’entità in grado di sfornare (in molti casi letteralmente), prodotti fisici oppure servizi destinati ad altre aziende oppure al mercato finale. Certo, è sempre così. Ma non solo. Oggi – ma probabilmente anche ieri -, l’impresa produce anche altro rispetto a quanto si è portati a credere. E’ quanto affianca, precede, segue il prodotto.

E’ il “Branded Content”, oggetto ancora di incerta definizione che, tuttavia, costituisce uno degli impegni maggiori di numerose grandi aziende e che, gradualmente, si fa strada anche in quelle medie. Per capire meglio cosa sta accadendo è utile leggere il bel libro di Paolo Bonsignore e Joseph Sassoon composto da due parti:  un forte inquadramento teorico e una serie di casi d’impresa importanti per comprendere da vicino la realtà. Ad iniziare dal tentativo di definizione dello stesso “Branded Content” indicato come “un nuovo modo di comunicare che modifica radicalmente le relazioni che l’azienda intrattiene con i suoi pubblici, le sue agenzie di comunicazione e i media, nonché la natura stessa dell’azienda, la sua missione e la sua struttura organizzativa”. Insomma, il “Branded Content” è una specie di rivoluzione – spesso forzata -, che cambia la natura stessa dell’impresa e la sua cultura.

“Branded Content La nuova frontiera della comunicazione d’impresa”, indica in tre gli elementi principali che alimentano la diffusione di questo nuovo modo di intendere la comunicazione e la cultura d’impresa: l’esigenza per le aziende di limitare costosi investimenti in pubblicità; la spinta dei social media che stimola le aziende a diventare “editori” capaci di proporre validi contenuti informativi ed educativi; la notevole disponibilità di canali, anche televisivi, interessati a ospitare contenuti di qualità di fonte aziendale, a costi molto bassi o nulli.
Bonsignore e Sassoon, come si è detto, non si accontentano però solo della teoria, ma raccontano cinque casi d’azienda che fanno capire molto. Si tratta di Illy, Hyunday, CocaCola, Lacta Greece, IBM. Ed è dalla pratica che si comprende molto di più di ciò che sta accadendo.
Bonsignore e Sassoon sono riusciti a condensare in poco più di cento pagine le migliori informazioni sui nuovi orizzonti della comunicazione e della produzione di molte imprese: il loro è un testo che fa bene a tutti leggere.

Branded Content La nuova frontiera della comunicazione d’impresa
Paolo Bonsignore, Joseph Sassoon
Franco Angeli, 2014

Senza manifattura non c’è sviluppo per i servizi: una strategia virtuosa dell’economia italiana

“Senza manifattura, niente servizi”. Tocca al Centro Studi Confindustria, diretto da un bravo economista come Luca Paolazzi, dare un lucido contributo di chiarezza sulle false dicotomie dello sviluppo che hanno animato uno scadente discorso pubblico negli anni Duemila  (tra abbandono dell’industria e prevalenza del terziario, per esempio, con un’economia dei paesi sviluppati sempre più “emancipata dal sudicio coinvolgimento con il mondo fisico”, per usare la provocatoria espressione di Krugman del 1996, insomma la fabbrica brutta, sporca e cattiva). Nelle pagine di “Scenari Industriali” di giugno, infatti, un capitolo, denso di dati e fatti, è dedicato a “L’importanza del fare manifattura, il ruolo complementare dei servizi e il territorio. Verso politiche industriali ‘localizzate’”. La sintesi è chiara: “Una head quarter economy, specializzata esclusivamente nella produzione di serizi ad alto valore aggiunto, non è sostenibile nel lungo periodo. Senza manifattura, insomma, senza factory economy, non c’è futuro neanche per una fetta rilevante del terziario” .

Le considerazioni del CSC (il Centro Studi Confindustria, appunto) si inquadrano in un contesto, oramai solido, di rilancio della centralità della manifattura, sia negli Usa di Obama (che punta sullo sviluppo delle tecnologie digitali applicate alla produzione industriale su larga scala) sia nella Ue impegnata a elaborare un buon industrial compact (con investimenti per circa 150 miliardi destinati a reindustrializzare l’Europa, portando entro il 2020 al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil, cinque punti più di adesso, cioè). E danno conto di una tendenza crescente, quella del reshoring e cioè di un ritorno degli investimenti industriali dalle aree di delocalizzazione per basso costo del lavoro ai paesi di più antica e solida industrializzazione, in cerca di qualità e alto valore aggiunto delle produzioni, strumenti d’eccellenza competitiva (in Italia, negli ultimi anni, sono stati censiti 79 casi di back-reshoring e altri 12 di near-reshoring e cioè di investimenti in aree geograficamente molto vicine al centro produttivo principale e all’head quarter dell’impresa. Perché? Perchè solo così si possono godere i vantaggi di competenze sofisticate, di supply chain di qualità e di una serie di servizi innovativi legati appunto alla produzione e indispensabili alle nuove ragioni della competitività.

Documenta il CSC che “in Italia la domanda di servizi da parte dei settori manifatturieri arriva al 17% del valore della produzione industriale”, una quota peraltro uniforme tra i diversi comparti produttivi, con poche eccezioni. E la prima voce tra gli acquisti di servizi è rappresentata da quelli di analisi e consulenza tecnico-scientifica (33% del totale dei servizi richiesti), seguiti dai servizi di trasporto e vendita (24%) e dai servizi finanziari (10%). D’altronde, “la stessa manifattura produce servizi”, in Italia “per oltre il 6% del valore totale della produzione, con una forte eterogeneità tra i diversi comparti, con picchi superiori al 15% per apparecchiature elettroniche e grandi mezzi di trasporto”.

A guardar bene l’evoluzione delle attività produttive, d’altronde, si nota con facilità come la manifattura sia al centro di una vera e propria ragnatela che lega la fabbrica ai servizi per il business e alla logistica, alle telecomunicazioni e ai trasporti e alle utilities, alla finanza e alle costruzioni, all’agricoltura e alle attività estrattive. Una serie complessa di relazioni virtuose che si influenzano e vivono sia della forza dei territori ad alta intensità  di specializzazione sia delle competenze delle filiere produttive e dei cosiddetti metadistretti.  E la manifattura ha il principale ruolo strategico “nel connettere i diversi nodi della rete produttiva di cui si compone l’economia”.

Tornare a  produrre in Italia, dunque. E rafforzare la nostra fortunatamente non sopita capacità manifatturiera. Riscoprire “l’orgoglio industriale” e considerare l’industria come strumento di “riscatto” o di “riscossa” (per usare titoli di una vivace pubblicistica, in cui si inserisce anche il recente volume di Filippo Astone pubblicato da Magenes e dedicato a “fabbriche & Europa per far decollare l’economia italiana”).  Il CSC conferma infatti “le basi fattuali dell’economia della conoscenza” e ribadisce “le interconnessioni vitali che legano la fabbricazione di un prodotto alle attività di servizio che la precedono e la seguono e che richiedono per lo più un contiguità geografica perché l’intero processo abbia luogo. Senza la produzione manifatturiera, in altre parole,  la domanda di quei servizi semplicemente non esisterebbe e senza il confronto costante con il fare manifatturiero quei servizi a loro volta non avanzerebbero qualitativamente oltre che quantitativamente e la conoscenza (di cui il know how è insieme fonte e parte integrante) non progredirebbe”.

Sta proprio qui il senso dell’urgenza di definire, da parte del governo e delle amministrazioni pubbliche, “politiche industriali” che vadano oltre i vecchi e inutili “piani di settore” e gli attuali “incentivi a pioggia” e intervengano invece sulle ragioni di fondo della produttività (ad alto valore agginto) e della competitività del sistema Italia. Con sintesi di manifattura e servizi alle imprese. Sostiene appunto il CSC: “L’intervento pubblico trova una sua giustificazione teorica in quanto orientato a favorire una progressiva aggregazione di attività imprenditoriali intorno a progetti industriali innovativi, in un’ottica di sistema – ossia tale da coinvolgere una pluralità di soggetti, non solo appartenenti alla manifattura – con specializzazioni complementari”. Una buona strada. Da seguire rapidamente ed efficacemente, con l’attenzione rivolta sia ai territori dell’industria sia alle strategie dell’Europa.

“Senza manifattura, niente servizi”. Tocca al Centro Studi Confindustria, diretto da un bravo economista come Luca Paolazzi, dare un lucido contributo di chiarezza sulle false dicotomie dello sviluppo che hanno animato uno scadente discorso pubblico negli anni Duemila  (tra abbandono dell’industria e prevalenza del terziario, per esempio, con un’economia dei paesi sviluppati sempre più “emancipata dal sudicio coinvolgimento con il mondo fisico”, per usare la provocatoria espressione di Krugman del 1996, insomma la fabbrica brutta, sporca e cattiva). Nelle pagine di “Scenari Industriali” di giugno, infatti, un capitolo, denso di dati e fatti, è dedicato a “L’importanza del fare manifattura, il ruolo complementare dei servizi e il territorio. Verso politiche industriali ‘localizzate’”. La sintesi è chiara: “Una head quarter economy, specializzata esclusivamente nella produzione di serizi ad alto valore aggiunto, non è sostenibile nel lungo periodo. Senza manifattura, insomma, senza factory economy, non c’è futuro neanche per una fetta rilevante del terziario” .

Le considerazioni del CSC (il Centro Studi Confindustria, appunto) si inquadrano in un contesto, oramai solido, di rilancio della centralità della manifattura, sia negli Usa di Obama (che punta sullo sviluppo delle tecnologie digitali applicate alla produzione industriale su larga scala) sia nella Ue impegnata a elaborare un buon industrial compact (con investimenti per circa 150 miliardi destinati a reindustrializzare l’Europa, portando entro il 2020 al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil, cinque punti più di adesso, cioè). E danno conto di una tendenza crescente, quella del reshoring e cioè di un ritorno degli investimenti industriali dalle aree di delocalizzazione per basso costo del lavoro ai paesi di più antica e solida industrializzazione, in cerca di qualità e alto valore aggiunto delle produzioni, strumenti d’eccellenza competitiva (in Italia, negli ultimi anni, sono stati censiti 79 casi di back-reshoring e altri 12 di near-reshoring e cioè di investimenti in aree geograficamente molto vicine al centro produttivo principale e all’head quarter dell’impresa. Perché? Perchè solo così si possono godere i vantaggi di competenze sofisticate, di supply chain di qualità e di una serie di servizi innovativi legati appunto alla produzione e indispensabili alle nuove ragioni della competitività.

Documenta il CSC che “in Italia la domanda di servizi da parte dei settori manifatturieri arriva al 17% del valore della produzione industriale”, una quota peraltro uniforme tra i diversi comparti produttivi, con poche eccezioni. E la prima voce tra gli acquisti di servizi è rappresentata da quelli di analisi e consulenza tecnico-scientifica (33% del totale dei servizi richiesti), seguiti dai servizi di trasporto e vendita (24%) e dai servizi finanziari (10%). D’altronde, “la stessa manifattura produce servizi”, in Italia “per oltre il 6% del valore totale della produzione, con una forte eterogeneità tra i diversi comparti, con picchi superiori al 15% per apparecchiature elettroniche e grandi mezzi di trasporto”.

A guardar bene l’evoluzione delle attività produttive, d’altronde, si nota con facilità come la manifattura sia al centro di una vera e propria ragnatela che lega la fabbrica ai servizi per il business e alla logistica, alle telecomunicazioni e ai trasporti e alle utilities, alla finanza e alle costruzioni, all’agricoltura e alle attività estrattive. Una serie complessa di relazioni virtuose che si influenzano e vivono sia della forza dei territori ad alta intensità  di specializzazione sia delle competenze delle filiere produttive e dei cosiddetti metadistretti.  E la manifattura ha il principale ruolo strategico “nel connettere i diversi nodi della rete produttiva di cui si compone l’economia”.

Tornare a  produrre in Italia, dunque. E rafforzare la nostra fortunatamente non sopita capacità manifatturiera. Riscoprire “l’orgoglio industriale” e considerare l’industria come strumento di “riscatto” o di “riscossa” (per usare titoli di una vivace pubblicistica, in cui si inserisce anche il recente volume di Filippo Astone pubblicato da Magenes e dedicato a “fabbriche & Europa per far decollare l’economia italiana”).  Il CSC conferma infatti “le basi fattuali dell’economia della conoscenza” e ribadisce “le interconnessioni vitali che legano la fabbricazione di un prodotto alle attività di servizio che la precedono e la seguono e che richiedono per lo più un contiguità geografica perché l’intero processo abbia luogo. Senza la produzione manifatturiera, in altre parole,  la domanda di quei servizi semplicemente non esisterebbe e senza il confronto costante con il fare manifatturiero quei servizi a loro volta non avanzerebbero qualitativamente oltre che quantitativamente e la conoscenza (di cui il know how è insieme fonte e parte integrante) non progredirebbe”.

Sta proprio qui il senso dell’urgenza di definire, da parte del governo e delle amministrazioni pubbliche, “politiche industriali” che vadano oltre i vecchi e inutili “piani di settore” e gli attuali “incentivi a pioggia” e intervengano invece sulle ragioni di fondo della produttività (ad alto valore agginto) e della competitività del sistema Italia. Con sintesi di manifattura e servizi alle imprese. Sostiene appunto il CSC: “L’intervento pubblico trova una sua giustificazione teorica in quanto orientato a favorire una progressiva aggregazione di attività imprenditoriali intorno a progetti industriali innovativi, in un’ottica di sistema – ossia tale da coinvolgere una pluralità di soggetti, non solo appartenenti alla manifattura – con specializzazioni complementari”. Una buona strada. Da seguire rapidamente ed efficacemente, con l’attenzione rivolta sia ai territori dell’industria sia alle strategie dell’Europa.

Perché le imprese diventano socialmente responsabili

Imprese socialmente responsabili. Ormai ve ne sono tante, di varie dimensioni e in svariati settori della produzione. L’attenzione non solo al profitto ma anche alle ricadute dell’attività produttiva sull’ambiente che circonda l’azienda, è importante, crea consenso, induce simpatia, fa salire le vendite e, in ultima istanza, finisce per elevare il profitto stesso. La responsabilità sociale d’impresa non è un semplice strumento di marketing, ma qualcosa di più e di diverso. E’ un atteggiamento che trasforma il modo di essere dell’impresa, la sua cultura, i suoi orizzonti.

“Social responsibility” di Alexander Baumann e Bob Oskar Kindgren è una tesi di baccalaureato in Management discussa il 28 maggio scorso alla School of Business and Economics della Linnaeus University di Växjö in Svezia.

Il lavoro parte dal concetto classico di imprenditorialità volta ad ottenere un profitto, per arrivare ad indagare come, invece, l’imprenditore, con la sua attività, possa agire anche sulle comunità locali in maniera positiva proprio attraverso l’applicazione del concetto di responsabilità sociale d’impresa.

La ricerca contiene prima un inquadramento teorico molto chiaro del tema dell’imprenditorialità e della responsabilità sociale d’impresa; poi prosegue con una serie di interviste a top manager di aziende svedesi collocate in una determinata area.

L’obiettivo del lavoro è stabilire le motivazioni che portano a coniugare responsabilità sociale e profitto. “La motivazione che spinge i nostri intervistati – spiegano i due autori -, ad assumere una strategia di responsabilità sociale nella comunità locale, potrebbe essere spiegata da fattori come  il volersi sentire apprezzati, rispettati, ma anche da altre cause come il contesto e i fattori economici”. In particolare, i due autori dello studio individuano quattro motivazioni: la necessità di “acquisire rispetto” da parte di chi conta nella comunità, la presenza di “motivazioni” particolari a livello personale e di un determinato “contesto”sociale che spinge verso l’interessamento nei confronti dei problemi della comunità e, ovviamente, una serie di “fattori economici” che spingono alla responsabilità sociale d’impresa.

“Social responsibility” di Baumann e Kindgren è una lettura utile per inquadrare uno dei temi d’attualità in fatto di gestione e di cultura d’impresa. Un lavoro tutto da leggere.

Social responsibility 

Alexander Baumann, Bob Oskar Kindgren  Bachelor tesis in Management, Linnaeus

University, Växjö, May 2014

Imprese socialmente responsabili. Ormai ve ne sono tante, di varie dimensioni e in svariati settori della produzione. L’attenzione non solo al profitto ma anche alle ricadute dell’attività produttiva sull’ambiente che circonda l’azienda, è importante, crea consenso, induce simpatia, fa salire le vendite e, in ultima istanza, finisce per elevare il profitto stesso. La responsabilità sociale d’impresa non è un semplice strumento di marketing, ma qualcosa di più e di diverso. E’ un atteggiamento che trasforma il modo di essere dell’impresa, la sua cultura, i suoi orizzonti.

“Social responsibility” di Alexander Baumann e Bob Oskar Kindgren è una tesi di baccalaureato in Management discussa il 28 maggio scorso alla School of Business and Economics della Linnaeus University di Växjö in Svezia.

Il lavoro parte dal concetto classico di imprenditorialità volta ad ottenere un profitto, per arrivare ad indagare come, invece, l’imprenditore, con la sua attività, possa agire anche sulle comunità locali in maniera positiva proprio attraverso l’applicazione del concetto di responsabilità sociale d’impresa.

La ricerca contiene prima un inquadramento teorico molto chiaro del tema dell’imprenditorialità e della responsabilità sociale d’impresa; poi prosegue con una serie di interviste a top manager di aziende svedesi collocate in una determinata area.

L’obiettivo del lavoro è stabilire le motivazioni che portano a coniugare responsabilità sociale e profitto. “La motivazione che spinge i nostri intervistati – spiegano i due autori -, ad assumere una strategia di responsabilità sociale nella comunità locale, potrebbe essere spiegata da fattori come  il volersi sentire apprezzati, rispettati, ma anche da altre cause come il contesto e i fattori economici”. In particolare, i due autori dello studio individuano quattro motivazioni: la necessità di “acquisire rispetto” da parte di chi conta nella comunità, la presenza di “motivazioni” particolari a livello personale e di un determinato “contesto”sociale che spinge verso l’interessamento nei confronti dei problemi della comunità e, ovviamente, una serie di “fattori economici” che spingono alla responsabilità sociale d’impresa.

“Social responsibility” di Baumann e Kindgren è una lettura utile per inquadrare uno dei temi d’attualità in fatto di gestione e di cultura d’impresa. Un lavoro tutto da leggere.

Social responsibility 

Alexander Baumann, Bob Oskar Kindgren  Bachelor tesis in Management, Linnaeus

University, Växjö, May 2014

Guide sicure per imprese in mari difficili

In tempi di nebbie e di porti difficili, occorrono guide sicure per arrivare a destinazione. Vale anche per le imprese, di ogni dimensione. Soprattutto quando queste devono avere a che fare con mercati turbolenti e concorrenze multiformi.

A scrivere un manuale di economia e gestione dell’impresa ci hanno pensato in molti, ma la fatica di Annalisa Tunisini, Tonino Pencarelli e Luca Ferrucci ha due pregi importanti: linguaggio piano e trattazione sostanzialmente completa.

Fatto per la formazione, “Economia e management delle imprese” è una buona lettura per tutti.

L’idea di fondo – sulla quale si costruisce tutto il testo -, è quella che l’impresa non è un’entità avulsa dal contesto in cui opera, priva di legami con il passato, sostanzialmente macchina produttiva e null’altro. Per questo, il volume fornisce una visione integrata ed evolutiva dell’impresa e dei suoi rapporti con il contesto esterno. E non solo. Il cambiamento dell’impresa industriale moderna, infatti,  è collocato all’interno di una dimensione storica, spaziale e settoriale; mentre sono analizzate anche le trasformazioni più recenti indotte dalla crescente rilevanza della ricerca scientifica e tecnologica, dalla globalizzazione e dalla terziarizzazione dell’economia. Economia e gestione dell’azienda che si trasforma in impresa, quindi, sono raccontate nel loro evolversi insieme al resto della società e della produzione.

Oltre a tutto questo, poi, Tunisini, Pencarelli e Ferrucci forniscono una serie di strumenti gestionali con una particolare attenzione a tre aspetti: le dinamiche della  produzione, quelle del marketing e quelle dell’internazionalizzazione. A ben vedere i tre elementi principali dell’essere oggi impresa: la capacità di produrre con efficienza e concorrenzialità, quella di saper vendere al meglio i prodotti e l’orientamento forte verso i mercati oltre confine. Punti importanti su cui far leva non solo per sopravvivere ma anche per crescere.

“Economia e management delle imprese” può rappresentare quella buona lettura da tenere sempre a portata di mano per capire di più dell’evoluzione e delle prospettive del sistema produttivo in cui si agisce.

Economia e management delle imprese

Annalisa Tunisini, Tonino Pencarelli, Luca Ferrucci

Hoepli, luglio 2014

In tempi di nebbie e di porti difficili, occorrono guide sicure per arrivare a destinazione. Vale anche per le imprese, di ogni dimensione. Soprattutto quando queste devono avere a che fare con mercati turbolenti e concorrenze multiformi.

A scrivere un manuale di economia e gestione dell’impresa ci hanno pensato in molti, ma la fatica di Annalisa Tunisini, Tonino Pencarelli e Luca Ferrucci ha due pregi importanti: linguaggio piano e trattazione sostanzialmente completa.

Fatto per la formazione, “Economia e management delle imprese” è una buona lettura per tutti.

L’idea di fondo – sulla quale si costruisce tutto il testo -, è quella che l’impresa non è un’entità avulsa dal contesto in cui opera, priva di legami con il passato, sostanzialmente macchina produttiva e null’altro. Per questo, il volume fornisce una visione integrata ed evolutiva dell’impresa e dei suoi rapporti con il contesto esterno. E non solo. Il cambiamento dell’impresa industriale moderna, infatti,  è collocato all’interno di una dimensione storica, spaziale e settoriale; mentre sono analizzate anche le trasformazioni più recenti indotte dalla crescente rilevanza della ricerca scientifica e tecnologica, dalla globalizzazione e dalla terziarizzazione dell’economia. Economia e gestione dell’azienda che si trasforma in impresa, quindi, sono raccontate nel loro evolversi insieme al resto della società e della produzione.

Oltre a tutto questo, poi, Tunisini, Pencarelli e Ferrucci forniscono una serie di strumenti gestionali con una particolare attenzione a tre aspetti: le dinamiche della  produzione, quelle del marketing e quelle dell’internazionalizzazione. A ben vedere i tre elementi principali dell’essere oggi impresa: la capacità di produrre con efficienza e concorrenzialità, quella di saper vendere al meglio i prodotti e l’orientamento forte verso i mercati oltre confine. Punti importanti su cui far leva non solo per sopravvivere ma anche per crescere.

“Economia e management delle imprese” può rappresentare quella buona lettura da tenere sempre a portata di mano per capire di più dell’evoluzione e delle prospettive del sistema produttivo in cui si agisce.

Economia e management delle imprese

Annalisa Tunisini, Tonino Pencarelli, Luca Ferrucci

Hoepli, luglio 2014

Ecco le qualità del manager ideale: etica, ironia e capacità di coinvolgere

Quali sono le dieci qualità del manager ideale? La passione giornalistica per le classifiche ha portato il “Corriere della Sera” (13 giugno,a  firma di Iolanda Barera) a sondare alcuni esperti di grandi business school internazionali, dalla Saïd della Oxford University a Hec di Parigi. Il risultato? Ai primi posti, nella ideale hit parade delle buone attitudini, ci sono “umiltà, etica e senso dell’umorismo”. Valori importanti. Che dicono come siano cambiate le regole della leadership anche nel mondo economico e come, alle inclinazioni al comando, vadano aggiunte – e con grande rilievo – quelle alla critica e alla costruzione del consenso. Nell’elenco, infatti, “la capacità di guardarsi dentro con onestà” ha una priorità sulla tanto propagandata  “vision”, perché “prima di sapere dove vuoi condurre la tua squadra, la tua azienda, devi avere ben chiaro in mente chi sei. Se non conosci bene te stesso non puoi gestire gli altri”, spiega Peter Tufano, rettore della Saïd (applicazione aziendalistica del “conosci te stesso”, il motto scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, caro ai più saggi filosofi greci). Dunque, consapevolezza critica e naturalmente autocritica (ecco il senso dell’umiltà), senso di responsabilità e, contemporaneamente, curiosità (attitudine a fare e farsi domande, a voler accogliere la sfida di quel che non si sa o ancora non si capisce) e lungimiranza per “capire il contesto”.

I mercati sono volatili, gli ambienti economici mutevoli, i fattori che influenzano i comportamenti e le scelte economiche legati non solo a un razionale calcolo di interessi, ma a una lunga e spesso contraddittoria serie di dati psicologici, desideri, aspettative, emozioni. E le differenze di culture, attitudini, orientamenti sono accentuate dall’incrocio di più elementi, in contesti multinazionali. Dunque, ecco la necessità di una profonda e sincera attitudine a mettersi in gioco, imparare a dialogare (il che vuol dire anche saper ascoltare, prima ancora che provare a convincere), sapere confrontare e incrociare competenze diverse.

Provare, sbagliare, ricominciare. La filosofia della scienza, lungo il corso del Novecento, ci ha insegnato che la ricerca procede per “falsificazioni” ed “errori” da cui ripartire (ecco l’importanza, per un buon manager, di leggere o comunque rileggere attentamente la lezione di Karl Popper). E dunque è necessario rifuggire dai pensieri dogmatici, da vecchie tendenze autoritarie prive di autorevolezza, dal fastidio per le critiche, anche ruvide, che vengano dai propri collaboratori, dai membri della propria squadra. Il capo non ha “sempre ragione” perché è il capo, ma la sua leadership si poggia proprio sull’attitudine a ascoltare, ammettere l’errore e il torto, fare una nuova sintesi e ricominciare da capo. L’infallibilità non è più una virtù (e d’altronde, il geniale sarcastico Leo Longanesi, quando aveva coniato lo slogan “il Duce ha sempre ragione”, aveva messo consapevolmente in piedi un gigantesco sberleffo, che però purtroppo fu preso come una cosa seria).

Serve dunque anche una buona dose di ironia, un pensiero lieve, umoristico e non retorico anche con le cose più importanti. E un forte senso di “etica e responsabilità sociale”. Per conquistare, difendere e rinnovare autorità e legittimazione, per dare nuova forza alla leadership. “Oggi i manager devono essere più flessibili, soprattutto nei mercati internazionali, pronti ad aggiustare la traiettoria delle proprie scelte o addirittura a cambiare direzione”, sostiene Tufano, della Saïd. Essere “resilienti” (adattabili ai cambiamenti), se vogliamo usare una formulazione cara alla cultura d’impresa italiana e più volte richiamata in questo blog.

Una “leadership convocativa”, per usare l’espressione di sintesi del sociologo Francesco Morace, ovvero una capacità di guida fondata sul paradigma “trust & sharing” e cioè sull’impegno non solo “a lanciare una visione” (mestiere storico dell’imprenditore, strutturalmente innovativo) ma anche e soprattutto a sollecitare l’interesse delle persone, la loro collaborazione, la partecipazione responsabile. Una vera e propria “catena della fiducia”, di cui si è per esempio discusso, nei giorni scorsi, alla Fondazione Pirelli, durante la XIX Conferenza degli Amici di Aspen, presieduta da Beatrice Trussardi e dedicata a “Il nuovo imprenditore: internazionale, aperto al rischio, capace di comunicare”. Una sfida di leadership, appunto.

Servono dunque attitudini al comando. Ma soprattutto capacità di guida, con l’influenza, l’esempio, il coinvolgimento. “Non pretendere che le persone facciano questo o quello, ma ottenere che esse vogliano fare”, spiegano Alexander S. Haslam, Stephen D. Reicher e Michael J. Platow in “Psicologia del leader – Identità, influenza e potere”, un bel libro pubblicato di recente da Il Mulino con una stimolante prefazione  di George A. Akerlof, premio Nobel per l’economia.

Una leadership “identitaria”, appunto. Fondata su quattro pilastri: “I leader rappresentano il gruppo che ambiscono guidare, sono paladini dei suoi interessi, esercitano la loro influenza facilitando l’identità del gruppo e il coinvolgimento collettivo, realizzano concretamente tale identità mobilitando le energie disponibili verso risultati di valore condiviso”.  Un nuovo tipo di carisma, una nuova cultura della responsabilità. Comandare, coinvolgere, indicare la strada e farsene interpreti coerenti (ma non ostinati e fanatici). E, naturalmente, sorridere.

Quali sono le dieci qualità del manager ideale? La passione giornalistica per le classifiche ha portato il “Corriere della Sera” (13 giugno,a  firma di Iolanda Barera) a sondare alcuni esperti di grandi business school internazionali, dalla Saïd della Oxford University a Hec di Parigi. Il risultato? Ai primi posti, nella ideale hit parade delle buone attitudini, ci sono “umiltà, etica e senso dell’umorismo”. Valori importanti. Che dicono come siano cambiate le regole della leadership anche nel mondo economico e come, alle inclinazioni al comando, vadano aggiunte – e con grande rilievo – quelle alla critica e alla costruzione del consenso. Nell’elenco, infatti, “la capacità di guardarsi dentro con onestà” ha una priorità sulla tanto propagandata  “vision”, perché “prima di sapere dove vuoi condurre la tua squadra, la tua azienda, devi avere ben chiaro in mente chi sei. Se non conosci bene te stesso non puoi gestire gli altri”, spiega Peter Tufano, rettore della Saïd (applicazione aziendalistica del “conosci te stesso”, il motto scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, caro ai più saggi filosofi greci). Dunque, consapevolezza critica e naturalmente autocritica (ecco il senso dell’umiltà), senso di responsabilità e, contemporaneamente, curiosità (attitudine a fare e farsi domande, a voler accogliere la sfida di quel che non si sa o ancora non si capisce) e lungimiranza per “capire il contesto”.

I mercati sono volatili, gli ambienti economici mutevoli, i fattori che influenzano i comportamenti e le scelte economiche legati non solo a un razionale calcolo di interessi, ma a una lunga e spesso contraddittoria serie di dati psicologici, desideri, aspettative, emozioni. E le differenze di culture, attitudini, orientamenti sono accentuate dall’incrocio di più elementi, in contesti multinazionali. Dunque, ecco la necessità di una profonda e sincera attitudine a mettersi in gioco, imparare a dialogare (il che vuol dire anche saper ascoltare, prima ancora che provare a convincere), sapere confrontare e incrociare competenze diverse.

Provare, sbagliare, ricominciare. La filosofia della scienza, lungo il corso del Novecento, ci ha insegnato che la ricerca procede per “falsificazioni” ed “errori” da cui ripartire (ecco l’importanza, per un buon manager, di leggere o comunque rileggere attentamente la lezione di Karl Popper). E dunque è necessario rifuggire dai pensieri dogmatici, da vecchie tendenze autoritarie prive di autorevolezza, dal fastidio per le critiche, anche ruvide, che vengano dai propri collaboratori, dai membri della propria squadra. Il capo non ha “sempre ragione” perché è il capo, ma la sua leadership si poggia proprio sull’attitudine a ascoltare, ammettere l’errore e il torto, fare una nuova sintesi e ricominciare da capo. L’infallibilità non è più una virtù (e d’altronde, il geniale sarcastico Leo Longanesi, quando aveva coniato lo slogan “il Duce ha sempre ragione”, aveva messo consapevolmente in piedi un gigantesco sberleffo, che però purtroppo fu preso come una cosa seria).

Serve dunque anche una buona dose di ironia, un pensiero lieve, umoristico e non retorico anche con le cose più importanti. E un forte senso di “etica e responsabilità sociale”. Per conquistare, difendere e rinnovare autorità e legittimazione, per dare nuova forza alla leadership. “Oggi i manager devono essere più flessibili, soprattutto nei mercati internazionali, pronti ad aggiustare la traiettoria delle proprie scelte o addirittura a cambiare direzione”, sostiene Tufano, della Saïd. Essere “resilienti” (adattabili ai cambiamenti), se vogliamo usare una formulazione cara alla cultura d’impresa italiana e più volte richiamata in questo blog.

Una “leadership convocativa”, per usare l’espressione di sintesi del sociologo Francesco Morace, ovvero una capacità di guida fondata sul paradigma “trust & sharing” e cioè sull’impegno non solo “a lanciare una visione” (mestiere storico dell’imprenditore, strutturalmente innovativo) ma anche e soprattutto a sollecitare l’interesse delle persone, la loro collaborazione, la partecipazione responsabile. Una vera e propria “catena della fiducia”, di cui si è per esempio discusso, nei giorni scorsi, alla Fondazione Pirelli, durante la XIX Conferenza degli Amici di Aspen, presieduta da Beatrice Trussardi e dedicata a “Il nuovo imprenditore: internazionale, aperto al rischio, capace di comunicare”. Una sfida di leadership, appunto.

Servono dunque attitudini al comando. Ma soprattutto capacità di guida, con l’influenza, l’esempio, il coinvolgimento. “Non pretendere che le persone facciano questo o quello, ma ottenere che esse vogliano fare”, spiegano Alexander S. Haslam, Stephen D. Reicher e Michael J. Platow in “Psicologia del leader – Identità, influenza e potere”, un bel libro pubblicato di recente da Il Mulino con una stimolante prefazione  di George A. Akerlof, premio Nobel per l’economia.

Una leadership “identitaria”, appunto. Fondata su quattro pilastri: “I leader rappresentano il gruppo che ambiscono guidare, sono paladini dei suoi interessi, esercitano la loro influenza facilitando l’identità del gruppo e il coinvolgimento collettivo, realizzano concretamente tale identità mobilitando le energie disponibili verso risultati di valore condiviso”.  Un nuovo tipo di carisma, una nuova cultura della responsabilità. Comandare, coinvolgere, indicare la strada e farsene interpreti coerenti (ma non ostinati e fanatici). E, naturalmente, sorridere.

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