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Il passato come strumento di conoscenza del presente e del futuro, anche per le imprese

Un manuale di storia è una buona lettura per far crescere la buona cultura del produrre

Apprendere quanto è accaduto per meglio agire nel presente pensando al futuro. Metodo avveduto di condotta per tutti, anche per chi gestisce un’impresa. Anzi, è parte della buona cultura d’impresa non dimenticare il passato – della propria organizzazione così come del contesto in cui si è mossa – per meglio lavorare nel presente. È per questo che anche i manuali di storia devono far parte del bagaglio di letture di ogni buon imprenditore e manager. Vale anche per “L’Italia repubblicana. Un profilo storico dal 1946 ad oggi”, scritto a quattro mani da Salvatore Mura e Albertina Vittoria e in uscita in questi giorni.

Mura e Vittoria partono da una considerazione: nella storia dell’Italia repubblicana si ritrovano le radici della debolezza della politica e delle istituzioni, le cause delle differenze territoriali tra Nord e Sud del paese, il clima intellettuale che ha accompagnato le trasformazioni sociali. Storia, quella del Paese all’indomani del secondo conflitto mondiale, condizionata da una serie di vincoli interni ed esterni, storia articolata e dai molti percorsi che devono essere seguiti contemporaneamente per avere un quadro fedele di quanto accaduto. Per raccontare tutto questo, il libro adotta una prospettiva non solo politica, né soltanto economica, ma rivolta anche ai processi culturali, al ruolo dei mass media, alle battaglie per i diritti civili e politici, all’immigrazione, alle discriminazioni, alla limitata presenza femminile nelle istituzioni e nel lavoro.

Il percorso di lettura proposto dai due autori inizia comunque dal dopoguerra e dalla ricostruzione ma si salda subito all’inizio della Guerra fredda per passare poi agli anni del boom economico, delle riforme sociali  e della crescita economica che definisce poi due Italie e una società comunque in trasformazione. Mura e Vittoria, quindi prendono in considerazione i grandi movimenti economici e sociali dagli anni Sessanta in avanti per arrivare ai grandi problemi degli anni Ottanta e, poi, a quella che viene definita come “un’altra epoca”: la fine del XX secolo e l’ingresso nel XXI. Il libro si chiude quindi con il racconto di quanto accaduto ieri: la stagione della pandemia, le sue conseguenze, il fenomeno delle grandi migrazioni.

L’utilità del libro di Salvatore Mura e Albertina Vittoria è indicata – con ragione – nelle prime pagine: “Questo libro è sì un profilo del passato, ma vuol essere anche uno strumento per capire il presente”. Bella, tra le molte, la citazione di un passo limpido di uno dei padri della storia attuale, Marc Bloch: “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato”.

L’Italia repubblicana. Un profilo storico dal 1946 ad oggi

Salvatore Mura, Albertina Vittoria

Carocci editore, 2025

Un manuale di storia è una buona lettura per far crescere la buona cultura del produrre

Apprendere quanto è accaduto per meglio agire nel presente pensando al futuro. Metodo avveduto di condotta per tutti, anche per chi gestisce un’impresa. Anzi, è parte della buona cultura d’impresa non dimenticare il passato – della propria organizzazione così come del contesto in cui si è mossa – per meglio lavorare nel presente. È per questo che anche i manuali di storia devono far parte del bagaglio di letture di ogni buon imprenditore e manager. Vale anche per “L’Italia repubblicana. Un profilo storico dal 1946 ad oggi”, scritto a quattro mani da Salvatore Mura e Albertina Vittoria e in uscita in questi giorni.

Mura e Vittoria partono da una considerazione: nella storia dell’Italia repubblicana si ritrovano le radici della debolezza della politica e delle istituzioni, le cause delle differenze territoriali tra Nord e Sud del paese, il clima intellettuale che ha accompagnato le trasformazioni sociali. Storia, quella del Paese all’indomani del secondo conflitto mondiale, condizionata da una serie di vincoli interni ed esterni, storia articolata e dai molti percorsi che devono essere seguiti contemporaneamente per avere un quadro fedele di quanto accaduto. Per raccontare tutto questo, il libro adotta una prospettiva non solo politica, né soltanto economica, ma rivolta anche ai processi culturali, al ruolo dei mass media, alle battaglie per i diritti civili e politici, all’immigrazione, alle discriminazioni, alla limitata presenza femminile nelle istituzioni e nel lavoro.

Il percorso di lettura proposto dai due autori inizia comunque dal dopoguerra e dalla ricostruzione ma si salda subito all’inizio della Guerra fredda per passare poi agli anni del boom economico, delle riforme sociali  e della crescita economica che definisce poi due Italie e una società comunque in trasformazione. Mura e Vittoria, quindi prendono in considerazione i grandi movimenti economici e sociali dagli anni Sessanta in avanti per arrivare ai grandi problemi degli anni Ottanta e, poi, a quella che viene definita come “un’altra epoca”: la fine del XX secolo e l’ingresso nel XXI. Il libro si chiude quindi con il racconto di quanto accaduto ieri: la stagione della pandemia, le sue conseguenze, il fenomeno delle grandi migrazioni.

L’utilità del libro di Salvatore Mura e Albertina Vittoria è indicata – con ragione – nelle prime pagine: “Questo libro è sì un profilo del passato, ma vuol essere anche uno strumento per capire il presente”. Bella, tra le molte, la citazione di un passo limpido di uno dei padri della storia attuale, Marc Bloch: “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato”.

L’Italia repubblicana. Un profilo storico dal 1946 ad oggi

Salvatore Mura, Albertina Vittoria

Carocci editore, 2025

La cultura del produrre all’epoca del digitale

Un nuovo studio appena pubblicato cerca di fare ordine nel complesso tema delle relazioni tra persone, organizzazione aziendale e nuove tecnologie

Cultura e tecnica, e quindi nuove tecnologie e innovazione. Percorsi obbligati anche nelle imprese. Strade da esplorare con attenzione. Partendo da una considerazione: la cultura aziendale gioca un ruolo chiave nel successo di qualsiasi organizzazione. Constatazione che appare ormai quasi banale, ma che, nella realtà, non è assolutamente scontata.

È da queste premesse che prende le mosse “Corporate Culture as a Formula for Company Success in the Digital Economy”, indagine pubblicata da Ashot Khachaturyan che cerca di sintetizzare un tema complesso e in evoluzione come quello della relazioni tra cultura d’impresa, risultati d’impresa e percezione della stessa dentro e fuori le mura delle fabbriche e degli uffici.

Per affrontare il tema, Khachaturyan sottolinea quanto l’importanza di creare e mantenere una sana cultura aziendale non possa essere sopravvalutata, in quanto influisce direttamente sulla motivazione dei dipendenti, sulla produttività del lavoro e sul successo complessivo dell’azienda. E come la cultura aziendale sia sempre a priori unica per ogni azienda. Un traguardo, quello della cultura d’impresa diffusa, che può essere raggiunto dopo anni e che, adesso, viene spostato in avanti dalla digitalizzazione dei processi.

Secondo Khachaturyan l’economia digitale non è solo una svolta tecnologica su larga scala, ma comporta la creazione di una nuova cultura e di nuovi valori e norme comportamentali. Il “modello digitale”, in altri termini, presuppone la presenza di abilità cognitive, sociali e comportamentali oltre che tecnologiche, tali da mettere in discussione tutto ciò che l’organizzazione aziendale aveva costruito in precedenza.

Il merito della ricerca di Ashot Khachaturyan sta nell’aver cercato di fare ordine in qualcosa che non solo è complesso ma cambia velocemente, costringendo ad una costante messa in discussione di principi e schemi d’azione.

Corporate Culture as a Formula for Company Success in the Digital Economy

Ashot Khachaturyan

Scientific Research Books, 2025

Un nuovo studio appena pubblicato cerca di fare ordine nel complesso tema delle relazioni tra persone, organizzazione aziendale e nuove tecnologie

Cultura e tecnica, e quindi nuove tecnologie e innovazione. Percorsi obbligati anche nelle imprese. Strade da esplorare con attenzione. Partendo da una considerazione: la cultura aziendale gioca un ruolo chiave nel successo di qualsiasi organizzazione. Constatazione che appare ormai quasi banale, ma che, nella realtà, non è assolutamente scontata.

È da queste premesse che prende le mosse “Corporate Culture as a Formula for Company Success in the Digital Economy”, indagine pubblicata da Ashot Khachaturyan che cerca di sintetizzare un tema complesso e in evoluzione come quello della relazioni tra cultura d’impresa, risultati d’impresa e percezione della stessa dentro e fuori le mura delle fabbriche e degli uffici.

Per affrontare il tema, Khachaturyan sottolinea quanto l’importanza di creare e mantenere una sana cultura aziendale non possa essere sopravvalutata, in quanto influisce direttamente sulla motivazione dei dipendenti, sulla produttività del lavoro e sul successo complessivo dell’azienda. E come la cultura aziendale sia sempre a priori unica per ogni azienda. Un traguardo, quello della cultura d’impresa diffusa, che può essere raggiunto dopo anni e che, adesso, viene spostato in avanti dalla digitalizzazione dei processi.

Secondo Khachaturyan l’economia digitale non è solo una svolta tecnologica su larga scala, ma comporta la creazione di una nuova cultura e di nuovi valori e norme comportamentali. Il “modello digitale”, in altri termini, presuppone la presenza di abilità cognitive, sociali e comportamentali oltre che tecnologiche, tali da mettere in discussione tutto ciò che l’organizzazione aziendale aveva costruito in precedenza.

Il merito della ricerca di Ashot Khachaturyan sta nell’aver cercato di fare ordine in qualcosa che non solo è complesso ma cambia velocemente, costringendo ad una costante messa in discussione di principi e schemi d’azione.

Corporate Culture as a Formula for Company Success in the Digital Economy

Ashot Khachaturyan

Scientific Research Books, 2025

L’integrazione femminile per lavoro e salari riguarda non solo l’equità ma la democrazia

Servono le ricorrenze, le celebrazioni, gli atti simbolici. Come pubblicare, l’8 marzo, le statistiche che dicono che l’Italia, nonostante significativi progressi, è ancora all’ultimo posto in Europa per percentuale di occupazione femminile, il 53,5% appena di fronte a una media Ue del 69,3% (nel Mezzogiorno, un indecente 34%). E come scolpire la parola “femminicidio” tra i reati più gravi del Codice Penale. Come intitolare una strada a Luana D’Orazio, operaia, stritolata da un orditoio, nel maggio ‘21, in una fabbrica tessile di Montemurlo (Prato) incurante delle norme sulla sicurezza: “È il simbolo di tutte le morti sul lavoro”. Come far notare che aumenta il numero delle rettrici (sono 17, su 85 atenei) con un record per la prima città universitaria italiana, Milano, dove sono donne “le magnifiche” di cinque università (Statale, Politecnico, Bicocca, Cattolica e Iulm) oltre che nelle vicine Liuc di Castellanza, Varese e, probabilmente, Pavia. E come pubblicare inchieste (Il Sole24Ore, 8 marzo, appunto) che documentano “la mappa delle donne ai vertici, dalle istituzioni alla finanza: mai così tante” e sottolineano che a scuola “sono donne otto insegnanti su dieci” e dunque, forse, “la cultura può cambiare”.

È un bene, insomma, tutto questo “incidere sulla pietra parole audaci”, per usare la lezione poetica di Wislawa Szymborska. Dando, però, retta pure a chi, ancora una volta, ammonisce: “Cari uomini, più fatti, meno mimose” (Francesca Paci, su “La Stampa”). E sapendo che “ogni inizio è solo un seguito” (sempre la Nobel polacca) e dunque ci sono battaglie da continuare, conquiste sociali e civili da raggiungere e poi da difendere, valori di eguaglianza e di rispetto da fare diventare sempre più condivisi.

Ricorrenze, memorie, celebrazioni e gesti simbolici, infatti, servono proprio a rafforzare, con la forza del rito, un lungo impegno per dare sostanza concreta ai diritti di parità e di partecipazione, a tradurre, qui in Italia, in pratica corrente il dettato della Costituzione sull’uguaglianza e sull’opportunità di ogni persona a essere cittadino e a fare valere i propri sogni e i propri bisogni legittimi, garantendo, a ogni cambio di generazione, alle ragazze e ai ragazzi che entrano nella vita civile, adeguate opportunità per un migliore futuro.

Importante, dunque, vedere un numero crescente di donne sfondare il “soffitto di cristallo” delle discriminazioni di genere e arrivare ai vertici delle istituzioni, delle associazioni, delle imprese, delle strutture culturali e scientifiche (la legge Golfo-Mosca sulle “quote rosa” ha avuto una positiva funzione di stimolo, per lasciare via via il passo alle scelte di merito). Ma adesso lo sguardo va allargato, per una sempre maggiore parità diffusa. A cominciare dal mondo dell’economia e del lavoro, ma soprattutto da una valutazione politica della necessità di una sempre maggiore e migliore partecipazione femminile a tutti i processi della vita della polis, della cittadinanza attiva e responsabile.

La vita della Repubblica, dopo il buio del fascismo e dell’orrore delle leggi razziali e della guerra, ha un cardine di straordinaria innovazione politica proprio nella presenza attiva delle donne finalmente elettrici ed elette, per il referendum sulla scelta tra repubblica e monarchia e per l’Assemblea Costituente, nel ‘46 (per capire meglio, oltre che rivedere “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, vale la pena leggere “Le madri della Costituzione” di Eliana Di Caro, edito da IlSole24Ore). Il corpo elettorale coincide con tutta la popolazione in età di voto. Finisce un’incomprensibile e ingiusta discriminazione. Le donne sono a pieno titolo persone portatrici di diritti e doveri.

Nel corso del tempo, attuare la Costituzione ha significato e significa ancora realizzare compiutamente l’articolo 3, che prescrive che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Proprio la verifica sul livello dell’attuazione dell’articolo 3 potrebbe essere un buon parametro per misurare, ogni 8 marzo, non solo il cammino della parità ma anche lo stato di salute della partecipazione democratica alla vita e al futuro dell’Italia.

Un cammino da continuare a seguire, promuovere, costruire.

Le statistiche ISTAT, Inps e Cnel, infatti (“Più istruite, meno pagate”, La Stampa, 7 marzo; “Otto milioni di donne senza lavoro, è il tesoro che stiamo sprecando”, la Repubblica, 7 marzo)  documentano che, al di là della parità formale tra salari e carriere, le donne, soprattutto dopo la nascita del primo figlio, camminano in salita. Part time, minore mobilità, ridotta disponibilità a investire sui percorsi di carriera, per farsi carico, più degli uomini, delle responsabilità di famiglia determinano un divario di retribuzioni e possibilità di crescita professionale. E questo gap, spesso, non si recupera più.

Resta, insomma, ancora molto da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere. Un processo positivo utile a determinare migliori equilibri economici e sociali. Come conferma Chiara Saraceno, una delle più autorevoli sociologhe italiane: “Il tasso di crescita delle donne lavoratrici è metà di quello maschile; continua a pesare la maternità. E ridurre il gap di genere non è solo questione di equità, ma di sostenibilità economica del Paese” (La Stampa, 6 marzo).

In un’Italia in preoccupante “inverno demografico” le scelte politiche e di investimento sui temi della partecipazione al lavoro, dei servizi per la famiglia e l’infanzia, della casa, della salute, del sostegno alla formazione e dell’innovazione in senso ampio (appunto economica e sociale e non solo tecnologica) sono determinanti sia dal punto di vista dello sviluppo sostenibile sia, soprattutto, da quello della difesa e della crescita della democrazia. Si torna, dal punto di vista integrato delle donne e degli uomini, all’articolo 3 della Costituzione.

La questione ha una grande rilevanza anche dal punto di vista strettamente economico. “Il modo migliore per avere un’economia forte è sbloccare il pieno potenziale delle donne nella nostra forza lavoro”, scrive Sheryl Sandberg, ex direttrice di Meta (l’impero Facebook e Instagram di Mark Zuckerberg), sul Financial Times (ripreso da Il Foglio, 8 marzo). Una scelta da womenomics, come strategia di crescita. Ma anche un’indicazione non solo sulla quantità, ma soprattutto sulla qualità e dunque pure sull’equità dello sviluppo.

Proprio l’Italia, con la sua particolare cultura d’impresa, ne può fornire significative conferme. Il nostro “umanesimo industriale”, che connota le imprese più competitive sui mercati internazionali e più radicate nella “cultura politecnica” del Paese, tra memoria e innovazione,  si fonda sulle sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E senza inclusione sarebbe una contraddizione in termini. L’esperienza nella gestione dell’impresa ci dice inoltre che le donne sanno esprimere qualità particolari, fondamentali nella stagione del primato della “economia della conoscenza” e della multidisciplinarietà indispensabile per la gestione dell’Intelligenza Artificiale.

Ragionare, dunque, sul ruolo e sulla responsabilità delle donne significa non soltanto avere in campo competenze per migliorare la condizione sociale generale migliorando quella femminile, ma soprattutto disporre di un universo intellettuale e culturale, di una sensibilità e di una capacità pragmatica alla soluzione dei problemi per quel “cambio di paradigma” generale di cui si parla da tempo e investe l’economia produttiva, la vita civile, la sfera dei diritti e dei doveri, il welfare. In sintesi, appunto, l’insieme della nostra democrazia.

(foto Getty Images)

Servono le ricorrenze, le celebrazioni, gli atti simbolici. Come pubblicare, l’8 marzo, le statistiche che dicono che l’Italia, nonostante significativi progressi, è ancora all’ultimo posto in Europa per percentuale di occupazione femminile, il 53,5% appena di fronte a una media Ue del 69,3% (nel Mezzogiorno, un indecente 34%). E come scolpire la parola “femminicidio” tra i reati più gravi del Codice Penale. Come intitolare una strada a Luana D’Orazio, operaia, stritolata da un orditoio, nel maggio ‘21, in una fabbrica tessile di Montemurlo (Prato) incurante delle norme sulla sicurezza: “È il simbolo di tutte le morti sul lavoro”. Come far notare che aumenta il numero delle rettrici (sono 17, su 85 atenei) con un record per la prima città universitaria italiana, Milano, dove sono donne “le magnifiche” di cinque università (Statale, Politecnico, Bicocca, Cattolica e Iulm) oltre che nelle vicine Liuc di Castellanza, Varese e, probabilmente, Pavia. E come pubblicare inchieste (Il Sole24Ore, 8 marzo, appunto) che documentano “la mappa delle donne ai vertici, dalle istituzioni alla finanza: mai così tante” e sottolineano che a scuola “sono donne otto insegnanti su dieci” e dunque, forse, “la cultura può cambiare”.

È un bene, insomma, tutto questo “incidere sulla pietra parole audaci”, per usare la lezione poetica di Wislawa Szymborska. Dando, però, retta pure a chi, ancora una volta, ammonisce: “Cari uomini, più fatti, meno mimose” (Francesca Paci, su “La Stampa”). E sapendo che “ogni inizio è solo un seguito” (sempre la Nobel polacca) e dunque ci sono battaglie da continuare, conquiste sociali e civili da raggiungere e poi da difendere, valori di eguaglianza e di rispetto da fare diventare sempre più condivisi.

Ricorrenze, memorie, celebrazioni e gesti simbolici, infatti, servono proprio a rafforzare, con la forza del rito, un lungo impegno per dare sostanza concreta ai diritti di parità e di partecipazione, a tradurre, qui in Italia, in pratica corrente il dettato della Costituzione sull’uguaglianza e sull’opportunità di ogni persona a essere cittadino e a fare valere i propri sogni e i propri bisogni legittimi, garantendo, a ogni cambio di generazione, alle ragazze e ai ragazzi che entrano nella vita civile, adeguate opportunità per un migliore futuro.

Importante, dunque, vedere un numero crescente di donne sfondare il “soffitto di cristallo” delle discriminazioni di genere e arrivare ai vertici delle istituzioni, delle associazioni, delle imprese, delle strutture culturali e scientifiche (la legge Golfo-Mosca sulle “quote rosa” ha avuto una positiva funzione di stimolo, per lasciare via via il passo alle scelte di merito). Ma adesso lo sguardo va allargato, per una sempre maggiore parità diffusa. A cominciare dal mondo dell’economia e del lavoro, ma soprattutto da una valutazione politica della necessità di una sempre maggiore e migliore partecipazione femminile a tutti i processi della vita della polis, della cittadinanza attiva e responsabile.

La vita della Repubblica, dopo il buio del fascismo e dell’orrore delle leggi razziali e della guerra, ha un cardine di straordinaria innovazione politica proprio nella presenza attiva delle donne finalmente elettrici ed elette, per il referendum sulla scelta tra repubblica e monarchia e per l’Assemblea Costituente, nel ‘46 (per capire meglio, oltre che rivedere “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, vale la pena leggere “Le madri della Costituzione” di Eliana Di Caro, edito da IlSole24Ore). Il corpo elettorale coincide con tutta la popolazione in età di voto. Finisce un’incomprensibile e ingiusta discriminazione. Le donne sono a pieno titolo persone portatrici di diritti e doveri.

Nel corso del tempo, attuare la Costituzione ha significato e significa ancora realizzare compiutamente l’articolo 3, che prescrive che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Proprio la verifica sul livello dell’attuazione dell’articolo 3 potrebbe essere un buon parametro per misurare, ogni 8 marzo, non solo il cammino della parità ma anche lo stato di salute della partecipazione democratica alla vita e al futuro dell’Italia.

Un cammino da continuare a seguire, promuovere, costruire.

Le statistiche ISTAT, Inps e Cnel, infatti (“Più istruite, meno pagate”, La Stampa, 7 marzo; “Otto milioni di donne senza lavoro, è il tesoro che stiamo sprecando”, la Repubblica, 7 marzo)  documentano che, al di là della parità formale tra salari e carriere, le donne, soprattutto dopo la nascita del primo figlio, camminano in salita. Part time, minore mobilità, ridotta disponibilità a investire sui percorsi di carriera, per farsi carico, più degli uomini, delle responsabilità di famiglia determinano un divario di retribuzioni e possibilità di crescita professionale. E questo gap, spesso, non si recupera più.

Resta, insomma, ancora molto da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere. Un processo positivo utile a determinare migliori equilibri economici e sociali. Come conferma Chiara Saraceno, una delle più autorevoli sociologhe italiane: “Il tasso di crescita delle donne lavoratrici è metà di quello maschile; continua a pesare la maternità. E ridurre il gap di genere non è solo questione di equità, ma di sostenibilità economica del Paese” (La Stampa, 6 marzo).

In un’Italia in preoccupante “inverno demografico” le scelte politiche e di investimento sui temi della partecipazione al lavoro, dei servizi per la famiglia e l’infanzia, della casa, della salute, del sostegno alla formazione e dell’innovazione in senso ampio (appunto economica e sociale e non solo tecnologica) sono determinanti sia dal punto di vista dello sviluppo sostenibile sia, soprattutto, da quello della difesa e della crescita della democrazia. Si torna, dal punto di vista integrato delle donne e degli uomini, all’articolo 3 della Costituzione.

La questione ha una grande rilevanza anche dal punto di vista strettamente economico. “Il modo migliore per avere un’economia forte è sbloccare il pieno potenziale delle donne nella nostra forza lavoro”, scrive Sheryl Sandberg, ex direttrice di Meta (l’impero Facebook e Instagram di Mark Zuckerberg), sul Financial Times (ripreso da Il Foglio, 8 marzo). Una scelta da womenomics, come strategia di crescita. Ma anche un’indicazione non solo sulla quantità, ma soprattutto sulla qualità e dunque pure sull’equità dello sviluppo.

Proprio l’Italia, con la sua particolare cultura d’impresa, ne può fornire significative conferme. Il nostro “umanesimo industriale”, che connota le imprese più competitive sui mercati internazionali e più radicate nella “cultura politecnica” del Paese, tra memoria e innovazione,  si fonda sulle sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E senza inclusione sarebbe una contraddizione in termini. L’esperienza nella gestione dell’impresa ci dice inoltre che le donne sanno esprimere qualità particolari, fondamentali nella stagione del primato della “economia della conoscenza” e della multidisciplinarietà indispensabile per la gestione dell’Intelligenza Artificiale.

Ragionare, dunque, sul ruolo e sulla responsabilità delle donne significa non soltanto avere in campo competenze per migliorare la condizione sociale generale migliorando quella femminile, ma soprattutto disporre di un universo intellettuale e culturale, di una sensibilità e di una capacità pragmatica alla soluzione dei problemi per quel “cambio di paradigma” generale di cui si parla da tempo e investe l’economia produttiva, la vita civile, la sfera dei diritti e dei doveri, il welfare. In sintesi, appunto, l’insieme della nostra democrazia.

(foto Getty Images)

Italianità d’impresa

Le relazioni tra Italian sounding e gli altri concetti che qualificano le aziende italiane

Italianità. Ovvero – in molti campi d’attività – quell’eccellenza che rende pressoché uniche nel mondo le imprese italiane nel mondo. Concetto – quello dell’italianità – declinato in vario modo: dall’italian sounding al made in Italy. Spesso abusato, comunque molto usato, quello della rilevanza del paese di origine per il successo di mercato è certamente qualcosa che va compresa con attenzione nei suoi risvolti economici ma anche sociali e culturali.

Serve allora leggere  “Effetto Country of Origin e Made in Italy” di Pierfelice Rosato – docente di economia e marketing presso l’Università di Bari – che cerca di chiarire con efficacia le relazioni tra origine del prodotto e la sua notorietà ed efficacia sul mercato.

Rosato parte da una constatazione: in un’epoca nella quale la globalizzazione continua a dispiegare i suoi effetti sui modelli di consumo, pur nelle recenti difficoltà associate ad una perenne instabilità degli assetti geopolitici mondiali, la rilevanza del paese di provenienza nei processi di scelta dei prodotti rappresenta elemento di straordinario interesse nella comprensione delle strategie da adottare sui mercati internazionali.
L’autore quindi ragiona sul concetto di country of origin effect, inteso quale l’influenza del paese di provenienza del prodotto sui processi di scelta dei consumatori con riferimento a diversi mercati internazionali, che si è arricchito, negli ultimi anni, di crescenti elementi di complessità che ne hanno reso meno lineare la lettura in termini manageriali.La domanda alla quale cerca di rispondere Rosato è questa: come possono elementi quali il country of origin effect e l’Italian sounding influenzare l’immagine e la competitività del “Brand Italia” e, per questa via, la capacità di affermarsi delle imprese che hanno nel “Made in Italy” elemento significativo delle proprie strategie di crescita sui mercati internazionali?

Il libro quindi cerca di leggere in chiave manageriale questi concetti cercando di coglierne i potenziali benefici e, al contempo, acquisire consapevolezza delle eventuali criticità. E lo fa con un percorso lineare partendo dall’esame generale del “ruolo del Paese di origine nella costruzione del sistema d’offerta”, arrivando quindi al “ruolo della cultura nei processi d’internazionalizzazione”, a quello del “Made in Italy nella competitività delle imprese italiane” e per arrivare all’analisi dell’Italian sounding.

Quanto scritto da Gianfelice Rosato è una buona guida per iniziare a comprendere caratteristiche e peculiarità di concetti che sono ormai di comune dominio ma che non sempre sono così chiaramente compresi.

Effetto Country of Origin e Made in Italy

Pierfelice Rosato

Franco Angeli, 2025

Le relazioni tra Italian sounding e gli altri concetti che qualificano le aziende italiane

Italianità. Ovvero – in molti campi d’attività – quell’eccellenza che rende pressoché uniche nel mondo le imprese italiane nel mondo. Concetto – quello dell’italianità – declinato in vario modo: dall’italian sounding al made in Italy. Spesso abusato, comunque molto usato, quello della rilevanza del paese di origine per il successo di mercato è certamente qualcosa che va compresa con attenzione nei suoi risvolti economici ma anche sociali e culturali.

Serve allora leggere  “Effetto Country of Origin e Made in Italy” di Pierfelice Rosato – docente di economia e marketing presso l’Università di Bari – che cerca di chiarire con efficacia le relazioni tra origine del prodotto e la sua notorietà ed efficacia sul mercato.

Rosato parte da una constatazione: in un’epoca nella quale la globalizzazione continua a dispiegare i suoi effetti sui modelli di consumo, pur nelle recenti difficoltà associate ad una perenne instabilità degli assetti geopolitici mondiali, la rilevanza del paese di provenienza nei processi di scelta dei prodotti rappresenta elemento di straordinario interesse nella comprensione delle strategie da adottare sui mercati internazionali.
L’autore quindi ragiona sul concetto di country of origin effect, inteso quale l’influenza del paese di provenienza del prodotto sui processi di scelta dei consumatori con riferimento a diversi mercati internazionali, che si è arricchito, negli ultimi anni, di crescenti elementi di complessità che ne hanno reso meno lineare la lettura in termini manageriali.La domanda alla quale cerca di rispondere Rosato è questa: come possono elementi quali il country of origin effect e l’Italian sounding influenzare l’immagine e la competitività del “Brand Italia” e, per questa via, la capacità di affermarsi delle imprese che hanno nel “Made in Italy” elemento significativo delle proprie strategie di crescita sui mercati internazionali?

Il libro quindi cerca di leggere in chiave manageriale questi concetti cercando di coglierne i potenziali benefici e, al contempo, acquisire consapevolezza delle eventuali criticità. E lo fa con un percorso lineare partendo dall’esame generale del “ruolo del Paese di origine nella costruzione del sistema d’offerta”, arrivando quindi al “ruolo della cultura nei processi d’internazionalizzazione”, a quello del “Made in Italy nella competitività delle imprese italiane” e per arrivare all’analisi dell’Italian sounding.

Quanto scritto da Gianfelice Rosato è una buona guida per iniziare a comprendere caratteristiche e peculiarità di concetti che sono ormai di comune dominio ma che non sempre sono così chiaramente compresi.

Effetto Country of Origin e Made in Italy

Pierfelice Rosato

Franco Angeli, 2025

Territori e politiche di sviluppo per far bene alle imprese

L’analisi storica ed economica delle relazioni tra interventi e crescita delle aziende in una specifica area economica

 

Politiche per l’impresa ma anche per il territorio. Obiettivo comune a molte amministrazioni. E traguardo voluto da numerosi sistemi industriali. Quali strumenti adottare per quali percorsi di sviluppo intraprendere, è cosa da affrontare insieme: istituzioni, imprese, sistema sociale. È sulla base di queste considerazioni che un gruppo di ricerca che fa capo all’Università di Milano ha indagato il caso Monza-Brianza per una decina d’anni. La sintesi della ricerca fornisce elementi importanti per comprendere meglio quali possano essere le formule da adottare per innescare lo sviluppo equilibrato di un’area industriale.

Per capire gli effetti delle misure adottate tra il 2011 e il 2019 nel territorio tra Monza e la Brianza, l’indagine ha lavorato su due piani diversi. Da una parte è stata effettuata una analisi dell’ecosistema imprenditoriale locale. Un insieme – occorre sottolinearlo – che ha due pilastri: da un lato naturalmente le imprese, ma, dall’altro, le amministrazioni locali che sul quel territorio esistono.

Sono stati quindi esaminati i risultati economici di circa 30mila aziende e i bilanci di tutti i 55 comuni dell’area con l’obiettivo di individuare i termini e le modalità con cui gli impegni finanziari pubblici hanno stimolato la crescita dell’attività imprenditoriale.

I risultati indicano una correlazione ma anche una serie di sfumature collegate alle singole imprese, alle condizioni sociali in cui le politiche vengono attuate, alle singole categorie sociali che vengono coinvolte. Non esiste una formula politica univoca in grado di far scattare lo sviluppo. Esiste – pare di capire – un insieme di formule che si traducono in azioni che per essere efficaci devono passare dal consenso e dalla condivisione.

Le politiche a sostegno dell’impresa in prospettiva storica e il caso di Monza-Brianza (2011-2019)

Daniela Preite, Germano Maifreda, Fabio De Matteis, Fabrizio Striani, Benedetta Maria Crivelli, Gianmaria Brunazzi

Storia in Lombardia, 2024/2

L’analisi storica ed economica delle relazioni tra interventi e crescita delle aziende in una specifica area economica

 

Politiche per l’impresa ma anche per il territorio. Obiettivo comune a molte amministrazioni. E traguardo voluto da numerosi sistemi industriali. Quali strumenti adottare per quali percorsi di sviluppo intraprendere, è cosa da affrontare insieme: istituzioni, imprese, sistema sociale. È sulla base di queste considerazioni che un gruppo di ricerca che fa capo all’Università di Milano ha indagato il caso Monza-Brianza per una decina d’anni. La sintesi della ricerca fornisce elementi importanti per comprendere meglio quali possano essere le formule da adottare per innescare lo sviluppo equilibrato di un’area industriale.

Per capire gli effetti delle misure adottate tra il 2011 e il 2019 nel territorio tra Monza e la Brianza, l’indagine ha lavorato su due piani diversi. Da una parte è stata effettuata una analisi dell’ecosistema imprenditoriale locale. Un insieme – occorre sottolinearlo – che ha due pilastri: da un lato naturalmente le imprese, ma, dall’altro, le amministrazioni locali che sul quel territorio esistono.

Sono stati quindi esaminati i risultati economici di circa 30mila aziende e i bilanci di tutti i 55 comuni dell’area con l’obiettivo di individuare i termini e le modalità con cui gli impegni finanziari pubblici hanno stimolato la crescita dell’attività imprenditoriale.

I risultati indicano una correlazione ma anche una serie di sfumature collegate alle singole imprese, alle condizioni sociali in cui le politiche vengono attuate, alle singole categorie sociali che vengono coinvolte. Non esiste una formula politica univoca in grado di far scattare lo sviluppo. Esiste – pare di capire – un insieme di formule che si traducono in azioni che per essere efficaci devono passare dal consenso e dalla condivisione.

Le politiche a sostegno dell’impresa in prospettiva storica e il caso di Monza-Brianza (2011-2019)

Daniela Preite, Germano Maifreda, Fabio De Matteis, Fabrizio Striani, Benedetta Maria Crivelli, Gianmaria Brunazzi

Storia in Lombardia, 2024/2

Cronache per amare Milano, scrivendo di moda, Masterchef e case per i tranvieri

A Milano, nei giardini di marzo con gli alberi ancora spogli, tira comunque aria di primavera. E le strade sono affollate dal popolo fashion, per le sfilate femminili delle collezioni per il prossimo autunno/inverno (pare che si useranno molto il color cioccolato e le gonne longuette a vita alta, scelta ardua però se non si è alte e magre). Per compensare la severa e competitiva leggerezza modaiola, ecco che è cominciata “Milano MuseoCity”, 140 eventi tra musei e palazzi storici, per confrontarsi con la grande arte ma anche con le raccolte degli archivi e dei musei d’impresa: una settimana intera tra arte, scienza, tecnologia, design, “saper fare e far sapere”. Milano è appunto così: bellezza e cultura politecnica, mille luci scintillanti e solidità dei saperi.

Eccolo, dunque, un possibile racconto di Milano, sfogliando le pagine di cronaca dei quotidiani, per dire di una metropoli cui tutti guardano con ossessiva attenzione e che i milanesi osservano con speciale inclinazione autocritica (mai dimenticare che “milanesi si diventa”, con impegnativi percorsi di inclusione e integrazione, guidati dalla tradizione delle regole del lavoro e delle virtù civiche e civili, oggi però un po’ in crisi). E mentre c’è chi scrive libri intitolati “Contro Milano” deprecandone l’illustrato degrado, fioriscono le discussioni, nel mondo politico ed economico, nei circoli della società civile e nei circuiti culturali (il Centro Studi “Grande Milano” ne offre testimonianze esemplari) su cosa vale la pena fare, tra atti di governo e scelte sociali, perché, pur in un mondo di conflitti crescenti e turbolenti cambiamenti, Milano continui a essere “the place to be”.Senza illusioni né retorica. Ma, semmai, con la convinzione profonda che una metropoli è il luogo principe della complessità e, perché no?, delle contraddizioni. Leggere, per averne coscienza, un grande poeta americano, Walt Whitman: “Mi contraddico? Sì, mi contraddico. Contengo moltitudini”. Milano è, appunto, città di moltitudini.

Cosa dice, dunque, la cronaca? Che una ragazza milanese di famiglia cinese, Anna Ylan Zhang, ha vinto Masterchef: era disoccupata, sa cucinare benissimo, ha la tempra di chi regge una dura competizione (e si commuove spesso) e alla fine trova il successo. Tutto, appunto, molto milanese (con radici in via Sarpi).
Sfogli il “Corriere della Sera” e scopri che in una strada del centro, via Palestro, le auto dei frequentatori di un club privato di gran lusso sostano in doppia fila o sul marciapiedi, mentre un portiere in livrea allontana gli automobilisti qualunque. È una conferma della deriva verso “la città dei ricchi”? Magari non vale la pena generalizzare un caso di privilegio. Meglio continuare a leggere. E sapere che monta “la travolgente ondata dei ristoranti romani” visto che “tutte le più rinomate trattorie della capitale hanno aperto qui: è la nuova moda milanese”. “Gricia” e “carbonara” accanto alll’ossobuco e risotto giallo: Milano è appunto inclusiva, no?

Leggiamo su “la Repubblica” che l’arcivescovo di Milano Mario Delpini ribadisce che “la città non è solo mercato e produzione”, che “la solitudine è un’epidemia” e che “Milano si salva se c’è la fiducia”, cioè se non si perdono umanità, solidarietà, spirito di accoglienza (non solo per le belle modelle, i ragazzi delle famiglie benestanti di tutto il mondo e l’uso generoso del guanciale in cucina). Delpini ha proprio ragione.
C’è appunto da affrontare con urgenza il problema del caro-casa, di fronte ad aumenti clamorosi dei prezzi per gli acquisti immobiliari e gli affitti, che allontanano da Milano gli studenti ma anche i giovani professori, le famiglie delle classi medie e le ragazze e i ragazzi del “ceti creativi e intellettuali”, coloro cioè che sono sempre stati l’energia vitale di una “città che sale”, di una cultura urbana in espansione. Chi governa la città lo sa. E prepara misure.
Un esempio? Sempre leggendo i quotidiani (dovere civile farlo, oltre che interesse profondo per sapere bene dove si vive e come ci si dimostrata cittadini: la buona informazione ne è il sale, altro che volgarità e approssimazioni così diffuse sui social media)… sempre sui quotidiani, dicevamo, si legge che l’ATM sta mettendo a punto un piano per alloggi a canone ridotto per trovare tranvieri. Una buona mossa, un’intelligente indicazione da seguire da parte di strutture pubbliche e private.
Le cronache dicono anche di fatti di “nera” che creano allarme sociale. E le analisi ci confermano che Milano, pur segnata da una microcriminalità diffusa come in tutte le metropoli, non è affatto la Gotham City che a tanti piace evocare, stimolando un clima di paura.

Sempre le cronache fanno notare che in certe classifiche ministeriali la sanità lombarda perde posizioni (ma poi, leggendo meglio, di capisce che la qualità dell’assistenza, nelle strutture pubbliche e private, resta elevatissima e attrattiva per migliaia di malati che arrivano qui dal resto d’Italia): c’è infatti “del buono da fare emergere”, come commenta giustamente Giangiacomo Schiavi sul “Corriere”.
Si scrive, ancora, che Milano e Palermo, sulla spinta dei due sindaci Beppe Sala e Roberto Lagalla, progettano programmi comuni legati alla cultura, alla formazione di qualità, all’ambiente, alle nuove tecnologie e allo sviluppo europeo del Mediterraneo, che proprio nelle due città può avere “laboratori segnati da spirito di frontiera e creatività”. E da una scelta di fondo per “la legalità”.
Ecco qui, in poche righe, scampoli di cronaca. Per dire cosa? Che Milano, come ogni metropoli, va letta con attenzione e rispetto, senza facili generalizzazioni. E che la cifra di interpretazione è proprio l’analisi della complessità. Dei problemi. E delle soluzioni.

Una metropoli come Milano, infatti, non può non vivere di mercato, di intraprendenza privata, di crescita e stimoli di successo. Ma naturalmente non può essere abbandonata alla prevalenza delle logiche di mercato. Ha bisogno di buon governo, nazionale e regionale. E di pubblica amministrazione di qualità. Che sappia tenere insieme valori e interessi, generali e particolari. Come peraltro, la storia dei suoi sindaci ha dimostrato di saper fare (e la cui lezione va oggi rimeditata e riconsiderata). Come le sue classi imprenditrici e le associazioni economiche hanno testimoniato, mostrando come i valori pubblici e civili siano nutriti anche nel mondo degli affari.
Più economia produttiva insomma (la parola “produttiva” è essenziale, senza cadere nel privilegio della rendita). E migliore amministrazione della cosa pubblica. In una sinergia di scelte e progetti che, com’è sempre successo, facciano convivere mercato e welfare, competitività e inclusione sociale. Una sinergia difficile da sostenere, però, se, sempre leggendo le cronache, i cittadini scoprono che il governo continua a tagliare le risorse a disposizione degli enti locali per servizi e investimenti. Le nozze con i fichi secchi non sono affatto una buona abitudine nè un efficace servizio democratico ai cittadini. Né a Milano né altrove.

(foto Getty Images)

A Milano, nei giardini di marzo con gli alberi ancora spogli, tira comunque aria di primavera. E le strade sono affollate dal popolo fashion, per le sfilate femminili delle collezioni per il prossimo autunno/inverno (pare che si useranno molto il color cioccolato e le gonne longuette a vita alta, scelta ardua però se non si è alte e magre). Per compensare la severa e competitiva leggerezza modaiola, ecco che è cominciata “Milano MuseoCity”, 140 eventi tra musei e palazzi storici, per confrontarsi con la grande arte ma anche con le raccolte degli archivi e dei musei d’impresa: una settimana intera tra arte, scienza, tecnologia, design, “saper fare e far sapere”. Milano è appunto così: bellezza e cultura politecnica, mille luci scintillanti e solidità dei saperi.

Eccolo, dunque, un possibile racconto di Milano, sfogliando le pagine di cronaca dei quotidiani, per dire di una metropoli cui tutti guardano con ossessiva attenzione e che i milanesi osservano con speciale inclinazione autocritica (mai dimenticare che “milanesi si diventa”, con impegnativi percorsi di inclusione e integrazione, guidati dalla tradizione delle regole del lavoro e delle virtù civiche e civili, oggi però un po’ in crisi). E mentre c’è chi scrive libri intitolati “Contro Milano” deprecandone l’illustrato degrado, fioriscono le discussioni, nel mondo politico ed economico, nei circoli della società civile e nei circuiti culturali (il Centro Studi “Grande Milano” ne offre testimonianze esemplari) su cosa vale la pena fare, tra atti di governo e scelte sociali, perché, pur in un mondo di conflitti crescenti e turbolenti cambiamenti, Milano continui a essere “the place to be”.Senza illusioni né retorica. Ma, semmai, con la convinzione profonda che una metropoli è il luogo principe della complessità e, perché no?, delle contraddizioni. Leggere, per averne coscienza, un grande poeta americano, Walt Whitman: “Mi contraddico? Sì, mi contraddico. Contengo moltitudini”. Milano è, appunto, città di moltitudini.

Cosa dice, dunque, la cronaca? Che una ragazza milanese di famiglia cinese, Anna Ylan Zhang, ha vinto Masterchef: era disoccupata, sa cucinare benissimo, ha la tempra di chi regge una dura competizione (e si commuove spesso) e alla fine trova il successo. Tutto, appunto, molto milanese (con radici in via Sarpi).
Sfogli il “Corriere della Sera” e scopri che in una strada del centro, via Palestro, le auto dei frequentatori di un club privato di gran lusso sostano in doppia fila o sul marciapiedi, mentre un portiere in livrea allontana gli automobilisti qualunque. È una conferma della deriva verso “la città dei ricchi”? Magari non vale la pena generalizzare un caso di privilegio. Meglio continuare a leggere. E sapere che monta “la travolgente ondata dei ristoranti romani” visto che “tutte le più rinomate trattorie della capitale hanno aperto qui: è la nuova moda milanese”. “Gricia” e “carbonara” accanto alll’ossobuco e risotto giallo: Milano è appunto inclusiva, no?

Leggiamo su “la Repubblica” che l’arcivescovo di Milano Mario Delpini ribadisce che “la città non è solo mercato e produzione”, che “la solitudine è un’epidemia” e che “Milano si salva se c’è la fiducia”, cioè se non si perdono umanità, solidarietà, spirito di accoglienza (non solo per le belle modelle, i ragazzi delle famiglie benestanti di tutto il mondo e l’uso generoso del guanciale in cucina). Delpini ha proprio ragione.
C’è appunto da affrontare con urgenza il problema del caro-casa, di fronte ad aumenti clamorosi dei prezzi per gli acquisti immobiliari e gli affitti, che allontanano da Milano gli studenti ma anche i giovani professori, le famiglie delle classi medie e le ragazze e i ragazzi del “ceti creativi e intellettuali”, coloro cioè che sono sempre stati l’energia vitale di una “città che sale”, di una cultura urbana in espansione. Chi governa la città lo sa. E prepara misure.
Un esempio? Sempre leggendo i quotidiani (dovere civile farlo, oltre che interesse profondo per sapere bene dove si vive e come ci si dimostrata cittadini: la buona informazione ne è il sale, altro che volgarità e approssimazioni così diffuse sui social media)… sempre sui quotidiani, dicevamo, si legge che l’ATM sta mettendo a punto un piano per alloggi a canone ridotto per trovare tranvieri. Una buona mossa, un’intelligente indicazione da seguire da parte di strutture pubbliche e private.
Le cronache dicono anche di fatti di “nera” che creano allarme sociale. E le analisi ci confermano che Milano, pur segnata da una microcriminalità diffusa come in tutte le metropoli, non è affatto la Gotham City che a tanti piace evocare, stimolando un clima di paura.

Sempre le cronache fanno notare che in certe classifiche ministeriali la sanità lombarda perde posizioni (ma poi, leggendo meglio, di capisce che la qualità dell’assistenza, nelle strutture pubbliche e private, resta elevatissima e attrattiva per migliaia di malati che arrivano qui dal resto d’Italia): c’è infatti “del buono da fare emergere”, come commenta giustamente Giangiacomo Schiavi sul “Corriere”.
Si scrive, ancora, che Milano e Palermo, sulla spinta dei due sindaci Beppe Sala e Roberto Lagalla, progettano programmi comuni legati alla cultura, alla formazione di qualità, all’ambiente, alle nuove tecnologie e allo sviluppo europeo del Mediterraneo, che proprio nelle due città può avere “laboratori segnati da spirito di frontiera e creatività”. E da una scelta di fondo per “la legalità”.
Ecco qui, in poche righe, scampoli di cronaca. Per dire cosa? Che Milano, come ogni metropoli, va letta con attenzione e rispetto, senza facili generalizzazioni. E che la cifra di interpretazione è proprio l’analisi della complessità. Dei problemi. E delle soluzioni.

Una metropoli come Milano, infatti, non può non vivere di mercato, di intraprendenza privata, di crescita e stimoli di successo. Ma naturalmente non può essere abbandonata alla prevalenza delle logiche di mercato. Ha bisogno di buon governo, nazionale e regionale. E di pubblica amministrazione di qualità. Che sappia tenere insieme valori e interessi, generali e particolari. Come peraltro, la storia dei suoi sindaci ha dimostrato di saper fare (e la cui lezione va oggi rimeditata e riconsiderata). Come le sue classi imprenditrici e le associazioni economiche hanno testimoniato, mostrando come i valori pubblici e civili siano nutriti anche nel mondo degli affari.
Più economia produttiva insomma (la parola “produttiva” è essenziale, senza cadere nel privilegio della rendita). E migliore amministrazione della cosa pubblica. In una sinergia di scelte e progetti che, com’è sempre successo, facciano convivere mercato e welfare, competitività e inclusione sociale. Una sinergia difficile da sostenere, però, se, sempre leggendo le cronache, i cittadini scoprono che il governo continua a tagliare le risorse a disposizione degli enti locali per servizi e investimenti. Le nozze con i fichi secchi non sono affatto una buona abitudine nè un efficace servizio democratico ai cittadini. Né a Milano né altrove.

(foto Getty Images)

Pirelli e la città del futuro

Il dibattito sullo sviluppo urbano fra le pagine della “Rivista Pirelli” e i programmi del Centro Culturale Pirelli

Pirelli, la città, la visione. Il secondo appuntamento del nostro racconto dedicato al rapporto fra Pirelli e la città si concentra sul dibattito sullo sviluppo della città, che negli anni Cinquanta e Sessanta vede l’azienda farsi promotrice di momenti di studio, confronto e divulgazione rilevanti.

Partiamo dalla “Rivista Pirelli”, fenomeno letterario di spicco, uscita in edicola dal novembre del 1948 all’aprile del 1972, con periodicità quasi mensile, che attraverso la firma dei più grandi scrittori e giornalisti dell’epoca e le immagini dei più famosi illustratori e fotografi, ha alimentato intensamente il dibattito culturale internazionale in tutte le sue dimensioni – umanistica, tecnico-scientifica e di costume – raccontando le grandi trasformazioni economiche e sociali con analisi e reportage su temi sempre d’avanguardia. Fra questi, a partire dal 1953, si fanno avanti la città e il suo modello di sviluppo, affrontati con sguardo poliedrico, fra architettura, urbanistica e sociologia.

In particolare, l’articolo “Come sarà Milano?” che appare sul primo numero della “Rivista Pirelli” del 1953, inaugura un ciclo di monografie dedicate a otto città italiane. Il focus è sempre sul progetto, sull’assetto futuro, funzionale a rispondere alle grandi trasformazioni che stanno interessando le città proprio in quegli anni, in seguito all’aumento del fenomeno dell’urbanizzazione, dove l’industrializzazione è una delle principali forze trainanti – costruzione di nuove fabbriche, espansione di infrastrutture e nascita di quartieri residenziali moderni.

Milano, il piano regolatore, il centro direzionale, il progetto della metropolitana, il nuovo aspetto della città, in sintesi. L’articolo, a firma Vincenzo Buonassisi, Simonetta De Benedetti e Giuseppe Forcellini, si presenta nel sommario come “la prima diffusa e organica inchiesta sull’argomento”, di fatto dieci pagine dedicate al piano regolatore della città, con approfondimenti tecnici puntuali, corredate da immagini e rappresentazioni grafiche molto efficaci. Un servizio giornalistico di grande interesse, che restituisce la posizione di Pirelli nell’essere attore “pioniere” del dibattito sulla città del futuro.

Dopo Milano, la Rivista si occupa di Genova (“Come sarà Genova” – 1955, n. 1), Roma (“Come sarà Roma” – 1956, n. 1), Torino (“Come sarà Torino” 1956 – n. 4), Napoli (“Come sarà Napoli” – 1957, n. 4), Catania (“Come sarà Catania” – 1958, n. 3), Brescia (“Come sarà Brescia”1959, n. 2) e Firenze (“Come sarà Firenze” – 1959, n. 6). Si tratta di articoli che, a partire dai piani regolatori e dalle relative commissioni di tecnici e amministratori istituiti in quegli anni, disegnano il ritratto della città come sarà (senza punto di domanda). Ed è sorprendente constatare come queste descrizioni – o proiezioni – rispecchino l’aspetto delle città così come le vediamo oggi. Del resto, è negli anni Cinquanta che si pongono le basi per lo sviluppo delle città moderne.

L’interesse di Pirelli per la città e i suoi modelli si esprime anche in alcuni articoli che approfondiscono temi “caldi” per quegli anni: infrastrutture (“Due aeroporti per Milano” – 1960. n. 2; “Il porto nella città” – 1969, n. 4), scuola (“La scuola nella città” – 1964, n. 5), inquinamento (“Di città si muore” – 1969, n. 11). Resta sempre alto, da parte della Direzione della Rivista, l’interesse per il dibattito, le realtà sperimentali, le avanguardie, come negli articoli “Quindici nuove città” (1962, n. 1) e “Modello per la nuova città” (1970, n. 5).

Negli anni successivi, il dibattito sulla città è protagonista anche dei programmi del Centro Culturale Pirelli, fondato nel 1947 “per incrementare nei lavoratori l’interesse alla cultura”, ospitato inizialmente nei locali del “Ritrovo” presso il primo stabilimento di via Ponte Seveso, scampato ai bombardamenti del 1943, e negli anni Settanta in piazza Duca d’Aosta, presso il Grattacielo Pirelli. “Una formula nuova, ed abbastanza indovinata” – si legge nell’articolo della Rivista Pirelli “Come il pane”“fornisce i mezzi affinché ai suoi dipendenti, che ne sentano il desiderio, divenga accessibile la partecipazione alle più vive e vitali manifestazioni del sapere”.

Nei primi anni Settanta il Centro Culturale organizza dibattiti di urbanistica, con approfondimenti su sport e tempo libero (“Olimpiade, progettazione urbanistica e tempo libero” – 20 dicembre 1971), verde cittadino (“Più verde per Milano” – 23 marzo 1972) e smog (“Smog a Milano, il punto della situazione” – 17 gennaio 1972), con ospiti e relatori autorevoli, fra cui anche il Sindaco della città di Milano.

A conclusione di questo approfondimento su Pirelli e il suo legame speciale con la città e la visione, vorremmo evidenziare l’articolo di Roberto Guiducci, urbanista, sociologo e ingegnere, firma ricorrente sulla “Rivista Pirelli” per gli argomenti di urbanistica, dal titolo “Il valore della città” (1967 – n. 6), con le bellissime fotografie di Giulia Ferlito e Carlo Orsi. Un pezzo realistico quanto pragmatico, che non si fa mancare osservazioni sugli aspetti più problematici della città, ma che con una citazione di Aristotele “Gli uomini si radunano nelle città allo scopo di vivere; essi rimangono radunati allo scopo di vivere la buona vita” in chiusura ne svela la fascinazione.

Il dibattito sullo sviluppo urbano fra le pagine della “Rivista Pirelli” e i programmi del Centro Culturale Pirelli

Pirelli, la città, la visione. Il secondo appuntamento del nostro racconto dedicato al rapporto fra Pirelli e la città si concentra sul dibattito sullo sviluppo della città, che negli anni Cinquanta e Sessanta vede l’azienda farsi promotrice di momenti di studio, confronto e divulgazione rilevanti.

Partiamo dalla “Rivista Pirelli”, fenomeno letterario di spicco, uscita in edicola dal novembre del 1948 all’aprile del 1972, con periodicità quasi mensile, che attraverso la firma dei più grandi scrittori e giornalisti dell’epoca e le immagini dei più famosi illustratori e fotografi, ha alimentato intensamente il dibattito culturale internazionale in tutte le sue dimensioni – umanistica, tecnico-scientifica e di costume – raccontando le grandi trasformazioni economiche e sociali con analisi e reportage su temi sempre d’avanguardia. Fra questi, a partire dal 1953, si fanno avanti la città e il suo modello di sviluppo, affrontati con sguardo poliedrico, fra architettura, urbanistica e sociologia.

In particolare, l’articolo “Come sarà Milano?” che appare sul primo numero della “Rivista Pirelli” del 1953, inaugura un ciclo di monografie dedicate a otto città italiane. Il focus è sempre sul progetto, sull’assetto futuro, funzionale a rispondere alle grandi trasformazioni che stanno interessando le città proprio in quegli anni, in seguito all’aumento del fenomeno dell’urbanizzazione, dove l’industrializzazione è una delle principali forze trainanti – costruzione di nuove fabbriche, espansione di infrastrutture e nascita di quartieri residenziali moderni.

Milano, il piano regolatore, il centro direzionale, il progetto della metropolitana, il nuovo aspetto della città, in sintesi. L’articolo, a firma Vincenzo Buonassisi, Simonetta De Benedetti e Giuseppe Forcellini, si presenta nel sommario come “la prima diffusa e organica inchiesta sull’argomento”, di fatto dieci pagine dedicate al piano regolatore della città, con approfondimenti tecnici puntuali, corredate da immagini e rappresentazioni grafiche molto efficaci. Un servizio giornalistico di grande interesse, che restituisce la posizione di Pirelli nell’essere attore “pioniere” del dibattito sulla città del futuro.

Dopo Milano, la Rivista si occupa di Genova (“Come sarà Genova” – 1955, n. 1), Roma (“Come sarà Roma” – 1956, n. 1), Torino (“Come sarà Torino” 1956 – n. 4), Napoli (“Come sarà Napoli” – 1957, n. 4), Catania (“Come sarà Catania” – 1958, n. 3), Brescia (“Come sarà Brescia”1959, n. 2) e Firenze (“Come sarà Firenze” – 1959, n. 6). Si tratta di articoli che, a partire dai piani regolatori e dalle relative commissioni di tecnici e amministratori istituiti in quegli anni, disegnano il ritratto della città come sarà (senza punto di domanda). Ed è sorprendente constatare come queste descrizioni – o proiezioni – rispecchino l’aspetto delle città così come le vediamo oggi. Del resto, è negli anni Cinquanta che si pongono le basi per lo sviluppo delle città moderne.

L’interesse di Pirelli per la città e i suoi modelli si esprime anche in alcuni articoli che approfondiscono temi “caldi” per quegli anni: infrastrutture (“Due aeroporti per Milano” – 1960. n. 2; “Il porto nella città” – 1969, n. 4), scuola (“La scuola nella città” – 1964, n. 5), inquinamento (“Di città si muore” – 1969, n. 11). Resta sempre alto, da parte della Direzione della Rivista, l’interesse per il dibattito, le realtà sperimentali, le avanguardie, come negli articoli “Quindici nuove città” (1962, n. 1) e “Modello per la nuova città” (1970, n. 5).

Negli anni successivi, il dibattito sulla città è protagonista anche dei programmi del Centro Culturale Pirelli, fondato nel 1947 “per incrementare nei lavoratori l’interesse alla cultura”, ospitato inizialmente nei locali del “Ritrovo” presso il primo stabilimento di via Ponte Seveso, scampato ai bombardamenti del 1943, e negli anni Settanta in piazza Duca d’Aosta, presso il Grattacielo Pirelli. “Una formula nuova, ed abbastanza indovinata” – si legge nell’articolo della Rivista Pirelli “Come il pane”“fornisce i mezzi affinché ai suoi dipendenti, che ne sentano il desiderio, divenga accessibile la partecipazione alle più vive e vitali manifestazioni del sapere”.

Nei primi anni Settanta il Centro Culturale organizza dibattiti di urbanistica, con approfondimenti su sport e tempo libero (“Olimpiade, progettazione urbanistica e tempo libero” – 20 dicembre 1971), verde cittadino (“Più verde per Milano” – 23 marzo 1972) e smog (“Smog a Milano, il punto della situazione” – 17 gennaio 1972), con ospiti e relatori autorevoli, fra cui anche il Sindaco della città di Milano.

A conclusione di questo approfondimento su Pirelli e il suo legame speciale con la città e la visione, vorremmo evidenziare l’articolo di Roberto Guiducci, urbanista, sociologo e ingegnere, firma ricorrente sulla “Rivista Pirelli” per gli argomenti di urbanistica, dal titolo “Il valore della città” (1967 – n. 6), con le bellissime fotografie di Giulia Ferlito e Carlo Orsi. Un pezzo realistico quanto pragmatico, che non si fa mancare osservazioni sugli aspetti più problematici della città, ma che con una citazione di Aristotele “Gli uomini si radunano nelle città allo scopo di vivere; essi rimangono radunati allo scopo di vivere la buona vita” in chiusura ne svela la fascinazione.

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Vite d’intraprendenza

Trenta storie di imprenditrici e imprenditori che racconta trenta modi diversi di fare impresa

Raccontare l’impresa attraverso le voci di chi l’impresa la pensata, costruita e gestita. Approccio che va dritto al punto: comprendere come si fa impresa peer davvero.

È quanto ha cercato di fare Alessandro Scaglione con il suo “Italia, che impresa! Storie di cuore, coraggio, genio e resilienza” da poco dato alle stampe. Storie, appunto di donne e uomini che hanno fatto della loro vita un’avventura imprenditoriale a tutto tondo. Storie fatte di visioni e sogni, di vittorie e sconfitte. Storie raccontate in alcuni casi in presa diretta all’autore, in altri per via mediata dalle testimonianze dei protagonisti. Donne e uomini che hanno dato vita a marchi storici oppure a giovani imprese. In tutto, 30 capitoli per altrettante vicende che testimoniano l’ingegno, l’audacia, l’energia e l’impegno di chi ha creato un’impresa dal nulla oppure ne ha salvata una perché sentiva di doverlo fare.

Scaglione racconta di ognuno dei protagonisti la vicenda – con efficacia seppur non sempre uguale – con uno stile veloce e con poche pennellate decise, che cercano di catturare l’essenza di avventure umane straordinarie. E puntando a dimostrare che – se lo si vuole – si può fare impresa in qualsiasi condizione.

Il libro è organizzato in sei gruppi di racconti, ognuno contiene cinque storie che fanno capo ad altrettante imprese, di ogni impresa viene fornita una scheda. Si inizia con chi è andato “contro un destino avverso”, si passa a chi viene definito “inarrestabile” e poi a chi ha seguito una “intuizione straordinaria” per arrivare a chi si è impegnato nelle “imprese sociali” e quindi a chi non si è dato per vinto e, infine, a chi è riuscito a continuare attività iniziate da padri e avi prima di lui. Scorrono sotto gli occhi di chi legge, tra gli altri, le storie di Giorgio Armani, Giovanni Rana, Salvatore Ferragamo, Rinaldo Piaggio, Matilde Vincenzi, Marcel Bich, Ferdinando Bocconi, Benedetto Noberasco e molti altri ancora. Storie che, sottolinea l’autore, insegnano anche che si è fatta impresa in contesti ben più critici di quelli attuali.

Scrive, nelle pagine introduttive Alessandro Scaglione: “Convinto che la cultura prima dell’economia sia l’infrastruttura dell’umanità, questo libro vuole contribuire a suo modo alla ‘tradizione’ e alla contaminazione dei saperi tra chi ha fatto l’impresa e chi la farà. Perché fare impresa significa credere in noi stessi e nelle nostre idee, immergendoci il più possibile in ecosistemi che premino la nostra intraprendenza. Fare impresa è la scuola di chi sa ancora sognare, interpretando il mondo e indicando la via di una sua possibile evoluzione. È la scuola di persone visionarie, capaci di concepire e agire l’economia come riflesso di una visione, di una morale, di un modo di sentire e di pensare senza compromessi con la realtà che ci si para davanti”.

Italia, che impresa! Storie di cuore, coraggio, genio e resilienza

Alessandro Scaglione

GueriniNext, 2024

Trenta storie di imprenditrici e imprenditori che racconta trenta modi diversi di fare impresa

Raccontare l’impresa attraverso le voci di chi l’impresa la pensata, costruita e gestita. Approccio che va dritto al punto: comprendere come si fa impresa peer davvero.

È quanto ha cercato di fare Alessandro Scaglione con il suo “Italia, che impresa! Storie di cuore, coraggio, genio e resilienza” da poco dato alle stampe. Storie, appunto di donne e uomini che hanno fatto della loro vita un’avventura imprenditoriale a tutto tondo. Storie fatte di visioni e sogni, di vittorie e sconfitte. Storie raccontate in alcuni casi in presa diretta all’autore, in altri per via mediata dalle testimonianze dei protagonisti. Donne e uomini che hanno dato vita a marchi storici oppure a giovani imprese. In tutto, 30 capitoli per altrettante vicende che testimoniano l’ingegno, l’audacia, l’energia e l’impegno di chi ha creato un’impresa dal nulla oppure ne ha salvata una perché sentiva di doverlo fare.

Scaglione racconta di ognuno dei protagonisti la vicenda – con efficacia seppur non sempre uguale – con uno stile veloce e con poche pennellate decise, che cercano di catturare l’essenza di avventure umane straordinarie. E puntando a dimostrare che – se lo si vuole – si può fare impresa in qualsiasi condizione.

Il libro è organizzato in sei gruppi di racconti, ognuno contiene cinque storie che fanno capo ad altrettante imprese, di ogni impresa viene fornita una scheda. Si inizia con chi è andato “contro un destino avverso”, si passa a chi viene definito “inarrestabile” e poi a chi ha seguito una “intuizione straordinaria” per arrivare a chi si è impegnato nelle “imprese sociali” e quindi a chi non si è dato per vinto e, infine, a chi è riuscito a continuare attività iniziate da padri e avi prima di lui. Scorrono sotto gli occhi di chi legge, tra gli altri, le storie di Giorgio Armani, Giovanni Rana, Salvatore Ferragamo, Rinaldo Piaggio, Matilde Vincenzi, Marcel Bich, Ferdinando Bocconi, Benedetto Noberasco e molti altri ancora. Storie che, sottolinea l’autore, insegnano anche che si è fatta impresa in contesti ben più critici di quelli attuali.

Scrive, nelle pagine introduttive Alessandro Scaglione: “Convinto che la cultura prima dell’economia sia l’infrastruttura dell’umanità, questo libro vuole contribuire a suo modo alla ‘tradizione’ e alla contaminazione dei saperi tra chi ha fatto l’impresa e chi la farà. Perché fare impresa significa credere in noi stessi e nelle nostre idee, immergendoci il più possibile in ecosistemi che premino la nostra intraprendenza. Fare impresa è la scuola di chi sa ancora sognare, interpretando il mondo e indicando la via di una sua possibile evoluzione. È la scuola di persone visionarie, capaci di concepire e agire l’economia come riflesso di una visione, di una morale, di un modo di sentire e di pensare senza compromessi con la realtà che ci si para davanti”.

Italia, che impresa! Storie di cuore, coraggio, genio e resilienza

Alessandro Scaglione

GueriniNext, 2024

Riscoprire la Storia contro “il pensiero veloce” e dare spazio ai valori della democrazia europea

Riscoprire e studiare di più e meglio la storia. Non tanto perché sia magistra vitae e abbia qualcosa da insegnarci pragmaticamente. Ma soprattutto perché la conoscenza delle tensioni attive nel passato e della forza delle radici migliora la consapevolezza dell’importanza delle scelte e delle principali opzioni culturali, sociali e politiche secondo cui indirizzare valori, passioni, interessi.

In tempi così controversi, infatti, proprio mentre trionfano la retorica della forza e la prepotenza degli interessi e vanno in ombra le culture del rispetto e del dialogo e i valori delle diversità (la sostanza della democrazia liberale, insomma, “l’anima buona” del pur difficile Novecento) imparare a fare i conti con la Storia e le sue verità ci aiuta a capire come poter continuare a essere cives, cioè cittadini responsabili e consapevoli di una polis in cui coltivare le migliori eredità del passato e lasciare ai nostri figli e nipoti un capitale sociale di cultura democratica, senza ideologismi ma soprattutto senza inclinazioni autoritarie e smemorate dei guasti dei totalitarismi appena passati ma tutt’altro che scomparsi.

Che storia? La storia politica e quella militare. La storia economica e quella sociale. La public history e la global history. La storia dei grandi avvenimenti. E quella della cultura “alta” ma anche delle culture materiali (il cibo, la casa, l’abbigliamento, l’artigianato e l’industria, i consumi e i costumi, la cui essenzialità è stata documentata dalla scuola francese delle Annales). La storia patria. E le sue connessioni con le storie di altri popoli e altri paesi. Perché nessun uomo è un’isola, come ci ha insegnato John Donne, un grande poeta inglese. Nessuna valle è chiusa. E nessuno basta a se stesso.

L’identità, la migliore, la più feconda, sta non nel soggetto ma nelle relazioni, secondo la lezione filosofica di Emmanuel Lévinas. E, proprio per noi italiani ed europei, la nostra storia, la storia del Mediterraneo mare di conflitti e di confronti, di scontri e di commerci, mostra come nel corso del tempo lungo di cui abbiamo conoscenza, la durezza delle guerre sia stata compensata e superata dall’intelligenza dei dialoghi e degli scambi. Per averne consapevolezza, vale la pena rileggere le pagine lucide di Fernand Braudel e quelle, altrettanto sapienti ma anche profondamente poetiche, di Predrag Matvejevic, a cominciare dal suo “Breviario mediterraneo”, uno dei libri più importanti dell’intero Novecento.

Leggere di storia. Scrivere di storia, ben sapendo come ciò significhi seguire la disciplina severa del “dare fisionomia alla date” (Walter Benjamin), con grande rispetto per fatti e dati, evitando spregiudicate manipolazioni e falsificazioni. E scrivere storie, con senso di responsabilità. Cercando sempre la connessione con altre discipline, la letteratura e l’arte, la filosofia e la matematica, la sociologia, la psicologia, il diritto, la fisica e la chimica. I saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. L’antropologia e l’economia.

Hanno appunto ragione i professori dell’Università Cattolica di Milano che stanno promuovendo un “Dottorato in storia dell’Economia: imprese, istituzioni, culture” e gli storici, i giuristi e gli economisti che, come Giuliano Amato, Piero Barucci, Pierluigi Ciocca, Claudio De Vincenti, Elsa Fornero, Giorgio La Malfa, Romano Prodi, Alberto Quadrio Curzio, Paolo Savona e Ignazio Visco, hanno pubblicato (Il Sole24Ore, 29 gennaio) un appello alle forze politiche e accademiche per “salvare il dottorato in storia dell’economia” e ridargli lo spazio che merita nei contesti formativi e di ricerca delle nostre università.

Storia, insomma, come pilastro di “cultura politecnica”. E anche di cultura d’impresa. Muovendosi in ampiezza e, contemporaneamente, in profondità. Tutto il contrario delle cattive abitudini così di moda sui social media e della propaganda, purtroppo vincente, ispirata dalla “semplificazione del pensiero veloce” (è il sapiente ammonimento di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002, per aver dimostrato la profonda incidenza degli aspetti psicologici nelle decisioni economiche).

Sono proprio queste attitudini, d’altronde, a costituire una parte essenziale del patrimonio culturale e morale della nostra Europa, oggi incerta e perfino smarrita di fronte alle sfide d’un quadro geopolitico dominato da giganti prepotenti, dagli Usa alla Russia e alla Cina, e dalle Big Tech che disprezzano la democrazia. Un’Europa che deve ritrovare orgoglio, potenza e consapevolezza dei propri punti di forza (la democrazia e il mercato, i valori dell’intraprendenza economica individuale e la diffusione del welfare, l’attitudine alle scoperte scientifiche e l’essenzialità del pensiero critico). Un’Europa protagonista del proprio destino, nonostante tutto. Un’Europa migliore di quella che abbiamo visto all’opera.

Ha ragione, in questo contesto, Giulio Tremonti, da critico delle distorsioni regolatorie e burocratiche della Ue (“un ventennio perduto”) e da politico di solida cultura liberale, quando insiste sulla necessità di rileggere attentamente uno dei documenti storici costitutivi dell’Europa di cui siamo parte, il “Manifesto di Ventotene” e da lì ripartire per parlare di moneta comune ed esercito comune, politiche di sviluppo, ruolo geopolitico del continente (Il Foglio, 18 febbraio).

Era stato scritto, quel “Manifesto per un’Europa libera e unita”, nel 1941, da tre giovani intellettuali, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, condannati dal regime fascista al confino nell’isola di Ventotene, proprio in uno dei momenti più bui della storia (le armate naziste occupavano gran parte del continente). Pubblicato nel 1944, ancora prima che finisse la guerra, e diffuso anche per l’intraprendenza di una donna di straordinarie qualità, Ursula Hirshmann, il Manifesto di Ventotene era diventato uno dei testi fondanti dell’unificazione europea, grazie all’intelligenza progettuale e alla generosa visionarietà politica di una classe dirigente (Adenauer, De Gasperi, Schuman, Monnet e Spaak, i “padri dell’Europa”) capace di fare sintesi tra interessi nazionali e valori europei. E ancora oggi molte di quelle ispirazioni hanno forza di attualità: mercato comune, moneta comune, fisco comune, esercito comune: “la moneta” e “la spada”, le relazioni economiche e la democrazia politica.

Per leggerne l’attualità, i Rapporti Letta e Draghi sul Mercato Unico e sugli investimenti europei da mille miliardi all’anno per dieci anni (con risorse a debito raccolte sui mercati da una Ue finalmente coesa e dunque autorevole), forniscono importanti riferimenti su cosa e come fare, tempestivamente, per rispondere alle pressioni Usa mai come adesso, in epoca Trump, così poco amichevoli e alle manovre degli altri grandi e potenti attori della scena internazionale. Un’Europa che, citando le parole di Draghi davanti al Parlamento Europeo, deve finalmente “agire come un unico Stato” (Corriere della Sera, 19 febbraio).

L’Italia, paese fondatore della Ue, ha un ruolo fondamentale. E sono d’aiuto, in questo processo di ripresa e riscatto, anche le culture di fondo che hanno ispirato il Quirinale, di presidente in presidente: il socialismo democratico di Sandro Pertini, il pensiero democristiano di Oscar Luigi Scalfaro (che aveva frequentato fin dall’Assemblea Costituente il leader Alcide De Gasperi e il giovane Aldo Moro), l’azionismo e la liberaldemocrazia di Carlo Azeglio Ciampi, il comunismo profondamente italiano e costituzionale di Giorgio Napolitano, lo spessore dei valori sociali cattolici e della passione istituzionale di Costantino Mortati (che fu maestro di Diritto Costituzionale sino alle generazioni che sono entrate all’università alla fine degli anni Sessanta) così cari a Sergio Mattarella. Diversità nell’unità della cultura istituzionale della Repubblica. Valori democratici profondi. Forza delle radici storiche delle nostre essenziali democrazie e cardini di un migliore futuro. Di cui siamo profondamente debitori ai nostri figli e ai nostri nipoti. Europei.

(Foto Getty Images)

Riscoprire e studiare di più e meglio la storia. Non tanto perché sia magistra vitae e abbia qualcosa da insegnarci pragmaticamente. Ma soprattutto perché la conoscenza delle tensioni attive nel passato e della forza delle radici migliora la consapevolezza dell’importanza delle scelte e delle principali opzioni culturali, sociali e politiche secondo cui indirizzare valori, passioni, interessi.

In tempi così controversi, infatti, proprio mentre trionfano la retorica della forza e la prepotenza degli interessi e vanno in ombra le culture del rispetto e del dialogo e i valori delle diversità (la sostanza della democrazia liberale, insomma, “l’anima buona” del pur difficile Novecento) imparare a fare i conti con la Storia e le sue verità ci aiuta a capire come poter continuare a essere cives, cioè cittadini responsabili e consapevoli di una polis in cui coltivare le migliori eredità del passato e lasciare ai nostri figli e nipoti un capitale sociale di cultura democratica, senza ideologismi ma soprattutto senza inclinazioni autoritarie e smemorate dei guasti dei totalitarismi appena passati ma tutt’altro che scomparsi.

Che storia? La storia politica e quella militare. La storia economica e quella sociale. La public history e la global history. La storia dei grandi avvenimenti. E quella della cultura “alta” ma anche delle culture materiali (il cibo, la casa, l’abbigliamento, l’artigianato e l’industria, i consumi e i costumi, la cui essenzialità è stata documentata dalla scuola francese delle Annales). La storia patria. E le sue connessioni con le storie di altri popoli e altri paesi. Perché nessun uomo è un’isola, come ci ha insegnato John Donne, un grande poeta inglese. Nessuna valle è chiusa. E nessuno basta a se stesso.

L’identità, la migliore, la più feconda, sta non nel soggetto ma nelle relazioni, secondo la lezione filosofica di Emmanuel Lévinas. E, proprio per noi italiani ed europei, la nostra storia, la storia del Mediterraneo mare di conflitti e di confronti, di scontri e di commerci, mostra come nel corso del tempo lungo di cui abbiamo conoscenza, la durezza delle guerre sia stata compensata e superata dall’intelligenza dei dialoghi e degli scambi. Per averne consapevolezza, vale la pena rileggere le pagine lucide di Fernand Braudel e quelle, altrettanto sapienti ma anche profondamente poetiche, di Predrag Matvejevic, a cominciare dal suo “Breviario mediterraneo”, uno dei libri più importanti dell’intero Novecento.

Leggere di storia. Scrivere di storia, ben sapendo come ciò significhi seguire la disciplina severa del “dare fisionomia alla date” (Walter Benjamin), con grande rispetto per fatti e dati, evitando spregiudicate manipolazioni e falsificazioni. E scrivere storie, con senso di responsabilità. Cercando sempre la connessione con altre discipline, la letteratura e l’arte, la filosofia e la matematica, la sociologia, la psicologia, il diritto, la fisica e la chimica. I saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. L’antropologia e l’economia.

Hanno appunto ragione i professori dell’Università Cattolica di Milano che stanno promuovendo un “Dottorato in storia dell’Economia: imprese, istituzioni, culture” e gli storici, i giuristi e gli economisti che, come Giuliano Amato, Piero Barucci, Pierluigi Ciocca, Claudio De Vincenti, Elsa Fornero, Giorgio La Malfa, Romano Prodi, Alberto Quadrio Curzio, Paolo Savona e Ignazio Visco, hanno pubblicato (Il Sole24Ore, 29 gennaio) un appello alle forze politiche e accademiche per “salvare il dottorato in storia dell’economia” e ridargli lo spazio che merita nei contesti formativi e di ricerca delle nostre università.

Storia, insomma, come pilastro di “cultura politecnica”. E anche di cultura d’impresa. Muovendosi in ampiezza e, contemporaneamente, in profondità. Tutto il contrario delle cattive abitudini così di moda sui social media e della propaganda, purtroppo vincente, ispirata dalla “semplificazione del pensiero veloce” (è il sapiente ammonimento di Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002, per aver dimostrato la profonda incidenza degli aspetti psicologici nelle decisioni economiche).

Sono proprio queste attitudini, d’altronde, a costituire una parte essenziale del patrimonio culturale e morale della nostra Europa, oggi incerta e perfino smarrita di fronte alle sfide d’un quadro geopolitico dominato da giganti prepotenti, dagli Usa alla Russia e alla Cina, e dalle Big Tech che disprezzano la democrazia. Un’Europa che deve ritrovare orgoglio, potenza e consapevolezza dei propri punti di forza (la democrazia e il mercato, i valori dell’intraprendenza economica individuale e la diffusione del welfare, l’attitudine alle scoperte scientifiche e l’essenzialità del pensiero critico). Un’Europa protagonista del proprio destino, nonostante tutto. Un’Europa migliore di quella che abbiamo visto all’opera.

Ha ragione, in questo contesto, Giulio Tremonti, da critico delle distorsioni regolatorie e burocratiche della Ue (“un ventennio perduto”) e da politico di solida cultura liberale, quando insiste sulla necessità di rileggere attentamente uno dei documenti storici costitutivi dell’Europa di cui siamo parte, il “Manifesto di Ventotene” e da lì ripartire per parlare di moneta comune ed esercito comune, politiche di sviluppo, ruolo geopolitico del continente (Il Foglio, 18 febbraio).

Era stato scritto, quel “Manifesto per un’Europa libera e unita”, nel 1941, da tre giovani intellettuali, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, condannati dal regime fascista al confino nell’isola di Ventotene, proprio in uno dei momenti più bui della storia (le armate naziste occupavano gran parte del continente). Pubblicato nel 1944, ancora prima che finisse la guerra, e diffuso anche per l’intraprendenza di una donna di straordinarie qualità, Ursula Hirshmann, il Manifesto di Ventotene era diventato uno dei testi fondanti dell’unificazione europea, grazie all’intelligenza progettuale e alla generosa visionarietà politica di una classe dirigente (Adenauer, De Gasperi, Schuman, Monnet e Spaak, i “padri dell’Europa”) capace di fare sintesi tra interessi nazionali e valori europei. E ancora oggi molte di quelle ispirazioni hanno forza di attualità: mercato comune, moneta comune, fisco comune, esercito comune: “la moneta” e “la spada”, le relazioni economiche e la democrazia politica.

Per leggerne l’attualità, i Rapporti Letta e Draghi sul Mercato Unico e sugli investimenti europei da mille miliardi all’anno per dieci anni (con risorse a debito raccolte sui mercati da una Ue finalmente coesa e dunque autorevole), forniscono importanti riferimenti su cosa e come fare, tempestivamente, per rispondere alle pressioni Usa mai come adesso, in epoca Trump, così poco amichevoli e alle manovre degli altri grandi e potenti attori della scena internazionale. Un’Europa che, citando le parole di Draghi davanti al Parlamento Europeo, deve finalmente “agire come un unico Stato” (Corriere della Sera, 19 febbraio).

L’Italia, paese fondatore della Ue, ha un ruolo fondamentale. E sono d’aiuto, in questo processo di ripresa e riscatto, anche le culture di fondo che hanno ispirato il Quirinale, di presidente in presidente: il socialismo democratico di Sandro Pertini, il pensiero democristiano di Oscar Luigi Scalfaro (che aveva frequentato fin dall’Assemblea Costituente il leader Alcide De Gasperi e il giovane Aldo Moro), l’azionismo e la liberaldemocrazia di Carlo Azeglio Ciampi, il comunismo profondamente italiano e costituzionale di Giorgio Napolitano, lo spessore dei valori sociali cattolici e della passione istituzionale di Costantino Mortati (che fu maestro di Diritto Costituzionale sino alle generazioni che sono entrate all’università alla fine degli anni Sessanta) così cari a Sergio Mattarella. Diversità nell’unità della cultura istituzionale della Repubblica. Valori democratici profondi. Forza delle radici storiche delle nostre essenziali democrazie e cardini di un migliore futuro. Di cui siamo profondamente debitori ai nostri figli e ai nostri nipoti. Europei.

(Foto Getty Images)

Per lo sviluppo non bastano le politiche, servono le persone

L’analisi degli interventi per favorire la crescita delle imprese, dice quanto siano importanti le relazioni umane

Strumenti giusti per far nascere e far crescere le imprese nel territorio. Obiettivo naturalmente condivisibile, ma non sempre così facilmente raggiungibile. Questione di strumenti, appunto, ma anche di modalità di comportamento, cultura dell’intraprendere, relazioni sociali prima ancora che economiche.

Domenico Barricelli e Alessandra Pedone con il loro “Politiche di sostegno alla creazione di impresa in Italia. Attori, sfide e prospettive per l’occupazione e la crescita economica” affrontano uno dei passaggi cruciali del tema: quali politiche di sostegno avviare. E come.

L’articolo esamina quindi il panorama delle politiche e degli attori chiave a supporto della creazione d’impresa in Italia, con attenzione particolare alle start-up innovative e alle piccole e medie imprese (PMI). Le prime pensate come “futuro” della struttura industriale di particolari comparti; le seconde interpretate storicamente come struttura portante di tutta l’economia nazionale.

Barricelli e Pedone forniscono una panoramica delle principali normative e misure a livello nazionale e regionale, e analizzano il ruolo cruciale delle politiche attive del mercato del lavoro nel promuovere l’imprenditorialità come strumento di inclusione sociale ed economica.

Politiche, dunque, ma anche persone come si diceva. Per questo, lo studio si sofferma pure sull’analisi delle dinamiche di interazione tra attori pubblici e privati, evidenziando le sfide legate a burocrazia, finanziamenti e competenze e le opportunità offerte dalle politiche di innovazione e coesione territoriale.

I risultati mostrano l’importanza della cooperazione tra istituzioni, imprese e associazioni, università e ricerca per promuovere un ecosistema imprenditoriale dinamico con effetti positivi sullo sviluppo economico e sull’occupazione, in particolare per i giovani, le donne e i migranti. In altri termini, Barricelli e Pedone dimostrano ancora una volta quanto lo sviluppo e la crescita economica di un territorio siano fondati su quel di più umano e culturale che risulta essere imprescindibile.

Politiche di sostegno alla creazione di impresa in Italia. Attori, sfide e prospettive per l’occupazione e la crescita economica

Domenico Barricelli, Alessandra Pedone

Quaderni di ricerca sull’artigianato, Fascicolo 3/2024, settembre-dicembre

L’analisi degli interventi per favorire la crescita delle imprese, dice quanto siano importanti le relazioni umane

Strumenti giusti per far nascere e far crescere le imprese nel territorio. Obiettivo naturalmente condivisibile, ma non sempre così facilmente raggiungibile. Questione di strumenti, appunto, ma anche di modalità di comportamento, cultura dell’intraprendere, relazioni sociali prima ancora che economiche.

Domenico Barricelli e Alessandra Pedone con il loro “Politiche di sostegno alla creazione di impresa in Italia. Attori, sfide e prospettive per l’occupazione e la crescita economica” affrontano uno dei passaggi cruciali del tema: quali politiche di sostegno avviare. E come.

L’articolo esamina quindi il panorama delle politiche e degli attori chiave a supporto della creazione d’impresa in Italia, con attenzione particolare alle start-up innovative e alle piccole e medie imprese (PMI). Le prime pensate come “futuro” della struttura industriale di particolari comparti; le seconde interpretate storicamente come struttura portante di tutta l’economia nazionale.

Barricelli e Pedone forniscono una panoramica delle principali normative e misure a livello nazionale e regionale, e analizzano il ruolo cruciale delle politiche attive del mercato del lavoro nel promuovere l’imprenditorialità come strumento di inclusione sociale ed economica.

Politiche, dunque, ma anche persone come si diceva. Per questo, lo studio si sofferma pure sull’analisi delle dinamiche di interazione tra attori pubblici e privati, evidenziando le sfide legate a burocrazia, finanziamenti e competenze e le opportunità offerte dalle politiche di innovazione e coesione territoriale.

I risultati mostrano l’importanza della cooperazione tra istituzioni, imprese e associazioni, università e ricerca per promuovere un ecosistema imprenditoriale dinamico con effetti positivi sullo sviluppo economico e sull’occupazione, in particolare per i giovani, le donne e i migranti. In altri termini, Barricelli e Pedone dimostrano ancora una volta quanto lo sviluppo e la crescita economica di un territorio siano fondati su quel di più umano e culturale che risulta essere imprescindibile.

Politiche di sostegno alla creazione di impresa in Italia. Attori, sfide e prospettive per l’occupazione e la crescita economica

Domenico Barricelli, Alessandra Pedone

Quaderni di ricerca sull’artigianato, Fascicolo 3/2024, settembre-dicembre

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