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Comunicare, crescere, produrre

Comunicare significa crescere. Anche in azienda. Anzi, la comunicazione dentro e fuori l’impresa contribuisce alla crescita della cultura produttiva che si crea e che dà forma all’impresa stessa. E questa crescita apre nuovi orizzonti, crea profitto, occupazione benessere. Non è una constatazione di oggi, certo. Ma è un fatto che occorra fare ancora molta strada per comprendere in pieno tutte le potenzialità di una corretta comunicazione dentro e fuori l’impresa.

A questo serve certamente leggere “Effective Communication: Strategy for Efficient Organizational Culture and Performance” di Uti Charles Amechi, Choi Sang Long e  A.I Chikaji (della Faculty of Management, Universiti Teknologi Malaysia), appena presentato alla sesta Annual American Business Research Conference che si è svolta il 9 e 10 giugno a New York.

Lo studio analizza la comunicazione efficace percepita come una strategia fondamentale per una “efficiente cultura organizzativa” e parte da una considerazione: “Ognuno – spiegano gli autori -, nella vita è in comunicazione con un’altra persona in un determinato contesto sociale, e a prescindere da ciò che il contesto può essere, la gente condivide e scambia opinioni e informazioni”. Constatazione apparentemente banale, questa porta i tre ricercatori ad  analizzare da vicino le modalità con cui in azienda si comunica. Comunicare, quindi, significa persuadere ma anche coinvolgere. E si comunica in maniera diversa a seconda di chi si è; per questo i ricercatori guardano ai vari canali di scambio di informazioni fra manager e impiegati, fra proprietà e manager, fra questi e i lavoratori. C’è, spiegano, una sorta di comunicazione organizzativa dalla quale nasce una cultura organizzativa che crea la cultura d’impresa della quale si dà una definizione apparentemente superficiale ma in effetti molto profonda: “Il modo con cui facciamo le cose qui”.

Una delle conclusioni è che “all’interno di un’organizzazione, comunicazione formale e informale si svolgono quotidianamente e hanno un ruolo fondamentale nella strutturazione e nel rafforzamento della cultura organizzativa, negli obiettivi, nelle strategie e nelle attività volte a migliorare e garantire il successo organizzativo”. Il lavoro di  Uti Charles Amechi e dei suoi colleghi aiuta a capire di più, è da leggere tutto e da ricordare.

Effective Communication: Strategy for Efficient Organizational Culture and Performance 

Uti Charles Amechi, Choi Sang Long, A.I Chikaji (Faculty of Management, Universiti Teknologi Malaysia)

Proceedings of 6th Annual American Business Research Conference, New York (9 – 10 June 2014)

Comunicare significa crescere. Anche in azienda. Anzi, la comunicazione dentro e fuori l’impresa contribuisce alla crescita della cultura produttiva che si crea e che dà forma all’impresa stessa. E questa crescita apre nuovi orizzonti, crea profitto, occupazione benessere. Non è una constatazione di oggi, certo. Ma è un fatto che occorra fare ancora molta strada per comprendere in pieno tutte le potenzialità di una corretta comunicazione dentro e fuori l’impresa.

A questo serve certamente leggere “Effective Communication: Strategy for Efficient Organizational Culture and Performance” di Uti Charles Amechi, Choi Sang Long e  A.I Chikaji (della Faculty of Management, Universiti Teknologi Malaysia), appena presentato alla sesta Annual American Business Research Conference che si è svolta il 9 e 10 giugno a New York.

Lo studio analizza la comunicazione efficace percepita come una strategia fondamentale per una “efficiente cultura organizzativa” e parte da una considerazione: “Ognuno – spiegano gli autori -, nella vita è in comunicazione con un’altra persona in un determinato contesto sociale, e a prescindere da ciò che il contesto può essere, la gente condivide e scambia opinioni e informazioni”. Constatazione apparentemente banale, questa porta i tre ricercatori ad  analizzare da vicino le modalità con cui in azienda si comunica. Comunicare, quindi, significa persuadere ma anche coinvolgere. E si comunica in maniera diversa a seconda di chi si è; per questo i ricercatori guardano ai vari canali di scambio di informazioni fra manager e impiegati, fra proprietà e manager, fra questi e i lavoratori. C’è, spiegano, una sorta di comunicazione organizzativa dalla quale nasce una cultura organizzativa che crea la cultura d’impresa della quale si dà una definizione apparentemente superficiale ma in effetti molto profonda: “Il modo con cui facciamo le cose qui”.

Una delle conclusioni è che “all’interno di un’organizzazione, comunicazione formale e informale si svolgono quotidianamente e hanno un ruolo fondamentale nella strutturazione e nel rafforzamento della cultura organizzativa, negli obiettivi, nelle strategie e nelle attività volte a migliorare e garantire il successo organizzativo”. Il lavoro di  Uti Charles Amechi e dei suoi colleghi aiuta a capire di più, è da leggere tutto e da ricordare.

Effective Communication: Strategy for Efficient Organizational Culture and Performance 

Uti Charles Amechi, Choi Sang Long, A.I Chikaji (Faculty of Management, Universiti Teknologi Malaysia)

Proceedings of 6th Annual American Business Research Conference, New York (9 – 10 June 2014)

Manager da combattimento?

Bistrattati guerrieri alle prese con un destino più grande e potente di loro; soli, nemici di tutti, chiusi in un’immagine molto spesso lontana della realtà, in cerca di un riscatto che ne faccia conoscere la loro vera natura. Potrebbe essere il ritratto, valido in moltissimi casi, dei manager d’impresa italiani, alle prese con una crisi che non è finita e con la voglia di riscattare non solo se’ stessi ma anche le aziende per cui lavorano. Ritratto forte, con il quale si può anche non essere d’accordo, ma che emerge da “Risorse sovraumane. Autoritratto dei manager italiani di oggi”, scritto a quattro mani da Monica Fabris, Emma Villa e in procinto di uscire nelle librerie.

Si tratta di un libro voluto da Federmanager per capire meglio la natura della categoria oggi e, soprattutto, per fare giustizia di troppi stereotipi sull’argomento.

Di fatto un libro “di parte”, ma interessante, importante e tutto da leggere e che cerca di rispondere ad una serie di interrogativi sull’autopercezione dei manager italiani, sui valori, stili di vita, modi di pensare e lavorare nei quali questi si riconoscono dopo una crisi che li ha colpiti duramente e insieme ne richiede ancor più le competenze per rilanciare la competitività delle imprese.

Il lavoro inizia in maniera inconsueta osservando a fondo, come antropologi, una gruppo ristretto di manager e poi, sulla base dei primi risultati, allargando l’osservazione ad una campione molto più ampio tramite un questionario. Chiude il tutto una serie di quattro interviste sui manager italiani a Giorgio Squinzi, Susanna Camusso, Angelo Bagnasco, Giulio Sapelli.

La conclusione del volume è che occorre dimenticare l’immagine del manager individualista, egoista, interessato solo al potere e ai soldi, uno che si sente un privilegiato e non esce dai recinti mentali della propria azienda. Oggi – spiegano i due autori -, i manager italiani si sentono piuttosto portatori di una nuova cultura centrata sul merito e sulla responsabilità; dei combattenti – appunto -, che mettono in campo strumenti e doti personali per dare un contributo decisivo al paese; delle persone in carne ed ossa mosse da passioni e aspirazioni.

Nell’introduzione al volume c’è un passo significativo: “La gerarchia valoriale restituita oggi dai manager evidenzia un netto ribaltamento rispetto al passato: le dimensioni etiche e doveristiche vengono anteposte a quelle materialistiche e di status un tempo predominanti. Si genera così un circolo virtuoso del tutto nuovo tra manager, aziende e società a partire dai valori della persona”.

“Risorse sovraumane” è da leggere con attenzione e accortezza, ma è una istantanea interessante da esplorare.

Risorse sovraumane. Autoritratto dei manager italiani di oggi

Monica Fabris, Emma Villa

Franco Angeli, luglio 2014

Bistrattati guerrieri alle prese con un destino più grande e potente di loro; soli, nemici di tutti, chiusi in un’immagine molto spesso lontana della realtà, in cerca di un riscatto che ne faccia conoscere la loro vera natura. Potrebbe essere il ritratto, valido in moltissimi casi, dei manager d’impresa italiani, alle prese con una crisi che non è finita e con la voglia di riscattare non solo se’ stessi ma anche le aziende per cui lavorano. Ritratto forte, con il quale si può anche non essere d’accordo, ma che emerge da “Risorse sovraumane. Autoritratto dei manager italiani di oggi”, scritto a quattro mani da Monica Fabris, Emma Villa e in procinto di uscire nelle librerie.

Si tratta di un libro voluto da Federmanager per capire meglio la natura della categoria oggi e, soprattutto, per fare giustizia di troppi stereotipi sull’argomento.

Di fatto un libro “di parte”, ma interessante, importante e tutto da leggere e che cerca di rispondere ad una serie di interrogativi sull’autopercezione dei manager italiani, sui valori, stili di vita, modi di pensare e lavorare nei quali questi si riconoscono dopo una crisi che li ha colpiti duramente e insieme ne richiede ancor più le competenze per rilanciare la competitività delle imprese.

Il lavoro inizia in maniera inconsueta osservando a fondo, come antropologi, una gruppo ristretto di manager e poi, sulla base dei primi risultati, allargando l’osservazione ad una campione molto più ampio tramite un questionario. Chiude il tutto una serie di quattro interviste sui manager italiani a Giorgio Squinzi, Susanna Camusso, Angelo Bagnasco, Giulio Sapelli.

La conclusione del volume è che occorre dimenticare l’immagine del manager individualista, egoista, interessato solo al potere e ai soldi, uno che si sente un privilegiato e non esce dai recinti mentali della propria azienda. Oggi – spiegano i due autori -, i manager italiani si sentono piuttosto portatori di una nuova cultura centrata sul merito e sulla responsabilità; dei combattenti – appunto -, che mettono in campo strumenti e doti personali per dare un contributo decisivo al paese; delle persone in carne ed ossa mosse da passioni e aspirazioni.

Nell’introduzione al volume c’è un passo significativo: “La gerarchia valoriale restituita oggi dai manager evidenzia un netto ribaltamento rispetto al passato: le dimensioni etiche e doveristiche vengono anteposte a quelle materialistiche e di status un tempo predominanti. Si genera così un circolo virtuoso del tutto nuovo tra manager, aziende e società a partire dai valori della persona”.

“Risorse sovraumane” è da leggere con attenzione e accortezza, ma è una istantanea interessante da esplorare.

Risorse sovraumane. Autoritratto dei manager italiani di oggi

Monica Fabris, Emma Villa

Franco Angeli, luglio 2014

Il declino delle 120mila fabbriche chiuse e i nuovi segnali di investimenti e ripresa

I dati parlano di declino industriale: 120mila fabbriche perse tra il 2000 e il 2013, 1milione 160mila posti di lavoro bruciati. “Una massiccia erosione della base produttiva”, documenta il Centro Studi Confindustria. Mentre si allarga la forbice manifatturiera tra il resto del mondo e l’Italia: un incremento del 36% dei volumi prodotti (sempre dall’inizio degli anni 2000) contro una caduta del 25,5% della produzione industriale italiana: un andamento “in netta controtendenza”, con un divario “che si era già aperto prima del 2007 e si è allargato drammaticamente dopo”. Un altro sintomo “di grave difficoltà dell’Italia è il fatto che in sei anni è passata dal quinto all’ottavo posto nella graduatoria internazionale dei paesi produttori”, superata da Corea del Sud, India e Brasile e a parità di posizione con la Francia (nel 2007 aveva il 4,5% della produzione manifatturiera mondiale, in dollari correnti, nel 2013 invece appena il 2,6%). Per dirla in sintesi, restiamo comunque il secondo grande paese manifatturiero europeo, dopo la Germania, ma siamo sempre più in affanno, sempre meno produttivi e competitivi.

L’allarme sui rischi di declino lanciato il 4 giugno dal Centro studi Confindustria va preso molto sul serio. Perché proprio dalla manifattura dipende la spinta decisiva per lo sviluppo economico. E perché altri paesi stanno puntando proprio sull’industria, rivalutandone il ruolo e garantendole stimoli e sostegni, come locomotiva della ripresa dopo gli anni della Grande Crisi della cattiva finanza: gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, oltre naturalmente la solida Germania e i dinamici Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). E noi italiani?

Centralità della fabbrica, ha detto la ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, all’assemblea di Confindustria, il 29 maggio. E impegno in Europa per rafforzare un vero e proprio “industrial compact”. Ma anche provvedimenti concreti, non solo per creare un ambiente più favorevole alle imprese (meno burocrazia, più trasparenza ed efficienza anche per combattere l’allarmante corruzione, riforme del fisco e della giustizia, etc.) ma anche per dare fiato agli investimenti (con una robusta mano d’aiuto dalla Bce di Mario Draghi, che ha tagliato ancora i tassi e dato alle banche un grande supporto di liquidità a patto che vada appunto alle piccole e medie imprese). Come? Garantendo per esempio nuovi finanziamenti alla legge “Sabatini”, che concede i benefici del credito agevolato a chi rinnova macchinari e impianti, oltre i 2,5miliardi già previsti per il 2014.

Ecco, vengono proprio dai dati sulla “Sabatini” alcune buone notizie, in controtendenza con i dati del declino industriale. Sono infatti già 3mila gli imprenditori che si sono prenotati per fare investimenti in nuovi macchinari, per rinnovare le loro imprese con impianti a più avanzata tecnologia, sicurezza, produttività. “E’ la fine dello sciopero degli investimenti”, nota Dario Di Vico sul Corriere della Sera (7 giugno). “Nuovi investimenti obbligati”, commenta Gian Maria Gros-Pietro, economista autorevole, “perché sta ripartendo la domanda, anche internazionale e bisogna attrezzarsi per intercettarla. Servono macchine più adatte e performanti”. L’Ucimu (l’associazione di categoria dei produttori di macchine utensili e robot) conferma il boom degli ordini, negli ultimi mesi. E dunque, oltre che raccogliere l’allarme sui costi economici e sociali della crisi ancora attuale, vale la pena dare spazio ai pur timidi segnali di ripresa che vengono dal mondo produttivo, soprattutto nelle aree più industrializzate, il Nord Ovest ma anche il Nord Est e la grande piattaforma produttiva dell’Emilia.

Segnali evidenti, di cui risuona l’eco nel corso delle riunioni annuali delle organizzazioni territoriali di Confindustria. All’assemblea dell’Assolombarda a Milano, per esempio (in un luogo fortemente simbolico: il Pirelli HangarBicocca, vecchia fabbrica diventata fabbrica dell’arte contemporanea), con una forte enfasi sul ruolo chiave del “medium tech” e delle tecnologie da “additive manifacturing” (“Una rotta 3D, una contaminazione di tecnologie e conoscenze per aiutare l’industria meccanica a competere”) e della relazione virtuosa tra intraprendenza, innovazione, formazione, legalità, competitività, internazionalità. O all’assemblea degli industriali di Varese, convinti della “sfida dell’industria hi tech” e della necessità di cambiare radicalmente strutture e organizzazioni di produzione per accogliere in pieno le possibilità offerte, proprio alla manifattura, dalle stampanti 3D.

Anche dai Giovani Industriali riuniti nel tradizionale convegno d’inizio estate a Santa Margherita arriva una spinta importante. “Nuovo umanesimo industriale”, sostiene il presidente Marco Gay, parlando di centralità manifatturiera, economia della conoscenza, spazio ai giovani e culture del merito (oltre che di impegno contro la corruzione e contro la delocalizzazione delle imprese seguendo il basso costo del lavoro). “L’Italia è leader nell’innovazione di prodotto in 100 settori industriali”, aggiunge. E ci sono imprese che stanno riportando le produzioni in Italia (un primo flusso di “reshoring”, comunque significativo) in cerca di qualità: un fenomeno da incentivare, con una sorta di “scudo industriale”, con agevolazioni fiscali, “anche per legare sempre più strettamente il legittimo profitto ai territori”.

Si reagisce alla crisi, dunque. L’industria italiana è in difficoltà, certo. Ma ancora molto vitale. Impegnata, concretamente, a contrastare il declino.

I dati parlano di declino industriale: 120mila fabbriche perse tra il 2000 e il 2013, 1milione 160mila posti di lavoro bruciati. “Una massiccia erosione della base produttiva”, documenta il Centro Studi Confindustria. Mentre si allarga la forbice manifatturiera tra il resto del mondo e l’Italia: un incremento del 36% dei volumi prodotti (sempre dall’inizio degli anni 2000) contro una caduta del 25,5% della produzione industriale italiana: un andamento “in netta controtendenza”, con un divario “che si era già aperto prima del 2007 e si è allargato drammaticamente dopo”. Un altro sintomo “di grave difficoltà dell’Italia è il fatto che in sei anni è passata dal quinto all’ottavo posto nella graduatoria internazionale dei paesi produttori”, superata da Corea del Sud, India e Brasile e a parità di posizione con la Francia (nel 2007 aveva il 4,5% della produzione manifatturiera mondiale, in dollari correnti, nel 2013 invece appena il 2,6%). Per dirla in sintesi, restiamo comunque il secondo grande paese manifatturiero europeo, dopo la Germania, ma siamo sempre più in affanno, sempre meno produttivi e competitivi.

L’allarme sui rischi di declino lanciato il 4 giugno dal Centro studi Confindustria va preso molto sul serio. Perché proprio dalla manifattura dipende la spinta decisiva per lo sviluppo economico. E perché altri paesi stanno puntando proprio sull’industria, rivalutandone il ruolo e garantendole stimoli e sostegni, come locomotiva della ripresa dopo gli anni della Grande Crisi della cattiva finanza: gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, oltre naturalmente la solida Germania e i dinamici Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). E noi italiani?

Centralità della fabbrica, ha detto la ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, all’assemblea di Confindustria, il 29 maggio. E impegno in Europa per rafforzare un vero e proprio “industrial compact”. Ma anche provvedimenti concreti, non solo per creare un ambiente più favorevole alle imprese (meno burocrazia, più trasparenza ed efficienza anche per combattere l’allarmante corruzione, riforme del fisco e della giustizia, etc.) ma anche per dare fiato agli investimenti (con una robusta mano d’aiuto dalla Bce di Mario Draghi, che ha tagliato ancora i tassi e dato alle banche un grande supporto di liquidità a patto che vada appunto alle piccole e medie imprese). Come? Garantendo per esempio nuovi finanziamenti alla legge “Sabatini”, che concede i benefici del credito agevolato a chi rinnova macchinari e impianti, oltre i 2,5miliardi già previsti per il 2014.

Ecco, vengono proprio dai dati sulla “Sabatini” alcune buone notizie, in controtendenza con i dati del declino industriale. Sono infatti già 3mila gli imprenditori che si sono prenotati per fare investimenti in nuovi macchinari, per rinnovare le loro imprese con impianti a più avanzata tecnologia, sicurezza, produttività. “E’ la fine dello sciopero degli investimenti”, nota Dario Di Vico sul Corriere della Sera (7 giugno). “Nuovi investimenti obbligati”, commenta Gian Maria Gros-Pietro, economista autorevole, “perché sta ripartendo la domanda, anche internazionale e bisogna attrezzarsi per intercettarla. Servono macchine più adatte e performanti”. L’Ucimu (l’associazione di categoria dei produttori di macchine utensili e robot) conferma il boom degli ordini, negli ultimi mesi. E dunque, oltre che raccogliere l’allarme sui costi economici e sociali della crisi ancora attuale, vale la pena dare spazio ai pur timidi segnali di ripresa che vengono dal mondo produttivo, soprattutto nelle aree più industrializzate, il Nord Ovest ma anche il Nord Est e la grande piattaforma produttiva dell’Emilia.

Segnali evidenti, di cui risuona l’eco nel corso delle riunioni annuali delle organizzazioni territoriali di Confindustria. All’assemblea dell’Assolombarda a Milano, per esempio (in un luogo fortemente simbolico: il Pirelli HangarBicocca, vecchia fabbrica diventata fabbrica dell’arte contemporanea), con una forte enfasi sul ruolo chiave del “medium tech” e delle tecnologie da “additive manifacturing” (“Una rotta 3D, una contaminazione di tecnologie e conoscenze per aiutare l’industria meccanica a competere”) e della relazione virtuosa tra intraprendenza, innovazione, formazione, legalità, competitività, internazionalità. O all’assemblea degli industriali di Varese, convinti della “sfida dell’industria hi tech” e della necessità di cambiare radicalmente strutture e organizzazioni di produzione per accogliere in pieno le possibilità offerte, proprio alla manifattura, dalle stampanti 3D.

Anche dai Giovani Industriali riuniti nel tradizionale convegno d’inizio estate a Santa Margherita arriva una spinta importante. “Nuovo umanesimo industriale”, sostiene il presidente Marco Gay, parlando di centralità manifatturiera, economia della conoscenza, spazio ai giovani e culture del merito (oltre che di impegno contro la corruzione e contro la delocalizzazione delle imprese seguendo il basso costo del lavoro). “L’Italia è leader nell’innovazione di prodotto in 100 settori industriali”, aggiunge. E ci sono imprese che stanno riportando le produzioni in Italia (un primo flusso di “reshoring”, comunque significativo) in cerca di qualità: un fenomeno da incentivare, con una sorta di “scudo industriale”, con agevolazioni fiscali, “anche per legare sempre più strettamente il legittimo profitto ai territori”.

Si reagisce alla crisi, dunque. L’industria italiana è in difficoltà, certo. Ma ancora molto vitale. Impegnata, concretamente, a contrastare il declino.

Giovane manifattura artigiana

La manifattura ha un futuro. Anche quella artigiana, soprattutto se a pensarci sono i giovani. Che, poi, apprezzano anche l’essere imprenditori e quello spirito che anima ogni impresa che dir si voglia.  Indicazioni importanti – e soprattutto confortanti -, che emergono da una ricerca di Censis-Confartigianto sull’atteggiamento dei giovani nei confronti della manifattura artigiana. “Giovani, artigianato, scuola” – presentata recentemente a Roma -, è un’indagine importante per capire di più della possibile evoluzione di un settore fondamentale per tutto il sistema economico italiano e nel quale proprio l’essere imprenditore può trovare nuove espressioni di vita.

Ciò che più conta qui – forse – è però l’atteggiamento dei giovani nei confronti dell’imprenditore che emerge come una figura positiva oltre che essere, innanzitutto, una persona capace (lo definisce così il 53% degli intervistati), e che sa rischiare (per più del 45%). Per il 38% degli intervistati, inoltre, l’imprenditore  è uno che ha forti disponibilità economiche. E merito, capacità e spirito di iniziativa prevalgono sugli aspetti casuali o negativi, che pure vengono chiamati in causa: la fortuna (15%), la mancanza di scrupoli (7%), lo sfruttamento del lavoro altrui (6%). L’11% ha una visione molto positiva, considerando l’imprenditore una figura che crea ricchezza per l’intera collettività.

E se l’essenza della manifattura sta anche nell’immaginario e nella fantasia del creare. Sempre questa ricerca porta altre indicazioni importanti. Da un lato, l’80% dei giovani coltiva passioni che sono fortemente legate al mondo artigiano; ma solo meno del 18% dimostra di essere interessato ad avviare un’attività in proprio e il 28% ritiene il lavoro autonomo troppo rischioso. Per molti, poi, il futuro è altro e altrove dall’artigianato.

Un dito d’accusa viene anche puntato sulla scuola. Chiamati a valutare l’utilità del proprio percorso di studi per l’inserimento nel mercato del lavoro, solo il 44% degli studenti esprime un giudizio positivo. La maggioranza è critica soprattutto sulla mancanza di specializzazione della formazione ricevuta e sulla inadeguatezza rispetto alle attuali esigenze del mercato del lavoro.

Ma rimane il dato di fondo: l’attenzione alla manifattura – anche se particolare come  quella artigiana -, al sua farsi, allo spirito imprenditoriale che l’anima e che continua a farla vivere anche in tempi difficili e digitali come questi. Quella del Censis è una lettura da compiere con attenzione, per tutti.

Giovani, artigianato, scuola

CENSIS

Maggio, 2014

La manifattura ha un futuro. Anche quella artigiana, soprattutto se a pensarci sono i giovani. Che, poi, apprezzano anche l’essere imprenditori e quello spirito che anima ogni impresa che dir si voglia.  Indicazioni importanti – e soprattutto confortanti -, che emergono da una ricerca di Censis-Confartigianto sull’atteggiamento dei giovani nei confronti della manifattura artigiana. “Giovani, artigianato, scuola” – presentata recentemente a Roma -, è un’indagine importante per capire di più della possibile evoluzione di un settore fondamentale per tutto il sistema economico italiano e nel quale proprio l’essere imprenditore può trovare nuove espressioni di vita.

Ciò che più conta qui – forse – è però l’atteggiamento dei giovani nei confronti dell’imprenditore che emerge come una figura positiva oltre che essere, innanzitutto, una persona capace (lo definisce così il 53% degli intervistati), e che sa rischiare (per più del 45%). Per il 38% degli intervistati, inoltre, l’imprenditore  è uno che ha forti disponibilità economiche. E merito, capacità e spirito di iniziativa prevalgono sugli aspetti casuali o negativi, che pure vengono chiamati in causa: la fortuna (15%), la mancanza di scrupoli (7%), lo sfruttamento del lavoro altrui (6%). L’11% ha una visione molto positiva, considerando l’imprenditore una figura che crea ricchezza per l’intera collettività.

E se l’essenza della manifattura sta anche nell’immaginario e nella fantasia del creare. Sempre questa ricerca porta altre indicazioni importanti. Da un lato, l’80% dei giovani coltiva passioni che sono fortemente legate al mondo artigiano; ma solo meno del 18% dimostra di essere interessato ad avviare un’attività in proprio e il 28% ritiene il lavoro autonomo troppo rischioso. Per molti, poi, il futuro è altro e altrove dall’artigianato.

Un dito d’accusa viene anche puntato sulla scuola. Chiamati a valutare l’utilità del proprio percorso di studi per l’inserimento nel mercato del lavoro, solo il 44% degli studenti esprime un giudizio positivo. La maggioranza è critica soprattutto sulla mancanza di specializzazione della formazione ricevuta e sulla inadeguatezza rispetto alle attuali esigenze del mercato del lavoro.

Ma rimane il dato di fondo: l’attenzione alla manifattura – anche se particolare come  quella artigiana -, al sua farsi, allo spirito imprenditoriale che l’anima e che continua a farla vivere anche in tempi difficili e digitali come questi. Quella del Censis è una lettura da compiere con attenzione, per tutti.

Giovani, artigianato, scuola

CENSIS

Maggio, 2014

L’efficiente innovazione di Stato

Anche lo Stato può essere un buon imprenditore e un buon innovatore. Non si tratta di una promessa, ma della constatazione di molte realtà che costellano l’Italia. Realtà che fanno a pugni con altre che parlano di inefficienze di Stato, di malaffare, di appalti truccati, di assenze della legge e così via. Eppure, gran parte della realtà vive sullo Stato imprenditore. Così, almeno , dice e spiega Mariana Mazzuccato con il suo “Lo Stato innovatore”, fatica di qualche centinaio di pagine appena pubblicate che si legge come una sfida.

Si tratta di un volume provocatorio e interessante che parte da alcune domande.

Chi è l’imprenditore più audace, l’innovatore più prolifico? Chi finanzia la ricerca che produce le tecnologie più rivoluzionarie? Qual è il motore dinamico di settori come la green economy, le telecomunicazioni, le nanotecnologie, la farmaceutica? Per tutti questi interrogativi, la risposta è una sola: lo Stato. È – dice infatti Mazzuccato -, lo Stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. E ancora: è lo Stato il creatore di tecnologie rivoluzionarie come quelle che rendono l’iPhone così ‘smart’: internet, touch screen e gps. Ed è lo Stato a giocare il ruolo più importante nel finanziare la rivoluzione verde delle energie alternative.

Insomma, l’immagine che nasce da queste pagine è quella di uno Stato dotato di cultura dell’innovazione e d’impresa. Altro da quanto in genere si è abituati  a pensare.

L’autrice però non provoca solamente distruggendo un luogo comune – quello dello Stato inefficiente  e basta -, ma anche arrivando al nocciolo di un altro problema che si traduce in un’altra domanda: se lo Stato è il maggior innovatore, perché allora tutti i profitti provenienti da un rischio collettivo finiscono ai privati? Emerge allora una constatazione: non è lo Stato in quanto tale a creare inefficienza e malaffare, ma sono i suoi componenti a distorcere i risultati della sua attività.

Costellata di esempi, “Lo Stato innovatore” è una di quelle letture che fanno discutere ma che illuminano meglio ciò che ci circonda e ci spingono a lavorare per arrivare per davvero a diffondere ancora di più quell’innovazione di Stato che fa di questo un agente di sviluppo e di progresso importante per tutti.

Lo Stato innovatore

Mariana Mazzucato

Laterza

Anche lo Stato può essere un buon imprenditore e un buon innovatore. Non si tratta di una promessa, ma della constatazione di molte realtà che costellano l’Italia. Realtà che fanno a pugni con altre che parlano di inefficienze di Stato, di malaffare, di appalti truccati, di assenze della legge e così via. Eppure, gran parte della realtà vive sullo Stato imprenditore. Così, almeno , dice e spiega Mariana Mazzuccato con il suo “Lo Stato innovatore”, fatica di qualche centinaio di pagine appena pubblicate che si legge come una sfida.

Si tratta di un volume provocatorio e interessante che parte da alcune domande.

Chi è l’imprenditore più audace, l’innovatore più prolifico? Chi finanzia la ricerca che produce le tecnologie più rivoluzionarie? Qual è il motore dinamico di settori come la green economy, le telecomunicazioni, le nanotecnologie, la farmaceutica? Per tutti questi interrogativi, la risposta è una sola: lo Stato. È – dice infatti Mazzuccato -, lo Stato, nelle economie più avanzate, a farsi carico del rischio d’investimento iniziale all’origine delle nuove tecnologie. È lo Stato, attraverso fondi decentralizzati, a finanziare ampiamente lo sviluppo di nuovi prodotti fino alla commercializzazione. E ancora: è lo Stato il creatore di tecnologie rivoluzionarie come quelle che rendono l’iPhone così ‘smart’: internet, touch screen e gps. Ed è lo Stato a giocare il ruolo più importante nel finanziare la rivoluzione verde delle energie alternative.

Insomma, l’immagine che nasce da queste pagine è quella di uno Stato dotato di cultura dell’innovazione e d’impresa. Altro da quanto in genere si è abituati  a pensare.

L’autrice però non provoca solamente distruggendo un luogo comune – quello dello Stato inefficiente  e basta -, ma anche arrivando al nocciolo di un altro problema che si traduce in un’altra domanda: se lo Stato è il maggior innovatore, perché allora tutti i profitti provenienti da un rischio collettivo finiscono ai privati? Emerge allora una constatazione: non è lo Stato in quanto tale a creare inefficienza e malaffare, ma sono i suoi componenti a distorcere i risultati della sua attività.

Costellata di esempi, “Lo Stato innovatore” è una di quelle letture che fanno discutere ma che illuminano meglio ciò che ci circonda e ci spingono a lavorare per arrivare per davvero a diffondere ancora di più quell’innovazione di Stato che fa di questo un agente di sviluppo e di progresso importante per tutti.

Lo Stato innovatore

Mariana Mazzucato

Laterza

Da Bankitalia e Confindustria stimoli chiari al credito e agli investimenti

Ridare centralità all’economia reale. E puntare sulle imprese, sull’industria, per rimettere in moto la macchina della crescita italiana. In due giorni consecutivi, la scorsa settimana, sono venute chiare indicazioni dall’assemblea di Confindustria e dalla Relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia. Ora, “più credito alle imprese”, ha detto il Governatore Ignazio Visco, in un intervento attento più agli investimenti e alle leve per lo sviluppo e il lavoro che non alle pur ribadite necessità di equilibrio dei conti pubblici (una strategia neo-keynesiana, hanno detto alcuni osservatori, lontana dall’ossessione ideologica rigorista che tanti danni ha fatto agli assetti economici e sociali dell’intera Europa). Ma anche più impegno delle imprenditori a investire, a ricapitalizzare le loro aziende, a mettere i loro capitali non nella finanza di casa ma nel sostegno alle attività produttive. Più capitali, insomma. E più prestiti. Più impegno degli azionisti. E più credito. Un circuito virtuoso di sviluppo. E una vera e propria svolta, dunque,  rispetto alla finanziarizzazione dell’economia che aveva sciaguratamente tenuto banco durante tutto il corso degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, sino alla Grande Crisi. Da Bankitalia arriva una chiamata alla corresponsabilità degli imprenditori stessi, per chiudere la pagina del “convento povero e dei monaci ricchi”. E un appello forte e autorevole a una cultura d’impresa attenta sì ai profitti, ma in un ottica di lungo periodo e in un contesto di responsabilità e sostenibilità, di innovazione e di attenzione a produttività e competitività.

Le imprese devono fare di più, ammonisce Visco, “per un profondo rinnovamento del modo di produrre di fronte alla rivoluzione digitale, in grado di generare nuove forme di impresa e occupazione, in nuovi ambiti di attività”. Analoghi i concetti usati dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi all’assemblea dell’organizzazione (impegnata peraltro in una profonda riforma, messa a punto dalla commissione presieduta da Carlo Pesenti, per migliorarne capacità di rappresentanza degli imprenditori, di rappresentazione delle loro esigenze e di efficienza dei servizi alle stesse imprese associate: anche in questo caso, una scelta d’innovazione della cultura d’impresa). “Facciamo ancora troppo poco – ha detto Squinzi – per il recupero della produttività, sugli investimenti in ricerca e per il digitale e su nuove attività ad alto valore aggiunto che sono giacimenti di crescita inespressi”. Dunque, serve un ambiente favorevole agli investimenti delle imprese, sia interni che inetrnazionali. Creando il clima adatto. E abbattendo i vincoli burocratici, con riforme della pubblica amministrazione (comprese le buone regole contro la corruzione e l’illegalità), del fisco e della giustizia civile (la esasperante lunghezza giudiziaria per recuperare i crediti insoluti è una delle cause che rallentano gli investimenti). Legalità, efficienza, sviluppo. E non è certo un caso che ai temi della lotta alla corruzione e alle distorsioni dell’amministrazione e degli appalti abbiano dedicato parole molto chiare sia Visco che Squinzi.

La ripresa in corso, dopo anni di crisi e pericoli ancora attuali di stagnazione, è molto fragile. Ha bisogno del concorso di tutti gli attori. Bankitalia e Confindustria si muovono: credito e rinnovamento. Ma anche dal governo Renzi arrivano segnali interessanti, per dare forza alle piccole e medie imprese, all’export, alla ricerca. E proprio all’assemblea di Confindustria la ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi (che peraltro viene proprio da quel mondo) ha rilanciato i temi del profitto (come condizione essenziale per la vita delle imprese, gli investimenti, la creazione di ricchezza e di lavoro) e la centralità di una parola che sembrava caduta in disuso: la parola “fabbrica”. Ecco: un’Italia delle fabbriche, innovative e competitive, un’Italia della manifattura di qualità, adatta a conquistare maggiori spazi sui mercati internazionali e a garantire, nel medio periodo, occupazione qualificata alle nuove generazioni.

In questa strategia di crescita, si deve muovere anche l’Europa. Ai vertici della Bce, Mario Draghi ha messo a punto una strategia che punta a fare crescere il credito alle imprese e stimolare lo sviluppo dei paesi europei, attraverso la doppia leva dei bassi tassi d’interesse e dell’immissione di liquidità. Buone scelte. Serve però di più: una strategia di un vero e proprio “industrial compact” che dia sostanza di investimenti e attività concrete all’indicazione che viene dalla stessa Ue per portare in breve tempi al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil (attualmente è al 15%, con una Germania al 23% e un’Italia caduta, dopo gli anni della Grande Crisi, al 16%, avendo perso un quarto della propria capacità produttiva manifatturiera).

Il semestre di presidenza italiana della Ue può avere un grande ruolo, in questa direzione: una forte sollecitazione alle politiche di innovazione, investimento, sviluppo, con il sostegno di Francia, Spagna, Portogallo ma anche con un attento ascolto da parte di una Germania consapevole che dalla bassa crescita europea anche ai tedeschi non può venire alcunché di buono. E’ un’occasione politica da cogliere in pieno.

Ridare centralità all’economia reale. E puntare sulle imprese, sull’industria, per rimettere in moto la macchina della crescita italiana. In due giorni consecutivi, la scorsa settimana, sono venute chiare indicazioni dall’assemblea di Confindustria e dalla Relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia. Ora, “più credito alle imprese”, ha detto il Governatore Ignazio Visco, in un intervento attento più agli investimenti e alle leve per lo sviluppo e il lavoro che non alle pur ribadite necessità di equilibrio dei conti pubblici (una strategia neo-keynesiana, hanno detto alcuni osservatori, lontana dall’ossessione ideologica rigorista che tanti danni ha fatto agli assetti economici e sociali dell’intera Europa). Ma anche più impegno delle imprenditori a investire, a ricapitalizzare le loro aziende, a mettere i loro capitali non nella finanza di casa ma nel sostegno alle attività produttive. Più capitali, insomma. E più prestiti. Più impegno degli azionisti. E più credito. Un circuito virtuoso di sviluppo. E una vera e propria svolta, dunque,  rispetto alla finanziarizzazione dell’economia che aveva sciaguratamente tenuto banco durante tutto il corso degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, sino alla Grande Crisi. Da Bankitalia arriva una chiamata alla corresponsabilità degli imprenditori stessi, per chiudere la pagina del “convento povero e dei monaci ricchi”. E un appello forte e autorevole a una cultura d’impresa attenta sì ai profitti, ma in un ottica di lungo periodo e in un contesto di responsabilità e sostenibilità, di innovazione e di attenzione a produttività e competitività.

Le imprese devono fare di più, ammonisce Visco, “per un profondo rinnovamento del modo di produrre di fronte alla rivoluzione digitale, in grado di generare nuove forme di impresa e occupazione, in nuovi ambiti di attività”. Analoghi i concetti usati dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi all’assemblea dell’organizzazione (impegnata peraltro in una profonda riforma, messa a punto dalla commissione presieduta da Carlo Pesenti, per migliorarne capacità di rappresentanza degli imprenditori, di rappresentazione delle loro esigenze e di efficienza dei servizi alle stesse imprese associate: anche in questo caso, una scelta d’innovazione della cultura d’impresa). “Facciamo ancora troppo poco – ha detto Squinzi – per il recupero della produttività, sugli investimenti in ricerca e per il digitale e su nuove attività ad alto valore aggiunto che sono giacimenti di crescita inespressi”. Dunque, serve un ambiente favorevole agli investimenti delle imprese, sia interni che inetrnazionali. Creando il clima adatto. E abbattendo i vincoli burocratici, con riforme della pubblica amministrazione (comprese le buone regole contro la corruzione e l’illegalità), del fisco e della giustizia civile (la esasperante lunghezza giudiziaria per recuperare i crediti insoluti è una delle cause che rallentano gli investimenti). Legalità, efficienza, sviluppo. E non è certo un caso che ai temi della lotta alla corruzione e alle distorsioni dell’amministrazione e degli appalti abbiano dedicato parole molto chiare sia Visco che Squinzi.

La ripresa in corso, dopo anni di crisi e pericoli ancora attuali di stagnazione, è molto fragile. Ha bisogno del concorso di tutti gli attori. Bankitalia e Confindustria si muovono: credito e rinnovamento. Ma anche dal governo Renzi arrivano segnali interessanti, per dare forza alle piccole e medie imprese, all’export, alla ricerca. E proprio all’assemblea di Confindustria la ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi (che peraltro viene proprio da quel mondo) ha rilanciato i temi del profitto (come condizione essenziale per la vita delle imprese, gli investimenti, la creazione di ricchezza e di lavoro) e la centralità di una parola che sembrava caduta in disuso: la parola “fabbrica”. Ecco: un’Italia delle fabbriche, innovative e competitive, un’Italia della manifattura di qualità, adatta a conquistare maggiori spazi sui mercati internazionali e a garantire, nel medio periodo, occupazione qualificata alle nuove generazioni.

In questa strategia di crescita, si deve muovere anche l’Europa. Ai vertici della Bce, Mario Draghi ha messo a punto una strategia che punta a fare crescere il credito alle imprese e stimolare lo sviluppo dei paesi europei, attraverso la doppia leva dei bassi tassi d’interesse e dell’immissione di liquidità. Buone scelte. Serve però di più: una strategia di un vero e proprio “industrial compact” che dia sostanza di investimenti e attività concrete all’indicazione che viene dalla stessa Ue per portare in breve tempi al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil (attualmente è al 15%, con una Germania al 23% e un’Italia caduta, dopo gli anni della Grande Crisi, al 16%, avendo perso un quarto della propria capacità produttiva manifatturiera).

Il semestre di presidenza italiana della Ue può avere un grande ruolo, in questa direzione: una forte sollecitazione alle politiche di innovazione, investimento, sviluppo, con il sostegno di Francia, Spagna, Portogallo ma anche con un attento ascolto da parte di una Germania consapevole che dalla bassa crescita europea anche ai tedeschi non può venire alcunché di buono. E’ un’occasione politica da cogliere in pieno.

Antropologia d’impresa

Le imprese sono fatte di uomini prima che di macchine. E’ una constatazione che può apparire banale, ma che in realtà implica qualcosa di molto preciso: per capire davvero l’impresa non basta sapere tutto delle tecniche di gestione e di contabilità. Occorre molto altro. Servono anche quelle che si chiamano – accomunandole sotto un unico cappello – scienze umane e sociali. Storia, psicologia, antropologia, sociologia, tanto per fare qualche esempio. Tutte queste discipline hanno qualcosa da dare alla comprensione dei meccanismi con i quali le imprese nascono, crescono, vivono e, molto spesso in determinate situazioni, muoiono.

E d’altra parte non può che essere così, visto che l’uomo – in ogni sua età storica – ha fatto della “produzione” qualcosa di fondamentale nella propria vita. La cultura d’impresa, in altre parole, è per davvero cultura e quindi può essere vista anche con gli strumenti di chi la cultura la studia concretamente, sul campo.

Sono importanti, quindi, quelle occasioni – rare -, nelle quali è possibile cogliere una sintesi di quanto le scienze sociali possono dire delle aziende.

E’ ciò che accade con il numero 3 (1) Primavera 2014 del Journal of Business Anthropology che in una sorta di numero speciale ospita una serie di interventi di storici e antropologi sul tema dell’impresa.

“Opinions: Business History and Anthropology” è una sorta di contenitore di scatti, istantanee che colgono un istante della complessa vita aziendale oppure imprenditoriale sotto un profilo non consueto. Sono prese in considerazione, quindi,  le pratiche aziendali, il mutamento d’impresa di fronte ai mercati e alle tecnologie della produzione, l’interpretazione storica e antropologica degli aspetti giuridici della gestione d’impresa. Tutto per arrivare a definire come l’antropologia e la storia fanno  comprendere meglio il funzionamento delle attuali imprese e, soprattutto, la natura dei comportamenti umani all’interno di essa con strumenti che non sono quelli classici del bilancio, ma quelli – altrettanto classici ma decisamente inconsueti per le imprese moderne – dell’indagine sul campo antropologica. E’ interessante, in particolare, lo studio dal punto di vista giuridico-antropologico dell’assetto aziendale; così come lo sono le indicazioni che emergono dall’applicazione delle categorie di analisi della società che derivano dalle scienze sociali e che, normalmente, sono applicate ad altre realtà che non sono quelle produttive.

A scrivere sono alcuni dei più notevoli esponenti dell’antropologia e della storia di centri di ricerca Usa ed europei: da Harvard alla Johns Hopkins University, dalla École Polytechnique di Parigi alla Copenhagen Business School e a molti altri ancora.

Il Journal of Business Anthropology riesce così in un intento importante: in poco più di 70 pagine condensa una sorta di breviario a tappe, una guida per un viaggio nell’esplorazione dell’uomo imprenditore e produttore.

Opinions: Business History and Anthropology

Autori Vari

Journal of Business Anthropology, 3(1), Spring 2014

Le imprese sono fatte di uomini prima che di macchine. E’ una constatazione che può apparire banale, ma che in realtà implica qualcosa di molto preciso: per capire davvero l’impresa non basta sapere tutto delle tecniche di gestione e di contabilità. Occorre molto altro. Servono anche quelle che si chiamano – accomunandole sotto un unico cappello – scienze umane e sociali. Storia, psicologia, antropologia, sociologia, tanto per fare qualche esempio. Tutte queste discipline hanno qualcosa da dare alla comprensione dei meccanismi con i quali le imprese nascono, crescono, vivono e, molto spesso in determinate situazioni, muoiono.

E d’altra parte non può che essere così, visto che l’uomo – in ogni sua età storica – ha fatto della “produzione” qualcosa di fondamentale nella propria vita. La cultura d’impresa, in altre parole, è per davvero cultura e quindi può essere vista anche con gli strumenti di chi la cultura la studia concretamente, sul campo.

Sono importanti, quindi, quelle occasioni – rare -, nelle quali è possibile cogliere una sintesi di quanto le scienze sociali possono dire delle aziende.

E’ ciò che accade con il numero 3 (1) Primavera 2014 del Journal of Business Anthropology che in una sorta di numero speciale ospita una serie di interventi di storici e antropologi sul tema dell’impresa.

“Opinions: Business History and Anthropology” è una sorta di contenitore di scatti, istantanee che colgono un istante della complessa vita aziendale oppure imprenditoriale sotto un profilo non consueto. Sono prese in considerazione, quindi,  le pratiche aziendali, il mutamento d’impresa di fronte ai mercati e alle tecnologie della produzione, l’interpretazione storica e antropologica degli aspetti giuridici della gestione d’impresa. Tutto per arrivare a definire come l’antropologia e la storia fanno  comprendere meglio il funzionamento delle attuali imprese e, soprattutto, la natura dei comportamenti umani all’interno di essa con strumenti che non sono quelli classici del bilancio, ma quelli – altrettanto classici ma decisamente inconsueti per le imprese moderne – dell’indagine sul campo antropologica. E’ interessante, in particolare, lo studio dal punto di vista giuridico-antropologico dell’assetto aziendale; così come lo sono le indicazioni che emergono dall’applicazione delle categorie di analisi della società che derivano dalle scienze sociali e che, normalmente, sono applicate ad altre realtà che non sono quelle produttive.

A scrivere sono alcuni dei più notevoli esponenti dell’antropologia e della storia di centri di ricerca Usa ed europei: da Harvard alla Johns Hopkins University, dalla École Polytechnique di Parigi alla Copenhagen Business School e a molti altri ancora.

Il Journal of Business Anthropology riesce così in un intento importante: in poco più di 70 pagine condensa una sorta di breviario a tappe, una guida per un viaggio nell’esplorazione dell’uomo imprenditore e produttore.

Opinions: Business History and Anthropology

Autori Vari

Journal of Business Anthropology, 3(1), Spring 2014

L’innovazione devastante

L’industria moderna deve fare i conti anche con la cosiddetta Big Bang Disruption ovvero l’innovazione “devastante” frutto – sostanzialmente – delle tecnologie digitali e della conseguente accelerazione dei processi produttivi e commerciali. Niente a che fare con la normale R&S, ma qualcosa di più e, soprattutto, di molto più potente. Qualcosa che non pare essere solamente una questione tecnica o gestionale, ma anche e soprattutto culturale. Frutto delle più moderne tecnologie, la Big Bang Disruption implica un salto di binario nella concezione stessa della fabbrica, della produzione e del lavoro, così come delle vendite. Stando ad alcuni, si tratta di una sfida che non ammette il pari: o si vince o si perde e si chiude.

Per capire meglio questo nuovo mondo della produzione, l’ultimo lavoro appena tradotto in Italia di Larry Downes e Paul Nunes può essere una buona guida, anche dal punto di vista gestionale.

Il lavoro parte da una constatazione: ci sono voluti anni o anche decenni perché innovazioni dirompenti arrivassero a scalzare prodotti e servizi dominanti; oggi invece qualsiasi comparto può essere praticamente devastato in una notte da un concorrente migliore e più economico. Basta pensare che fino a poco tempo fa alberghi, taxi, medici e fornitori di energia avevano poco da temere dalla rivoluzione digitale. Oggi, stando ai due ricercatori, non è più così. Mentre “prodotti basati sul software stanno sostituendo i beni fisici”.

In “Big Bang disruption. L’era dell’innovazione devastante”, i due autori  analizzano, quindi, le origini, gli aspetti economici e l’anatomia della Big Bang Disruption. E isolano quattro fasi-chiave del nuovo ciclo di vita dell’innovazione, che possono aiutare a individuare per tempo i potenziali “disruptor”. Ne derivano dodici regole per difendere i  mercati aziendali, lanciare nuovi “disruptor” e, se occorre, cambiare rapidamente mercato prima di vedere l’azienda annullata. “Big Bang” non è – occorre dirlo – un libro ad effetto ma il frutto di una ricerca condotta dall’Accenture Institute for High Performance e su interviste in profondità a imprenditori, investitori e dirigenti di oltre trenta settori.

E’ bello e impressionante l’incipit dell’intero volume, che fa capire subito la portata del fenomeno. “Rubriche, telecamere, cercapersone, orologi da polso, mappe, libri, giochi da viaggio, torce elettriche, telefoni di casa, registratori tascabili, walkman, agende, sveglie, registratori di cassa, segreterie telefoniche, pagine gialle, portafogli, chiavi, frasari, radio a transistor, palmari, GPS per auto, telecomandi, sportelli delle compagnie aeree, quotidiani e riviste, servizi d’informazione sui numeri telefonici, agenzie di viaggio e assicurazione, guide ai ristoranti, calcolatori tascabili. Che cos’hanno in comune tutte queste cose? Ciascuna di essere è stata, o sta diventando, vittima della Big Bang Disruption”.  Un’immagine quasi apocalittica che, tuttavia, deve essere ben compresa. Il volume di Downes e Nunes serve a questo scopo. Soprattutto perché, alla fine, richiama alle condizioni universali della cultura della buona impresa: la capacità d’innovazione, la saggezza dell’imprenditore e la capacità di chi lavora.

Big Bang disruption. L’era dell’innovazione devastante

Larry Downes, Paul Nunes

Egea, maggio 2014

Big Bang disruption

Larry Downes, Paul Nunes

Viking Adult, gennaio 2014

L’industria moderna deve fare i conti anche con la cosiddetta Big Bang Disruption ovvero l’innovazione “devastante” frutto – sostanzialmente – delle tecnologie digitali e della conseguente accelerazione dei processi produttivi e commerciali. Niente a che fare con la normale R&S, ma qualcosa di più e, soprattutto, di molto più potente. Qualcosa che non pare essere solamente una questione tecnica o gestionale, ma anche e soprattutto culturale. Frutto delle più moderne tecnologie, la Big Bang Disruption implica un salto di binario nella concezione stessa della fabbrica, della produzione e del lavoro, così come delle vendite. Stando ad alcuni, si tratta di una sfida che non ammette il pari: o si vince o si perde e si chiude.

Per capire meglio questo nuovo mondo della produzione, l’ultimo lavoro appena tradotto in Italia di Larry Downes e Paul Nunes può essere una buona guida, anche dal punto di vista gestionale.

Il lavoro parte da una constatazione: ci sono voluti anni o anche decenni perché innovazioni dirompenti arrivassero a scalzare prodotti e servizi dominanti; oggi invece qualsiasi comparto può essere praticamente devastato in una notte da un concorrente migliore e più economico. Basta pensare che fino a poco tempo fa alberghi, taxi, medici e fornitori di energia avevano poco da temere dalla rivoluzione digitale. Oggi, stando ai due ricercatori, non è più così. Mentre “prodotti basati sul software stanno sostituendo i beni fisici”.

In “Big Bang disruption. L’era dell’innovazione devastante”, i due autori  analizzano, quindi, le origini, gli aspetti economici e l’anatomia della Big Bang Disruption. E isolano quattro fasi-chiave del nuovo ciclo di vita dell’innovazione, che possono aiutare a individuare per tempo i potenziali “disruptor”. Ne derivano dodici regole per difendere i  mercati aziendali, lanciare nuovi “disruptor” e, se occorre, cambiare rapidamente mercato prima di vedere l’azienda annullata. “Big Bang” non è – occorre dirlo – un libro ad effetto ma il frutto di una ricerca condotta dall’Accenture Institute for High Performance e su interviste in profondità a imprenditori, investitori e dirigenti di oltre trenta settori.

E’ bello e impressionante l’incipit dell’intero volume, che fa capire subito la portata del fenomeno. “Rubriche, telecamere, cercapersone, orologi da polso, mappe, libri, giochi da viaggio, torce elettriche, telefoni di casa, registratori tascabili, walkman, agende, sveglie, registratori di cassa, segreterie telefoniche, pagine gialle, portafogli, chiavi, frasari, radio a transistor, palmari, GPS per auto, telecomandi, sportelli delle compagnie aeree, quotidiani e riviste, servizi d’informazione sui numeri telefonici, agenzie di viaggio e assicurazione, guide ai ristoranti, calcolatori tascabili. Che cos’hanno in comune tutte queste cose? Ciascuna di essere è stata, o sta diventando, vittima della Big Bang Disruption”.  Un’immagine quasi apocalittica che, tuttavia, deve essere ben compresa. Il volume di Downes e Nunes serve a questo scopo. Soprattutto perché, alla fine, richiama alle condizioni universali della cultura della buona impresa: la capacità d’innovazione, la saggezza dell’imprenditore e la capacità di chi lavora.

Big Bang disruption. L’era dell’innovazione devastante

Larry Downes, Paul Nunes

Egea, maggio 2014

Big Bang disruption

Larry Downes, Paul Nunes

Viking Adult, gennaio 2014

La lezione di Becker: discriminare è ingiusto e non conviene

Sono ingiuste, le discriminazioni, di razza, genere, religione, cultura, etc. Ledono diritti fondamentali della persona. Ma sono anche economicamente non convenienti. Non discriminare e anzi lavorare sul valore delle differenze fa crescere non solo la civiltà d’un paese, ma anche la sua economia. Non discriminare ma piuttosto integrare migliora la competitività. E’ la lezione di Gary S. Becker, premio Nobel per l’economia 1992, “per avere esteso il dominio dell’analisi microeconomica a un ampio raggio di comportamenti e interazioni umane, incluso il comportamento non legato al mercato”. Un premio Nobel per avere, prima e meglio di tutti, analizzato e spiegato il valore del “capitale umano”.

Vale la pena ricordare la lezione di Becker, a poca distanza dalla sua morte (3 maggio 2014) proprio mentre l’Europa, all’indomani delle elezioni per il nuovo Parlamento europeo, gli Usa e gli altri principali paesi democratici ad economia avanzata stanno radicalmente ripensando culture, paradigmi e regole della crescita economica, per superare in modo duraturo la Grande Crisi e costruire uno sviluppo economico e sociale più equilibrato, sostenibile ambientalmente e socialmente, capace di reggere (di creare cioè benessere diffuso, lavoro e ricchezza) nel lungo periodo.

Sviluppo migliore, dunque. Come? Anche con la costruzione di una “Società generosa” (la definizione fa da titolo a un bel libro di Pier Mario Vello e Martina Reolon per Feltrinelli-Vita, su un’economia attenta allo “stare insieme”, alla buona “competizione” rispettosa della sua stessa etimologia del “cum petere”, allo spirito di comunità) che sappia lavorare sull’inclusività e non sulla discriminazione e dunque su una relazione virtuosa tra identità e differenza (“Il rapporto tra identità e differenza è una questione assolutamente centrale nella vita dei popoli e degli individui… Senza identità non vi è accomunamento, ma senza differenze, l’identità si mostra muta”; da Luigi Ruggio e Francesco Mora, “Identità, differenze, conflitti”, Mimesis, 2007).

E’, appunto, la lezione di Becker. Uno studioso liberale memore sia della filosofia morale di Adam Smith (il sentimento della “mutua simpatia”) sia degli insegnamenti di John Maynard Keynes e attento ad approfondire i nessi tra impresa, lavoro, diritti, crescita economica. Le “convenienze” alla Smith indispensabili al funzionamento dell’economia di mercato legate alla moralità profonda di una società più giusta.

Già nella sua tesi di laurea (ha ricordato Luigi Zingales su “IlSole24Ore” del 6 maggio) Becker ha studiato la discriminazione come “costo” per colui che discrimina. Prospettiva originale, naturalmente. E provocatoria. Perché tutti siamo consapevoli del “costo” che pesa su chi è discriminato (poco lavoro o nessuno addirittura, basso salario, cattive condizioni di sicurezza, scarse o nulle possibilità di crescita e di carriera). Ma vale anche la pena fare capire a chi ha il profitto come guida prevalente d’impegno, d’investimento e di vita che discriminare non gli conviene. Tutt’altro. Perché? Perché la discriminazione impedisce di scegliere i migliori, mortifica la resa del capitale umano, abbatte la competitività. Se chi discrimina non sostiene costo alcuno, aggiunge Becker, non c’è limite economico alla discriminazione. Ma ciò succede solo in strutture non competitive. Il mercato (aperto e ben regolato, naturalmente, non il monopolio né l’oligopolio né le economie ad alto grado di protezionismo) è invece competitivo. E vanno bene solo le imprese che non discriminano (le persone di colore, le donne, etc.) ma scelgono e fanno crescere i migliori. Chi discrimina, in una società di mercato – ammonisce il tagliente Becker – non sa insomma fare bene nemmeno i suoi interessi.

All’intuitività della posizione Becker ha fornito le prove scientifiche di fatti e dati (da qui il Nobel, appunto). E sia l’esperienza sia le indagini successive hanno mostrato per esempio che l’apertura alla competizione del settore bancario negli Usa ha aumentato la percentuale di donne, anche ai vertici del settore e reso i loro stipendi più simili a quegli degli uomini, con un effetto benefico complessivo. “Se la discriminazione contro le donne è ancora così presente in Italia – argomenta Zingales ricordando Becker – è perché i nostri mercati non sono competitivi”.

E’ una lezione economica e morale. Da non dimenticare proprio quando in Europa e anche in Italia la presenza di donne nell’economia, anche ai piani alti delle imprese e della stessa politica è crescente ma non ancora al livello di una corretta condizione di equilibrio. E soprattutto in un momento in cui non sono affatto risolte altre questioni di integrazione, di superamento di pesanti discriminazioni (le ventate xenofobe che attraversano l’Europa ne sono riprova). Discriminare è ingiusto. E non conviene. Lo sviluppo viene solo da una “società aperta”, inclusiva (e capace di darsi norme intelligenti e lungimiranti in questo senso). E le imprese che nel mondo hanno saputo lavorare sul confronto e sulla relazione dialettica e integrata delle differenze vanno avanti meglio di altre e possono fare da paradigma positivo. Il professor Becker è sempre d’attualità.

Sono ingiuste, le discriminazioni, di razza, genere, religione, cultura, etc. Ledono diritti fondamentali della persona. Ma sono anche economicamente non convenienti. Non discriminare e anzi lavorare sul valore delle differenze fa crescere non solo la civiltà d’un paese, ma anche la sua economia. Non discriminare ma piuttosto integrare migliora la competitività. E’ la lezione di Gary S. Becker, premio Nobel per l’economia 1992, “per avere esteso il dominio dell’analisi microeconomica a un ampio raggio di comportamenti e interazioni umane, incluso il comportamento non legato al mercato”. Un premio Nobel per avere, prima e meglio di tutti, analizzato e spiegato il valore del “capitale umano”.

Vale la pena ricordare la lezione di Becker, a poca distanza dalla sua morte (3 maggio 2014) proprio mentre l’Europa, all’indomani delle elezioni per il nuovo Parlamento europeo, gli Usa e gli altri principali paesi democratici ad economia avanzata stanno radicalmente ripensando culture, paradigmi e regole della crescita economica, per superare in modo duraturo la Grande Crisi e costruire uno sviluppo economico e sociale più equilibrato, sostenibile ambientalmente e socialmente, capace di reggere (di creare cioè benessere diffuso, lavoro e ricchezza) nel lungo periodo.

Sviluppo migliore, dunque. Come? Anche con la costruzione di una “Società generosa” (la definizione fa da titolo a un bel libro di Pier Mario Vello e Martina Reolon per Feltrinelli-Vita, su un’economia attenta allo “stare insieme”, alla buona “competizione” rispettosa della sua stessa etimologia del “cum petere”, allo spirito di comunità) che sappia lavorare sull’inclusività e non sulla discriminazione e dunque su una relazione virtuosa tra identità e differenza (“Il rapporto tra identità e differenza è una questione assolutamente centrale nella vita dei popoli e degli individui… Senza identità non vi è accomunamento, ma senza differenze, l’identità si mostra muta”; da Luigi Ruggio e Francesco Mora, “Identità, differenze, conflitti”, Mimesis, 2007).

E’, appunto, la lezione di Becker. Uno studioso liberale memore sia della filosofia morale di Adam Smith (il sentimento della “mutua simpatia”) sia degli insegnamenti di John Maynard Keynes e attento ad approfondire i nessi tra impresa, lavoro, diritti, crescita economica. Le “convenienze” alla Smith indispensabili al funzionamento dell’economia di mercato legate alla moralità profonda di una società più giusta.

Già nella sua tesi di laurea (ha ricordato Luigi Zingales su “IlSole24Ore” del 6 maggio) Becker ha studiato la discriminazione come “costo” per colui che discrimina. Prospettiva originale, naturalmente. E provocatoria. Perché tutti siamo consapevoli del “costo” che pesa su chi è discriminato (poco lavoro o nessuno addirittura, basso salario, cattive condizioni di sicurezza, scarse o nulle possibilità di crescita e di carriera). Ma vale anche la pena fare capire a chi ha il profitto come guida prevalente d’impegno, d’investimento e di vita che discriminare non gli conviene. Tutt’altro. Perché? Perché la discriminazione impedisce di scegliere i migliori, mortifica la resa del capitale umano, abbatte la competitività. Se chi discrimina non sostiene costo alcuno, aggiunge Becker, non c’è limite economico alla discriminazione. Ma ciò succede solo in strutture non competitive. Il mercato (aperto e ben regolato, naturalmente, non il monopolio né l’oligopolio né le economie ad alto grado di protezionismo) è invece competitivo. E vanno bene solo le imprese che non discriminano (le persone di colore, le donne, etc.) ma scelgono e fanno crescere i migliori. Chi discrimina, in una società di mercato – ammonisce il tagliente Becker – non sa insomma fare bene nemmeno i suoi interessi.

All’intuitività della posizione Becker ha fornito le prove scientifiche di fatti e dati (da qui il Nobel, appunto). E sia l’esperienza sia le indagini successive hanno mostrato per esempio che l’apertura alla competizione del settore bancario negli Usa ha aumentato la percentuale di donne, anche ai vertici del settore e reso i loro stipendi più simili a quegli degli uomini, con un effetto benefico complessivo. “Se la discriminazione contro le donne è ancora così presente in Italia – argomenta Zingales ricordando Becker – è perché i nostri mercati non sono competitivi”.

E’ una lezione economica e morale. Da non dimenticare proprio quando in Europa e anche in Italia la presenza di donne nell’economia, anche ai piani alti delle imprese e della stessa politica è crescente ma non ancora al livello di una corretta condizione di equilibrio. E soprattutto in un momento in cui non sono affatto risolte altre questioni di integrazione, di superamento di pesanti discriminazioni (le ventate xenofobe che attraversano l’Europa ne sono riprova). Discriminare è ingiusto. E non conviene. Lo sviluppo viene solo da una “società aperta”, inclusiva (e capace di darsi norme intelligenti e lungimiranti in questo senso). E le imprese che nel mondo hanno saputo lavorare sul confronto e sulla relazione dialettica e integrata delle differenze vanno avanti meglio di altre e possono fare da paradigma positivo. Il professor Becker è sempre d’attualità.

Fabbrica italiana

L’industria manifatturiera in Italia c’è e, soprattutto, ha un futuro. Così come la sua cultura, il suo modo di intendere la produzione, il mercato e il lavoro. Ovvio, tutto evolve e si trasforma. Alcuni comparti crescono, altri si stabilizzano, ma quello del “fare materiale” non appare come destinato ad un irrimediabile declino; si trasforma, magari con forza e drammaticità, e continua ad esistere.

A darne prova è lo studio che Prometeia e Intesa Sanpaolo hanno presentato il 20 maggio scorso a Milano e che osserva da vicino l’andamento dei diversi settori industriali italiani. Si tratta di un’analisi importante per capire dove va buona parte dell’economia nazionale ma, nel nostro caso, anche come si sta trasformando l’essenza stessa dell’industria italiana e, quindi, la cultura d’impresa che viene posta dietro alle scelte compiute per l’una piuttosto che l’altra direzione.

Certo, ad indicare il futuro sono anche numeri confortanti che dicono come quest’anno il fatturato dell’impresa manifatturiera dovrebbe tornare a crescere (+1,5%), e continuare a farlo a buoni ritmi tra il 2015 e il 2018.

Ciò che conta di più – qui -, sono però le considerazioni effettuate dal rapporto.  La crisi di questi anni ha prodotto disoccupazione e chiusure di fabbriche, ma anche dell’altro. “Le trasformazioni registrate nell’ultimo decennio – dice la ricerca -, hanno ridotto la dimensione del nostro manifatturiero, che però è diventato più forte sotto diversi punti di vista: cresce la quota degli addetti nelle grandi imprese; vengono potenziate le funzioni manageriali e tecniche, mantenendo una significativa base produttiva formata da operai specializzati e artigiani; aumenta in modo consistente il livello qualitativo delle nostre esportazioni”.  Tutto con un forte ruolo di alcuni  dei comparti più importanti (e tradizionali), per il nostro Paese: l’automobile e la meccanica.  Si delinea una sorta di rinascimento industriale italiano, tutto da consolidare  verificare ma che assume ormai connotati definiti.

Prometeia e Intesa Sanpaolo naturalmente non si nascono le difficoltà: la nostra industria ha subito più che governato le trasformazioni, è rimasta pressoché chiusa agli investitori esteri. La disoccupazione, d’altra parte, non è un brutto miraggio ma una concreta realtà. Continueranno, poi, i processi di selezione delle imprese e la forte pressione competitiva che comprimerà il recupero della redditività. Ma anche in questo caso, l’altro lato della situazione indica agli analisti un futuro di “maggiore internazionalizzazione, commerciale e produttiva”.

Il segno dato è però chiaro: la fabbrica – intesa nella sua accezione più moderna -, non chiude i battenti, si evolve e cambia, si interroga e risponde in modi nuovi alle sollecitazioni del resto del sistema economico e sociale. Così la sua cultura, cioè quell’insieme di valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e attività materiali, che ne caratterizzano il modo di essere. Proprio quel modello che traspare dalle pagine dello studio Prometeia e che appare (forse) come vincente.

Rapporto Analisi dei Settori Industriali

Prometeia-Intesa Sanpaolo

Maggio 2014

L’industria manifatturiera in Italia c’è e, soprattutto, ha un futuro. Così come la sua cultura, il suo modo di intendere la produzione, il mercato e il lavoro. Ovvio, tutto evolve e si trasforma. Alcuni comparti crescono, altri si stabilizzano, ma quello del “fare materiale” non appare come destinato ad un irrimediabile declino; si trasforma, magari con forza e drammaticità, e continua ad esistere.

A darne prova è lo studio che Prometeia e Intesa Sanpaolo hanno presentato il 20 maggio scorso a Milano e che osserva da vicino l’andamento dei diversi settori industriali italiani. Si tratta di un’analisi importante per capire dove va buona parte dell’economia nazionale ma, nel nostro caso, anche come si sta trasformando l’essenza stessa dell’industria italiana e, quindi, la cultura d’impresa che viene posta dietro alle scelte compiute per l’una piuttosto che l’altra direzione.

Certo, ad indicare il futuro sono anche numeri confortanti che dicono come quest’anno il fatturato dell’impresa manifatturiera dovrebbe tornare a crescere (+1,5%), e continuare a farlo a buoni ritmi tra il 2015 e il 2018.

Ciò che conta di più – qui -, sono però le considerazioni effettuate dal rapporto.  La crisi di questi anni ha prodotto disoccupazione e chiusure di fabbriche, ma anche dell’altro. “Le trasformazioni registrate nell’ultimo decennio – dice la ricerca -, hanno ridotto la dimensione del nostro manifatturiero, che però è diventato più forte sotto diversi punti di vista: cresce la quota degli addetti nelle grandi imprese; vengono potenziate le funzioni manageriali e tecniche, mantenendo una significativa base produttiva formata da operai specializzati e artigiani; aumenta in modo consistente il livello qualitativo delle nostre esportazioni”.  Tutto con un forte ruolo di alcuni  dei comparti più importanti (e tradizionali), per il nostro Paese: l’automobile e la meccanica.  Si delinea una sorta di rinascimento industriale italiano, tutto da consolidare  verificare ma che assume ormai connotati definiti.

Prometeia e Intesa Sanpaolo naturalmente non si nascono le difficoltà: la nostra industria ha subito più che governato le trasformazioni, è rimasta pressoché chiusa agli investitori esteri. La disoccupazione, d’altra parte, non è un brutto miraggio ma una concreta realtà. Continueranno, poi, i processi di selezione delle imprese e la forte pressione competitiva che comprimerà il recupero della redditività. Ma anche in questo caso, l’altro lato della situazione indica agli analisti un futuro di “maggiore internazionalizzazione, commerciale e produttiva”.

Il segno dato è però chiaro: la fabbrica – intesa nella sua accezione più moderna -, non chiude i battenti, si evolve e cambia, si interroga e risponde in modi nuovi alle sollecitazioni del resto del sistema economico e sociale. Così la sua cultura, cioè quell’insieme di valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e attività materiali, che ne caratterizzano il modo di essere. Proprio quel modello che traspare dalle pagine dello studio Prometeia e che appare (forse) come vincente.

Rapporto Analisi dei Settori Industriali

Prometeia-Intesa Sanpaolo

Maggio 2014

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?