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Nuovo CEO. Vita nuova?

Quando in un’azienda arriva un nuovo Amministratore delegato, modalità di gestione, approccio con l’organizzazione e cultura della stessa possono cambiare. Ma non è detto che tutto funzioni sempre per il meglio. E, soprattutto, non c’è una formula matematica che colleghi automaticamente un nuovo CEO con un balzo in avanti delle prestazioni d’impresa. Anche se, nell’abitudine della letteratura accademica oltre che nelle aspettative di molte imprese, è facile pensare che l’arrivo di un amministratore nuovo, proveniente da aziende diverse, sia ciò che fa la differenza.

Ayse Karaevli e Edward J. Zajac (rispettivamente della Otto Beisheim School of Management di Vallendar in Germany e della Northwestern University, Kellogg School of Management di Evanston negli USA), pensano che la magia che può scattare fra nuovo CEO e risultati d’impresa non sia così scontata. Anzi, al contrario. “L’assunzione implicita o esplicita – spiegano -, che gli amministratori delegati outsider forniranno un vantaggio nel realizzare il cambiamento strategico delle imprese” non è sempre così vera. Ci vuol ben altro che un nuovo CEO per cambiare le sorti di un’azienda.

Per dimostrare che la realtà può essere diversa dalla teoria di molti consigli di amministrazione, i due ricercatori – nel loro “When do Outsider Ceos Generate Strategic Change? The Enabling Role of Corporate Stability” appena uscito su Journal of management studies -,  hanno studiato i cambiamenti avvenuti tra il 1972 e il 2010 in una compagnia aerea statunitense e in un’azienda chimica con successioni di CEO diversi

L’idea messa alla prova è che l’arrivo di un CEO “esterno” seppur di grande esperienza, può far poco di fronte ad un’azienda senza organizzazione, senza spirito d’impresa e senza una certa continuità di gestione.

E i risultati della ricerca sembrano confermare questa tesi. Proprio le condizioni che il CEO dovrebbe riuscire a modificare, costituiscono secondo i due autori, la base per il cambiamento.

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When do Outsider Ceos Generate Strategic Change? The Enabling Role of Corporate Stability 

Ayse Karaevli e Edward J. Zajac

Journal of Management studies, Giugno 2013.

Quando in un’azienda arriva un nuovo Amministratore delegato, modalità di gestione, approccio con l’organizzazione e cultura della stessa possono cambiare. Ma non è detto che tutto funzioni sempre per il meglio. E, soprattutto, non c’è una formula matematica che colleghi automaticamente un nuovo CEO con un balzo in avanti delle prestazioni d’impresa. Anche se, nell’abitudine della letteratura accademica oltre che nelle aspettative di molte imprese, è facile pensare che l’arrivo di un amministratore nuovo, proveniente da aziende diverse, sia ciò che fa la differenza.

Ayse Karaevli e Edward J. Zajac (rispettivamente della Otto Beisheim School of Management di Vallendar in Germany e della Northwestern University, Kellogg School of Management di Evanston negli USA), pensano che la magia che può scattare fra nuovo CEO e risultati d’impresa non sia così scontata. Anzi, al contrario. “L’assunzione implicita o esplicita – spiegano -, che gli amministratori delegati outsider forniranno un vantaggio nel realizzare il cambiamento strategico delle imprese” non è sempre così vera. Ci vuol ben altro che un nuovo CEO per cambiare le sorti di un’azienda.

Per dimostrare che la realtà può essere diversa dalla teoria di molti consigli di amministrazione, i due ricercatori – nel loro “When do Outsider Ceos Generate Strategic Change? The Enabling Role of Corporate Stability” appena uscito su Journal of management studies -,  hanno studiato i cambiamenti avvenuti tra il 1972 e il 2010 in una compagnia aerea statunitense e in un’azienda chimica con successioni di CEO diversi

L’idea messa alla prova è che l’arrivo di un CEO “esterno” seppur di grande esperienza, può far poco di fronte ad un’azienda senza organizzazione, senza spirito d’impresa e senza una certa continuità di gestione.

E i risultati della ricerca sembrano confermare questa tesi. Proprio le condizioni che il CEO dovrebbe riuscire a modificare, costituiscono secondo i due autori, la base per il cambiamento.

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When do Outsider Ceos Generate Strategic Change? The Enabling Role of Corporate Stability 

Ayse Karaevli e Edward J. Zajac

Journal of Management studies, Giugno 2013.

La farfalla dell’innovazione

Innovare si può, anche e soprattutto iniziando dalle cose semplici. Dopo tutto, proprio le innovazioni apparentemente più semplici spesso hanno aperto la strada a percorsi imprevedibili. Ma nell’innovare – anche nelle imprese – non esistono ricette preconfezionate. Ciò che conta di più è l’esperienza raccontata degli altri, quelli che in qualche modo hanno già innovato.

Per questo è interessante leggere “9 storie di ordinaria innovazione”, curato da Giusi Carai e Alessio Neri per la casa editrice digitale Asterisk e appena uscito.

Tutto è nato dalla viva voce dei 9 gruppi d’innovatori di Reggio Calabria che hanno presentato il loro progetto d’impresa al “Barcamp di ‘U Web” organizzato dalla associazione LiberaReggio LAB nell’autunno 2012.

Dietro, l’idea che siano i “giovani innovatori il futuro dell’economia” e che si possa usare la “rete”, il web come ciò che in realtà dovrebbe essere sempre: un’infrastruttura che aiuta a crescere.

In fila, quindi, progetti d’impresa, oppure imprese in nuce, che hanno a che fare con l’architettura, la coesione sociale, l’informazione corretta e trasparente, la valorizzazione del territorio, la promozione della persona, la lotta alla criminalità organizzata, il commercio, l’editoria e la comunicazione, i centri urbani. Tutti esempi di innovazione non teorici ma concreti, pratici, realizzati.

Un e-book da leggere d’un fiato. Fatto di esempi collegati da un interrogativo posto all’apertura di ogni storia: cos’è l’innovazione? Una domanda alla quale – in maniera suggestiva e provocatoria anche per le aziende consolidate -, i creatori di una delle imprese raccontate hanno risposto: “E’ una farfalla! Appena nasce muore”. Ma di farfalle ogni giorno ne nascono a miliardi.

9 storie di ordinaria innovazione

Giusi Carai e Alessio Neri

Asterisk, 2013

Innovare si può, anche e soprattutto iniziando dalle cose semplici. Dopo tutto, proprio le innovazioni apparentemente più semplici spesso hanno aperto la strada a percorsi imprevedibili. Ma nell’innovare – anche nelle imprese – non esistono ricette preconfezionate. Ciò che conta di più è l’esperienza raccontata degli altri, quelli che in qualche modo hanno già innovato.

Per questo è interessante leggere “9 storie di ordinaria innovazione”, curato da Giusi Carai e Alessio Neri per la casa editrice digitale Asterisk e appena uscito.

Tutto è nato dalla viva voce dei 9 gruppi d’innovatori di Reggio Calabria che hanno presentato il loro progetto d’impresa al “Barcamp di ‘U Web” organizzato dalla associazione LiberaReggio LAB nell’autunno 2012.

Dietro, l’idea che siano i “giovani innovatori il futuro dell’economia” e che si possa usare la “rete”, il web come ciò che in realtà dovrebbe essere sempre: un’infrastruttura che aiuta a crescere.

In fila, quindi, progetti d’impresa, oppure imprese in nuce, che hanno a che fare con l’architettura, la coesione sociale, l’informazione corretta e trasparente, la valorizzazione del territorio, la promozione della persona, la lotta alla criminalità organizzata, il commercio, l’editoria e la comunicazione, i centri urbani. Tutti esempi di innovazione non teorici ma concreti, pratici, realizzati.

Un e-book da leggere d’un fiato. Fatto di esempi collegati da un interrogativo posto all’apertura di ogni storia: cos’è l’innovazione? Una domanda alla quale – in maniera suggestiva e provocatoria anche per le aziende consolidate -, i creatori di una delle imprese raccontate hanno risposto: “E’ una farfalla! Appena nasce muore”. Ma di farfalle ogni giorno ne nascono a miliardi.

9 storie di ordinaria innovazione

Giusi Carai e Alessio Neri

Asterisk, 2013

La legalità come cardine di concorrenza e sviluppo

La legalità è un principio base della concorrenza”, una condizione “basilare per il buon funzionamento del mercato”. Il giudizio, pubblicato su “Il Sole24Ore” del 19 giugno, è di Paola Severino, ex ministro della Giustizia del governo Monti, avvocato che gode di grande stima nei difficili mondi della magistratura, delle professioni forensi e delle imprese. Un giudizio importante, che testimonia di una profonda svolta innanzitutto culturale che sta caratterizzando da qualche tempo ampi settori dell’economia e che lascia segni forti su una nuova cultura d’impresa, che lega sempre più strettamente legalità con competitività, stimolo agli investimenti interni e internazionali, buoni risultati economici d’impresa e di sistema Paese. Legalità come chiave di sviluppo, dunque. E mercato trasparente e ben regolato come strumento dinamico di selezione dei migliori attori economici e di stimolo a una “crescita di qualità”.

Di “legalità” come valore e come asset di crescita sostenibile parla oramai da tempo Assolombarda (un tema di primo piano, negli impegni del Comitato di Presidenza, sia sotto la guida di Alberto Meomartini sia adesso sotto quella, appena avviata, di Gianfelice Rocca), collegandola alla cultura d’impresa e soprattutto alla “corporate social responsibility”, a un modo di costruire l’identità aziendale e le sue relazioni con tutti gli stakeholders, in cerca di buoni risultati economici, aziendali e generali, in chiave di sostenibilità ambientale e sociale. E di migliori rapporti tra imprese e magistratura, appunto in chiave di legalità e competitività, di qualità dello sviluppo e della vita civile, si è discusso proprio di recente all’avvio dei corsi della Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci, sulle colline di Firenze, per i giovani magistrati di fresca nomina subito dopo la vittoria del concorso. Una significativa scelta di dialogo, promossa dal presidente della scuola, il professor Valerio Onida, nel segno del confronto tra mondi diversi e di un miglioramento della cultura economica complessiva del Paese.

Da che punto di vista, guardare alla legalità? Per esempio, da quello della relazione perversa tra eccesso di leggi e regolamenti e loro sostanziale scarso rispetto (“Un diritto dei mercati e dell’impresa ricco di norme ma pressocché privo di principi”, secondo il tagliente giudizio di un giurista come Guido Rossi). Da quello dell’inquinamento delle attività economiche da parte della mafia e delle altre organizzazioni criminali, diffuse su tutto il territorio italiano. O ancora da quello della concorrenza sleale portata dall’economia del “sommerso” e dalla persistenza di ampie aree di evasione fiscale. Oppure dal punto di vista della scarsa efficienza ed efficacia di una macchina giudiziaria complessa e lenta, che non risponde al bisogno di giustizia civile e penale in tempi ragionevoli, con pronunciamenti chiari e di qualità. E del cattivo funzionamento della giustizia e dunque della crisi dei mercati ben regolati si avvantaggia l’attore economico più spregiudicato, prepotente, illegale. Ai danni di tutta la buona economia nazionale.

Un riferimento essenziale sulla rilevanza di una strategia convergente legalità-competitività si può rintracciare anche nella relazione annuale del presidente dell’Antitrust, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Giuseppe Pitruzzella, autore appunto di un richiamo netto sulle valenze economiche della legalità. Commenta Paola Severino: “Se questo richiamo verrà inteso dai settori più sensibili e reattivi dell’economia non già e non solo come un incoraggiamento etico, ma come l’instaurarsi di un vero e proprio circolo virtuoso, utile alla crescita dell’impresa, molto cammino si sarà fatto verso un modello di concorrenza leale”.  L’impresa rispettosa delle regole è più forte, più adatta a competere anche su mercati internazionali più evoluti e meno “familisti” e clientelari di quel che si registra in monti ambienti italiani. E va probabilmente valorizzato, in questa direzione, anche un orizzonte “premiale” per le imprese virtuose, con l’introduzione, nel decreto “Cresci Italia”, del cosiddetto “rating di legalità”, da usare per le relazioni tra impresa, strutture del credito e pubblica amministrazione. Spiega ancora la Severino: “La tempestività con cui l’Antitrust ha adottato il regolamento esecutivo il regolamento esecutivo ed il Ministrero della Giustizia ha a suo tempo  emanato il decreto attuativo, sono il segnale di quanto questo istituto sia stato ritenuto importante per consolidare la fiducia in una economia sana, in un mercato che incoraggia la legalità e combatte l’infiltrazione di criminalità organizzata, di corruzione, di reati fiscali e societari. Illeciti che consentono facili guadagni erodendo la parte sana del settore e cagionando danni irreparabili all’immagine del Paese e della professionalità dei suoi migliori imprenditori”.

Istituzioni pronte a mettere in piedi un sistema di misurazione della legalità. E imprese sensibili all’importanza di ottenere un buon rating. Conclude la Severino: “Il dato confortante sul numero di richieste di valutazione pervenute in poco tempo all’Autorità dimostra che lo strumento è ritenuto utile da quanti hanno compreso che il fenomeno più dannoso per l’economia del Paese è quello della concorrenza sleale, in cui non vince il migliore, ma chi si ritiene più furbo degli altri, chi cerca di percorrere le scorciatorie dell’illegalità, chi taglia l’erba sotto i piedi delle imprese virtuose.  Solo una diffusa consapevolezza dell’entità e della irreparabilità di questi danni potrà costituire un valido baluardo contro l’illegalità e far emergere quanti continuano a credere e a crescere nel merito”. Buoan cultura d’impresa di mercato, dunque. Legale.

La legalità è un principio base della concorrenza”, una condizione “basilare per il buon funzionamento del mercato”. Il giudizio, pubblicato su “Il Sole24Ore” del 19 giugno, è di Paola Severino, ex ministro della Giustizia del governo Monti, avvocato che gode di grande stima nei difficili mondi della magistratura, delle professioni forensi e delle imprese. Un giudizio importante, che testimonia di una profonda svolta innanzitutto culturale che sta caratterizzando da qualche tempo ampi settori dell’economia e che lascia segni forti su una nuova cultura d’impresa, che lega sempre più strettamente legalità con competitività, stimolo agli investimenti interni e internazionali, buoni risultati economici d’impresa e di sistema Paese. Legalità come chiave di sviluppo, dunque. E mercato trasparente e ben regolato come strumento dinamico di selezione dei migliori attori economici e di stimolo a una “crescita di qualità”.

Di “legalità” come valore e come asset di crescita sostenibile parla oramai da tempo Assolombarda (un tema di primo piano, negli impegni del Comitato di Presidenza, sia sotto la guida di Alberto Meomartini sia adesso sotto quella, appena avviata, di Gianfelice Rocca), collegandola alla cultura d’impresa e soprattutto alla “corporate social responsibility”, a un modo di costruire l’identità aziendale e le sue relazioni con tutti gli stakeholders, in cerca di buoni risultati economici, aziendali e generali, in chiave di sostenibilità ambientale e sociale. E di migliori rapporti tra imprese e magistratura, appunto in chiave di legalità e competitività, di qualità dello sviluppo e della vita civile, si è discusso proprio di recente all’avvio dei corsi della Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci, sulle colline di Firenze, per i giovani magistrati di fresca nomina subito dopo la vittoria del concorso. Una significativa scelta di dialogo, promossa dal presidente della scuola, il professor Valerio Onida, nel segno del confronto tra mondi diversi e di un miglioramento della cultura economica complessiva del Paese.

Da che punto di vista, guardare alla legalità? Per esempio, da quello della relazione perversa tra eccesso di leggi e regolamenti e loro sostanziale scarso rispetto (“Un diritto dei mercati e dell’impresa ricco di norme ma pressocché privo di principi”, secondo il tagliente giudizio di un giurista come Guido Rossi). Da quello dell’inquinamento delle attività economiche da parte della mafia e delle altre organizzazioni criminali, diffuse su tutto il territorio italiano. O ancora da quello della concorrenza sleale portata dall’economia del “sommerso” e dalla persistenza di ampie aree di evasione fiscale. Oppure dal punto di vista della scarsa efficienza ed efficacia di una macchina giudiziaria complessa e lenta, che non risponde al bisogno di giustizia civile e penale in tempi ragionevoli, con pronunciamenti chiari e di qualità. E del cattivo funzionamento della giustizia e dunque della crisi dei mercati ben regolati si avvantaggia l’attore economico più spregiudicato, prepotente, illegale. Ai danni di tutta la buona economia nazionale.

Un riferimento essenziale sulla rilevanza di una strategia convergente legalità-competitività si può rintracciare anche nella relazione annuale del presidente dell’Antitrust, dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Giuseppe Pitruzzella, autore appunto di un richiamo netto sulle valenze economiche della legalità. Commenta Paola Severino: “Se questo richiamo verrà inteso dai settori più sensibili e reattivi dell’economia non già e non solo come un incoraggiamento etico, ma come l’instaurarsi di un vero e proprio circolo virtuoso, utile alla crescita dell’impresa, molto cammino si sarà fatto verso un modello di concorrenza leale”.  L’impresa rispettosa delle regole è più forte, più adatta a competere anche su mercati internazionali più evoluti e meno “familisti” e clientelari di quel che si registra in monti ambienti italiani. E va probabilmente valorizzato, in questa direzione, anche un orizzonte “premiale” per le imprese virtuose, con l’introduzione, nel decreto “Cresci Italia”, del cosiddetto “rating di legalità”, da usare per le relazioni tra impresa, strutture del credito e pubblica amministrazione. Spiega ancora la Severino: “La tempestività con cui l’Antitrust ha adottato il regolamento esecutivo il regolamento esecutivo ed il Ministrero della Giustizia ha a suo tempo  emanato il decreto attuativo, sono il segnale di quanto questo istituto sia stato ritenuto importante per consolidare la fiducia in una economia sana, in un mercato che incoraggia la legalità e combatte l’infiltrazione di criminalità organizzata, di corruzione, di reati fiscali e societari. Illeciti che consentono facili guadagni erodendo la parte sana del settore e cagionando danni irreparabili all’immagine del Paese e della professionalità dei suoi migliori imprenditori”.

Istituzioni pronte a mettere in piedi un sistema di misurazione della legalità. E imprese sensibili all’importanza di ottenere un buon rating. Conclude la Severino: “Il dato confortante sul numero di richieste di valutazione pervenute in poco tempo all’Autorità dimostra che lo strumento è ritenuto utile da quanti hanno compreso che il fenomeno più dannoso per l’economia del Paese è quello della concorrenza sleale, in cui non vince il migliore, ma chi si ritiene più furbo degli altri, chi cerca di percorrere le scorciatorie dell’illegalità, chi taglia l’erba sotto i piedi delle imprese virtuose.  Solo una diffusa consapevolezza dell’entità e della irreparabilità di questi danni potrà costituire un valido baluardo contro l’illegalità e far emergere quanti continuano a credere e a crescere nel merito”. Buoan cultura d’impresa di mercato, dunque. Legale.

Internet e impresa, come e perché

E’ ormai un dato di fatto: i mercati esteri – e non solo quelli -, si conquistano anche con una forte presenza nella “rete”. Certo, dietro  Internet ci devono essere sempre e prima di tutto un prodotto serio, un’organizzazione efficace, un’impresa vera. Ma l’essere “in rete”, poter colloquiare in tempo reale con potenziali clienti e nuovi mercati, così come tenere sotto controllo la concorrenza anche attraverso il web, sono altrettanti elementi di forza per le aziende che si staccano dal localismo economico e commerciale. Elementi che, fra l’altro, finiscono per incidere velocemente anche sulla cultura aziendale che caratterizza l’impresa, sul suo modo di guardare all’esterno e di farsi guardare.

Per questo, capire meglio come Internet entra in azienda e, soprattutto, come questa riesce ad utilizzarlo, è fondamentale per comprendere l’evoluzione e il futuro della stessa.

Charmaine Glavas e Shane Mathews (della Queensland University of Technology, di Brisbane in Australia), hanno proprio fatto una cosa del genere: esplorato il rapporto tra le caratteristiche dell’imprenditorialità internazionale e l’utilizzo delle funzionalità di Internet per i processi di internazionalizzazione delle imprese.

L’assunto di base è che le “Internet capabilities” servono davvero alle imprese. “Tuttavia – spiega lo studio “How international entrepreneurship characteristics influence Internet capabilities for the international business processes of the firm”, apparso a maggio sull’ International business review -,  le caratteristiche d’imprenditorialità che servono come basi cognitive per sfruttare le funzionalità di Internet sono ancora vaghe”. Per capire cosa questo significhi e come si concretizzano in realtà le diverse situazioni, sono stati studiati otto casi di imprese attive nel comparto del turismo e di piccole e medie dimensioni, per mettere in relazione il loro livello di imprenditorialità e la loro capacità di usare il web per i processi commerciali. Ne è emersa una fotografia utile anche per altri settori e per altre tipologie d’azienda. Con una sorpresa. La capacità di un’impresa di assumersi i rischi dei mercati internazionali e il grado di successo della stessa, non sono necessariamente le condizioni che portano ad un uso efficace del web. Come dire: Internet serve, ma prima occorre ben altro.

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E’ ormai un dato di fatto: i mercati esteri – e non solo quelli -, si conquistano anche con una forte presenza nella “rete”. Certo, dietro  Internet ci devono essere sempre e prima di tutto un prodotto serio, un’organizzazione efficace, un’impresa vera. Ma l’essere “in rete”, poter colloquiare in tempo reale con potenziali clienti e nuovi mercati, così come tenere sotto controllo la concorrenza anche attraverso il web, sono altrettanti elementi di forza per le aziende che si staccano dal localismo economico e commerciale. Elementi che, fra l’altro, finiscono per incidere velocemente anche sulla cultura aziendale che caratterizza l’impresa, sul suo modo di guardare all’esterno e di farsi guardare.

Per questo, capire meglio come Internet entra in azienda e, soprattutto, come questa riesce ad utilizzarlo, è fondamentale per comprendere l’evoluzione e il futuro della stessa.

Charmaine Glavas e Shane Mathews (della Queensland University of Technology, di Brisbane in Australia), hanno proprio fatto una cosa del genere: esplorato il rapporto tra le caratteristiche dell’imprenditorialità internazionale e l’utilizzo delle funzionalità di Internet per i processi di internazionalizzazione delle imprese.

L’assunto di base è che le “Internet capabilities” servono davvero alle imprese. “Tuttavia – spiega lo studio “How international entrepreneurship characteristics influence Internet capabilities for the international business processes of the firm”, apparso a maggio sull’ International business review -,  le caratteristiche d’imprenditorialità che servono come basi cognitive per sfruttare le funzionalità di Internet sono ancora vaghe”. Per capire cosa questo significhi e come si concretizzano in realtà le diverse situazioni, sono stati studiati otto casi di imprese attive nel comparto del turismo e di piccole e medie dimensioni, per mettere in relazione il loro livello di imprenditorialità e la loro capacità di usare il web per i processi commerciali. Ne è emersa una fotografia utile anche per altri settori e per altre tipologie d’azienda. Con una sorpresa. La capacità di un’impresa di assumersi i rischi dei mercati internazionali e il grado di successo della stessa, non sono necessariamente le condizioni che portano ad un uso efficace del web. Come dire: Internet serve, ma prima occorre ben altro.

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Innovare si può

Si fa presto a dire che ci vuole l’innovazione per tirar su le sorti delle imprese e dell’economia in generale. Alle parole devono seguire i fatti. Occorre, cioè, essere capaci di innovare e, soprattutto, non essere affezionati agli schemi. Vale anche nella gestione d’impresa, nella costruzione giorno dopo giorno di quella cultura del produrre che ha fatto grandi innumerevoli realtà aziendali in Italia, e che oggi non è alle corde ma ha comunque il fiato un po’ corto. Anche se le imprese innovano ancora, magari senza accorgersene.

Come, quando e perché è tutto da scoprire e capire. E’ quello che ha provato a fare Riccardo Luna – giornalista e navigatore del web -,  che nello scorrevolissimo “Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori” appena uscito, dà una sua idea di come oggi si innova in Italia e nel mondo partendo da Internet ma arrivando alla produzione concreta di beni e  servizi.

Si tratta di poco più di 150 pagine che si leggono d’un fiato, dense di esempi anche appena di ieri. Ci sono naturalmente la Apple, la Olivetti e la Silicon Valley ma anche imprese pressoché sconosciute ai più. Sogni realizzati di gente che ci ha provato e ha vinto, ma anche occasioni mancate che insegnano dove si è sbagliato.

L’esplorazione del mondo degli innovatori, si articola così in un prologo, sei balzi in avanti e un epilogo che riconduce tutto al buonsenso della concretezza produttiva italiana. Si parla quindi si “startupper”, di “maker”, di “dreamer”, di “civic hacker”, di “biopunk” e di “iSchool” per raccontare i diversi aspetti dell’innovazione – chi inizia, chi fa, chi sogna, chi si impegna nel sociale e nella scienza e chi nella scuola -, per  arrivare a dare un messaggio positivo: cambiare si può e innovare anche, pure nelle imprese e pure in Italia.

Stando attenti a stare con i piedi per terra e con lo sguardo in avanti. E’ importante la chiusura di tutto il libro, affidata come si diceva sopra alla concretezza di un imprenditore: “Il futuro è questa cosa qua, fare le cose, produrre, inventare soluzioni ai problemi. E non arrendersi mai”.

Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori

Riccardo Luna

Laterza, 2013

Si fa presto a dire che ci vuole l’innovazione per tirar su le sorti delle imprese e dell’economia in generale. Alle parole devono seguire i fatti. Occorre, cioè, essere capaci di innovare e, soprattutto, non essere affezionati agli schemi. Vale anche nella gestione d’impresa, nella costruzione giorno dopo giorno di quella cultura del produrre che ha fatto grandi innumerevoli realtà aziendali in Italia, e che oggi non è alle corde ma ha comunque il fiato un po’ corto. Anche se le imprese innovano ancora, magari senza accorgersene.

Come, quando e perché è tutto da scoprire e capire. E’ quello che ha provato a fare Riccardo Luna – giornalista e navigatore del web -,  che nello scorrevolissimo “Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori” appena uscito, dà una sua idea di come oggi si innova in Italia e nel mondo partendo da Internet ma arrivando alla produzione concreta di beni e  servizi.

Si tratta di poco più di 150 pagine che si leggono d’un fiato, dense di esempi anche appena di ieri. Ci sono naturalmente la Apple, la Olivetti e la Silicon Valley ma anche imprese pressoché sconosciute ai più. Sogni realizzati di gente che ci ha provato e ha vinto, ma anche occasioni mancate che insegnano dove si è sbagliato.

L’esplorazione del mondo degli innovatori, si articola così in un prologo, sei balzi in avanti e un epilogo che riconduce tutto al buonsenso della concretezza produttiva italiana. Si parla quindi si “startupper”, di “maker”, di “dreamer”, di “civic hacker”, di “biopunk” e di “iSchool” per raccontare i diversi aspetti dell’innovazione – chi inizia, chi fa, chi sogna, chi si impegna nel sociale e nella scienza e chi nella scuola -, per  arrivare a dare un messaggio positivo: cambiare si può e innovare anche, pure nelle imprese e pure in Italia.

Stando attenti a stare con i piedi per terra e con lo sguardo in avanti. E’ importante la chiusura di tutto il libro, affidata come si diceva sopra alla concretezza di un imprenditore: “Il futuro è questa cosa qua, fare le cose, produrre, inventare soluzioni ai problemi. E non arrendersi mai”.

Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori

Riccardo Luna

Laterza, 2013

Dalle “Tech Stories” alla “Rinascita”: l’Archivio Storico Pirelli in mostra

Un giugno ricco di “storie” e di mostre a cui la Fondazione Pirelli partecipa con l’esposizione di alcuni documenti provenienti dall’Archivio Storico.

E’ stata inaugurata a Milano il 13 giugno la mostra “TECH STORIES. Politecnico di Milano 1863-2013”. Storie di architettura, design e ingegneria, per celebrare i 150 anni del Politecnico di Milano, simbolo per eccellenza, in Italia e nel mondo, di innovazione, tecnologia e sapere. La mostra racconta i protagonisti e i momenti più significativi della storia del Politecnico che ha formato alcuni dei più importanti architetti, ingegneri e imprenditori italiani tra cui lo stesso Giovanni Battista Pirelli che, dopo la laurea nel 1869, intraprenderà la strada della produzione e lavorazione della gomma. “L’impresa della gomma” è appunto il titolo per la parte dedicata a Pirelli con l’esposizione di alcuni documenti storici che ripercorrono le principali tappe della storia della famosa azienda di pneumatici milanese. Accanto alla fotografia dei laureati del 1869 e alle lettere manoscritte del professor Colombo a Giovanni Battista Pirelli, l’immagine del primo stabilimento milanese in via Ponte Seveso, i cataloghi d’epoca e alcune delle più famose pubblicità Pirelli firmate Bob Noorda, Alessandro Mendini, Armando Testa, provenienti dal nostro Archivio Storico. La mostra è aperta dal 13 giugno al 10 dicembre 2013 presso il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.

La mostra “Rinascita. Storie dell’Italia che ce l’ha fatta”, presso il Palazzo Mazzetti di Asti, racconta un’altra storia: quella  che ripercorre vent’anni di produzione artistica e industriale italiana e che ha consacrato il nostro Paese a patria del design, della moda e della creatività. E’ la storia dell’affermarsi di prodotti originali italiani che diventano veri e propri status globali come il pneumatico Cinturato Pirelli e che raccontano la trasformazione della quotidianità e della produttività italiana. Storie appunto di un’Italia che ce l’ha fatta.

Dal nostro archivio provengono alcune pubblicità aziendali, le fotografie del “Centro Pirelli” in costruzione e alcuni numeri della storica rivista “Pirelli pubblicata dal 1948 al 1972.

La mostra sarà aperta dal 21 giugno al 2 novembre 2013 presso il Palazzo Mazzetti di Asti.

Un giugno ricco di “storie” e di mostre a cui la Fondazione Pirelli partecipa con l’esposizione di alcuni documenti provenienti dall’Archivio Storico.

E’ stata inaugurata a Milano il 13 giugno la mostra “TECH STORIES. Politecnico di Milano 1863-2013”. Storie di architettura, design e ingegneria, per celebrare i 150 anni del Politecnico di Milano, simbolo per eccellenza, in Italia e nel mondo, di innovazione, tecnologia e sapere. La mostra racconta i protagonisti e i momenti più significativi della storia del Politecnico che ha formato alcuni dei più importanti architetti, ingegneri e imprenditori italiani tra cui lo stesso Giovanni Battista Pirelli che, dopo la laurea nel 1869, intraprenderà la strada della produzione e lavorazione della gomma. “L’impresa della gomma” è appunto il titolo per la parte dedicata a Pirelli con l’esposizione di alcuni documenti storici che ripercorrono le principali tappe della storia della famosa azienda di pneumatici milanese. Accanto alla fotografia dei laureati del 1869 e alle lettere manoscritte del professor Colombo a Giovanni Battista Pirelli, l’immagine del primo stabilimento milanese in via Ponte Seveso, i cataloghi d’epoca e alcune delle più famose pubblicità Pirelli firmate Bob Noorda, Alessandro Mendini, Armando Testa, provenienti dal nostro Archivio Storico. La mostra è aperta dal 13 giugno al 10 dicembre 2013 presso il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.

La mostra “Rinascita. Storie dell’Italia che ce l’ha fatta”, presso il Palazzo Mazzetti di Asti, racconta un’altra storia: quella  che ripercorre vent’anni di produzione artistica e industriale italiana e che ha consacrato il nostro Paese a patria del design, della moda e della creatività. E’ la storia dell’affermarsi di prodotti originali italiani che diventano veri e propri status globali come il pneumatico Cinturato Pirelli e che raccontano la trasformazione della quotidianità e della produttività italiana. Storie appunto di un’Italia che ce l’ha fatta.

Dal nostro archivio provengono alcune pubblicità aziendali, le fotografie del “Centro Pirelli” in costruzione e alcuni numeri della storica rivista “Pirelli pubblicata dal 1948 al 1972.

La mostra sarà aperta dal 21 giugno al 2 novembre 2013 presso il Palazzo Mazzetti di Asti.

Politecnico, l’attualità d’una storia lunga 150 anni

Cultura politecnica”, come capacità di coniugare umanesimo e scienza, cercando continuamente nuove sintesi che costruiscano sviluppo, economico e sociale: un’attitudine di cui la Lombardia e Milano hanno ancora oggi un primato, in Italia. E dunque anche “la cultura del Politecnico” milanese, come luogo che lega formazione e ricerca, innovazione di pensiero e attività di imprese, tanto da essere tra le prime 50 università del mondo in ingegneria e tecnologia (secondo la classifica Top Universities per la Times Higher Education). Le ricorrenze sono scelte simboliche, utili a rinsaldare memorie e a rafforzare le basi della consapevolezza dell’impegno a costruire futuro. E i 150 anni del Politecnico, con tutto il corollario di manifestazioni celebrative, convegni, dibattiti, pubblicazioni e mostre (come quella in corso al Museo della Scienza e della Tecnica) servono a dire ai milanesi, al Paese e al resto d’Europa come e perché proprio qui sia maturata una istituzione d’eccellenza che, dopo un secolo e mezzo di vita, è ancora tra i principali luoghi europei del sapere e dell’innovazione.

Storia, dunque. Dalla fondazione, con il contributo determinante di un uomo di scienza e di impresa come Giuseppe Colombo (tra i “padri “ della Edison, con la costruzione della prima centrale elettrica cittadina d’Europa, nel 1883) agli studi di Enrico Forlanini, con il primo prototipo di elicottero (1877), dal primo calcolatore elettronico europeo portato da Luigi Dadda dagli Usa, nel 1954 agli studi di chimica che contribuiscono all’assegnazione del premio Nobel a Giulio Natta nel 1963 (con la nascita di un rivoluzionario prodotto industriale come il Moplen, la plastica che cambia consumi e costumi nell’Italia del boom economico). Sino all’oggi in cui il Poli è in una fitta rete di relazioni con i grandi centri internazionali di ricerca e innovazione e dai suoi laboratori escono alcune tra le migliori start up italiane con robusti contenuti hi tech.

Dici Politecnico. E viene in mente l’industria, come le imprese degli Schiapparelli e degli Ucelli, o la Edison o ancora la Pirelli, dalla nascita dell’impresa nel 1872, per iniziativa di Giovan Battista Pirelli, laureato appunto al Poli, al termine di un viaggio di istruzione europeo sollecitato dall’università. Vengono in mente le architetture di Gio Ponti e Aldo Rossi, Renzo Piano e Gae Aulenti. Il design di Marco Zanuso e Vico Magistretti. E quella particolare attitudine a coniugare scienza, letteratura e arte che segna le opere di Carlo Emilio Gadda e Fausto Melotti. Appunto un secolo e mezzo di storia ricco di tantissimi nomi, di ingegneri e imprenditori, tecnologi visionari e concretissimi gestori di processi in cui l’innovazione non è solo la scoperta di nuove strade tecnico-scientifiche, ma è soprattutto quel particolare percorso tipicamente italiano che si chiana “innovazione incrementale”, una modifica, un aggiustamento geniale di un macchinario che cambia radicalmente il processo produttivo, un’aggiunta di un composto chimico che rafforza o alleggerisce i materiali, una nuova relazione tra apparecchiature tecniche e organizzazione del lavoro. Una vera e propria “civiltà delle macchine” che non è un ossimoro, ma la bella e poetica metafora di una sintesi tra intelligenza dell’uomo e trasformazione della struttura meccanica, perchè proprio la macchina sia più docile ai comandi dell’uomo, più produttiva, più sicura, Civiltà, appunto.

Cultura del progetto e cultura del prodotto, potremmo dire, con una frase ricorrente in molte conversazioni tra tecnologi e imprenditori, ingegneri e designer, persone politecniche, insomma. Nell’Italia che si affacciava alla modernità, il Politecnico di Milano, un secolo e mezzo fa, è stato il luogo d’incubazione di una robusta storia industriale. Oggi che il cosiddetto “post moderno” ha mostrato il volto fragile dei suoi miti frettolosi e squilibranti (troppa finanza, troppa distorsione nell’effimera “cultura o meglio sub cultura dell’immagine”), una struttura formativa e di rierca come un grande Politecnico può ribadire la sua attualità e il suo ruolo futuribile, in un mondo che riscopre, politecnicamente, la centralità dell’industria. Un ruolo molto milanese. E dunque molto italiano e internazionale.

Cultura politecnica”, come capacità di coniugare umanesimo e scienza, cercando continuamente nuove sintesi che costruiscano sviluppo, economico e sociale: un’attitudine di cui la Lombardia e Milano hanno ancora oggi un primato, in Italia. E dunque anche “la cultura del Politecnico” milanese, come luogo che lega formazione e ricerca, innovazione di pensiero e attività di imprese, tanto da essere tra le prime 50 università del mondo in ingegneria e tecnologia (secondo la classifica Top Universities per la Times Higher Education). Le ricorrenze sono scelte simboliche, utili a rinsaldare memorie e a rafforzare le basi della consapevolezza dell’impegno a costruire futuro. E i 150 anni del Politecnico, con tutto il corollario di manifestazioni celebrative, convegni, dibattiti, pubblicazioni e mostre (come quella in corso al Museo della Scienza e della Tecnica) servono a dire ai milanesi, al Paese e al resto d’Europa come e perché proprio qui sia maturata una istituzione d’eccellenza che, dopo un secolo e mezzo di vita, è ancora tra i principali luoghi europei del sapere e dell’innovazione.

Storia, dunque. Dalla fondazione, con il contributo determinante di un uomo di scienza e di impresa come Giuseppe Colombo (tra i “padri “ della Edison, con la costruzione della prima centrale elettrica cittadina d’Europa, nel 1883) agli studi di Enrico Forlanini, con il primo prototipo di elicottero (1877), dal primo calcolatore elettronico europeo portato da Luigi Dadda dagli Usa, nel 1954 agli studi di chimica che contribuiscono all’assegnazione del premio Nobel a Giulio Natta nel 1963 (con la nascita di un rivoluzionario prodotto industriale come il Moplen, la plastica che cambia consumi e costumi nell’Italia del boom economico). Sino all’oggi in cui il Poli è in una fitta rete di relazioni con i grandi centri internazionali di ricerca e innovazione e dai suoi laboratori escono alcune tra le migliori start up italiane con robusti contenuti hi tech.

Dici Politecnico. E viene in mente l’industria, come le imprese degli Schiapparelli e degli Ucelli, o la Edison o ancora la Pirelli, dalla nascita dell’impresa nel 1872, per iniziativa di Giovan Battista Pirelli, laureato appunto al Poli, al termine di un viaggio di istruzione europeo sollecitato dall’università. Vengono in mente le architetture di Gio Ponti e Aldo Rossi, Renzo Piano e Gae Aulenti. Il design di Marco Zanuso e Vico Magistretti. E quella particolare attitudine a coniugare scienza, letteratura e arte che segna le opere di Carlo Emilio Gadda e Fausto Melotti. Appunto un secolo e mezzo di storia ricco di tantissimi nomi, di ingegneri e imprenditori, tecnologi visionari e concretissimi gestori di processi in cui l’innovazione non è solo la scoperta di nuove strade tecnico-scientifiche, ma è soprattutto quel particolare percorso tipicamente italiano che si chiana “innovazione incrementale”, una modifica, un aggiustamento geniale di un macchinario che cambia radicalmente il processo produttivo, un’aggiunta di un composto chimico che rafforza o alleggerisce i materiali, una nuova relazione tra apparecchiature tecniche e organizzazione del lavoro. Una vera e propria “civiltà delle macchine” che non è un ossimoro, ma la bella e poetica metafora di una sintesi tra intelligenza dell’uomo e trasformazione della struttura meccanica, perchè proprio la macchina sia più docile ai comandi dell’uomo, più produttiva, più sicura, Civiltà, appunto.

Cultura del progetto e cultura del prodotto, potremmo dire, con una frase ricorrente in molte conversazioni tra tecnologi e imprenditori, ingegneri e designer, persone politecniche, insomma. Nell’Italia che si affacciava alla modernità, il Politecnico di Milano, un secolo e mezzo fa, è stato il luogo d’incubazione di una robusta storia industriale. Oggi che il cosiddetto “post moderno” ha mostrato il volto fragile dei suoi miti frettolosi e squilibranti (troppa finanza, troppa distorsione nell’effimera “cultura o meglio sub cultura dell’immagine”), una struttura formativa e di rierca come un grande Politecnico può ribadire la sua attualità e il suo ruolo futuribile, in un mondo che riscopre, politecnicamente, la centralità dell’industria. Un ruolo molto milanese. E dunque molto italiano e internazionale.

Quale governance d’impresa fra Europa e USA?

In un’economia globale, le imprese europee sono “governate” con le stesse modalità di quelle USA?  E, soprattutto, le regole di governance solo le stesse? Si tratta di interrogativi importanti per capire meglio le diverse culture d’impresa che si possono confrontare dalle due sponde del’Atlantico. Culture che, per molto versi, appaiono distanti, ma che per altri potrebbero iniziare ad avvicinarsi. Sempre che leggi e regole di governance lo permettano.

Ad indagare il tema ci ha pensato Whitney K. Taylor con la sua tesi di laurea ottenuta poche settimane fa per arrivare al Master of Arts in European Union Studies presso il Graduate College of the University of Illinois at Urbana-Champaign. “Dueling shares: comparative EU-US corporate governance practices”, questo il titolo del lavoro indaga quindi i  meccanismi, le regole e gli atteggiamenti culturali e imprenditoriali collegati alla corporate governance delle imprese in Europa e in USA. Il lavoro è importante soprattutto per il metodo che viene usato. Taylor lavora con un percorso empirico – con l’analisi di 24 casi reali come quelli di Danone, Dassault, Naturex, e Total ma anche di IBM, Apple, Google. Exxon, Kellogg e molti altri -, ma scorre anche un’ampia letteratura sul tema.  Delle 24 imprese messe sotto osservazione, vengono quindi verificate procedure non scritte e regole di comportamento, leggi applicate ed evoluzione gestionale.

Più in generale, poi, le attuali regole di governance delle imprese, sono messe in relazione con la storia e l’impostazione sociale che caratterizzano l’Europa e gli USA. L’obiettivo, spiega Taylor, è cercare di capire  “se le divergenze esistono ancora e perché queste divergenze possono persistere”. Che in altre parole può significare: “Verrà il giorno in cui le regole di governance delle imprese UE e USA potranno essere le medesime?”.

Dueling shares: comparative eu-us corporate governance practices

Whitney K. Taylor

Graduate College of the University of Illinois at Urbana-Champaign

In un’economia globale, le imprese europee sono “governate” con le stesse modalità di quelle USA?  E, soprattutto, le regole di governance solo le stesse? Si tratta di interrogativi importanti per capire meglio le diverse culture d’impresa che si possono confrontare dalle due sponde del’Atlantico. Culture che, per molto versi, appaiono distanti, ma che per altri potrebbero iniziare ad avvicinarsi. Sempre che leggi e regole di governance lo permettano.

Ad indagare il tema ci ha pensato Whitney K. Taylor con la sua tesi di laurea ottenuta poche settimane fa per arrivare al Master of Arts in European Union Studies presso il Graduate College of the University of Illinois at Urbana-Champaign. “Dueling shares: comparative EU-US corporate governance practices”, questo il titolo del lavoro indaga quindi i  meccanismi, le regole e gli atteggiamenti culturali e imprenditoriali collegati alla corporate governance delle imprese in Europa e in USA. Il lavoro è importante soprattutto per il metodo che viene usato. Taylor lavora con un percorso empirico – con l’analisi di 24 casi reali come quelli di Danone, Dassault, Naturex, e Total ma anche di IBM, Apple, Google. Exxon, Kellogg e molti altri -, ma scorre anche un’ampia letteratura sul tema.  Delle 24 imprese messe sotto osservazione, vengono quindi verificate procedure non scritte e regole di comportamento, leggi applicate ed evoluzione gestionale.

Più in generale, poi, le attuali regole di governance delle imprese, sono messe in relazione con la storia e l’impostazione sociale che caratterizzano l’Europa e gli USA. L’obiettivo, spiega Taylor, è cercare di capire  “se le divergenze esistono ancora e perché queste divergenze possono persistere”. Che in altre parole può significare: “Verrà il giorno in cui le regole di governance delle imprese UE e USA potranno essere le medesime?”.

Dueling shares: comparative eu-us corporate governance practices

Whitney K. Taylor

Graduate College of the University of Illinois at Urbana-Champaign

Diventare “leader strategici” si può

Di fronte a tutte le sfide che imprenditori, organizzazione e singoli individui devono affrontare ogni giorno, occorre un salto di qualità, un cambio di orizzonte, qualcosa di nuovo. Si tratta di qualcosa di molto facile a dirsi, ma di difficilissimo a farsi. E, soprattutto, di qualcosa nella ricerca del quale è facilissimo imbattersi in guru della gestione, in profeti del tutto che allontanano dall’obiettivo invece di aiutare a lavorare meglio.

Nello sconfinato panorama di ragionamenti attorno al “vivere e lavorare bene”, c’è però sempre qualcosa da approfondire. E’ il caso di “Leading stratecigally. New thinking for entrepreneurs, organizations and personal life”, un volume di poco più di 140 pagine, appena uscito e scritto da Hassan Yemer, consulente di management che cerca di mettere insieme strategia e cultura d’impresa e strategia e cultura di vita partendo da una frase – “To lead or to be led” – oppure da una domanda: “What do I want to be, a leader or a follower?”.

Ciò che ne nasce è un viaggio a rotta di collo lungo metodi e approcci per riuscire ad anticipare gli eventi senza farsi sommergere dagli stessi. Con due tappe: l’individuazione di un  “pensiero strategico” per il nostro tempo, l’analisi del comportamento degli imprenditori e delle organizzazioni e l’indicazione di alcune correzioni da fare. Partendo da se stessi per arrivare alle imprese.

Quanto scritto da Yemer è ovviamente da prendere con attenzione, da valutare e verificare. Ma è una provocazione gustosa e stimolante, una sfida per certi versi; qualcosa che deve far pensare. E’ stimolante, per esempio, ragionare su quanto scritto da Yemer nelle prime pagine del volume: “La leadership non dipende solamente dalla volontà di comandare”. C’è, ci deve essere, anche dell’altro. Quel qualcosa in più che permea i veri leader, i grandi imprenditori e che – alla fine – caratterizza e connota di se anche la cultura dell’impresa che si afferma sul mercato. Per questo, subito dopo, lo stesso autore si chiede: “Che cosa costruisce un buon leader?”.

Leading stratecigally. New thinking for entrepreneurs, organizations and personal life.

Hassan Yemer

XLibris Corporation, maggio 2013

Di fronte a tutte le sfide che imprenditori, organizzazione e singoli individui devono affrontare ogni giorno, occorre un salto di qualità, un cambio di orizzonte, qualcosa di nuovo. Si tratta di qualcosa di molto facile a dirsi, ma di difficilissimo a farsi. E, soprattutto, di qualcosa nella ricerca del quale è facilissimo imbattersi in guru della gestione, in profeti del tutto che allontanano dall’obiettivo invece di aiutare a lavorare meglio.

Nello sconfinato panorama di ragionamenti attorno al “vivere e lavorare bene”, c’è però sempre qualcosa da approfondire. E’ il caso di “Leading stratecigally. New thinking for entrepreneurs, organizations and personal life”, un volume di poco più di 140 pagine, appena uscito e scritto da Hassan Yemer, consulente di management che cerca di mettere insieme strategia e cultura d’impresa e strategia e cultura di vita partendo da una frase – “To lead or to be led” – oppure da una domanda: “What do I want to be, a leader or a follower?”.

Ciò che ne nasce è un viaggio a rotta di collo lungo metodi e approcci per riuscire ad anticipare gli eventi senza farsi sommergere dagli stessi. Con due tappe: l’individuazione di un  “pensiero strategico” per il nostro tempo, l’analisi del comportamento degli imprenditori e delle organizzazioni e l’indicazione di alcune correzioni da fare. Partendo da se stessi per arrivare alle imprese.

Quanto scritto da Yemer è ovviamente da prendere con attenzione, da valutare e verificare. Ma è una provocazione gustosa e stimolante, una sfida per certi versi; qualcosa che deve far pensare. E’ stimolante, per esempio, ragionare su quanto scritto da Yemer nelle prime pagine del volume: “La leadership non dipende solamente dalla volontà di comandare”. C’è, ci deve essere, anche dell’altro. Quel qualcosa in più che permea i veri leader, i grandi imprenditori e che – alla fine – caratterizza e connota di se anche la cultura dell’impresa che si afferma sul mercato. Per questo, subito dopo, lo stesso autore si chiede: “Che cosa costruisce un buon leader?”.

Leading stratecigally. New thinking for entrepreneurs, organizations and personal life.

Hassan Yemer

XLibris Corporation, maggio 2013

Competizione, ecco perché l’Italia perde ancora colpi

L’Italia perde ancora colpi, in competitività:  fa fatica sui mercati internazionali, attrae sempre meno investimenti esteri, vive ancora in recessione per tutto il corso del 2013 e ha prospettive di bassa crescita nel 2014. L’Italia, insomma, arranca. Vede chiudere le sue imprese. E bruciare il capitale più prezioso, l’industria manifatturiera, che in questi anni ha perso il 15% di capacità, ipotecando seriamente lo sviluppo futuro. In altri termini: esiste ancora, nonostante tutto, una robusta cultura d’impresa che impedisce il tracollo dell’Italia, ma non esiste ancora una seria politica dello sviluppo, non si fa buona politica industriale, non si spende adeguatamente in ricerca, innovazione, formazione, tanto da reggere il passo con gli altri paesi che ci sono concorrenti. Insomma, “quest’Italia si maltratta troppo”, per dirla con le parole di Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli, in una intervista al Corriere della Sera (7 giugno).

I dati dell’IMD World Competitivness Centre di Losanna rivelano che nella classifica annuale della competiività internazionale (al primo posto ci sono gli Usa, al secondo la Svizzera, al terzo Hong Kong, al quarto la Svezia, al nono la Germania, al diciottesimo la Gran Bretagna, al ventottesimo la Francia) l’Italia è al quarantaquattresimo, scivolando di quattro posizioni rispetto al 2012, quando era già arretrata. Peggio di noi, Spagna, Portogallo e Grecia. Non è una consolazione. Ci sono fattori congiunturali, la recessione. E fattori strutturali, che pesano in negativo: la burocrazia, il fisco, la mancanza di trasparenza, l’incertezza politica, la conseguente scarsità degli investimenti esteri.

Ecco, appunto, un altro elemento di crisi: la carenza di investimenti internazionali. Secondo ua recente ricerca di Ernst & Young (Il Sole24Ore, 6 giugno), “L’Italia respinge gli investitori” e perde quota rispetto agli altri paesi Ue. Meno progetti, meno risorse, meno occupazione, meno innovazione, dunque meno sviluppo.

Chi legge attentamente i giornali, naturalmente, trova anche delle buone notizie.  Che il gruppo francese Alstom, per esempio, investa 34 milioni di euro per costruire a Sesto San Giovanni un centro di rierca d’eccellenza per la trasmissione di energia. O che la multinazionale americana Valspar compri l’emiliana Inver (vernici) per farne l’headquarter dello sviluppo europeo.  Che il gruppo Usa Mohawak, dopo aver comprato le Ceramiche Marazzi, famose nel mondo, metta a vertice dell’impresa proprio un manager italiano, Mauro Vandini, per fare decollare, con investimenti in nuove tecnologie, un’originale alleanza tra competenze multinazionali e sapienza manifatturiera del distretto di Sassuolo, con l’occhio rivolto ai mercati esteri. Oppure, ancora, che il colosso assicurativo Berkshire Hataway, di cui è grande azionista Warren Buffett, sia in gara per comprare le assicurazioni Milano. O, infine, che sia arrivata al 34% la quota del capitale Pirelli nel portafoglio di investitori internazionali. Tutti segni di fiducia, ognuno a suo modo, nelle capacità delle multinazionali italiane, nella vivacità di crescita delle piccole e medie industrie, nella solidità del capitale umano (gli ingegneri del Politecnici di Milano e Torino, per esempio) per le attività di ricerca industriale d’avanguardia. Buoni investimenti sull’Italia, insomma. Ma tutto questo non basta per essere davvero ottimisti.

Esiste, insomma, un’Italia attiva e produttiva che “deve credere nella crescita”, per usare le parole del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, convinto sostenitore dell’importanza dell’industria manifatturiera come cardine dello sviluppo e della necessità di porre a tutta la Ue l’esigenza di “reindustrializzare l’Europa”. Ma non ci sono ancora politiche e scelte di governo coerentemente all’altezza della sfida.

Sono parecchie, infatti, in questo quadro, le imprese che stanno facendo la loro parte. Ma servono lungimiranti misure di sostegno. Non aiuti o incentivi. Semmai, scelte politiche di fondo che creino un ambiente favorevole alle imprese, agli investimenti interni ed esteri, alla nascita di nuove iniziative imprenditoriali, alle “start up” più innovative. Investimenti pubblici in innovazione e ricerca, formazione e trasferimento tecnologico. E abbattimento dei vincoli burocratici e fiscali per gli investimenti stessi. Politiche nazionali. Ed europee. Un vero e proprio “industrial compact” che faccia da leva di crescita, dopo la ricerca dell’equilibrio dei conti pubblici con il “fiscal compact”. L’Italia industriale sta dimostrando di sapere far fronte alla crisi, pur pagando costi molto pesanti. Governo e politica hanno il dovere di sostenerne resistenza e ripresa.

L’Italia perde ancora colpi, in competitività:  fa fatica sui mercati internazionali, attrae sempre meno investimenti esteri, vive ancora in recessione per tutto il corso del 2013 e ha prospettive di bassa crescita nel 2014. L’Italia, insomma, arranca. Vede chiudere le sue imprese. E bruciare il capitale più prezioso, l’industria manifatturiera, che in questi anni ha perso il 15% di capacità, ipotecando seriamente lo sviluppo futuro. In altri termini: esiste ancora, nonostante tutto, una robusta cultura d’impresa che impedisce il tracollo dell’Italia, ma non esiste ancora una seria politica dello sviluppo, non si fa buona politica industriale, non si spende adeguatamente in ricerca, innovazione, formazione, tanto da reggere il passo con gli altri paesi che ci sono concorrenti. Insomma, “quest’Italia si maltratta troppo”, per dirla con le parole di Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli, in una intervista al Corriere della Sera (7 giugno).

I dati dell’IMD World Competitivness Centre di Losanna rivelano che nella classifica annuale della competiività internazionale (al primo posto ci sono gli Usa, al secondo la Svizzera, al terzo Hong Kong, al quarto la Svezia, al nono la Germania, al diciottesimo la Gran Bretagna, al ventottesimo la Francia) l’Italia è al quarantaquattresimo, scivolando di quattro posizioni rispetto al 2012, quando era già arretrata. Peggio di noi, Spagna, Portogallo e Grecia. Non è una consolazione. Ci sono fattori congiunturali, la recessione. E fattori strutturali, che pesano in negativo: la burocrazia, il fisco, la mancanza di trasparenza, l’incertezza politica, la conseguente scarsità degli investimenti esteri.

Ecco, appunto, un altro elemento di crisi: la carenza di investimenti internazionali. Secondo ua recente ricerca di Ernst & Young (Il Sole24Ore, 6 giugno), “L’Italia respinge gli investitori” e perde quota rispetto agli altri paesi Ue. Meno progetti, meno risorse, meno occupazione, meno innovazione, dunque meno sviluppo.

Chi legge attentamente i giornali, naturalmente, trova anche delle buone notizie.  Che il gruppo francese Alstom, per esempio, investa 34 milioni di euro per costruire a Sesto San Giovanni un centro di rierca d’eccellenza per la trasmissione di energia. O che la multinazionale americana Valspar compri l’emiliana Inver (vernici) per farne l’headquarter dello sviluppo europeo.  Che il gruppo Usa Mohawak, dopo aver comprato le Ceramiche Marazzi, famose nel mondo, metta a vertice dell’impresa proprio un manager italiano, Mauro Vandini, per fare decollare, con investimenti in nuove tecnologie, un’originale alleanza tra competenze multinazionali e sapienza manifatturiera del distretto di Sassuolo, con l’occhio rivolto ai mercati esteri. Oppure, ancora, che il colosso assicurativo Berkshire Hataway, di cui è grande azionista Warren Buffett, sia in gara per comprare le assicurazioni Milano. O, infine, che sia arrivata al 34% la quota del capitale Pirelli nel portafoglio di investitori internazionali. Tutti segni di fiducia, ognuno a suo modo, nelle capacità delle multinazionali italiane, nella vivacità di crescita delle piccole e medie industrie, nella solidità del capitale umano (gli ingegneri del Politecnici di Milano e Torino, per esempio) per le attività di ricerca industriale d’avanguardia. Buoni investimenti sull’Italia, insomma. Ma tutto questo non basta per essere davvero ottimisti.

Esiste, insomma, un’Italia attiva e produttiva che “deve credere nella crescita”, per usare le parole del presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, convinto sostenitore dell’importanza dell’industria manifatturiera come cardine dello sviluppo e della necessità di porre a tutta la Ue l’esigenza di “reindustrializzare l’Europa”. Ma non ci sono ancora politiche e scelte di governo coerentemente all’altezza della sfida.

Sono parecchie, infatti, in questo quadro, le imprese che stanno facendo la loro parte. Ma servono lungimiranti misure di sostegno. Non aiuti o incentivi. Semmai, scelte politiche di fondo che creino un ambiente favorevole alle imprese, agli investimenti interni ed esteri, alla nascita di nuove iniziative imprenditoriali, alle “start up” più innovative. Investimenti pubblici in innovazione e ricerca, formazione e trasferimento tecnologico. E abbattimento dei vincoli burocratici e fiscali per gli investimenti stessi. Politiche nazionali. Ed europee. Un vero e proprio “industrial compact” che faccia da leva di crescita, dopo la ricerca dell’equilibrio dei conti pubblici con il “fiscal compact”. L’Italia industriale sta dimostrando di sapere far fronte alla crisi, pur pagando costi molto pesanti. Governo e politica hanno il dovere di sostenerne resistenza e ripresa.

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