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Imprese di casa e “capitali stranieri”

Cosa accade quando in un sistema industriale consolidato, con una forte cultura d’impresa e una spiccata identità nazionale, arrivano forze esterne, idee nuove e, soprattutto, risorse finanziarie? La domanda non è retorica, perché rappresenta ciò che oggi può accadere molto spesso. Per capire di più, pero’, non basta la teoria. Ci vuole la pratica, l’osservazione empirica, l’esperienza di chi ci è già passato.

Per questo è interessante leggere “Foreign Investors as Change Agents: The Swedish Firm Experience” uno studio apparso a maggio sotto l’egida dello svedese Royal Institute of Technology e firmato da Kathy S. Fogel, Kevin K. Lee, Wayne Y. Lee e Johanna Palmberg (i primi tre ricercatori nelle università di California e dell’Arkansas, l’ultima Direttore di Ricerca del Royal Institute of Technology).

La ricerca è un’esplorazione – condotta appunto con strumenti teorici ed empirici – su come “gli investitori stranieri possono agire come agenti di cambiamento nel governo societario” delle imprese. Il sistema preso ad esempio, è quello dell’economia industriale svedese sotto l’impatto dell’arrivo di grandi capitali esteri. Un caso studio ideale, visto che la Svezia è stata per molto tempo caratterizzata da una forte “nazionalismo economico”.

Ma al di là della storia e dei numeri, i quattro autori scoprono quanto forse pochi si aspettavano: le imprese svedesi sotto l’influsso dei capitali stranieri hanno fatto un salto culturale. “Ciò che è notevole in Svezia – spiegano nelle conclusioni i ricercatori – è che i proprietari hanno collaborato concedendo alcuni diritti di controllo agli investitori stranieri”. Una mossa che ha avuto l’effetto di rendere le imprese più snelle e attuare cambiamenti importanti in materia di governo societario.

Ciò che a prima vista poteva apparire come una colonizzazione da parte di capitali stranieri, si risolve così in una leva di cambiamento, non solo tecnico e finanziario ma anche e soprattutto culturale.

Foreign Investors as Change Agents: The Swedish Firm Experience 

Kathy S. Fogel, Kevin K. Lee, Wayne Y. Lee e Johanna Palmberg

The Royal Institute of technology, maggio 2013

Cosa accade quando in un sistema industriale consolidato, con una forte cultura d’impresa e una spiccata identità nazionale, arrivano forze esterne, idee nuove e, soprattutto, risorse finanziarie? La domanda non è retorica, perché rappresenta ciò che oggi può accadere molto spesso. Per capire di più, pero’, non basta la teoria. Ci vuole la pratica, l’osservazione empirica, l’esperienza di chi ci è già passato.

Per questo è interessante leggere “Foreign Investors as Change Agents: The Swedish Firm Experience” uno studio apparso a maggio sotto l’egida dello svedese Royal Institute of Technology e firmato da Kathy S. Fogel, Kevin K. Lee, Wayne Y. Lee e Johanna Palmberg (i primi tre ricercatori nelle università di California e dell’Arkansas, l’ultima Direttore di Ricerca del Royal Institute of Technology).

La ricerca è un’esplorazione – condotta appunto con strumenti teorici ed empirici – su come “gli investitori stranieri possono agire come agenti di cambiamento nel governo societario” delle imprese. Il sistema preso ad esempio, è quello dell’economia industriale svedese sotto l’impatto dell’arrivo di grandi capitali esteri. Un caso studio ideale, visto che la Svezia è stata per molto tempo caratterizzata da una forte “nazionalismo economico”.

Ma al di là della storia e dei numeri, i quattro autori scoprono quanto forse pochi si aspettavano: le imprese svedesi sotto l’influsso dei capitali stranieri hanno fatto un salto culturale. “Ciò che è notevole in Svezia – spiegano nelle conclusioni i ricercatori – è che i proprietari hanno collaborato concedendo alcuni diritti di controllo agli investitori stranieri”. Una mossa che ha avuto l’effetto di rendere le imprese più snelle e attuare cambiamenti importanti in materia di governo societario.

Ciò che a prima vista poteva apparire come una colonizzazione da parte di capitali stranieri, si risolve così in una leva di cambiamento, non solo tecnico e finanziario ma anche e soprattutto culturale.

Foreign Investors as Change Agents: The Swedish Firm Experience 

Kathy S. Fogel, Kevin K. Lee, Wayne Y. Lee e Johanna Palmberg

The Royal Institute of technology, maggio 2013

Racconti di fabbrica

La fabbrica è vita, vita vissuta. Di operai e di imprenditori, di lotte e di conquiste, conflitti e collaborazioni. La fabbrica, la manifattura, non produce solo oggetti, ma sensazioni, rumori, odori, visioni, esperienze, ricordi, uomini e donne, ingegno, emozioni. Anche oggi, come in passato, seppur in maniera diversa. Ammodernata e rivista, più attenta all’ambiente e al sociale, più “confortevole” di un tempo, la fabbrica esiste. Tanto da fare dell’Italia, ancora, il secondo paese manifatturiero dopo la Germania. E da dare alla nostra manifattura il compito di fare da asse portante di una nuova stagione di sviluppo economico.

Comprendere come e perché oggi le fabbriche siano ancora luoghi determinanti e reali e in che modo siano giunti fino a noi, è quindi importante. Soprattutto se gli elementi per capire arrivano non tanto dalla freddezza dei numeri e dei diagrammi, ma dal calore delle parole e dei racconti.

Per questo “Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale”  è un volume da leggere più volte. Una sorta di summa di quanto la letteratura italiana, in poco meno di un secolo, è riuscita a produrre proprio sul tema dell’industria e di quanto si svolge dentro e attorno ad essa. Niente di scientifico e di esatto. Ma proprio per questo tutto molto concreto e reale.

Giorgio Bigatti (che insegna Storia economica alla Bocconi) e Giuseppe Lupo (docente di Letteratura italiana alla Cattolica), in poco più di 300 pagine (edite da Laterza sotto gli auspici di Assolombarda, con prefazione di Alberto Meomartini e introduzione di Antonio Calabrò), hanno raccolto il meglio dei “racconti di fabbrica” di scrittori come Volponi, Sereni, Levi, Calvino, Ottieri, Giudici, Fortini, Vittorini, Arpino, Gadda, Pratolini e molti altri ancora. Tre le grandi parti del libro: “Panorami dell’Italia industriale”, “Personaggi in cerca di lettori” e una “Appendice” di “Scritture del presente”. Dentro, estratti, pillole, lampi di fabbriche italiane a cavallo fra vecchio e nuovo secolo.

Ne è nato un libro da gustare con calma e sul quale tornare. E, perché no?, da fare circolare in scuole e università, per approfondire un aspetto chiave della nostra “identità italiana”. Una sorta di vademecum di quella cultura d’impresa che è una delle testimonianze più attuali  e  importanti del nostro Paese.

Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale.

A cura di G. Bigatti e G. Lupo

Laterza, 2013

La fabbrica è vita, vita vissuta. Di operai e di imprenditori, di lotte e di conquiste, conflitti e collaborazioni. La fabbrica, la manifattura, non produce solo oggetti, ma sensazioni, rumori, odori, visioni, esperienze, ricordi, uomini e donne, ingegno, emozioni. Anche oggi, come in passato, seppur in maniera diversa. Ammodernata e rivista, più attenta all’ambiente e al sociale, più “confortevole” di un tempo, la fabbrica esiste. Tanto da fare dell’Italia, ancora, il secondo paese manifatturiero dopo la Germania. E da dare alla nostra manifattura il compito di fare da asse portante di una nuova stagione di sviluppo economico.

Comprendere come e perché oggi le fabbriche siano ancora luoghi determinanti e reali e in che modo siano giunti fino a noi, è quindi importante. Soprattutto se gli elementi per capire arrivano non tanto dalla freddezza dei numeri e dei diagrammi, ma dal calore delle parole e dei racconti.

Per questo “Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale”  è un volume da leggere più volte. Una sorta di summa di quanto la letteratura italiana, in poco meno di un secolo, è riuscita a produrre proprio sul tema dell’industria e di quanto si svolge dentro e attorno ad essa. Niente di scientifico e di esatto. Ma proprio per questo tutto molto concreto e reale.

Giorgio Bigatti (che insegna Storia economica alla Bocconi) e Giuseppe Lupo (docente di Letteratura italiana alla Cattolica), in poco più di 300 pagine (edite da Laterza sotto gli auspici di Assolombarda, con prefazione di Alberto Meomartini e introduzione di Antonio Calabrò), hanno raccolto il meglio dei “racconti di fabbrica” di scrittori come Volponi, Sereni, Levi, Calvino, Ottieri, Giudici, Fortini, Vittorini, Arpino, Gadda, Pratolini e molti altri ancora. Tre le grandi parti del libro: “Panorami dell’Italia industriale”, “Personaggi in cerca di lettori” e una “Appendice” di “Scritture del presente”. Dentro, estratti, pillole, lampi di fabbriche italiane a cavallo fra vecchio e nuovo secolo.

Ne è nato un libro da gustare con calma e sul quale tornare. E, perché no?, da fare circolare in scuole e università, per approfondire un aspetto chiave della nostra “identità italiana”. Una sorta di vademecum di quella cultura d’impresa che è una delle testimonianze più attuali  e  importanti del nostro Paese.

Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale.

A cura di G. Bigatti e G. Lupo

Laterza, 2013

Lavoro, staffetta anziani-giovani per stimolare l’innovazione

Una buona cultura d’impresa mescola solidità dell’esperienza e sguardo nuovo, la forza di chi conosce bene uomini e macchine e l’intraprendenza di chi, anche con un filo di incoscienza, prova a rinnovare radicalmente abitudini e processi consolidati, l’orgoglio dei successi e la fame di nuove esperienza. Una buona cultura d’impresa, insomma, costruisce sintesi originali di memoria e futuro. Ecco perché la strategia della cosiddetta “staffetta generazionale”, elaborata da Assolombarda e pronta ad essere applicata da grandi imprese come Bayer, Techint, Campari e A2A ha un senso di fondo che va al di là della pur importante opportunità di dare un’occupazione ai giovani. Di che si tratti, è presto detto: i lavoratori a pochi anni dalla pensione accettano di fare un lavoro part time e l’impresa assume un giovane. Il salario dell’anziano è ridotto, i suoi contributi pensionistici invece no (la differenza viene pagata da fondi della Regione Lombardia). L’impresa risparmia sul costo del lavoro (il salario o lo stipendio di un giovane è meno oneroso) ma si impegna nel lungo periodo con il neo-assunto. E l’anziano part time può fare da tutor al giovane, “insegnandogli il mestiere”. Circuito virtuoso, insomma. Da sostenere o con una legislazione nazionale (la strada su cui si sta impegnando il presidente Hollande in Francia) o con accordi tra imprese e sindacati, con il sostegno delle Regioni e con un uso intelligente dei fondi Ue (la strada di Assolombarda e della Regione Lombardia, che potrebbe presto essere imitata da Lazio, Friuli, Piemonte, Emilia e Marche).

“Non si creano nuovi posti di lavoro, ma ci si limita a dividersi la torta che c’è”, dicono i critici, a cominciare dall’autorevole Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro). E’ vero. Ma questo è un modo parziale di vedere le cose. Perché intanto si incentiva il turn over, il ricambio occupazionale. E si offrono ai giovani nuove opportunità: l’ingresso in azienda e la possibilità di avere una formazione professionale mirata sul posto di lavoro. E, per gli anziani, si rafforza la consapevolezza della loro utilità: sentirsi caricati della responsabilità di insegnare a lavorare può rimotivare sessantenni oramai stanchi, alla fine o quasi del loro ciclo di impiego. Senza contare, d’altronde, proprio la forza delle sintesi originali tra esperienza e innovazione di cui abbiamo parlato all’inizio.

Certo, per rimettere in movimento il motore stanco e spesso imballato dell’economia italiana, occorrono altre misure: stimoli agli investimenti (anche internazionali), sostegno a ricerca e innovazione, crescita dimenmsionale delle imprese, credito a favorevoli condizioni, abbattimento drastico di carichi fiscali e inutili burocrazie, efficienza della giustizia (soprattutto civile), infrastrutture, formazione di qualità, etc. Ci vuole, insomma, la costruzione di un ambiente finalmente favorevole all’impresa e, da parte del mondo delle imprese, l’assunzione di tutte le responsabilità che connotano una classe dirigente.

Ma, intanto, la “staffetta generazionale” pronta a partire può dare un buon contributo proprio in una tale direzione. Con un ulteriore vantaggio, per il sistema Italia: evitare che i nostri giovani, magari con un buon diploma o una buona laurea in tasca, se ve vadano in cerca di mercati del lavoro più accoglienti. Una grave perdita di capitale umano, una ferita al capitale sociale. Da impedire. Meglio invece, stare alla buona tradizione italiana: fare interagire “i vecchi e i giovani”. E provare ancora una volta che tradizione e innovazione sono una carta vincente.

Una buona cultura d’impresa mescola solidità dell’esperienza e sguardo nuovo, la forza di chi conosce bene uomini e macchine e l’intraprendenza di chi, anche con un filo di incoscienza, prova a rinnovare radicalmente abitudini e processi consolidati, l’orgoglio dei successi e la fame di nuove esperienza. Una buona cultura d’impresa, insomma, costruisce sintesi originali di memoria e futuro. Ecco perché la strategia della cosiddetta “staffetta generazionale”, elaborata da Assolombarda e pronta ad essere applicata da grandi imprese come Bayer, Techint, Campari e A2A ha un senso di fondo che va al di là della pur importante opportunità di dare un’occupazione ai giovani. Di che si tratti, è presto detto: i lavoratori a pochi anni dalla pensione accettano di fare un lavoro part time e l’impresa assume un giovane. Il salario dell’anziano è ridotto, i suoi contributi pensionistici invece no (la differenza viene pagata da fondi della Regione Lombardia). L’impresa risparmia sul costo del lavoro (il salario o lo stipendio di un giovane è meno oneroso) ma si impegna nel lungo periodo con il neo-assunto. E l’anziano part time può fare da tutor al giovane, “insegnandogli il mestiere”. Circuito virtuoso, insomma. Da sostenere o con una legislazione nazionale (la strada su cui si sta impegnando il presidente Hollande in Francia) o con accordi tra imprese e sindacati, con il sostegno delle Regioni e con un uso intelligente dei fondi Ue (la strada di Assolombarda e della Regione Lombardia, che potrebbe presto essere imitata da Lazio, Friuli, Piemonte, Emilia e Marche).

“Non si creano nuovi posti di lavoro, ma ci si limita a dividersi la torta che c’è”, dicono i critici, a cominciare dall’autorevole Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro). E’ vero. Ma questo è un modo parziale di vedere le cose. Perché intanto si incentiva il turn over, il ricambio occupazionale. E si offrono ai giovani nuove opportunità: l’ingresso in azienda e la possibilità di avere una formazione professionale mirata sul posto di lavoro. E, per gli anziani, si rafforza la consapevolezza della loro utilità: sentirsi caricati della responsabilità di insegnare a lavorare può rimotivare sessantenni oramai stanchi, alla fine o quasi del loro ciclo di impiego. Senza contare, d’altronde, proprio la forza delle sintesi originali tra esperienza e innovazione di cui abbiamo parlato all’inizio.

Certo, per rimettere in movimento il motore stanco e spesso imballato dell’economia italiana, occorrono altre misure: stimoli agli investimenti (anche internazionali), sostegno a ricerca e innovazione, crescita dimenmsionale delle imprese, credito a favorevoli condizioni, abbattimento drastico di carichi fiscali e inutili burocrazie, efficienza della giustizia (soprattutto civile), infrastrutture, formazione di qualità, etc. Ci vuole, insomma, la costruzione di un ambiente finalmente favorevole all’impresa e, da parte del mondo delle imprese, l’assunzione di tutte le responsabilità che connotano una classe dirigente.

Ma, intanto, la “staffetta generazionale” pronta a partire può dare un buon contributo proprio in una tale direzione. Con un ulteriore vantaggio, per il sistema Italia: evitare che i nostri giovani, magari con un buon diploma o una buona laurea in tasca, se ve vadano in cerca di mercati del lavoro più accoglienti. Una grave perdita di capitale umano, una ferita al capitale sociale. Da impedire. Meglio invece, stare alla buona tradizione italiana: fare interagire “i vecchi e i giovani”. E provare ancora una volta che tradizione e innovazione sono una carta vincente.

Ogni impresa è un mondo nel mondo

Globalizzate ma spesso ancora influenzate dalla cultura del territorio in cui sono nate. Le imprese che tentano e riescono a percorrere i mercati internazionali, sono spesso ancora in questa situazione. Pensano globale, ma si guardano ancora indietro. Agiscono internazionalmente, ma sono ancora caratterizzate dalla cultura che le ha generate. Capire di più cosa nasce dall’unione  fra motivazioni globali ed emozioni locali è importante per comprendere meglio come si fa impresa oggi.

Si tratta di una ricerca che deve essere condotta a più mani, tante quante sono le culture che hanno dato vita a modi diversi di intendere il fare impresa.

Per questo è interessante “The Effect of Cultural Infrastructure in Business Management: Comparison of Turkish and Japanese Business Cultures” di Kürşat Özdaşli (professore di economia alla  Mehmet Akif University di Burdur in Turchia) e di Oğuzhan Aytar (corrispondente della Karamanoğlu Mehmetbey University di Karaman sempre in Turchia).

Lo studio parte da una affermazione: l’influenza della globalizzazione – cioè di un insieme standardizzato di regole che influenzano la produzione e i comportamenti di consumo -, è stata ormai accettata. Ma pur prendendo in considerazione i principi del globale, le singole comunità d’impresa riflettono anche “le caratteristiche della cultura sociale che è in grado di integrare la tecnica”.

Per capire meglio, i due autori hanno esaminato e confrontato il modo di fare impresa in Giappone e in Turchia. Sono state quindi approfonditi la storia e i valori culturali caratteristici dei due sistemi produttivi, le differenze e le similitudini nella gestione d’impresa e si è cercato di stabilire i punti chiave alla base del successo delle imprese giapponesi e le caratteristiche della “cultura d’affari” degli imprenditori turchi. Ne è nata la conferma, provata dall’indagine, dell’unicità delle imprese giapponesi e della funzione di “ponte” fra mondi diversi dell’imprenditorialità turca. Ma Özdaşli e Aytar arrivano anche ad una precisazione stimolante: “Ogni azienda ha una sua cultura caratteristica che tocca credenze, pensieri, comportamenti e visioni del mondo. Questa cultura si nutre dell valore e delle caratteristiche della comunità”.

The Effect of Cultural Infrastructure in Business Management: Comparison of Turkish and Japanese Business Cultures

Kürşat ÖzdaşliOğuzhan Aytar

Interdisciplinary Journal of Contemporary Research in Business, Aprile 2013, vol. 4 n. 12

Globalizzate ma spesso ancora influenzate dalla cultura del territorio in cui sono nate. Le imprese che tentano e riescono a percorrere i mercati internazionali, sono spesso ancora in questa situazione. Pensano globale, ma si guardano ancora indietro. Agiscono internazionalmente, ma sono ancora caratterizzate dalla cultura che le ha generate. Capire di più cosa nasce dall’unione  fra motivazioni globali ed emozioni locali è importante per comprendere meglio come si fa impresa oggi.

Si tratta di una ricerca che deve essere condotta a più mani, tante quante sono le culture che hanno dato vita a modi diversi di intendere il fare impresa.

Per questo è interessante “The Effect of Cultural Infrastructure in Business Management: Comparison of Turkish and Japanese Business Cultures” di Kürşat Özdaşli (professore di economia alla  Mehmet Akif University di Burdur in Turchia) e di Oğuzhan Aytar (corrispondente della Karamanoğlu Mehmetbey University di Karaman sempre in Turchia).

Lo studio parte da una affermazione: l’influenza della globalizzazione – cioè di un insieme standardizzato di regole che influenzano la produzione e i comportamenti di consumo -, è stata ormai accettata. Ma pur prendendo in considerazione i principi del globale, le singole comunità d’impresa riflettono anche “le caratteristiche della cultura sociale che è in grado di integrare la tecnica”.

Per capire meglio, i due autori hanno esaminato e confrontato il modo di fare impresa in Giappone e in Turchia. Sono state quindi approfonditi la storia e i valori culturali caratteristici dei due sistemi produttivi, le differenze e le similitudini nella gestione d’impresa e si è cercato di stabilire i punti chiave alla base del successo delle imprese giapponesi e le caratteristiche della “cultura d’affari” degli imprenditori turchi. Ne è nata la conferma, provata dall’indagine, dell’unicità delle imprese giapponesi e della funzione di “ponte” fra mondi diversi dell’imprenditorialità turca. Ma Özdaşli e Aytar arrivano anche ad una precisazione stimolante: “Ogni azienda ha una sua cultura caratteristica che tocca credenze, pensieri, comportamenti e visioni del mondo. Questa cultura si nutre dell valore e delle caratteristiche della comunità”.

The Effect of Cultural Infrastructure in Business Management: Comparison of Turkish and Japanese Business Cultures

Kürşat ÖzdaşliOğuzhan Aytar

Interdisciplinary Journal of Contemporary Research in Business, Aprile 2013, vol. 4 n. 12

Piccole ma grandi

Le piccole imprese, quelle proprio piccole, le cosiddette microimprese, affrontano comunque la grande competizione. Un po’ come Davide contro Golia, sono migliaia le realtà di questo genere che, in qualche modo, tentano il mondo e spesso ci riescono. Capire come fanno è importante ma anche affascinante. Dentro quelle aziende c’è di tutto: genio italiano e follia produttiva, estro creativo e calcolo inconscio. Ci sono anche l’innovazione e l’aggregazione, la produzione artigianale e il grande design. Cosa accade per davvero è però sempre di difficile comprensione.

Microimpresa macrocompetizione. Innovare e aggregarsi per ripartire” a cura di Andrea Scalia  ci prova partendo – viene spiegato – “prima di tutto, da una grande passione e da una esperienza per la microimpresa, quel luogo produttivo e ideale in cui l’essere umano è artefice e protagonista della propria esistenza lavorativa”. Un luogo diverso dalla grande fabbrica, forse un po’ idealizzato, che rappresenta una cultura d’impresa differente. Al di là delle contrapposizioni che lasciano poco spazio ad altro, la fatica di Scalia si concentra sul mondo delle microimprese della manifattura, dei servizi, del commercio o dell’agricoltura, che rappresentano una forma organizzativa che è molto più diffusa di quello che comunemente si crede: le aziende con meno di 20 addetti in Italia sono il 98% circa di tutte quelle esistenti.

Scalia quindi raccoglie e indaga, approfondisce i tratti caratteristici delle microimprese arrivando a focalizzare la sempre più forte necessità di aggregazione anche di queste entità il cui valore di fondo però rimane inalterato. A partire dal tipo peculiare di innovazione che vi si pratica:  “La chiave di volta per gli imprenditori italiani che, da sempre, sono attenti per aggiungere peculiarità e valore al loro lavoro, quella innovazione che spesso non si vede, quella fatta giorno dopo giorno con l’ossessione della perfezione, quella invisibile che sta dentro le catene globali del valore, quella che ormai si sviluppa nelle reti e nei collegamenti del mondo globale”.

Microimpresa macrocompetizione. Innovare e aggregarsi per ripartire 

a cura di Andrea Scalia

Egea, 2013.

Le piccole imprese, quelle proprio piccole, le cosiddette microimprese, affrontano comunque la grande competizione. Un po’ come Davide contro Golia, sono migliaia le realtà di questo genere che, in qualche modo, tentano il mondo e spesso ci riescono. Capire come fanno è importante ma anche affascinante. Dentro quelle aziende c’è di tutto: genio italiano e follia produttiva, estro creativo e calcolo inconscio. Ci sono anche l’innovazione e l’aggregazione, la produzione artigianale e il grande design. Cosa accade per davvero è però sempre di difficile comprensione.

Microimpresa macrocompetizione. Innovare e aggregarsi per ripartire” a cura di Andrea Scalia  ci prova partendo – viene spiegato – “prima di tutto, da una grande passione e da una esperienza per la microimpresa, quel luogo produttivo e ideale in cui l’essere umano è artefice e protagonista della propria esistenza lavorativa”. Un luogo diverso dalla grande fabbrica, forse un po’ idealizzato, che rappresenta una cultura d’impresa differente. Al di là delle contrapposizioni che lasciano poco spazio ad altro, la fatica di Scalia si concentra sul mondo delle microimprese della manifattura, dei servizi, del commercio o dell’agricoltura, che rappresentano una forma organizzativa che è molto più diffusa di quello che comunemente si crede: le aziende con meno di 20 addetti in Italia sono il 98% circa di tutte quelle esistenti.

Scalia quindi raccoglie e indaga, approfondisce i tratti caratteristici delle microimprese arrivando a focalizzare la sempre più forte necessità di aggregazione anche di queste entità il cui valore di fondo però rimane inalterato. A partire dal tipo peculiare di innovazione che vi si pratica:  “La chiave di volta per gli imprenditori italiani che, da sempre, sono attenti per aggiungere peculiarità e valore al loro lavoro, quella innovazione che spesso non si vede, quella fatta giorno dopo giorno con l’ossessione della perfezione, quella invisibile che sta dentro le catene globali del valore, quella che ormai si sviluppa nelle reti e nei collegamenti del mondo globale”.

Microimpresa macrocompetizione. Innovare e aggregarsi per ripartire 

a cura di Andrea Scalia

Egea, 2013.

Oltre le nuvole… Lora Lamm, una grafica svizzera per Pirelli

Lora Lamm, svizzera di nascita, approda a Milano nel 1953 – dopo aver conseguito il diploma alla Kunstgewerbeschule di Zurigo – per iniziare a lavorare nell’importante studio di Antonio Boggeri, pioniere della comunicazione grafica. Passa quindi alla Motta e subito dopo Max Huber – il noto grafico suo connazionale – la introduce, a soli 25 anni, nel prestigioso ufficio di comunicazione de La Rinascente. Nel 1958 è chiamata in Pirelli da Arrigo Castellani a collaborare come freelance. La Direzione Propaganda Pirelli aveva in quegli anni avviato un ambizioso progetto che prevedeva il coinvolgimento dei migliori grafici per rappresentare la propria immagine aziendale e per sviluppare quello “stile Pirelli” caratterizzato da nuove espressioni grafiche, che rispecchiasse il crescente sviluppo tecnico e economico dell’azienda e che fosse capace di integrare tecnica e arte.

Lora Lamm introduce in Pirelli un nuovo modo di concepire la comunicazione pubblicitaria e di comunicare la femminilità: uno stile fatto di eleganza e allegria, di grazia e al contempo semplicità e modernità. Realizza campagne pubblicitarie per prodotti molto diversi tra loro: dalle suole da montagna (Oltre le nuvole… ) ai pneumatici per moto scooter e biciclette, dagli articoli per sport subacquei alle borse per acqua calda, dove alterna grafica e pittura e inizia le sue prime sperimentazioni di fotomontaggio.

È stata inaugurata da poco al M.a.x. Museum di Chiasso la mostra “Lora Lamm. Grafica a Milano 1953-1963” che racconta attraverso una selezione di oltre 100 opere, tra manifesti, bozzetti, carte da pacchi, biglietti, la straordinaria attività giovanile della “signora svizzera della grafica”. La Fondazione Pirelli partecipa alla mostra con un prestito di 20 opere, bozzetti originali e rèclame pubblicitarie, che documentano la produzione della Lamm per Pirelli.

Lora Lamm, svizzera di nascita, approda a Milano nel 1953 – dopo aver conseguito il diploma alla Kunstgewerbeschule di Zurigo – per iniziare a lavorare nell’importante studio di Antonio Boggeri, pioniere della comunicazione grafica. Passa quindi alla Motta e subito dopo Max Huber – il noto grafico suo connazionale – la introduce, a soli 25 anni, nel prestigioso ufficio di comunicazione de La Rinascente. Nel 1958 è chiamata in Pirelli da Arrigo Castellani a collaborare come freelance. La Direzione Propaganda Pirelli aveva in quegli anni avviato un ambizioso progetto che prevedeva il coinvolgimento dei migliori grafici per rappresentare la propria immagine aziendale e per sviluppare quello “stile Pirelli” caratterizzato da nuove espressioni grafiche, che rispecchiasse il crescente sviluppo tecnico e economico dell’azienda e che fosse capace di integrare tecnica e arte.

Lora Lamm introduce in Pirelli un nuovo modo di concepire la comunicazione pubblicitaria e di comunicare la femminilità: uno stile fatto di eleganza e allegria, di grazia e al contempo semplicità e modernità. Realizza campagne pubblicitarie per prodotti molto diversi tra loro: dalle suole da montagna (Oltre le nuvole… ) ai pneumatici per moto scooter e biciclette, dagli articoli per sport subacquei alle borse per acqua calda, dove alterna grafica e pittura e inizia le sue prime sperimentazioni di fotomontaggio.

È stata inaugurata da poco al M.a.x. Museum di Chiasso la mostra “Lora Lamm. Grafica a Milano 1953-1963” che racconta attraverso una selezione di oltre 100 opere, tra manifesti, bozzetti, carte da pacchi, biglietti, la straordinaria attività giovanile della “signora svizzera della grafica”. La Fondazione Pirelli partecipa alla mostra con un prestito di 20 opere, bozzetti originali e rèclame pubblicitarie, che documentano la produzione della Lamm per Pirelli.

Gestire un’azienda è come fare un concerto?

Gestire un’azienda. E fare musica. Costruire comportamenti armonici. Mettere insieme persone. Accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità consonanze e, naturalmente, dissonanze. Ipotesi culturale affascinante. Su cui si fonda un libro utilissimo agli uomini e alle donne che si occupano di imprese: “Disordine armonico”, di Frank J. Barrett, pubblicato in Italia da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi, con una bella prefazione di Severino Salvemini. Il titolo inglese è ancora più esplicito: “Yes to the Mess: surprising leadeship lessons from jazz”. Perché Barrett gioca contemporaneamente con due identità: insegna Management ad Harvard e suona jazz al piano. E le sue riflessioni su muovono disinvoltamente sui tanti livelli che la migliore cultura d’impresa sa interpretare. L’organizzazione e l’improvvisazione. Il gioco di squadra e il virtuosismo creativo del solista. La ripetizione di un ritmo noto. E la fuga da quel ritmo per esplorare nuovi universi sonori. Ricerca e innovazione, insomma. Fondate su una robusta competenza di tecniche strumentali.

Sono temi ricorrenti, in questa rubrica (chi legge assiduamente ricorderà, forse, gli accostamenti arditi e ironici tra la musica di Eric Satie e la costruzione di un pneumatico). Segno di una costante elaborazione di idee in direzione delle relazioni più fantasiose tra fare industria e fare cultura. E di una ricerca di senso nelle tante pieghe di una “metamorfosi industriale” che sollecita continuamente nuovi strumenti per capire come cambiare paradigmi di produzione, di prodotto, di consumo. Il cambiamento dei tempi, per rispondere alla Grande Crisi che stiamo ancora vivendo e soffrendo, sollecita anche riflessioni spregiudicate sulle forme delle organizzazioni e sulle relazioni tra i loro protagonisti. La musica, e il jazz di cui oggi parliamo, possono essere di grande aiuto.

La riprova sta proprio nella discussione sul libro di Barrett animata in Bocconi dagli interventi di Salvemini, di un manager come il presidente di Aon Alfredo Scotti, di un uomo di finanza e di eccellente cultura musicale, Francesco Micheli, presidente di MiTo, di un musicologo come Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano e dei jazzisti Paolo Fresu, Cesare Picco, Bobo Ferra ed Enrico Intra.  Voci diverse. Punti di vista originali. Dibattito stimolante sia per chi si occupa di impresa sia per chi costruisce musica.

Perché? Spiega Salvemini: “I nuovi modelli di gestione d’impresa hanno bisogno di fondarsi sull’esempio di contesti diversi, meno rigidi, di quelli del management tradizionale”. E proprio la lezione storica di Miles Davies, Louis Armstrong, Charlie Parker e, più recentemente, del grande Keith Jarrett dicono che il lavoro del solista di genio va accompagnato da solide sezioni ritmiche, dall’impegno di un’orchestra o comunque di un gruppo (un terzetto, un quartetto…) che accompagnano, anticipano, provocano, sostengono la tromba o il piano del solista: “Sostegno al leader – insiste Salvemini – come dovrebbe succedere in un’azienda in cui regna coesione e affiatamento”.

Le culture, per essere feconde, hanno infatti bisogno di confronti. Meglio ancora: di ibridazioni. Tra linguaggi, tecniche, comportamenti, stili di lavoro. Tra le parole del fare e quelle del raccontare. Tra le macchine, le persone, le produzioni, i prodotti. La musica, da tutti i punti di vista, ne può essere chiave di interpretazione e, perché no?, narrazione. In Pirelli si è fatta musica in fabbrica, di recente, portando un gruppo di ottoni e poi un’orchestra, negli stabilimenti di Settimo Torinese. E, poi ancora, un complesso d’archi, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, a suonare nell’Auditorium dell’Head Quarter Pirelli a Milano, prove per le tournée dei concerti aperte a tutti i dipendenti, per capire cosa vuol dire “fare un concerto”, “costruire un’esecuzione”. Se ne sono ricavate interessanti riflessioni. Sul lavoro. E il suo “suono”. Sulla musica. E la fatica della sua esecuzione, in cerca del massimo della qualità. Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una buona impresa, no?

Gestire un’azienda. E fare musica. Costruire comportamenti armonici. Mettere insieme persone. Accordare strumenti. E imparare a ricondurre a unità consonanze e, naturalmente, dissonanze. Ipotesi culturale affascinante. Su cui si fonda un libro utilissimo agli uomini e alle donne che si occupano di imprese: “Disordine armonico”, di Frank J. Barrett, pubblicato in Italia da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi, con una bella prefazione di Severino Salvemini. Il titolo inglese è ancora più esplicito: “Yes to the Mess: surprising leadeship lessons from jazz”. Perché Barrett gioca contemporaneamente con due identità: insegna Management ad Harvard e suona jazz al piano. E le sue riflessioni su muovono disinvoltamente sui tanti livelli che la migliore cultura d’impresa sa interpretare. L’organizzazione e l’improvvisazione. Il gioco di squadra e il virtuosismo creativo del solista. La ripetizione di un ritmo noto. E la fuga da quel ritmo per esplorare nuovi universi sonori. Ricerca e innovazione, insomma. Fondate su una robusta competenza di tecniche strumentali.

Sono temi ricorrenti, in questa rubrica (chi legge assiduamente ricorderà, forse, gli accostamenti arditi e ironici tra la musica di Eric Satie e la costruzione di un pneumatico). Segno di una costante elaborazione di idee in direzione delle relazioni più fantasiose tra fare industria e fare cultura. E di una ricerca di senso nelle tante pieghe di una “metamorfosi industriale” che sollecita continuamente nuovi strumenti per capire come cambiare paradigmi di produzione, di prodotto, di consumo. Il cambiamento dei tempi, per rispondere alla Grande Crisi che stiamo ancora vivendo e soffrendo, sollecita anche riflessioni spregiudicate sulle forme delle organizzazioni e sulle relazioni tra i loro protagonisti. La musica, e il jazz di cui oggi parliamo, possono essere di grande aiuto.

La riprova sta proprio nella discussione sul libro di Barrett animata in Bocconi dagli interventi di Salvemini, di un manager come il presidente di Aon Alfredo Scotti, di un uomo di finanza e di eccellente cultura musicale, Francesco Micheli, presidente di MiTo, di un musicologo come Filippo Del Corno, assessore alla Cultura del Comune di Milano e dei jazzisti Paolo Fresu, Cesare Picco, Bobo Ferra ed Enrico Intra.  Voci diverse. Punti di vista originali. Dibattito stimolante sia per chi si occupa di impresa sia per chi costruisce musica.

Perché? Spiega Salvemini: “I nuovi modelli di gestione d’impresa hanno bisogno di fondarsi sull’esempio di contesti diversi, meno rigidi, di quelli del management tradizionale”. E proprio la lezione storica di Miles Davies, Louis Armstrong, Charlie Parker e, più recentemente, del grande Keith Jarrett dicono che il lavoro del solista di genio va accompagnato da solide sezioni ritmiche, dall’impegno di un’orchestra o comunque di un gruppo (un terzetto, un quartetto…) che accompagnano, anticipano, provocano, sostengono la tromba o il piano del solista: “Sostegno al leader – insiste Salvemini – come dovrebbe succedere in un’azienda in cui regna coesione e affiatamento”.

Le culture, per essere feconde, hanno infatti bisogno di confronti. Meglio ancora: di ibridazioni. Tra linguaggi, tecniche, comportamenti, stili di lavoro. Tra le parole del fare e quelle del raccontare. Tra le macchine, le persone, le produzioni, i prodotti. La musica, da tutti i punti di vista, ne può essere chiave di interpretazione e, perché no?, narrazione. In Pirelli si è fatta musica in fabbrica, di recente, portando un gruppo di ottoni e poi un’orchestra, negli stabilimenti di Settimo Torinese. E, poi ancora, un complesso d’archi, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, a suonare nell’Auditorium dell’Head Quarter Pirelli a Milano, prove per le tournée dei concerti aperte a tutti i dipendenti, per capire cosa vuol dire “fare un concerto”, “costruire un’esecuzione”. Se ne sono ricavate interessanti riflessioni. Sul lavoro. E il suo “suono”. Sulla musica. E la fatica della sua esecuzione, in cerca del massimo della qualità. Produrre, comunque, bene. Trovare e realizzare nuove e inedite armonie. Una buona impresa, no?

Azienda-famiglia. È sempre meglio?

Le imprese familiari sono speciali. Sono vita per chi ci lavora e per l’imprenditore che le ha create. Tanto da essere gestite, entro certi limiti, con approcci particolari. E’ vero che nelle aziende familiari, cioè quelle create da una famiglia che ha speso in esse tutto e non solo dal punto di vista materiale, può esistere un clima diverso dalle altre. Ma conti e bilanci devono essere fatti secondo le stesse regole, il mercato, poi, obbedisce alle stesse schizofrenie, agli stessi stimoli sia che ad affrontarlo vi sia una società per azioni oppure una manifattura a socio unico, creata dal padre e tramandata al figlio.

Capire come si muovono quelle che potrebbero chiamarsi “famiglie d’impresa”, tuttavia, è importante. E’ quello che, da un particolare punto di vista, hanno fatto Lori B. Gervais e Roger G. Gervais in “Maximize What You Have Built. Overlooked issues in family businesses”, uno studio di poche pagine che, attraverso una serie di interviste ad imprenditori, dirigenti e consulenti di aziende familiari, individua l’approccio imprenditoriale particolare con il quale questo tipo di imprese viene condotto.

“I proprietari di imprese familiari – spiegano i due autori in un passaggio cruciale -, hanno un DNA diverso. Per loro, il business più che un modo di fornire mezzi di sussistenza, è l’amore della loro vita e il grande piano per sostenere i loro sogni”. Sogni, dunque, ma anche bilanci, come è ovvio, e anche altro. Secondo l’analisi, infatti, in queste aziende c’è “un forte desiderio di creare opportunità per i membri della famiglia”.

E’ dall’intreccio fra problemi aziendali e questioni familiari, fra istanze produttive ed emozioni personali che prende forma questo particolare tipo di impresa. Ma la discrasia fra obiettivi “di famiglia” e obiettivi “d’impresa” talvolta arriva ad essere troppo ampia e insostenibile o comunque rischiosa. Senza parlare – come invece fa lo studio – degli aspetti legati al passaggio generazionale.

L’equilibrio aziendale, la stessa cultura d’impresa, sono allora messi in discussione, manifestano tutte le loro fragilità.

Capire perché e come, comprendere in che modo uscirne, è quanto cercano di fare Lori B. Gervais e Roger G. Gervais che arrivano a delineare la situazione di molte imprese familiari con un’efficace immagine: “Forse si traccia una linea nella sabbia che non si vuole attraversare”.

Maximize What You Have Built. Overlooked issues in family businesses

Lori B. Gervais, Roger G. Gervais

The Gervais Group, Robert W. Baird & Co.

Aprile, 2013

Le imprese familiari sono speciali. Sono vita per chi ci lavora e per l’imprenditore che le ha create. Tanto da essere gestite, entro certi limiti, con approcci particolari. E’ vero che nelle aziende familiari, cioè quelle create da una famiglia che ha speso in esse tutto e non solo dal punto di vista materiale, può esistere un clima diverso dalle altre. Ma conti e bilanci devono essere fatti secondo le stesse regole, il mercato, poi, obbedisce alle stesse schizofrenie, agli stessi stimoli sia che ad affrontarlo vi sia una società per azioni oppure una manifattura a socio unico, creata dal padre e tramandata al figlio.

Capire come si muovono quelle che potrebbero chiamarsi “famiglie d’impresa”, tuttavia, è importante. E’ quello che, da un particolare punto di vista, hanno fatto Lori B. Gervais e Roger G. Gervais in “Maximize What You Have Built. Overlooked issues in family businesses”, uno studio di poche pagine che, attraverso una serie di interviste ad imprenditori, dirigenti e consulenti di aziende familiari, individua l’approccio imprenditoriale particolare con il quale questo tipo di imprese viene condotto.

“I proprietari di imprese familiari – spiegano i due autori in un passaggio cruciale -, hanno un DNA diverso. Per loro, il business più che un modo di fornire mezzi di sussistenza, è l’amore della loro vita e il grande piano per sostenere i loro sogni”. Sogni, dunque, ma anche bilanci, come è ovvio, e anche altro. Secondo l’analisi, infatti, in queste aziende c’è “un forte desiderio di creare opportunità per i membri della famiglia”.

E’ dall’intreccio fra problemi aziendali e questioni familiari, fra istanze produttive ed emozioni personali che prende forma questo particolare tipo di impresa. Ma la discrasia fra obiettivi “di famiglia” e obiettivi “d’impresa” talvolta arriva ad essere troppo ampia e insostenibile o comunque rischiosa. Senza parlare – come invece fa lo studio – degli aspetti legati al passaggio generazionale.

L’equilibrio aziendale, la stessa cultura d’impresa, sono allora messi in discussione, manifestano tutte le loro fragilità.

Capire perché e come, comprendere in che modo uscirne, è quanto cercano di fare Lori B. Gervais e Roger G. Gervais che arrivano a delineare la situazione di molte imprese familiari con un’efficace immagine: “Forse si traccia una linea nella sabbia che non si vuole attraversare”.

Maximize What You Have Built. Overlooked issues in family businesses

Lori B. Gervais, Roger G. Gervais

The Gervais Group, Robert W. Baird & Co.

Aprile, 2013

Storie di vita, storie d’impresa

Ogni impresa è una storia che va raccontata, un insieme di vite vissute che devono essere conosciute. In ogni caso. E soprattutto quando si tratta di imprese innovative, che hanno scommesso su loro stesse, che hanno costruito i loro bilanci sul futuro, la loro cultura sulle persone e sulla tecnologia. L’Italia è zeppa di realtà di questo genere. Basta andarle a scoprire come hanno fatto 12 scrittori con 12 imprese del torinese: una delle aree a più alta intensità industriale del Paese e anche una di quelle su cui la crisi a battuto più duramente. L’esplorazione è stata sostenuta dalla Camera di commercio di Torino, dalla Fondazione Human+, dal Politecnico e dall’API l’associazione che raccoglie le piccole imprese. Il risultato è stato un libro, poco meno di 200 pagine di vita d’impresa.

Imprese d’autore” – questo il titolo del volume edito da La Stampa – raccoglie appunto dodici racconti d’impresa, storie di scrittori che scoprono storie di imprenditori, di ciò che hanno fatto in anni di lavoro. Non da soli, ma con altri – operai, tecnici, mogli, figli e figlie, amici – che hanno condiviso un’idea innovativa (tecnicamente e aridamente un progetto), e per la realizzazione di questa si sono spesi fino in fondo, fino a realizzarla. Costruendo una cultura d’impresa declinata come in una rappresentazione teatrale in, appunto, 12 atti – simili a migliaia di altri che caratterizzano  l’Italia produttiva – intervallati da altrettanti approfondimenti tecnici.

In fila, le penne di Stefania Bertola, Younis Tawfik, Enrico Pandiani, Carlo Grande, Giuseppe Culicchia, Alessandro Barbero, Margherita Oggero, Enrico Remmert, Luca Ragagnin, Anna Berra, Alessandro Perissinotto e Bruno Gambarotta che raccontano le peripezie di medie e piccole imprese come Amet, Blue Engineering, Corona, Criotec Impianti, Delgrosso, Ergotech, Inkmaker, Lma, Plm Systems, Poker, Sea Marconi, Sinterloy. Tutte aziende pressoché sconosciute al grande pubblico, ma che hanno dentro qualcosa di innovativo, di vincente. Esempi raccontati con emozione e coinvolgimento, che indicano quella via italiana al benessere che non è ancora stata abbandonata.

Imprese d’autore

AA.VV.

La Stampa, 2013.

Ogni impresa è una storia che va raccontata, un insieme di vite vissute che devono essere conosciute. In ogni caso. E soprattutto quando si tratta di imprese innovative, che hanno scommesso su loro stesse, che hanno costruito i loro bilanci sul futuro, la loro cultura sulle persone e sulla tecnologia. L’Italia è zeppa di realtà di questo genere. Basta andarle a scoprire come hanno fatto 12 scrittori con 12 imprese del torinese: una delle aree a più alta intensità industriale del Paese e anche una di quelle su cui la crisi a battuto più duramente. L’esplorazione è stata sostenuta dalla Camera di commercio di Torino, dalla Fondazione Human+, dal Politecnico e dall’API l’associazione che raccoglie le piccole imprese. Il risultato è stato un libro, poco meno di 200 pagine di vita d’impresa.

Imprese d’autore” – questo il titolo del volume edito da La Stampa – raccoglie appunto dodici racconti d’impresa, storie di scrittori che scoprono storie di imprenditori, di ciò che hanno fatto in anni di lavoro. Non da soli, ma con altri – operai, tecnici, mogli, figli e figlie, amici – che hanno condiviso un’idea innovativa (tecnicamente e aridamente un progetto), e per la realizzazione di questa si sono spesi fino in fondo, fino a realizzarla. Costruendo una cultura d’impresa declinata come in una rappresentazione teatrale in, appunto, 12 atti – simili a migliaia di altri che caratterizzano  l’Italia produttiva – intervallati da altrettanti approfondimenti tecnici.

In fila, le penne di Stefania Bertola, Younis Tawfik, Enrico Pandiani, Carlo Grande, Giuseppe Culicchia, Alessandro Barbero, Margherita Oggero, Enrico Remmert, Luca Ragagnin, Anna Berra, Alessandro Perissinotto e Bruno Gambarotta che raccontano le peripezie di medie e piccole imprese come Amet, Blue Engineering, Corona, Criotec Impianti, Delgrosso, Ergotech, Inkmaker, Lma, Plm Systems, Poker, Sea Marconi, Sinterloy. Tutte aziende pressoché sconosciute al grande pubblico, ma che hanno dentro qualcosa di innovativo, di vincente. Esempi raccontati con emozione e coinvolgimento, che indicano quella via italiana al benessere che non è ancora stata abbandonata.

Imprese d’autore

AA.VV.

La Stampa, 2013.

A scuola con i grandi grafici di Pirelli, tra pulcini e cuffie da bagno

Un tenero topolino si nasconde sotto la boule dell’acqua calda Pirelli al posto del pulcino di Boccasile, i pesci di Ezio Bonini ora nuotano insieme a un paio di pinne e finalmente viene scoperto il corpo della ragazza che indossa la cuffia di Alberto Bianchi… e se le vecchie pubblicità di Pirelli subissero delle improvvise trasformazioni?

Ci hanno provato i ragazzi del V anno del Liceo Artistico Umberto Boccioni di Milano rivisitando e reinventando i bozzetti dei grandi artisti che hanno reso famosa la comunicazione visiva di Pirelli.

Alla base delle loro rielaborazioni originali e punti di vista insoliti sono state le ispirazioni e suggestioni raccolte durante la loro recente visita alla Fondazione Pirelli: per loro infatti un’approfondita lezione sulla storia della grafica Pirelli e la possibilità di ammirare dal vivo la bellezza delle opere conservate.

Questi bellissimi lavori sono in mostra presso gli spazi del liceo. Per maggiori informazioni visitate il sito www.liceoartisticoboccioni.it

Intanto complimenti a tutti!

Un tenero topolino si nasconde sotto la boule dell’acqua calda Pirelli al posto del pulcino di Boccasile, i pesci di Ezio Bonini ora nuotano insieme a un paio di pinne e finalmente viene scoperto il corpo della ragazza che indossa la cuffia di Alberto Bianchi… e se le vecchie pubblicità di Pirelli subissero delle improvvise trasformazioni?

Ci hanno provato i ragazzi del V anno del Liceo Artistico Umberto Boccioni di Milano rivisitando e reinventando i bozzetti dei grandi artisti che hanno reso famosa la comunicazione visiva di Pirelli.

Alla base delle loro rielaborazioni originali e punti di vista insoliti sono state le ispirazioni e suggestioni raccolte durante la loro recente visita alla Fondazione Pirelli: per loro infatti un’approfondita lezione sulla storia della grafica Pirelli e la possibilità di ammirare dal vivo la bellezza delle opere conservate.

Questi bellissimi lavori sono in mostra presso gli spazi del liceo. Per maggiori informazioni visitate il sito www.liceoartisticoboccioni.it

Intanto complimenti a tutti!

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?