Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Investire sulla scienza per migliorare scuola e imprese: la Fondazione Leonardo punta sulla cultura politecnica

Investire sulla scienza. Insegnare la scienza. Tenere in gran conto il metodo scientifico per l’economia, l’ambiente, la salute, l’alimentazione e tutte le altre difficili, ambiziose e controverse sfide dei nostri tempi inquieti. E dunque lavorare con impegno per sanare la frattura che, durante il corso del Novecento, ha separato “le due culture”, cioè i saperi umanistici dalle conoscenze scientifiche, e ha quindi rallentato il progresso e la crescita economica dell’Italia. Pensare, insomma, a come rafforzare proprio quella “cultura politecnica” che nella stagione luminosa dell’Umanesimo e del Rinascimento aveva profondamente caratterizzato “l’identità italiana” e dato, alla civiltà del mondo, l’esempio di personalità che erano, insieme, artisti e scienziati (Leonardo da Vinci, Piero della Francesca e Leon Battista Alberti sono solo i principali dei tanti nomi che potremmo fare).
Sono queste le considerazioni essenziali che vengono in mente leggendo i documenti del nuovo corso della Fondazione Leonardo, presieduta da Luciano Floridi (dopo la lunga stagione di presidenza di Luciano Violante). Floridi è filosofo, attento ai temi dell’epistemologia e dell’etica del mondo dell’Information Technology, ha insegnato a Oxford e dirige il Digital Ethic Center della Yale University negli Usa. E adesso ha potenziato i suoi impegni anche in Italia, per sostenere una serie di programmi didattici e di ricerca sulla scienza nelle scuole e nelle università italiane. La Fondazione Leonardo ne è uno strumento, anche in collaborazione con i progetti della Fondazione Treccani.
“A scuola di Stem” è il cardine del progetto (una sigla oramai nota, dalle iniziali di Science, Technology, Engineering e Mathematics), presentato nei giorni scorsi, nella Sala della Lupa di Montecitorio, da Floridi, da Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo e da Helga Cossu, direttore generale della Fondazione Leonardo. La mission della Fondazione, appunto, è “contribuire al rinnovamento della didattica nelle scuole” per “agevolare la comprensione della complessità sociale attraverso le materie Stem”, elaborare efficaci strategie di comunicazione verso le nuove generazioni grazie a una originale piattaforma del Progetto Outreach, ridurre il gap generazionale rispetto ai temi scientifici e “sviluppare progetti di ricerca scientifica con corsi, borse di studio, scambi internazionali, eventi e mostre”.
Un progetto ambizioso, naturalmente. Ma fondamentale. Insistendo proprio sulle sintesi tra discipline diverse, conoscenze, correlazioni tra informazioni, rafforzamento e rilancio della ricerca.
Le evoluzioni del mondo digitale e gli strumenti messi a disposizione dalla diffusione dell’AI (Artificial Intelligence) aiutano, pure se pongono, sia agli studiosi che ai politici, agli operatori economici ed a tutta la società civile, nuove e drammatiche sfide, epistemologiche ma anche e soprattutto di valori e di senso.
D’altronde, proprio le grandi questioni legate alle evoluzioni scientifiche portano da tempo ai nodi morali delle scelte (lo testimonia una delle più belle pagine della letteratura teatrale del Novecento”, il dramma “Copenhagen” di Michael Frayn, centrato sul difficile dialogo tra due grandi fisici, Niels Bohr e Werner Heisenberg, sulle responsabilità etiche degli scienziati di fronte agli sviluppi dell’energia atomica come strumento di guerra).
Cingolani, scienziato e uomo d’impresa, sa bene quanto intensa sia l’attualità umanistica della conoscenza scientifica. E ha chiaro come la “maggiore democrazia nei processi della conoscenza” favorita dal mondo digitale apra contemporaneamente questioni, sociali e politiche, sulla maggiore “complessità rispetto all’attendibilità delle informazioni” (si smarrisce il rapporto con le fonti e si complicano i processi di verifica della veridicità di dati e fatti, degradati spesso a “fattoidi”).
La presenza di Floridi va proprio in questa direzione: da sapiente filosofo, conosce le sfide etiche e sociali che i rapidi, tumultuosi processi di evoluzione scientifica e tecnologica pongono all’intera umanità. Sfide di comprensione. Di giudizio. Di governabilità e non solo di normazione e regolazione (come si limita a fare la Ue, tecnologicamente secondaria rispetto alla grande forza dei giganti high tech negli Usa e in Cina, ma anche in India). Di sintesi, insomma, per usare espressioni care a Floridi, tra nomos, il sistema delle regole, e paideia, la formazione umana in senso ampio.
Andare, dunque, “a scuola di Stem”. E probabilmente trovare anche relazioni virtuose con le iniziative che insistono sulla diffusione tecnologica e sulla cultura d’impresa, sui rapporti tra scienza, applicazioni tecnologiche e competitività economica. Come, per esempio, “A scuola d’impresa”, le attività didattiche promosse da Museimpresa e curate dalle aziende iscritte all’associazione che riunisce musei e archivi storici del mondo produttivo.
Forse, però, c’è un passaggio in più da fare. Non soltanto colmare il deficit di cultura scientifica e favorirne l’accesso soprattutto alle ragazze, che la falsa dicotomia umanesimo-scienza ha a lungo tagliato fuori dalle materie matematiche, fisiche e ingegneristiche. Ma soprattutto lavorare su una nuova e migliore sintesi. La “cultura politecnica”, appunto.
Qualche anno fa, l’Assolombarda (su input dell’allora presidente Gianfelice Rocca) aveva lanciato un nuovo acronimo, arricchendo la sigla Stem in Steam, aggiungendo cioè la “a” di arts: la letteratura e la filosofia, la storia e la conoscenza dei processi di creatività artistica, dal teatro alla musica, dalla scultura alla pittura e alle tante altre espressioni della rappresentazione del bello. Una strada su cui riflettere, da seguire. Una strada, peraltro, già nota alla migliore cultura d’impresa del Made in Italy, legata alle sinergie tra bellezza e qualità, innovazione e senso della storia, radici delle culture materiali dei territori e sguardo internazionale: le ragioni di fondo della migliore competitività economica del sistema Paese.
È una consapevolezza già nutrita da tempo dalle università più sensibili all’innovazione e alle dimensioni multidisciplinari, indispensabili per fare fronte alle questioni poste dalle evoluzioni dell’ “economia della conoscenza”. Nei due Politecnici di Milano e di Torino, infatti, si studia filosofia. E proprio l’evoluzione delle strutture e delle funzioni degli algoritmi dell’AI creativa sollecita una crescente integrazione delle conoscenze e delle competenze di cyberscienziati e filosofi, fisici e sociologhi, statistici ed economisti, giuristi e letterati.
Stem che diventa Steam, dunque. “Due culture” che tornano a essere una, nelle sue variabili e complesse articolazioni. Diversità in cerca di sintesi e da vivere come punti di forza. E valore economico da costruire lungo la strada dei valori morali e civili. Seguendo la lezione della “notte chiara” della scienza di un altro straordinario umanista italiano: Galileo Galilei.

(Foto Getty Images)

Investire sulla scienza. Insegnare la scienza. Tenere in gran conto il metodo scientifico per l’economia, l’ambiente, la salute, l’alimentazione e tutte le altre difficili, ambiziose e controverse sfide dei nostri tempi inquieti. E dunque lavorare con impegno per sanare la frattura che, durante il corso del Novecento, ha separato “le due culture”, cioè i saperi umanistici dalle conoscenze scientifiche, e ha quindi rallentato il progresso e la crescita economica dell’Italia. Pensare, insomma, a come rafforzare proprio quella “cultura politecnica” che nella stagione luminosa dell’Umanesimo e del Rinascimento aveva profondamente caratterizzato “l’identità italiana” e dato, alla civiltà del mondo, l’esempio di personalità che erano, insieme, artisti e scienziati (Leonardo da Vinci, Piero della Francesca e Leon Battista Alberti sono solo i principali dei tanti nomi che potremmo fare).
Sono queste le considerazioni essenziali che vengono in mente leggendo i documenti del nuovo corso della Fondazione Leonardo, presieduta da Luciano Floridi (dopo la lunga stagione di presidenza di Luciano Violante). Floridi è filosofo, attento ai temi dell’epistemologia e dell’etica del mondo dell’Information Technology, ha insegnato a Oxford e dirige il Digital Ethic Center della Yale University negli Usa. E adesso ha potenziato i suoi impegni anche in Italia, per sostenere una serie di programmi didattici e di ricerca sulla scienza nelle scuole e nelle università italiane. La Fondazione Leonardo ne è uno strumento, anche in collaborazione con i progetti della Fondazione Treccani.
“A scuola di Stem” è il cardine del progetto (una sigla oramai nota, dalle iniziali di Science, Technology, Engineering e Mathematics), presentato nei giorni scorsi, nella Sala della Lupa di Montecitorio, da Floridi, da Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo e da Helga Cossu, direttore generale della Fondazione Leonardo. La mission della Fondazione, appunto, è “contribuire al rinnovamento della didattica nelle scuole” per “agevolare la comprensione della complessità sociale attraverso le materie Stem”, elaborare efficaci strategie di comunicazione verso le nuove generazioni grazie a una originale piattaforma del Progetto Outreach, ridurre il gap generazionale rispetto ai temi scientifici e “sviluppare progetti di ricerca scientifica con corsi, borse di studio, scambi internazionali, eventi e mostre”.
Un progetto ambizioso, naturalmente. Ma fondamentale. Insistendo proprio sulle sintesi tra discipline diverse, conoscenze, correlazioni tra informazioni, rafforzamento e rilancio della ricerca.
Le evoluzioni del mondo digitale e gli strumenti messi a disposizione dalla diffusione dell’AI (Artificial Intelligence) aiutano, pure se pongono, sia agli studiosi che ai politici, agli operatori economici ed a tutta la società civile, nuove e drammatiche sfide, epistemologiche ma anche e soprattutto di valori e di senso.
D’altronde, proprio le grandi questioni legate alle evoluzioni scientifiche portano da tempo ai nodi morali delle scelte (lo testimonia una delle più belle pagine della letteratura teatrale del Novecento”, il dramma “Copenhagen” di Michael Frayn, centrato sul difficile dialogo tra due grandi fisici, Niels Bohr e Werner Heisenberg, sulle responsabilità etiche degli scienziati di fronte agli sviluppi dell’energia atomica come strumento di guerra).
Cingolani, scienziato e uomo d’impresa, sa bene quanto intensa sia l’attualità umanistica della conoscenza scientifica. E ha chiaro come la “maggiore democrazia nei processi della conoscenza” favorita dal mondo digitale apra contemporaneamente questioni, sociali e politiche, sulla maggiore “complessità rispetto all’attendibilità delle informazioni” (si smarrisce il rapporto con le fonti e si complicano i processi di verifica della veridicità di dati e fatti, degradati spesso a “fattoidi”).
La presenza di Floridi va proprio in questa direzione: da sapiente filosofo, conosce le sfide etiche e sociali che i rapidi, tumultuosi processi di evoluzione scientifica e tecnologica pongono all’intera umanità. Sfide di comprensione. Di giudizio. Di governabilità e non solo di normazione e regolazione (come si limita a fare la Ue, tecnologicamente secondaria rispetto alla grande forza dei giganti high tech negli Usa e in Cina, ma anche in India). Di sintesi, insomma, per usare espressioni care a Floridi, tra nomos, il sistema delle regole, e paideia, la formazione umana in senso ampio.
Andare, dunque, “a scuola di Stem”. E probabilmente trovare anche relazioni virtuose con le iniziative che insistono sulla diffusione tecnologica e sulla cultura d’impresa, sui rapporti tra scienza, applicazioni tecnologiche e competitività economica. Come, per esempio, “A scuola d’impresa”, le attività didattiche promosse da Museimpresa e curate dalle aziende iscritte all’associazione che riunisce musei e archivi storici del mondo produttivo.
Forse, però, c’è un passaggio in più da fare. Non soltanto colmare il deficit di cultura scientifica e favorirne l’accesso soprattutto alle ragazze, che la falsa dicotomia umanesimo-scienza ha a lungo tagliato fuori dalle materie matematiche, fisiche e ingegneristiche. Ma soprattutto lavorare su una nuova e migliore sintesi. La “cultura politecnica”, appunto.
Qualche anno fa, l’Assolombarda (su input dell’allora presidente Gianfelice Rocca) aveva lanciato un nuovo acronimo, arricchendo la sigla Stem in Steam, aggiungendo cioè la “a” di arts: la letteratura e la filosofia, la storia e la conoscenza dei processi di creatività artistica, dal teatro alla musica, dalla scultura alla pittura e alle tante altre espressioni della rappresentazione del bello. Una strada su cui riflettere, da seguire. Una strada, peraltro, già nota alla migliore cultura d’impresa del Made in Italy, legata alle sinergie tra bellezza e qualità, innovazione e senso della storia, radici delle culture materiali dei territori e sguardo internazionale: le ragioni di fondo della migliore competitività economica del sistema Paese.
È una consapevolezza già nutrita da tempo dalle università più sensibili all’innovazione e alle dimensioni multidisciplinari, indispensabili per fare fronte alle questioni poste dalle evoluzioni dell’ “economia della conoscenza”. Nei due Politecnici di Milano e di Torino, infatti, si studia filosofia. E proprio l’evoluzione delle strutture e delle funzioni degli algoritmi dell’AI creativa sollecita una crescente integrazione delle conoscenze e delle competenze di cyberscienziati e filosofi, fisici e sociologhi, statistici ed economisti, giuristi e letterati.
Stem che diventa Steam, dunque. “Due culture” che tornano a essere una, nelle sue variabili e complesse articolazioni. Diversità in cerca di sintesi e da vivere come punti di forza. E valore economico da costruire lungo la strada dei valori morali e civili. Seguendo la lezione della “notte chiara” della scienza di un altro straordinario umanista italiano: Galileo Galilei.

(Foto Getty Images)

Passione industriale

Un libro di testi e foto racconta la capacità industriale delle imprese torinesi tessili e della moda

Arte e tecnica. Ma anche colore e materiali. E tradizione che si fa innovazione. Istinto industriale creativo. E calcolo tecnologico che si fa unicità e segno d’ingegno. Fare industria è anche un po’ tutto questo. Fare industria tessile (e della moda) è soprattutto tutto questo. Una cultura dell’impresa creativa che ogni giorno deve rinnovarsi per continuare ad essere tale. È quanto racconta “L’arte dell’eccellenza a Torino”, libro appena pubblicato che ha un sottotitolo significativo: “La passione e le storie delle aziende della moda, dei tessili e degli accessori”.

Il libro fa parte delle iniziative di Torino Capitale della cultura d’impresa 2024, ed è stato pubblicato proprio sul finire dell’anno, quasi a chiudere dodici mesi importanti per raccontare quella capacità del produrre bene che ha tratteggiato tanta parte della storia delle imprese del Nord-Ovest altro dall’industria dell’auto (e che ancora oggi vive). Produrre bene e con gusto, si potrebbe dire. E’ questo il segno delle imprese che il libro denso di foto (di Michele D’Ottavio) racconta con dovizia di particolari; scatti accompagnati da testi puntuali (di Elena Delfino) che delineano per ogni azienda – del tessile, della moda e degli accessori – gli elementi essenziali per comprenderne l’avventura imprenditoriale. Tutto voluto dall’Associazione Moda, Tessile e Accessori dell’Unione Industriali Torino con un obiettivo: essere rappresentazione della capacità imprenditoriale del territorio attraverso un racconto per immagini.

Industrie, quindi, raccontate con fotografie e parole che ogni volta colgono un elemento essenziale e irriproducibile di ognuna di esse. Un viaggio all’interno delle sedi, nei laboratori, negli atelier, per dire della passione e dell’abilità delle maestranze impegnate nelle fasi progettuali e produttive di oggetti che molto spesso sono orgoglio dell’italianità industriale nel mondo. Con alcuni elementi ricorrenti: la creatività, la tecnologia moderna unita alla tradizione e, soprattutto, le persone. Così, sfogliando e leggendo le quasi 250 pagine a colori del libro, è proprio l’umanità al lavoro ciò che si coglie più di tutto. Quella umanità che fa davvero la differenza tra un’azienda e un’impresa. E che si coglie nelle mani – numerose riproposte in tantissimi scatti – negli sguardi, negli occhi e nelle attenzioni di chi nelle foto viene colto in momenti e atteggiamenti di lavoro. Perché la vera cultura d’impresa sta nelle persone e non solo nelle tecniche. Leggere “L’arte dell’eccellenza a Torino” serve proprio per capire ancora una volta tutto questo.

L’arte dell’eccellenza a Torino

Elena Delfino, Michele D’Ottavio

24Ore Cultura, 2024

Un libro di testi e foto racconta la capacità industriale delle imprese torinesi tessili e della moda

Arte e tecnica. Ma anche colore e materiali. E tradizione che si fa innovazione. Istinto industriale creativo. E calcolo tecnologico che si fa unicità e segno d’ingegno. Fare industria è anche un po’ tutto questo. Fare industria tessile (e della moda) è soprattutto tutto questo. Una cultura dell’impresa creativa che ogni giorno deve rinnovarsi per continuare ad essere tale. È quanto racconta “L’arte dell’eccellenza a Torino”, libro appena pubblicato che ha un sottotitolo significativo: “La passione e le storie delle aziende della moda, dei tessili e degli accessori”.

Il libro fa parte delle iniziative di Torino Capitale della cultura d’impresa 2024, ed è stato pubblicato proprio sul finire dell’anno, quasi a chiudere dodici mesi importanti per raccontare quella capacità del produrre bene che ha tratteggiato tanta parte della storia delle imprese del Nord-Ovest altro dall’industria dell’auto (e che ancora oggi vive). Produrre bene e con gusto, si potrebbe dire. E’ questo il segno delle imprese che il libro denso di foto (di Michele D’Ottavio) racconta con dovizia di particolari; scatti accompagnati da testi puntuali (di Elena Delfino) che delineano per ogni azienda – del tessile, della moda e degli accessori – gli elementi essenziali per comprenderne l’avventura imprenditoriale. Tutto voluto dall’Associazione Moda, Tessile e Accessori dell’Unione Industriali Torino con un obiettivo: essere rappresentazione della capacità imprenditoriale del territorio attraverso un racconto per immagini.

Industrie, quindi, raccontate con fotografie e parole che ogni volta colgono un elemento essenziale e irriproducibile di ognuna di esse. Un viaggio all’interno delle sedi, nei laboratori, negli atelier, per dire della passione e dell’abilità delle maestranze impegnate nelle fasi progettuali e produttive di oggetti che molto spesso sono orgoglio dell’italianità industriale nel mondo. Con alcuni elementi ricorrenti: la creatività, la tecnologia moderna unita alla tradizione e, soprattutto, le persone. Così, sfogliando e leggendo le quasi 250 pagine a colori del libro, è proprio l’umanità al lavoro ciò che si coglie più di tutto. Quella umanità che fa davvero la differenza tra un’azienda e un’impresa. E che si coglie nelle mani – numerose riproposte in tantissimi scatti – negli sguardi, negli occhi e nelle attenzioni di chi nelle foto viene colto in momenti e atteggiamenti di lavoro. Perché la vera cultura d’impresa sta nelle persone e non solo nelle tecniche. Leggere “L’arte dell’eccellenza a Torino” serve proprio per capire ancora una volta tutto questo.

L’arte dell’eccellenza a Torino

Elena Delfino, Michele D’Ottavio

24Ore Cultura, 2024

La cultura d’impresa olivettiana

Un saggio ripercorre l’esperienza di Ivrea guardando ai “nativi digitali”

 

Olivetti oltre Olivetti. E cioè il messaggio e l’eredità lasciati da Adriano Olivetti che, oggi, vengono rilanciati dagli strumenti digitali e dal web. Un modo inconsueto di guardare a quella particolare espressione della cultura d’impresa costituita dall’azienda di Ivrea e dal modo con il quale è stata gestita da Adriano Olivetti nel corso della sua vita di uomo e di imprenditore.

“La cultura olivettiana negli anni della grande digitalizzazione”, saggio di Galileo Dallolio contenuto nel libro “Olivetti: una complessità virtuosa” a cura di Lorenzo Capineri, cerca di mettere in fila i tratti più significativi dei testi e degli interventi dell’industriale che possono essere ritrovati nel web. Un modo per costruire una sorta di “scaletta-promemoria” utile per favorire un dialogo con i “nativi digitali”. Ritrovare, in altri termini, Olivetti nel web per far conoscere esperienza e messaggio di Adriano ai giovani.

Nelle pagine della ricerca di Dallolio sono così alcuni dei passi più significativi del percorso olivettiano: gli inizi negli anni Trenta, il Movimento di Comunità tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, le numerose attività culturali che hanno fatto da cornice alla produzione di fabbrica.

L’autore individua quattro ipotesi per “ridurre” la complessità olivettiana ad qualcosa di accessibile per i giovani. Prima di tutto l’individuazione di “temi olivettiani” da analizzare approfondire attraverso il web, poi i focus su personalità e strutture olivettiane che possano funzionare da paradigmi significativi della cultura d’impresa presente ad Ivrea, successivamente l’esperienza di ricerca digitale di temi legati alla Olivetti (dalla pianificazione urbanistica alle tecnologie informatiche) e, infine, il ricorso a “liste” di argomenti che nel web possono essere reperiti sempre su Olivetti e le sue fabbriche (proprio sfruttando questa tecnica, l’indagine di Dallolio presenta una lista temporale che sintetizza bene i passi di tutta l’esperienza industriale eporediese).

L’indagine di Galileo Dallolio è davvero un modo diverso dal solito di riproporre i capisaldi del modo di fare impresa di Adriano Olivetti.

La cultura olivettiana negli anni della grande digitalizzazione

Galileo Dallolio

In Lorenzo Capineri (edited by), “Olivetti: una complessità virtuosa”,

  1. 43-79, Firenze University Press, 2024.

 

Un saggio ripercorre l’esperienza di Ivrea guardando ai “nativi digitali”

 

Olivetti oltre Olivetti. E cioè il messaggio e l’eredità lasciati da Adriano Olivetti che, oggi, vengono rilanciati dagli strumenti digitali e dal web. Un modo inconsueto di guardare a quella particolare espressione della cultura d’impresa costituita dall’azienda di Ivrea e dal modo con il quale è stata gestita da Adriano Olivetti nel corso della sua vita di uomo e di imprenditore.

“La cultura olivettiana negli anni della grande digitalizzazione”, saggio di Galileo Dallolio contenuto nel libro “Olivetti: una complessità virtuosa” a cura di Lorenzo Capineri, cerca di mettere in fila i tratti più significativi dei testi e degli interventi dell’industriale che possono essere ritrovati nel web. Un modo per costruire una sorta di “scaletta-promemoria” utile per favorire un dialogo con i “nativi digitali”. Ritrovare, in altri termini, Olivetti nel web per far conoscere esperienza e messaggio di Adriano ai giovani.

Nelle pagine della ricerca di Dallolio sono così alcuni dei passi più significativi del percorso olivettiano: gli inizi negli anni Trenta, il Movimento di Comunità tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta, le numerose attività culturali che hanno fatto da cornice alla produzione di fabbrica.

L’autore individua quattro ipotesi per “ridurre” la complessità olivettiana ad qualcosa di accessibile per i giovani. Prima di tutto l’individuazione di “temi olivettiani” da analizzare approfondire attraverso il web, poi i focus su personalità e strutture olivettiane che possano funzionare da paradigmi significativi della cultura d’impresa presente ad Ivrea, successivamente l’esperienza di ricerca digitale di temi legati alla Olivetti (dalla pianificazione urbanistica alle tecnologie informatiche) e, infine, il ricorso a “liste” di argomenti che nel web possono essere reperiti sempre su Olivetti e le sue fabbriche (proprio sfruttando questa tecnica, l’indagine di Dallolio presenta una lista temporale che sintetizza bene i passi di tutta l’esperienza industriale eporediese).

L’indagine di Galileo Dallolio è davvero un modo diverso dal solito di riproporre i capisaldi del modo di fare impresa di Adriano Olivetti.

La cultura olivettiana negli anni della grande digitalizzazione

Galileo Dallolio

In Lorenzo Capineri (edited by), “Olivetti: una complessità virtuosa”,

  1. 43-79, Firenze University Press, 2024.

 

Nuove tecnologie per raccontare meglio la storia delle imprese

Le tecniche digitali aiutano i musei aziendali

 

Raccontarsi. Ed essere capaci di raccontarsi. Sfide di non poco conto per tutti. Anche – e spesso soprattutto – per chi, persone e organizzazioni, per lungo tempo non si è cimentato nel compito di spiegare chi è e cos’ha fatto. Sfida difficile pure le imprese, che tuttavia possono avvalersi anche di strumenti particolari come quelli del design e della digitalizzazione. Ed è attorno a questi che ragiona Francesca Morelli (Università di Firenze) con la sua ricerca “Il ruolo del Design per la valorizzazione dei Musei d’Impresa nell’era digitale” apparsa pochi giorni fa in ZoneModa Journal.

Morelli parte da una costatazione: in linea con le ultime tendenze, il sistema museale sta integrando sempre più strumenti digitali per migliorare l’esperienza del visitatore, rendendola più coinvolgente e interattiva. E’ cioè attraverso la digitalizzazione che il museo riesce a rivitalizzarsi, attirare un pubblico più ampio e diverso e rendere il patrimonio che custodisce più accessibile. Possibilità, queste, che soprattutto le imprese possono sfruttare bene.

Francesca Morelli si concentra quindi sul Corporate Fashion Museum dedicato agli ambienti di “marchi ereditari”, cercando di identificare le soluzioni digitali, le identità e le strategie impiegate dai musei aziendali per evidenziare le loro caratteristiche uniche, i valori e le storie. La ricerca, dopo una fotografia generale delle tecniche e della situazione, approfondisce così l’uso di queste tecnologie da parte dei musei d’impresa nel settore della moda, guardando non solo alle tecniche utilizzate ma anche alla loro evoluzione. L’analisi teorica trova poi un esempio importante nello studio delle realtà del Distretto Fiorentino con Salvatore Ferragamo, Emilio Pucci, Gucci. Nella parte finale del lavoro di Morelli, vengono poi individuate delle “buone pratiche” da applicare nei musei aziendali (della moda ma non solo).

Il ruolo del Design per la valorizzazione dei Musei d’Impresa nell’era digitale

Francesca Morelli (Università di Firenze)

ZoneModa Journal. Vol.14 n.2 (2024)

 

 

Le tecniche digitali aiutano i musei aziendali

 

Raccontarsi. Ed essere capaci di raccontarsi. Sfide di non poco conto per tutti. Anche – e spesso soprattutto – per chi, persone e organizzazioni, per lungo tempo non si è cimentato nel compito di spiegare chi è e cos’ha fatto. Sfida difficile pure le imprese, che tuttavia possono avvalersi anche di strumenti particolari come quelli del design e della digitalizzazione. Ed è attorno a questi che ragiona Francesca Morelli (Università di Firenze) con la sua ricerca “Il ruolo del Design per la valorizzazione dei Musei d’Impresa nell’era digitale” apparsa pochi giorni fa in ZoneModa Journal.

Morelli parte da una costatazione: in linea con le ultime tendenze, il sistema museale sta integrando sempre più strumenti digitali per migliorare l’esperienza del visitatore, rendendola più coinvolgente e interattiva. E’ cioè attraverso la digitalizzazione che il museo riesce a rivitalizzarsi, attirare un pubblico più ampio e diverso e rendere il patrimonio che custodisce più accessibile. Possibilità, queste, che soprattutto le imprese possono sfruttare bene.

Francesca Morelli si concentra quindi sul Corporate Fashion Museum dedicato agli ambienti di “marchi ereditari”, cercando di identificare le soluzioni digitali, le identità e le strategie impiegate dai musei aziendali per evidenziare le loro caratteristiche uniche, i valori e le storie. La ricerca, dopo una fotografia generale delle tecniche e della situazione, approfondisce così l’uso di queste tecnologie da parte dei musei d’impresa nel settore della moda, guardando non solo alle tecniche utilizzate ma anche alla loro evoluzione. L’analisi teorica trova poi un esempio importante nello studio delle realtà del Distretto Fiorentino con Salvatore Ferragamo, Emilio Pucci, Gucci. Nella parte finale del lavoro di Morelli, vengono poi individuate delle “buone pratiche” da applicare nei musei aziendali (della moda ma non solo).

Il ruolo del Design per la valorizzazione dei Musei d’Impresa nell’era digitale

Francesca Morelli (Università di Firenze)

ZoneModa Journal. Vol.14 n.2 (2024)

 

 

Capire l’economia per decidere meglio

Pubblicato un “manuale” che conduce chi legge nei meccanismi dei mercati e della produzione

Capire e poi agire in modo avveduto. Insegnamento che vale sempre, per tutti. Anche, naturalmente, per chi si trova a governare un’impresa oppure un’organizzazione. E’ in altri termini sempre valida l’indicazione di Luigi Einaudi – “conoscere per deliberare” – che, invece, spesso pare dimenticata. Ed è quindi necessario dotarsi di strumento adeguato per comprendere non solo dove si è ma, anche, le conseguenze delle proprie azioni. Leggere “Il primo libro di economia” scritto da Tony Cleaver (economista che per lungo tempo ha insegnato nelle università anglosassoni e adesso sudamericane), e adesso pubblicato in Italia, fa bene a chi voglia davvero comprendere non solo i principi di economia ma anche l’economia nella quale si sta muovendo.

Il libro affronta la parole chiave dell’economia e i grandi meccanismi con i quali si muove come il funzionamento dei diversi sistemi economici, i successi e i crolli delle economie di mercato, l’impatto dei mercati emergenti sull’economia mondiale, le interazioni di prezzo, domanda e offerta, il ruolo delle banche e dell’industria finanziaria, le condizioni che consentirebbero di superare le fasi di recessione e di ridurre la povertà, l’impatto dell’economia sull’ambiente. La materia, tuttavia, non è organizzata come in un manuale universitario di economia, ma per capitoli successivi che affrontano di volta in volta alcuni temi: i “sistemi economici”, l’economia “neoclassica” e il meccanismo dei prezzi e l’equilibrio di mercato, la “dinamica cambi dell’offerta”, la “macroeconomia”, il denaro, le banche e i mercati finanziari, il commercio internazionale. Cleaver arriva quindi ad affrontare il tema della povertà e della protezione ambientale.

Utili, alla fine di ogni capitolo, i riferimenti per ulteriori letture e, alla fine del libro, un glossario di termini fondamentali. Il libro scritto da Cleaver è una buona introduzione all’economia, soprattutto per chi deve “praticarla” ogni giorno.

Il primo libro di economia

Tony Cleaver

Einaudi, 2025

Pubblicato un “manuale” che conduce chi legge nei meccanismi dei mercati e della produzione

Capire e poi agire in modo avveduto. Insegnamento che vale sempre, per tutti. Anche, naturalmente, per chi si trova a governare un’impresa oppure un’organizzazione. E’ in altri termini sempre valida l’indicazione di Luigi Einaudi – “conoscere per deliberare” – che, invece, spesso pare dimenticata. Ed è quindi necessario dotarsi di strumento adeguato per comprendere non solo dove si è ma, anche, le conseguenze delle proprie azioni. Leggere “Il primo libro di economia” scritto da Tony Cleaver (economista che per lungo tempo ha insegnato nelle università anglosassoni e adesso sudamericane), e adesso pubblicato in Italia, fa bene a chi voglia davvero comprendere non solo i principi di economia ma anche l’economia nella quale si sta muovendo.

Il libro affronta la parole chiave dell’economia e i grandi meccanismi con i quali si muove come il funzionamento dei diversi sistemi economici, i successi e i crolli delle economie di mercato, l’impatto dei mercati emergenti sull’economia mondiale, le interazioni di prezzo, domanda e offerta, il ruolo delle banche e dell’industria finanziaria, le condizioni che consentirebbero di superare le fasi di recessione e di ridurre la povertà, l’impatto dell’economia sull’ambiente. La materia, tuttavia, non è organizzata come in un manuale universitario di economia, ma per capitoli successivi che affrontano di volta in volta alcuni temi: i “sistemi economici”, l’economia “neoclassica” e il meccanismo dei prezzi e l’equilibrio di mercato, la “dinamica cambi dell’offerta”, la “macroeconomia”, il denaro, le banche e i mercati finanziari, il commercio internazionale. Cleaver arriva quindi ad affrontare il tema della povertà e della protezione ambientale.

Utili, alla fine di ogni capitolo, i riferimenti per ulteriori letture e, alla fine del libro, un glossario di termini fondamentali. Il libro scritto da Cleaver è una buona introduzione all’economia, soprattutto per chi deve “praticarla” ogni giorno.

Il primo libro di economia

Tony Cleaver

Einaudi, 2025

Sostenibilità attenta all’impresa e al lavoro, ecco come evitare i rischi del declino industriale

L’industria italiana attraversa una stagione di difficoltà: la produzione industriale è in calo da quasi due anni (da 22 mesi, per l’esattezza), solo il 6% delle imprese vede miglioramenti per l’economia (indagine Bankitalia; “la Repubblica”, 15 gennaio) e anche Confindustria non nasconde rilevanti preoccupazioni, con il presidente dell’associazione Emanuele Orsini che sottolinea le conseguenze negative del caro energia (in Italia, i prezzi più alti d’Europa, insostenibili per l’industria) e dei rischi di aumento dei dazi (annunciati dal nuovo presidente Usa Donald Trump anche nei confronti della Ue) e chiede dunque al governo di Roma e alla Commissione di Bruxelles “un piano industriale” che abbia come priorità l’energia (a cominciare dal nucleare) e la ripresa degli investimenti produttivi (“Il Sole24Ore”, 26 gennaio).
Nuvole scure, insomma, nei cieli dell’economia, con la Germania, ex gigante produttivo e motore industriale per tutta l’Europa, ancora in difficoltà, soprattutto nel settore dell’auto, e con una crescita ridotta, per la Ue, all’1% nel ‘25 (a ottobre si parlava dell’1,2%). In Italia, si sta anche un po’ peggio: 0,6% nel ‘24 (il governo sperava fosse l’1%) e 0,7% nel ‘25.

“L’industria va male ma non preoccupa nessuno”, critica Ferruccio de Bortoli (“Corriere della Sera”, 18 gennaio), rilevando una scarsa attenzione di Palazzo Chigi per l’andamento scadente della produttività e per le ombre che si allungano anche sulle esportazioni, tradizionale punto di forza dell’Italia.
Il tema della crisi dell’industria è tutt’altro che marginale. E non ci si può certo consolare con i dati positivi, sul Pil e sull’occupazione, che vengono dai buoni risultati del turismo. Perché, al di là dei degli elementi negativi determinati da sempre più massicce e stravolgenti presenze turistiche (quelle che vanno sotto il nome sintetico di overtourism) soprattutto nelle città d’arte e negli luoghi ambientalmente più fragili, resta il fatto che il turismo è sì una componente essenziale del Pil e una fonte di redditi, di lavoro e di benessere diffuso, ma è anche soggetto a una certa volatilità dei flussi, genera lavoro in parte stagionale, precario e povero e comunque non incide sul peso politico e strategico di un Paese nel contesto internazionale.

Un paio di mesi fa, appunto, per stigmatizzare gli smottamenti verso il declino europeo, il “Financial Times” ha ammonito Bruxelles e le altre capitali sul rischio che l’Europa possa rapidamente diventare un Grand Hotel in cui i ricchi e potenti del mondo vengano a fare eleganti e comode vacanze.
Per evitare una simile tendenza, bisogna tornare alla centralità dell’industria, alle manifatture di qualità che stimolano innovazione e cambiamento e producono risorse nel lungo periodo, alle scelte produttive che toccano l’energia (e dunque anche la sicurezza) e i beni durevoli, al lavoro qualificato tra industria e ricerca, alle grandi opzioni strategiche produttive e competitive.

Costruire il futuro dell’industria e del nostro Paese”, annuncia lucidamente il ministro degli Esteri Antonio Tajani (“Il Sole24Ore”, 25 gennaio), insistendo sulla necessità di “rafforzare e difendere i pilasti italiani del manifatturiero e del made in Italy” e cioè “food, fashion, furniture, design e tecnologia” e dare priorità “ai settori industriali strategici per sicurezza, salute e sviluppo sociale, come farmaceutico, difesa/aerospazio e Information Technology”, parlando di scelte contro la crisi dell’automotive (l’industria dell’auto è caduta del 34% in due anni) e appellandosi alle responsabilità di Bruxelles: “Fermare il declino economico è una sfida europea”.
Come? Guardando, più in dettaglio, dati e fatti e cercando, nel quadro generale della crisi, quegli elementi su cui fare leva per avviare azioni e impegni per la ripresa. Tenendo conto del parere di autorevoli economisti e delle conclusioni dell’ultimo Rapporto Symbola sui primati positivi dell’Italia racchiusi “in dieci selfie”.
Vediamo meglio, dunque. “Il made in Italy è un patrimonio industriale da tutelare e su cui investire”, sostiene Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, economista tra i più attenti e documentati sulle condizioni dell’industria italiana (“Il Sole24Ore”, 16 gennaio). L’Italia resta saldamente al quarto posto, nella classifica degli esportatori mondiali, dopo Cina, Usa e Germania e prima di Francia, Giappone e Corea del Sud, al netto del peso degli autoveicoli (che rappresentano appena l’8% dell’export mondiale). Il che significa che nei settori manifatturieri principali l’industria italiana continua a reggere la competizione, soprattutto nelle nicchie a maggior valore aggiunto per meccanica e meccatronica, robotica, farmaceutica e chimica, gomma e plastica, avionica e aerospaziale, cantieristica di lusso, oltre che arredamento, abbigliamento ed agroalimentare.

Abbiamo, è vero, un problema di scarsa produttività. Subiamo fortemente la crisi demografica e la carenza di personale qualificato (già adesso un grave problema, destinato in prospettiva a peggiorare). Viviamo le conseguenze negative dei costi elevati dell’energia e le difficoltà legate alla burocrazia inefficiente e agli alti carichi fiscali. Eppure, nonostante tutto, reggiamo.
Non si potrà fare affidamento a lungo sulle capacità del “genio italiano”, soprattutto di fronte all’evoluzione delle tecnologie. Ma abbiamo comunque buone carte in mano.
“Non è una débâcle, la nostra industria resta competitiva”, conferma Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo (Corriere Economia, 20 gennaio), parlando di “crisi ciclica e non strutturale” (a parte l’automotive), di incertezze geopolitiche, di limiti relativi alla difficile applicazione delle norme su Industria 5.0, di rinvio degli investimenti in attesa del calo dei tassi ma anche di fattori positivi legati alla trasformazione di gran parte dell’apparato industriale italiano, dopo la Grande Crisi del 2008/2009, in direzione di una migliore e maggiore produttività: “Le imprese italiane hanno una capacità di reazione superiore a quella dei tedeschi”.
C’è un altro punto di forza: la capacità di una parte rilevante delle nostre imprese a considerare la sostenibilità, ambientale e sociale, come asset fondamentali della propria dimensione competitiva (Pirelli ne è da tempo un caso esemplare) e non tanto come una scelta di marketing e di comunicazione, né come un furbo posizionamento green washing.

Sono stagioni difficili, infatti. In contesti geopolitici segnati da contrasti e conflitti. E con un distacco crescente di importanti attori internazionali (a cominciare dagli Usa, nella nuova strategia della presidenza di Donald Trump) rispetto alle indicazioni ESG e ai vincoli per contrastare i cambiamenti climatici. Si mette in discussione il Green Deal. E anche all’interno della Ue si riflette criticamente sulle dannose rigidità delle politiche ambientali seguite finora (burocratiche e ideologiche, dicono i critici, pensando soprattutto alle scelte sul primato dell’auto elettrica e alle multe per i motori endotermici). L’obiettivo è di arrivare rapidamente a nuove politiche ambientali ed sociali, fondate sul rispetto degli obiettivi Esg ma anche sulla “neutralità tecnologica” per raggiungerli. Un Green Deal di nuova generazione, che abbia al suo centro la difesa e il rilancio della centralità dell’industria europea, per fare fronte alla concorrenza che arriva dagli Usa, dalla Cina e, tra poco, dall’India.
Per tornare all’Italia, indicazioni quanto mai interessanti arrivano, come abbiamo detto, dall’annuale Rapporto preparato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere “L’Italia in dieci selfie” (“Il Sole24Ore”, 14 gennaio): una documentazione accurata sui primati dell’Italia per l’economia circolare (il miglior tasso europeo di riciclo dei rifiuti speciali e urbani: 91,6%, contro una media Ue del 57,9%), per l’acciaio “verde” (la quota di quello prodotto con ciclo a forno elettrico è dell’86%, contro il 68% degli Usa), per la forza del maggior operatore al mondo nelle rinnovabili tra le utilities quotate (Enel, attraverso Enel Green Power) e per l’industria made in Italy in vetta per aziende agricole bio e per le capacità export dalla farmaceutica e dell’arredo.
Si compete bene in modo sostenibile, “l’Italia cresce quando fa bene l’Italia”, conferma Ermete Realacci, presidente di Symbola. E cioè “dà il meglio di sé quando incrocia i suoi cromosomi antichi con un modo tutto italiano di fare economia, che tiene insieme innovazione e tradizione, coesione sociale, nuove tecnologie e bellezza, capacità di parlare al mondo senza perdere legami con territori e comunità”.
Una sostenibilità produttiva, insomma. Sensibile ai temi ambientali ma anche sociali (al lavoro, al benessere diffuso). E attenta alla competitività e allo sviluppo. Una sostenibilità industriale. Un buon modo per crescere meglio.

(Foto Getty Images)

L’industria italiana attraversa una stagione di difficoltà: la produzione industriale è in calo da quasi due anni (da 22 mesi, per l’esattezza), solo il 6% delle imprese vede miglioramenti per l’economia (indagine Bankitalia; “la Repubblica”, 15 gennaio) e anche Confindustria non nasconde rilevanti preoccupazioni, con il presidente dell’associazione Emanuele Orsini che sottolinea le conseguenze negative del caro energia (in Italia, i prezzi più alti d’Europa, insostenibili per l’industria) e dei rischi di aumento dei dazi (annunciati dal nuovo presidente Usa Donald Trump anche nei confronti della Ue) e chiede dunque al governo di Roma e alla Commissione di Bruxelles “un piano industriale” che abbia come priorità l’energia (a cominciare dal nucleare) e la ripresa degli investimenti produttivi (“Il Sole24Ore”, 26 gennaio).
Nuvole scure, insomma, nei cieli dell’economia, con la Germania, ex gigante produttivo e motore industriale per tutta l’Europa, ancora in difficoltà, soprattutto nel settore dell’auto, e con una crescita ridotta, per la Ue, all’1% nel ‘25 (a ottobre si parlava dell’1,2%). In Italia, si sta anche un po’ peggio: 0,6% nel ‘24 (il governo sperava fosse l’1%) e 0,7% nel ‘25.

“L’industria va male ma non preoccupa nessuno”, critica Ferruccio de Bortoli (“Corriere della Sera”, 18 gennaio), rilevando una scarsa attenzione di Palazzo Chigi per l’andamento scadente della produttività e per le ombre che si allungano anche sulle esportazioni, tradizionale punto di forza dell’Italia.
Il tema della crisi dell’industria è tutt’altro che marginale. E non ci si può certo consolare con i dati positivi, sul Pil e sull’occupazione, che vengono dai buoni risultati del turismo. Perché, al di là dei degli elementi negativi determinati da sempre più massicce e stravolgenti presenze turistiche (quelle che vanno sotto il nome sintetico di overtourism) soprattutto nelle città d’arte e negli luoghi ambientalmente più fragili, resta il fatto che il turismo è sì una componente essenziale del Pil e una fonte di redditi, di lavoro e di benessere diffuso, ma è anche soggetto a una certa volatilità dei flussi, genera lavoro in parte stagionale, precario e povero e comunque non incide sul peso politico e strategico di un Paese nel contesto internazionale.

Un paio di mesi fa, appunto, per stigmatizzare gli smottamenti verso il declino europeo, il “Financial Times” ha ammonito Bruxelles e le altre capitali sul rischio che l’Europa possa rapidamente diventare un Grand Hotel in cui i ricchi e potenti del mondo vengano a fare eleganti e comode vacanze.
Per evitare una simile tendenza, bisogna tornare alla centralità dell’industria, alle manifatture di qualità che stimolano innovazione e cambiamento e producono risorse nel lungo periodo, alle scelte produttive che toccano l’energia (e dunque anche la sicurezza) e i beni durevoli, al lavoro qualificato tra industria e ricerca, alle grandi opzioni strategiche produttive e competitive.

Costruire il futuro dell’industria e del nostro Paese”, annuncia lucidamente il ministro degli Esteri Antonio Tajani (“Il Sole24Ore”, 25 gennaio), insistendo sulla necessità di “rafforzare e difendere i pilasti italiani del manifatturiero e del made in Italy” e cioè “food, fashion, furniture, design e tecnologia” e dare priorità “ai settori industriali strategici per sicurezza, salute e sviluppo sociale, come farmaceutico, difesa/aerospazio e Information Technology”, parlando di scelte contro la crisi dell’automotive (l’industria dell’auto è caduta del 34% in due anni) e appellandosi alle responsabilità di Bruxelles: “Fermare il declino economico è una sfida europea”.
Come? Guardando, più in dettaglio, dati e fatti e cercando, nel quadro generale della crisi, quegli elementi su cui fare leva per avviare azioni e impegni per la ripresa. Tenendo conto del parere di autorevoli economisti e delle conclusioni dell’ultimo Rapporto Symbola sui primati positivi dell’Italia racchiusi “in dieci selfie”.
Vediamo meglio, dunque. “Il made in Italy è un patrimonio industriale da tutelare e su cui investire”, sostiene Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, economista tra i più attenti e documentati sulle condizioni dell’industria italiana (“Il Sole24Ore”, 16 gennaio). L’Italia resta saldamente al quarto posto, nella classifica degli esportatori mondiali, dopo Cina, Usa e Germania e prima di Francia, Giappone e Corea del Sud, al netto del peso degli autoveicoli (che rappresentano appena l’8% dell’export mondiale). Il che significa che nei settori manifatturieri principali l’industria italiana continua a reggere la competizione, soprattutto nelle nicchie a maggior valore aggiunto per meccanica e meccatronica, robotica, farmaceutica e chimica, gomma e plastica, avionica e aerospaziale, cantieristica di lusso, oltre che arredamento, abbigliamento ed agroalimentare.

Abbiamo, è vero, un problema di scarsa produttività. Subiamo fortemente la crisi demografica e la carenza di personale qualificato (già adesso un grave problema, destinato in prospettiva a peggiorare). Viviamo le conseguenze negative dei costi elevati dell’energia e le difficoltà legate alla burocrazia inefficiente e agli alti carichi fiscali. Eppure, nonostante tutto, reggiamo.
Non si potrà fare affidamento a lungo sulle capacità del “genio italiano”, soprattutto di fronte all’evoluzione delle tecnologie. Ma abbiamo comunque buone carte in mano.
“Non è una débâcle, la nostra industria resta competitiva”, conferma Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo (Corriere Economia, 20 gennaio), parlando di “crisi ciclica e non strutturale” (a parte l’automotive), di incertezze geopolitiche, di limiti relativi alla difficile applicazione delle norme su Industria 5.0, di rinvio degli investimenti in attesa del calo dei tassi ma anche di fattori positivi legati alla trasformazione di gran parte dell’apparato industriale italiano, dopo la Grande Crisi del 2008/2009, in direzione di una migliore e maggiore produttività: “Le imprese italiane hanno una capacità di reazione superiore a quella dei tedeschi”.
C’è un altro punto di forza: la capacità di una parte rilevante delle nostre imprese a considerare la sostenibilità, ambientale e sociale, come asset fondamentali della propria dimensione competitiva (Pirelli ne è da tempo un caso esemplare) e non tanto come una scelta di marketing e di comunicazione, né come un furbo posizionamento green washing.

Sono stagioni difficili, infatti. In contesti geopolitici segnati da contrasti e conflitti. E con un distacco crescente di importanti attori internazionali (a cominciare dagli Usa, nella nuova strategia della presidenza di Donald Trump) rispetto alle indicazioni ESG e ai vincoli per contrastare i cambiamenti climatici. Si mette in discussione il Green Deal. E anche all’interno della Ue si riflette criticamente sulle dannose rigidità delle politiche ambientali seguite finora (burocratiche e ideologiche, dicono i critici, pensando soprattutto alle scelte sul primato dell’auto elettrica e alle multe per i motori endotermici). L’obiettivo è di arrivare rapidamente a nuove politiche ambientali ed sociali, fondate sul rispetto degli obiettivi Esg ma anche sulla “neutralità tecnologica” per raggiungerli. Un Green Deal di nuova generazione, che abbia al suo centro la difesa e il rilancio della centralità dell’industria europea, per fare fronte alla concorrenza che arriva dagli Usa, dalla Cina e, tra poco, dall’India.
Per tornare all’Italia, indicazioni quanto mai interessanti arrivano, come abbiamo detto, dall’annuale Rapporto preparato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere “L’Italia in dieci selfie” (“Il Sole24Ore”, 14 gennaio): una documentazione accurata sui primati dell’Italia per l’economia circolare (il miglior tasso europeo di riciclo dei rifiuti speciali e urbani: 91,6%, contro una media Ue del 57,9%), per l’acciaio “verde” (la quota di quello prodotto con ciclo a forno elettrico è dell’86%, contro il 68% degli Usa), per la forza del maggior operatore al mondo nelle rinnovabili tra le utilities quotate (Enel, attraverso Enel Green Power) e per l’industria made in Italy in vetta per aziende agricole bio e per le capacità export dalla farmaceutica e dell’arredo.
Si compete bene in modo sostenibile, “l’Italia cresce quando fa bene l’Italia”, conferma Ermete Realacci, presidente di Symbola. E cioè “dà il meglio di sé quando incrocia i suoi cromosomi antichi con un modo tutto italiano di fare economia, che tiene insieme innovazione e tradizione, coesione sociale, nuove tecnologie e bellezza, capacità di parlare al mondo senza perdere legami con territori e comunità”.
Una sostenibilità produttiva, insomma. Sensibile ai temi ambientali ma anche sociali (al lavoro, al benessere diffuso). E attenta alla competitività e allo sviluppo. Una sostenibilità industriale. Un buon modo per crescere meglio.

(Foto Getty Images)

La potenza dell’ottimismo avveduto

Appena pubblicato un libro che parla di economia partendo dalla fiducia

Avere fiducia nonostante tutto. Credere, in altri termini, che nessuna notte potrà alla fine trionfare sulla luce. Anche negli affari comuni di ogni giorno, così come nell’economia e nelle relazioni sociali. Questione di ottimismo. Che non significa non vedere i problemi, ma guardare oltre questi in cerca della soluzione migliore. Economia dell’ottimismo, dunque. Che è il titolo di un libro scritto da Luciano Canova (docente di economia comportamentale) e appena pubblicato che ragiona, appunto, sulle relazioni economiche partendo da un punto di vista inconsueto.

“Economia dell’ottimismo. Perché la speranza evita il fallimento delle nazioni” è un bell’esercizio di interpretazione dei principi cardine della scienza economica, ma anche della storia e del comportamento dell’umanità, viste con uno sguardo diverso dal solito. Canova parte da una considerazione: l’economia dell’ottimismo ci mostra quanto una visione carica di fiducia nel domani sia stata cruciale nella storia del pensiero economico, e come possa ancora esserlo per noi e il nostro pianeta.

L’autore inizia con una constatazione: se si guarda al mondo di oggi, pur con tutte le sue diseguaglianze e le sue crisi, non si può certo dire che non siano avvenuti progressi anche solo rispetto a mezzo secolo fa. Alcuni dati sono incontrovertibili come il calo vertiginoso della mortalità infantile, l’aumento costante dell’alfabetizzazione, la diminuzione globale della povertà. Dati oggettivi che vanno di pari passo con un distinguo fondamentale: è necessario combattere sia il pensiero nostalgico che porta a idealizzare il passato, sia quello apocalittico che dipinge un futuro solo a tinte fosche. Che, detto in altri termini, significa acquisire la capacità critica per interpretare bene quanto è stato e usare bene quanto oggi è a disposizione.

Muovendosi tra economia, scienze comportamentali e psicologia – e attingendo alle riflessioni di premi Nobel come Esther Duflo o Amartya Sen, oltre che agli studi di Paul Romer e Erik Angner – questo libro in sette capitoli conduce chi legge ad apprezzare l’economia che insegna ad essere ottimisti. Di questa, e della sua storia, vengono prima affrontati i grandi tratti e poi esaminati alcuni temi: la felicità, i rischi, le relazioni sociali, la salute, la cooperazione, la lotta alla povertà, la speranza. Di ogni concetto vengono delineati i tratti e posti gli esempi. Non si tratta – occorre sottolinearlo – di un inno a non guardare i problemi che pur ci sono, ma di un “manuale” che insegna ad accettare consapevolmente il rischio, a innovare, ad accogliere l’incertezza e a fronteggiare gli imprevisti. E tutto rimanendo in guardia contro i pericoli dati dall’eccesso di fiducia in se stessi e dal chiudere gli occhi per ignorare i problemi fino a quando non ci travolgono. E’, in altre parole, un’economia dell’ottimismo avveduto quella che viene raccontata da Canova.

Il libro di Luciano Canova fornisce una prospettiva inedita, che non sminuisce i grandi problemi di oggi – il cambiamento climatico su tutti –, ma che afferma a gran voce che solo riconoscendoli e proiettandoci oltre di essi con positività potremo trovare soluzioni creative e realmente efficaci.

Bella nelle conclusioni la citazione di una poesia di Dylan Thomas – Do Not Go Gentle into That Good Night – che ricorda nel senso le battute finali della “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht sulla “notte” da mantenere sempre “chiara”.

Economia dell’ottimismo. Perché la speranza evita il fallimento delle nazioni 

Luciano Canova

Saggiatore, 2025

Appena pubblicato un libro che parla di economia partendo dalla fiducia

Avere fiducia nonostante tutto. Credere, in altri termini, che nessuna notte potrà alla fine trionfare sulla luce. Anche negli affari comuni di ogni giorno, così come nell’economia e nelle relazioni sociali. Questione di ottimismo. Che non significa non vedere i problemi, ma guardare oltre questi in cerca della soluzione migliore. Economia dell’ottimismo, dunque. Che è il titolo di un libro scritto da Luciano Canova (docente di economia comportamentale) e appena pubblicato che ragiona, appunto, sulle relazioni economiche partendo da un punto di vista inconsueto.

“Economia dell’ottimismo. Perché la speranza evita il fallimento delle nazioni” è un bell’esercizio di interpretazione dei principi cardine della scienza economica, ma anche della storia e del comportamento dell’umanità, viste con uno sguardo diverso dal solito. Canova parte da una considerazione: l’economia dell’ottimismo ci mostra quanto una visione carica di fiducia nel domani sia stata cruciale nella storia del pensiero economico, e come possa ancora esserlo per noi e il nostro pianeta.

L’autore inizia con una constatazione: se si guarda al mondo di oggi, pur con tutte le sue diseguaglianze e le sue crisi, non si può certo dire che non siano avvenuti progressi anche solo rispetto a mezzo secolo fa. Alcuni dati sono incontrovertibili come il calo vertiginoso della mortalità infantile, l’aumento costante dell’alfabetizzazione, la diminuzione globale della povertà. Dati oggettivi che vanno di pari passo con un distinguo fondamentale: è necessario combattere sia il pensiero nostalgico che porta a idealizzare il passato, sia quello apocalittico che dipinge un futuro solo a tinte fosche. Che, detto in altri termini, significa acquisire la capacità critica per interpretare bene quanto è stato e usare bene quanto oggi è a disposizione.

Muovendosi tra economia, scienze comportamentali e psicologia – e attingendo alle riflessioni di premi Nobel come Esther Duflo o Amartya Sen, oltre che agli studi di Paul Romer e Erik Angner – questo libro in sette capitoli conduce chi legge ad apprezzare l’economia che insegna ad essere ottimisti. Di questa, e della sua storia, vengono prima affrontati i grandi tratti e poi esaminati alcuni temi: la felicità, i rischi, le relazioni sociali, la salute, la cooperazione, la lotta alla povertà, la speranza. Di ogni concetto vengono delineati i tratti e posti gli esempi. Non si tratta – occorre sottolinearlo – di un inno a non guardare i problemi che pur ci sono, ma di un “manuale” che insegna ad accettare consapevolmente il rischio, a innovare, ad accogliere l’incertezza e a fronteggiare gli imprevisti. E tutto rimanendo in guardia contro i pericoli dati dall’eccesso di fiducia in se stessi e dal chiudere gli occhi per ignorare i problemi fino a quando non ci travolgono. E’, in altre parole, un’economia dell’ottimismo avveduto quella che viene raccontata da Canova.

Il libro di Luciano Canova fornisce una prospettiva inedita, che non sminuisce i grandi problemi di oggi – il cambiamento climatico su tutti –, ma che afferma a gran voce che solo riconoscendoli e proiettandoci oltre di essi con positività potremo trovare soluzioni creative e realmente efficaci.

Bella nelle conclusioni la citazione di una poesia di Dylan Thomas – Do Not Go Gentle into That Good Night – che ricorda nel senso le battute finali della “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht sulla “notte” da mantenere sempre “chiara”.

Economia dell’ottimismo. Perché la speranza evita il fallimento delle nazioni 

Luciano Canova

Saggiatore, 2025

Globalizzazione senza una “coscienza globale”

Un intervento del Governatore di Banca d’Italia fornisce lo schema per comprendere meglio la situazione che stiamo vivendo

Guerre in aumento, tensioni geopolitiche in crescita, incertezza e instabilità dilaganti. È complessa e difficile la situazione economica e sociale che il mondo sta vivendo e con la quale le imprese, così come le istituzioni e i singoli individui, devono fare i conti. È su questa situazione che interviene Fabio Panetta, Governatore della Banca d’Italia, con la sua relazione “Pace e prosperità in un mondo frammentato” tenuta il 16 gennaio 2025 all’incontro “Economia e pace: un’alleanza possibile” organizzato dalla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice.

Pace e prosperità, dunque. Binomio sul quale Panetta ragiona partendo dalla constatazione che “il numero delle guerre, diminuito dopo la caduta del Muro di Berlino, è tornato a crescere negli ultimi quindici anni, raggiungendo nel 2023 il valore massimo dal secondo conflitto mondiale”. Pace lontana, quindi. Tanto che lo stesso Governatore sottolinea come “dopo anni di rafforzamento della cooperazione internazionale e dell’integrazione economica, la storia sembra ora fare un passo indietro”.

Da tutto questo Panetta passa ad esaminare le conseguenze di un’osservazione: “Senza pace, l’umanità non può prosperare; né può farlo l’economia”. La relazione approfondisce quindi i dettagli di questa realtà, sfatando, tra l’altro, l’indicazione che un’economia di guerra faccia bene, di fatto, a tutta l’economia e con effetti di lungo periodo. Così come è ugualmente sbagliato pensare che la produzione bellica possa generare innovazione al posto della ricerca scientifica.

Panetta, poi, approfondisce il concetto che la crescita e l’integrazione economica debbano essere intesi come strumenti di pace. E che, anzi, nelle economie moderne “lo sviluppo si fonda sull’integrazione e sul commercio internazionale”. Ricordando la storia degli ultimi decenni dopo il secondo conflitto mondiale, il Governatore arriva così a confrontarsi con “gli scontenti della globalizzazione e dei cambiamenti geopolitici”. Si tratta, questo, di un paesaggio importante della ricerca di Panetta: la globalizzazione ha prodotto anche effetti indesiderati  e la mancanza di riforme può frenare l’equazione distribuzione del reddito e del benessere.

L’indagine prosegue poi ponendosi una domanda cruciale: quali debbano essere le politiche economiche “per la pace”. Apertura agli scambi ed equilibrio nelle relazioni paiono essere le due indicazioni generali. Due traguardi da raggiungere per mezzo di una serie di strumenti da applicare. Come il contrasto alle disuguaglianze, il rafforzamento dell’istruzione e della formazione, l’accelerazione sulla protezione sociale e sulla garanzia di accesso alla sanità efficiente, la gestione del debito. Ancora, Panetta indica l’importanza di politiche di sostegno dello sviluppo.

Bella e profonda, nelle conclusioni, una delle frasi di sintesi del Governatore: “L’economia sembra essersi globalizzata senza una ‘coscienza globale’”. L’intervento di Fabio Panetta è una bella lettura da fare tutti.

Pace e prosperità in un mondo frammentato

Fabio Panetta

“Economia e pace: un’alleanza possibile”

Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, 16 gennaio 2025

Un intervento del Governatore di Banca d’Italia fornisce lo schema per comprendere meglio la situazione che stiamo vivendo

Guerre in aumento, tensioni geopolitiche in crescita, incertezza e instabilità dilaganti. È complessa e difficile la situazione economica e sociale che il mondo sta vivendo e con la quale le imprese, così come le istituzioni e i singoli individui, devono fare i conti. È su questa situazione che interviene Fabio Panetta, Governatore della Banca d’Italia, con la sua relazione “Pace e prosperità in un mondo frammentato” tenuta il 16 gennaio 2025 all’incontro “Economia e pace: un’alleanza possibile” organizzato dalla Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice.

Pace e prosperità, dunque. Binomio sul quale Panetta ragiona partendo dalla constatazione che “il numero delle guerre, diminuito dopo la caduta del Muro di Berlino, è tornato a crescere negli ultimi quindici anni, raggiungendo nel 2023 il valore massimo dal secondo conflitto mondiale”. Pace lontana, quindi. Tanto che lo stesso Governatore sottolinea come “dopo anni di rafforzamento della cooperazione internazionale e dell’integrazione economica, la storia sembra ora fare un passo indietro”.

Da tutto questo Panetta passa ad esaminare le conseguenze di un’osservazione: “Senza pace, l’umanità non può prosperare; né può farlo l’economia”. La relazione approfondisce quindi i dettagli di questa realtà, sfatando, tra l’altro, l’indicazione che un’economia di guerra faccia bene, di fatto, a tutta l’economia e con effetti di lungo periodo. Così come è ugualmente sbagliato pensare che la produzione bellica possa generare innovazione al posto della ricerca scientifica.

Panetta, poi, approfondisce il concetto che la crescita e l’integrazione economica debbano essere intesi come strumenti di pace. E che, anzi, nelle economie moderne “lo sviluppo si fonda sull’integrazione e sul commercio internazionale”. Ricordando la storia degli ultimi decenni dopo il secondo conflitto mondiale, il Governatore arriva così a confrontarsi con “gli scontenti della globalizzazione e dei cambiamenti geopolitici”. Si tratta, questo, di un paesaggio importante della ricerca di Panetta: la globalizzazione ha prodotto anche effetti indesiderati  e la mancanza di riforme può frenare l’equazione distribuzione del reddito e del benessere.

L’indagine prosegue poi ponendosi una domanda cruciale: quali debbano essere le politiche economiche “per la pace”. Apertura agli scambi ed equilibrio nelle relazioni paiono essere le due indicazioni generali. Due traguardi da raggiungere per mezzo di una serie di strumenti da applicare. Come il contrasto alle disuguaglianze, il rafforzamento dell’istruzione e della formazione, l’accelerazione sulla protezione sociale e sulla garanzia di accesso alla sanità efficiente, la gestione del debito. Ancora, Panetta indica l’importanza di politiche di sostegno dello sviluppo.

Bella e profonda, nelle conclusioni, una delle frasi di sintesi del Governatore: “L’economia sembra essersi globalizzata senza una ‘coscienza globale’”. L’intervento di Fabio Panetta è una bella lettura da fare tutti.

Pace e prosperità in un mondo frammentato

Fabio Panetta

“Economia e pace: un’alleanza possibile”

Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, 16 gennaio 2025

Il valore della tradizione non ha sapore di nostalgia, il futuro è un prodotto di ingegneri, filosofi e artisti

“Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”. La frase è di Ernesto de Martino, uno dei più autorevoli antropologi europei. E riguarda tutti coloro che provano, anche a fatica, a tenere insieme il valore delle radici con quello della scoperta e dell’avventura, l’identità delle origini con le nuove identità del lavoro, della famiglia, degli amici e dei compagni e compagne di vita via via trovati. Identità multiple, in movimento. Senza dimenticare. E senza chiudersi nelle trappole della nostalgia. Facendo tesoro, semmai, di un’altra lezione essenziale, quella del filosofo francese Emmanuel Lévinas, che ci ha insegnato come e quanto l’identità stia nelle relazioni, “negli occhi dell’altro”. La dimensione locale che si confronta con il mondo, insomma. L’orgoglio delle radici che si apre a una più profonda comprensione dei rapporti tra sé e gli altri da sé e dunque la comunità, la civitas, le altre e diverse aggregazioni sociali e culturali. Nessun uomo, d’altronde, è un’isola. Né una valle chiusa, impaurita, ostile.

Le parole di de Martino e Lévinas tornano in mente in questi giorni tesi, in cui si discute molto di identità italiana e di radici storiche della nostra cultura, da valorizzare con crescente impegno. E dunque anche di modifica dei processi formativi e dei contenuti dello studio nelle nostre scuole.

Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha infatti annunciato, dal ‘26-‘27, il ritorno dello studio del latino alle medie (anche se facoltativo, per un’ora alla settimana), il concentrarsi della storia sui “popoli italici”, sui Greci e i Romani e sulle origini del Cristianesimo (al liceo lo sguardo si allargherà al resto della storia del mondo). E, ancora, i versi dei nostri poeti da imparare a memoria e la lettura e lo studio della Bibbia accanto ai grandi classici dell’Iliade e dell’Odissea. “Prendiamo il meglio della nostra tradizione per una scuola capace di costruire il futuro”, ha sintetizzato il ministro.

Il dibattito che ne è seguito e che continua appassionatamente sulle pagine, scritte e digitali, dei media, contrappone radici a aperture culturali, locale a globale, retoriche nostalgiche a sguardi innovativi. “Il sapere conteso”, sintetizza brillantemente Agnese Pini, direttrice del Quotidiano Nazionale (Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno, 19 gennaio). Al di là della contesa, comunque, “l’istruzione e la scuola sono una semina di prospettive, il campo su cui si misurano la creatività e la fertilità di un popolo e il perimetro entro cui il popolo si riconosce. Sono dunque lo specchio della lungimiranza della politica, delle istituzioni, dei partiti e dei governi”. Una lungimiranza, va aggiunto, spesso carente.

Quanto allo “scontro delle identità”, che investe la scuola e va oltre, Antonio Polito, sul Corriere della Sera (19 gennaio), nota la negatività delle tendenze, non solo italiane, alla “frammentazione sociale”, si preoccupa di “una società che va in pezzi per i conflitti tra etnia, genere, corpo, classe sociale, orientamento sessuale” e commenta: “Il tempo dell’identità non sa concepire la persona se non come parte. Dovremmo resistergli. Perché la persona, diceva Ratzinger, è un tutto che si riferisce a un tutto”.

Il richiamo opportuno al Papa raffinato teologo consente di fare i conti con un’altra essenziale dimensione, aperta e dialogica, della nostra cultura europea: quell’ “umanesimo integrale” che ha animato la riflessione filosofica di Jacques Maritain e ispirato alcune delle pagine migliori del personalismo cristiano di Emmanuel Mounier.

È dunque il caso di alzare lo sguardo dalle passioni polemiche tipiche del dibattito politico italiano e guardare invece verso l’orizzonte delle trasformazioni necessarie. Facendo tesoro della lungimiranza di Zygmunt Baumann: “Se pensi all’anno prossimo semina il granturco. Se pensi ai prossimi dieci anni pianta un albero. Se pensi ai prossimi cento anni istruisci le persone”. Una sfida politica e culturale, dunque. Una missione intellettuale che, per essere davvero tale, non ha bisogno di nostalgia ma di gusto per la scrittura generosa di “storie al futuro”, di nuove mappe ispirate dall’ “avvenire della memoria”.

Come? Una indicazione essenziale la si ricava dal discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sabato scorso, alla cerimonia per l’avvio delle attività di Agrigento come capitale italiana della Cultura 2025.

“Chi è aperto alla conoscenza del mondo sa che la vita è frutto di dialogo”, ha detto infatti Mattarella, ricordando che “la ricchezza del Paese sta nella sua pluralità”. E “la cultura è frutto di incontro”.

Sono parole chiare, esplicite, cariche di valori positivi e forti di un progetto: la costruzione o meglio il rafforzamento e il rilancio di una cultura aperta e plurale come sostanza della democrazia, una migliore  consapevolezza dei propri valori nazionali (ecco, appunto, il senso della storia, la valenza positiva della tradizione che, parafrasando Gustav Mahler, non è “custodia delle ceneri ma culto del fuoco”) ma anche delle proprie responsabilità nel ridisegno di nuovi e migliori equilibri dell’Europa e del mondo. Di una nuova e migliore misura della conoscenza, della formazione, della rappresentazione del mondo.

Ancora Mattarella: “Viviamo un tempo in cui tutto sembra comprimersi ed esaurirsi sull’istante del presente in cui la tecnologia pretende talvolta di monopolizzare il pensiero piuttosto che porsi al servizio della conoscenza”. La cultura, al contrario, “è rivolgersi a un orizzonte ampio, ribellarsi a ogni compressione del nostro umanesimo, quello che ha reso grande la nostra civiltà”.

Un discorso, ancora una volta, di ampio respiro. E quanto mai opportuno anche perché fatto in una città, Agrigento, che ha robuste radici storiche nella civiltà della Magna Grecia, antiche sofisticate ascendenze culturali (Empedocle, filosofo politico e scienziato, considerato un maestro da Aristotele) e ricchezza letteraria tra Novecento e contemporaneità (Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri). Un patrimonio da fare valere.

La città era stata degradata dal malgoverno amministrativo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (le speculazioni edilizie del “sacco di Agrigento”), avvilita in provincia dalla violenza mafiosa, umiliata dalle carenze di servizi civili essenziali (l’acqua, innanzitutto) che la pongono da lungo tempo in coda alla classifica della qualità della vita nelle città italiane. Eppure resta splendida, con le sue testimonianze architettoniche e culturali della Valle dei Templi. E in cerca di riscatto, di rinascita.

Proprio qui, dunque, ha senso di parlare di conoscenza e futuro, di cultura e sviluppo economico e sociale. Qui, pensare a come declinare una crescita di respiro europeo e mediterraneo.

Eccole, allora, le parole chiave: cultura, conoscenza, umanesimo.

Chi è che le interpreta nel presente? E chi costruisce il futuro? Si torna al discorso sulla formazione, sulla scuola, sul rapporto fra tradizione e innovazione. Sui valori di fondo della nostra civiltà.

Il futuro è degli ingegneri che hanno studiato filosofia e dei filosofi che sanno fare i conti con il senso profondo della scienza e della libertà della ricerca. Dei giuristi che conoscono il valore delle diversità da tutelare anche se la norma, alla Kelsen, è impersonale e astratta. Dei letterati ingegneri o chimici alla Primo Levi e alla Sinisgalli. Degli imprenditori che sanno tenere insieme cultura del mercato e responsabilità sociale. Dei matematici, dei fisici, degli statistici, degli economisti, dei cyberscienziati e degli studiosi di etica che progettano e scrivono, responsabilmente, gli algoritmi dell’Artificial Intelligence. Delle ragazze e dei ragazzi che pensano all’ambiente e alla sostenibilità sui temi del lavoro e della lotta alle diseguaglianze.

Cultura, appunto. Più esattamente, “cultura politecnica”, densa di saperi umanistici e di conoscenze scientifiche, di bellezza poetica e di passione per l’innovazione. D’altronde, è proprio un grande artista come Michelangelo Pistoletto a fare opera d’arte del simbolo dell’infinito, simile a un 8 sdraiato in orizzontale, una dimensione matematica che ha la forza d’una sognante poesia.

(Foto Getty Images)

“Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”. La frase è di Ernesto de Martino, uno dei più autorevoli antropologi europei. E riguarda tutti coloro che provano, anche a fatica, a tenere insieme il valore delle radici con quello della scoperta e dell’avventura, l’identità delle origini con le nuove identità del lavoro, della famiglia, degli amici e dei compagni e compagne di vita via via trovati. Identità multiple, in movimento. Senza dimenticare. E senza chiudersi nelle trappole della nostalgia. Facendo tesoro, semmai, di un’altra lezione essenziale, quella del filosofo francese Emmanuel Lévinas, che ci ha insegnato come e quanto l’identità stia nelle relazioni, “negli occhi dell’altro”. La dimensione locale che si confronta con il mondo, insomma. L’orgoglio delle radici che si apre a una più profonda comprensione dei rapporti tra sé e gli altri da sé e dunque la comunità, la civitas, le altre e diverse aggregazioni sociali e culturali. Nessun uomo, d’altronde, è un’isola. Né una valle chiusa, impaurita, ostile.

Le parole di de Martino e Lévinas tornano in mente in questi giorni tesi, in cui si discute molto di identità italiana e di radici storiche della nostra cultura, da valorizzare con crescente impegno. E dunque anche di modifica dei processi formativi e dei contenuti dello studio nelle nostre scuole.

Il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha infatti annunciato, dal ‘26-‘27, il ritorno dello studio del latino alle medie (anche se facoltativo, per un’ora alla settimana), il concentrarsi della storia sui “popoli italici”, sui Greci e i Romani e sulle origini del Cristianesimo (al liceo lo sguardo si allargherà al resto della storia del mondo). E, ancora, i versi dei nostri poeti da imparare a memoria e la lettura e lo studio della Bibbia accanto ai grandi classici dell’Iliade e dell’Odissea. “Prendiamo il meglio della nostra tradizione per una scuola capace di costruire il futuro”, ha sintetizzato il ministro.

Il dibattito che ne è seguito e che continua appassionatamente sulle pagine, scritte e digitali, dei media, contrappone radici a aperture culturali, locale a globale, retoriche nostalgiche a sguardi innovativi. “Il sapere conteso”, sintetizza brillantemente Agnese Pini, direttrice del Quotidiano Nazionale (Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno, 19 gennaio). Al di là della contesa, comunque, “l’istruzione e la scuola sono una semina di prospettive, il campo su cui si misurano la creatività e la fertilità di un popolo e il perimetro entro cui il popolo si riconosce. Sono dunque lo specchio della lungimiranza della politica, delle istituzioni, dei partiti e dei governi”. Una lungimiranza, va aggiunto, spesso carente.

Quanto allo “scontro delle identità”, che investe la scuola e va oltre, Antonio Polito, sul Corriere della Sera (19 gennaio), nota la negatività delle tendenze, non solo italiane, alla “frammentazione sociale”, si preoccupa di “una società che va in pezzi per i conflitti tra etnia, genere, corpo, classe sociale, orientamento sessuale” e commenta: “Il tempo dell’identità non sa concepire la persona se non come parte. Dovremmo resistergli. Perché la persona, diceva Ratzinger, è un tutto che si riferisce a un tutto”.

Il richiamo opportuno al Papa raffinato teologo consente di fare i conti con un’altra essenziale dimensione, aperta e dialogica, della nostra cultura europea: quell’ “umanesimo integrale” che ha animato la riflessione filosofica di Jacques Maritain e ispirato alcune delle pagine migliori del personalismo cristiano di Emmanuel Mounier.

È dunque il caso di alzare lo sguardo dalle passioni polemiche tipiche del dibattito politico italiano e guardare invece verso l’orizzonte delle trasformazioni necessarie. Facendo tesoro della lungimiranza di Zygmunt Baumann: “Se pensi all’anno prossimo semina il granturco. Se pensi ai prossimi dieci anni pianta un albero. Se pensi ai prossimi cento anni istruisci le persone”. Una sfida politica e culturale, dunque. Una missione intellettuale che, per essere davvero tale, non ha bisogno di nostalgia ma di gusto per la scrittura generosa di “storie al futuro”, di nuove mappe ispirate dall’ “avvenire della memoria”.

Come? Una indicazione essenziale la si ricava dal discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sabato scorso, alla cerimonia per l’avvio delle attività di Agrigento come capitale italiana della Cultura 2025.

“Chi è aperto alla conoscenza del mondo sa che la vita è frutto di dialogo”, ha detto infatti Mattarella, ricordando che “la ricchezza del Paese sta nella sua pluralità”. E “la cultura è frutto di incontro”.

Sono parole chiare, esplicite, cariche di valori positivi e forti di un progetto: la costruzione o meglio il rafforzamento e il rilancio di una cultura aperta e plurale come sostanza della democrazia, una migliore  consapevolezza dei propri valori nazionali (ecco, appunto, il senso della storia, la valenza positiva della tradizione che, parafrasando Gustav Mahler, non è “custodia delle ceneri ma culto del fuoco”) ma anche delle proprie responsabilità nel ridisegno di nuovi e migliori equilibri dell’Europa e del mondo. Di una nuova e migliore misura della conoscenza, della formazione, della rappresentazione del mondo.

Ancora Mattarella: “Viviamo un tempo in cui tutto sembra comprimersi ed esaurirsi sull’istante del presente in cui la tecnologia pretende talvolta di monopolizzare il pensiero piuttosto che porsi al servizio della conoscenza”. La cultura, al contrario, “è rivolgersi a un orizzonte ampio, ribellarsi a ogni compressione del nostro umanesimo, quello che ha reso grande la nostra civiltà”.

Un discorso, ancora una volta, di ampio respiro. E quanto mai opportuno anche perché fatto in una città, Agrigento, che ha robuste radici storiche nella civiltà della Magna Grecia, antiche sofisticate ascendenze culturali (Empedocle, filosofo politico e scienziato, considerato un maestro da Aristotele) e ricchezza letteraria tra Novecento e contemporaneità (Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Andrea Camilleri). Un patrimonio da fare valere.

La città era stata degradata dal malgoverno amministrativo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (le speculazioni edilizie del “sacco di Agrigento”), avvilita in provincia dalla violenza mafiosa, umiliata dalle carenze di servizi civili essenziali (l’acqua, innanzitutto) che la pongono da lungo tempo in coda alla classifica della qualità della vita nelle città italiane. Eppure resta splendida, con le sue testimonianze architettoniche e culturali della Valle dei Templi. E in cerca di riscatto, di rinascita.

Proprio qui, dunque, ha senso di parlare di conoscenza e futuro, di cultura e sviluppo economico e sociale. Qui, pensare a come declinare una crescita di respiro europeo e mediterraneo.

Eccole, allora, le parole chiave: cultura, conoscenza, umanesimo.

Chi è che le interpreta nel presente? E chi costruisce il futuro? Si torna al discorso sulla formazione, sulla scuola, sul rapporto fra tradizione e innovazione. Sui valori di fondo della nostra civiltà.

Il futuro è degli ingegneri che hanno studiato filosofia e dei filosofi che sanno fare i conti con il senso profondo della scienza e della libertà della ricerca. Dei giuristi che conoscono il valore delle diversità da tutelare anche se la norma, alla Kelsen, è impersonale e astratta. Dei letterati ingegneri o chimici alla Primo Levi e alla Sinisgalli. Degli imprenditori che sanno tenere insieme cultura del mercato e responsabilità sociale. Dei matematici, dei fisici, degli statistici, degli economisti, dei cyberscienziati e degli studiosi di etica che progettano e scrivono, responsabilmente, gli algoritmi dell’Artificial Intelligence. Delle ragazze e dei ragazzi che pensano all’ambiente e alla sostenibilità sui temi del lavoro e della lotta alle diseguaglianze.

Cultura, appunto. Più esattamente, “cultura politecnica”, densa di saperi umanistici e di conoscenze scientifiche, di bellezza poetica e di passione per l’innovazione. D’altronde, è proprio un grande artista come Michelangelo Pistoletto a fare opera d’arte del simbolo dell’infinito, simile a un 8 sdraiato in orizzontale, una dimensione matematica che ha la forza d’una sognante poesia.

(Foto Getty Images)

Si presenta “L’officina dello sport” con Christillin, Pastorino e Calabrò

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?