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Educare alla buona società

Una serie di ricerche pedagogiche approfondisce i temi relativi all’economia e al vivere civili

Una buona educazione per una buona società. Un vivere civile a tutto tondo, attento all’umanità e alla natura, ai territori e alla corretta produzione. Anche dal punto di vista dell’economia e della produzione.  Compito delle istituzioni e dovere dei singoli. Attenzione che ricade su tutti.

È attorno a questi temi che hanno ragionato numerosi ricercatori in occasione del 7° Convegno Internazionale “Educazione Territori Natura. Utopia, impegno e cura per trasformare il futuro” le cui indagini sono successivamente state raccolte in un numero monografico di LLL Lifelong Lifewide Learning a cura del Gruppo di lavoro Siped Pedagogia dell’ambiente e sostenibilità del benessere. Transizione ecologica, Giustizia, Resistenza educativa e redatto da Cristina Birbes, Giovanna Del Gobbo e Monica Parricchi.

La raccolta di ricerche offre un accurato panorama dello stato dell’arte della pedagogia e degli strumenti educativi da mettere in campo guardando al vasto tema delle relazioni tra società e ambiente, e quindi alla sostenibilità in vista del benessere dei singoli e delle organizzazioni.

La serie di ricerche è composta da tre parti: nella prima sono presi in considerazione i grandi temi dell’educazione e della pedagogia odierne; nella seconda quelli delle relazioni tra educazione, ambiente e sostenibilità; nella terza vengono approfonditi alcuni argomenti come quelli relativi all’innovazione, alla sostenibilità, alle PMI e ai problemi dell’energia.

E, proprio guardando da vicino gli aspetti collegati alla cultura d’impresa e del produrre, le ricerche mettono in evidenza quanto l’impresa debba essere “considerata come ambiente emblematico per la promozione di comunità responsabili” e come debbano essere centrali “categorie quali la sostenibilità, l’impatto, la responsabilità e lo sviluppo umano integrale quali valori fondanti per favorire il coinvolgimento di tutti gli stakeholders e, al contempo, promuovere un miglioramento costante del contesto organizzativo stesso”.

Ambiente, sostenibilità e benessere. Percorsi pedagogici e approcci educativi

Cristina Birbes, Giovanna Del Gobbo, Monica Parricchi (a cura di)

LLL – Lifelong Lifewide Learning, vol. 20, 43

Una serie di ricerche pedagogiche approfondisce i temi relativi all’economia e al vivere civili

Una buona educazione per una buona società. Un vivere civile a tutto tondo, attento all’umanità e alla natura, ai territori e alla corretta produzione. Anche dal punto di vista dell’economia e della produzione.  Compito delle istituzioni e dovere dei singoli. Attenzione che ricade su tutti.

È attorno a questi temi che hanno ragionato numerosi ricercatori in occasione del 7° Convegno Internazionale “Educazione Territori Natura. Utopia, impegno e cura per trasformare il futuro” le cui indagini sono successivamente state raccolte in un numero monografico di LLL Lifelong Lifewide Learning a cura del Gruppo di lavoro Siped Pedagogia dell’ambiente e sostenibilità del benessere. Transizione ecologica, Giustizia, Resistenza educativa e redatto da Cristina Birbes, Giovanna Del Gobbo e Monica Parricchi.

La raccolta di ricerche offre un accurato panorama dello stato dell’arte della pedagogia e degli strumenti educativi da mettere in campo guardando al vasto tema delle relazioni tra società e ambiente, e quindi alla sostenibilità in vista del benessere dei singoli e delle organizzazioni.

La serie di ricerche è composta da tre parti: nella prima sono presi in considerazione i grandi temi dell’educazione e della pedagogia odierne; nella seconda quelli delle relazioni tra educazione, ambiente e sostenibilità; nella terza vengono approfonditi alcuni argomenti come quelli relativi all’innovazione, alla sostenibilità, alle PMI e ai problemi dell’energia.

E, proprio guardando da vicino gli aspetti collegati alla cultura d’impresa e del produrre, le ricerche mettono in evidenza quanto l’impresa debba essere “considerata come ambiente emblematico per la promozione di comunità responsabili” e come debbano essere centrali “categorie quali la sostenibilità, l’impatto, la responsabilità e lo sviluppo umano integrale quali valori fondanti per favorire il coinvolgimento di tutti gli stakeholders e, al contempo, promuovere un miglioramento costante del contesto organizzativo stesso”.

Ambiente, sostenibilità e benessere. Percorsi pedagogici e approcci educativi

Cristina Birbes, Giovanna Del Gobbo, Monica Parricchi (a cura di)

LLL – Lifelong Lifewide Learning, vol. 20, 43

Anche i “draghi locopei” sono utili per far valere conoscenza e democrazia

“La distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione”. Il giudizio è di Tullio De Mauro, linguista sofisticato e sensibile, attento anche alle dimensioni politiche del sapiente uso delle parole (politiche nel senso della polis, per dire della capacità d’una persona d’essere membro responsabile d’una comunità, un civis, insomma). E viene in mente rileggendo i suoi scritti, a otto anni dalla morte (appunto all’inizio di gennaio del 2017), per cercare un orizzonte di senso e una prospettiva di impegno intellettuale man mano che l’evoluzione e l’espansione dei social media incidono sempre più radicalmente sulla qualità del discorso pubblico, sulla formazione delle opinioni, sugli orientamenti politici delle comunità e, ancora più in generale, sui processi culturali. Sulle dinamiche della conoscenza, insomma.

Un meccanismo che investe le radici, i valori e il funzionamento della democrazia liberale, di quell’intreccio tra libertà, intraprendenza, lavoro, mercato e welfare, tra valori generali e interessi legittimi, che ha costituito la struttura portante del pensiero occidentale. Un sistema che, con sgomento e sofferenza, vediamo entrare in crisi e che però, nonostante tutti i suoi limiti, merita di essere difeso e rilanciato di fronte ai pericoli degli autoritarismi, delle tecnocrazie prepotenti e delle tentazioni, diffuse anche nel corpo dell’Europa, delle cosiddette “democrazie illiberali”.

Combattere l’involuzione e l’impoverimento del linguaggio, dunque. Evitare le secche dei like e degli emoticon e delle banalizzazioni di prese di posizione (quasi sempre emotive, frettolose, passionali, schematiche sino ai confini della rozzezza). Uscire dalle trappole dell’opinionismo slegato dai fatti, sempre più insidiose man mano che aumenta la diffusione, appunto sui social, di fake news su cui i grandi protagonisti della rete rifiutano di esercitare alcun controllo, in nome di un malinteso rispetto della “libertà di opinione” (Facebook, buon ultimo). Saper distinguere tra l’acutezza del buon senso e la superficialità del generico senso comune. E costruire nuovi e migliori strumenti di coscienza critica.

È un compito fondamentale, soprattutto di fronte alle insidie di una Artificial Intelligence che (al di là delle valenze positive legate alla ricerca scientifica e alla diagnostica medica e alle applicazioni high tech per l’industria e i servizi), nella sua dimensione “generativa” mette in azione sofisticati meccanismi di manipolazione e pertanto cambia profondamente il panorama della conoscenza e del dialogo.

La sfida politica e culturale è essenziale. E chiede un rinnovato impegno intellettuale. Perché, se è vera e fondata la crisi del tradizionale modo di concepire il lavoro intellettuale (“Pensare stanca”, ha scritto con acuta e un po’ dolente ironia David Bidussa, ragionando su “passato, presente e futuro dell’intellettuale”, per le edizioni Feltrinelli), è altrettanto necessaria la responsabilità di intervento, analisi e giudizio critico di tutto coloro che per scelte personali e professionali si misurano con la formazione delle idee, con la ricerca, con la filosofia e la scienza, con il diritto e la tecnica, l’economia e la creatività artistica, con la scrittura degli algoritmi dell’AI e con la genetica. Con la costruzione dei pensieri, insomma. E la loro espressione in parole. Tutte funzioni che richiedono libertà e senso di responsabilità.

Autonomia. E sguardo critico. Per il “piacere del testo” e del contesto. E per la memoria grata dell’indicazione di Jorge Luis Borges che colloca tra “i giusti” “chi scopre con piacere un’etimologia”, accanto a “chi è contento che esista la musica” e a chi “coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire”. La letteratura ha una valenza salvifica, per il pensiero libero e la civiltà della vita.

Può essere d’aiuto, in questa prospettiva, ricordare la lezione di Susan Sontag: “Viviamo in una cultura in cui l’intelligenza è del tutto privata di rilevanza, in una ricerca di innocenza radicale, oppure è difesa come uno strumento di autorità e repressione. A mio avviso, l’unica intelligenza degna di essere difesa è critica, dialettica, scettica, desemplificante” (la frase è tratta da “Women, the Arts and the Politics of Culture: an Interview with Susan Sontag”, 1975: cinquant’anni fa, insomma).

Torniamo, così, al buon uso delle parole. E se Emilio Isgrò, artista tra i maggiori del nostro tempo inquieto, creativamente e ironicamente gioca con le cancellature, per rimarcare le banalità e far risaltare le poche parole non cancellate che riacquistano peso, ecco Giulio Guidorizzi, studioso di antropologia del mondo antico, dedicare poco meno di 250 pagine, chiare ed essenziali a “Il lessico dei greci” ovvero “una civiltà in 30 parole” per Raffaello Cortina Editore (caos, amore, anima, giustizia e legge, patriarcato, ospitalità, destino, mito, poesia, politica e sapienza, tra le altre). Le nostre radici culturali e quindi le fondamenta del nostro futuro.

Ed ecco ancora Giuseppe Antonelli, professore di Storia della letteratura italiana all’università di Pavia, scrivere “Il mago delle parole”, appena pubblicato da Einaudi, per ricordare, soprattutto alle nuove generazioni, il valore della grammatica come strumento di conoscenza e quindi di libertà ma anche il suo fascino (evidenziando il nesso tra “grammatica” e glamour). Con una citazione evocativa, tratta da un film di grande intensità e bellezza, “L’attimo fuggente”, diretto da Peter Weir e interpretato da Robin Williams nei panni del professor John Keating, straordinario formatore di anime libere: “Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”.

Capire, dunque. Saper leggere e parlare, come strumenti di libertà. Ricordando anche la lezione di Gianni Rodari e della sua “Grammatica della fantasia: “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

Che strumenti usare? Semplici. Un libro. Una penna. Leggere. E scrivere a mano.

Leggere fin da bambini e riempire le case di buoni libri. E aprire e fare rivivere biblioteche, pubbliche e private, nelle scuole, nei quartieri, nelle imprese, nelle carceri e in tutti quei luoghi in cui animare iniziative culturali e attività di diffusione della lettura (ne abbiamo parlato spesso, in questi blog). Fare convivere il libro di carta con le parole animate sugli schermi digitali. Discutere con chi scrive e assaporare il piacere, un po’ teatrale, delle letture ad alta voce. E giocare con le parole, prendendo esempio dalle pagine di un libro di grande successo, tra genitori e bambini, a metà degli anni Ottanta, “I draghi locopei” di Ersilia Zamboni, per “imparare l’italiano con i giochi di parole” (di cui “draghi locopei” è appunto l’anagramma).

Leggere per piacere e divertimento, curiosità e voglia di conoscenza. E scrivere a mano.

Le tastiere dei computer e degli altri devise digitali vanno, naturalmente, usate con disinvoltura e competenza. Ma senza trascurare il gesto della mano che impugna una matita o una penna. Perché – come confermano autorevoli studi scientifici – attiva in modo complesso il nostro cervello, stimola le reti neurali, smuove pensieri articolati, mette in movimento relazioni che migliorano l’apprendimento. Fa nascere meglio le parole e le organizza più profondamente e sapientemente.

E appunto di parole di qualità abbiamo bisogno. Di parole poetiche. E di parole scientifiche. Di parole pesanti come pietre e leggere come piume. Di parole sincere. Di parole libere e responsabili.

Conoscenza, per esempio, è proprio una bella parola.

(Foto Getty Images)

“La distruzione del linguaggio è la premessa di ogni futura distruzione”. Il giudizio è di Tullio De Mauro, linguista sofisticato e sensibile, attento anche alle dimensioni politiche del sapiente uso delle parole (politiche nel senso della polis, per dire della capacità d’una persona d’essere membro responsabile d’una comunità, un civis, insomma). E viene in mente rileggendo i suoi scritti, a otto anni dalla morte (appunto all’inizio di gennaio del 2017), per cercare un orizzonte di senso e una prospettiva di impegno intellettuale man mano che l’evoluzione e l’espansione dei social media incidono sempre più radicalmente sulla qualità del discorso pubblico, sulla formazione delle opinioni, sugli orientamenti politici delle comunità e, ancora più in generale, sui processi culturali. Sulle dinamiche della conoscenza, insomma.

Un meccanismo che investe le radici, i valori e il funzionamento della democrazia liberale, di quell’intreccio tra libertà, intraprendenza, lavoro, mercato e welfare, tra valori generali e interessi legittimi, che ha costituito la struttura portante del pensiero occidentale. Un sistema che, con sgomento e sofferenza, vediamo entrare in crisi e che però, nonostante tutti i suoi limiti, merita di essere difeso e rilanciato di fronte ai pericoli degli autoritarismi, delle tecnocrazie prepotenti e delle tentazioni, diffuse anche nel corpo dell’Europa, delle cosiddette “democrazie illiberali”.

Combattere l’involuzione e l’impoverimento del linguaggio, dunque. Evitare le secche dei like e degli emoticon e delle banalizzazioni di prese di posizione (quasi sempre emotive, frettolose, passionali, schematiche sino ai confini della rozzezza). Uscire dalle trappole dell’opinionismo slegato dai fatti, sempre più insidiose man mano che aumenta la diffusione, appunto sui social, di fake news su cui i grandi protagonisti della rete rifiutano di esercitare alcun controllo, in nome di un malinteso rispetto della “libertà di opinione” (Facebook, buon ultimo). Saper distinguere tra l’acutezza del buon senso e la superficialità del generico senso comune. E costruire nuovi e migliori strumenti di coscienza critica.

È un compito fondamentale, soprattutto di fronte alle insidie di una Artificial Intelligence che (al di là delle valenze positive legate alla ricerca scientifica e alla diagnostica medica e alle applicazioni high tech per l’industria e i servizi), nella sua dimensione “generativa” mette in azione sofisticati meccanismi di manipolazione e pertanto cambia profondamente il panorama della conoscenza e del dialogo.

La sfida politica e culturale è essenziale. E chiede un rinnovato impegno intellettuale. Perché, se è vera e fondata la crisi del tradizionale modo di concepire il lavoro intellettuale (“Pensare stanca”, ha scritto con acuta e un po’ dolente ironia David Bidussa, ragionando su “passato, presente e futuro dell’intellettuale”, per le edizioni Feltrinelli), è altrettanto necessaria la responsabilità di intervento, analisi e giudizio critico di tutto coloro che per scelte personali e professionali si misurano con la formazione delle idee, con la ricerca, con la filosofia e la scienza, con il diritto e la tecnica, l’economia e la creatività artistica, con la scrittura degli algoritmi dell’AI e con la genetica. Con la costruzione dei pensieri, insomma. E la loro espressione in parole. Tutte funzioni che richiedono libertà e senso di responsabilità.

Autonomia. E sguardo critico. Per il “piacere del testo” e del contesto. E per la memoria grata dell’indicazione di Jorge Luis Borges che colloca tra “i giusti” “chi scopre con piacere un’etimologia”, accanto a “chi è contento che esista la musica” e a chi “coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire”. La letteratura ha una valenza salvifica, per il pensiero libero e la civiltà della vita.

Può essere d’aiuto, in questa prospettiva, ricordare la lezione di Susan Sontag: “Viviamo in una cultura in cui l’intelligenza è del tutto privata di rilevanza, in una ricerca di innocenza radicale, oppure è difesa come uno strumento di autorità e repressione. A mio avviso, l’unica intelligenza degna di essere difesa è critica, dialettica, scettica, desemplificante” (la frase è tratta da “Women, the Arts and the Politics of Culture: an Interview with Susan Sontag”, 1975: cinquant’anni fa, insomma).

Torniamo, così, al buon uso delle parole. E se Emilio Isgrò, artista tra i maggiori del nostro tempo inquieto, creativamente e ironicamente gioca con le cancellature, per rimarcare le banalità e far risaltare le poche parole non cancellate che riacquistano peso, ecco Giulio Guidorizzi, studioso di antropologia del mondo antico, dedicare poco meno di 250 pagine, chiare ed essenziali a “Il lessico dei greci” ovvero “una civiltà in 30 parole” per Raffaello Cortina Editore (caos, amore, anima, giustizia e legge, patriarcato, ospitalità, destino, mito, poesia, politica e sapienza, tra le altre). Le nostre radici culturali e quindi le fondamenta del nostro futuro.

Ed ecco ancora Giuseppe Antonelli, professore di Storia della letteratura italiana all’università di Pavia, scrivere “Il mago delle parole”, appena pubblicato da Einaudi, per ricordare, soprattutto alle nuove generazioni, il valore della grammatica come strumento di conoscenza e quindi di libertà ma anche il suo fascino (evidenziando il nesso tra “grammatica” e glamour). Con una citazione evocativa, tratta da un film di grande intensità e bellezza, “L’attimo fuggente”, diretto da Peter Weir e interpretato da Robin Williams nei panni del professor John Keating, straordinario formatore di anime libere: “Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”.

Capire, dunque. Saper leggere e parlare, come strumenti di libertà. Ricordando anche la lezione di Gianni Rodari e della sua “Grammatica della fantasia: “Tutti gli usi della parola a tutti: mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

Che strumenti usare? Semplici. Un libro. Una penna. Leggere. E scrivere a mano.

Leggere fin da bambini e riempire le case di buoni libri. E aprire e fare rivivere biblioteche, pubbliche e private, nelle scuole, nei quartieri, nelle imprese, nelle carceri e in tutti quei luoghi in cui animare iniziative culturali e attività di diffusione della lettura (ne abbiamo parlato spesso, in questi blog). Fare convivere il libro di carta con le parole animate sugli schermi digitali. Discutere con chi scrive e assaporare il piacere, un po’ teatrale, delle letture ad alta voce. E giocare con le parole, prendendo esempio dalle pagine di un libro di grande successo, tra genitori e bambini, a metà degli anni Ottanta, “I draghi locopei” di Ersilia Zamboni, per “imparare l’italiano con i giochi di parole” (di cui “draghi locopei” è appunto l’anagramma).

Leggere per piacere e divertimento, curiosità e voglia di conoscenza. E scrivere a mano.

Le tastiere dei computer e degli altri devise digitali vanno, naturalmente, usate con disinvoltura e competenza. Ma senza trascurare il gesto della mano che impugna una matita o una penna. Perché – come confermano autorevoli studi scientifici – attiva in modo complesso il nostro cervello, stimola le reti neurali, smuove pensieri articolati, mette in movimento relazioni che migliorano l’apprendimento. Fa nascere meglio le parole e le organizza più profondamente e sapientemente.

E appunto di parole di qualità abbiamo bisogno. Di parole poetiche. E di parole scientifiche. Di parole pesanti come pietre e leggere come piume. Di parole sincere. Di parole libere e responsabili.

Conoscenza, per esempio, è proprio una bella parola.

(Foto Getty Images)

La Persona prima di tutto e ancora una volta

Un agile libro aggiunge ai criteri ESG un ulteriore elemento – l’attenzione all’umano – per dare loro il vero significato che devono avere

Un mondo ESG è davvero più sostenibile? A questa domanda, in qualche modo sorprendente, cercano di rispondere Massimo Lapucci e Stefano Lucchini con un breve ma denso libro appena pubblicato. Il senso di “Ritrovare l’umano” lo si capisce subito dal sottotitolo: “Perché non c’è sostenibilità senza Health, Human e Happiness”. E si tratta di un senso che deriva da una constatazione: i celebri criteri che verificano e misurano gli impatti Environmental, Social e Governance sono di certo necessari per definire e migliorare le aziende e gli investimenti in termini di sostenibilità, negli ultimi anni, però, il loro significato si è talvolta inflazionato, alterato da esigenze di comunicazione, oppure eroso fino a renderli un adempimento burocratico o una mera quantificazione di bilancio. Condizioni, queste ultime, che si ritrovano nella gran parte degli approcci che al tema hanno le imprese di ogni ordine e grado.

Per adeguare l’acronimo ESG e il suo approccio alla celerità dei cambiamenti attuali, Lapucci e Lucchini individuano in una H il vero salto che occorre fare per trasformare gli ESG in strumenti adeguati per un progresso orientato alla “qualità del futuro”. L’H – come appunto indica il sottotitolo del libro – di Health, ma anche di Human, di Heart e Happiness. Un’operazione non solo lessicale ma di sostanza, che viene ricondotta a quattro punti: rendere gli ESG più percepiti dalle persone e dalle comunità, dare vita ad un modello che renda gli ESG naturali e necessari prima che utili, condividere sempre di più gli ESG e, infine, liberarli dalla patina elitaria che fino ad oggi li ha caratterizzati.

Lapucci e Lucchini arrivano a queste conclusioni ripercorrendo le evoluzioni storiche nel corso delle rivoluzioni industriali, passando per le tematiche più attuali del lavoro, dell’AI e della finanza etica, i due autori disegnano così un vero e proprio manifesto pragmatico sugli ESG del futuro e accompagnano chi legge alla riscoperta di quella pulsione, già manifestata nel secolo dei Lumi, che vuole riportare al centro la dignità della Persona (non a caso scritta con la P maiuscola) come perseguimento di un benessere collettivo sempre più irrinunciabile.

Ritrovare l’umano

Massimo Lapucci, Stefano Lucchini

Baldini+Castoldi, 2024

Un agile libro aggiunge ai criteri ESG un ulteriore elemento – l’attenzione all’umano – per dare loro il vero significato che devono avere

Un mondo ESG è davvero più sostenibile? A questa domanda, in qualche modo sorprendente, cercano di rispondere Massimo Lapucci e Stefano Lucchini con un breve ma denso libro appena pubblicato. Il senso di “Ritrovare l’umano” lo si capisce subito dal sottotitolo: “Perché non c’è sostenibilità senza Health, Human e Happiness”. E si tratta di un senso che deriva da una constatazione: i celebri criteri che verificano e misurano gli impatti Environmental, Social e Governance sono di certo necessari per definire e migliorare le aziende e gli investimenti in termini di sostenibilità, negli ultimi anni, però, il loro significato si è talvolta inflazionato, alterato da esigenze di comunicazione, oppure eroso fino a renderli un adempimento burocratico o una mera quantificazione di bilancio. Condizioni, queste ultime, che si ritrovano nella gran parte degli approcci che al tema hanno le imprese di ogni ordine e grado.

Per adeguare l’acronimo ESG e il suo approccio alla celerità dei cambiamenti attuali, Lapucci e Lucchini individuano in una H il vero salto che occorre fare per trasformare gli ESG in strumenti adeguati per un progresso orientato alla “qualità del futuro”. L’H – come appunto indica il sottotitolo del libro – di Health, ma anche di Human, di Heart e Happiness. Un’operazione non solo lessicale ma di sostanza, che viene ricondotta a quattro punti: rendere gli ESG più percepiti dalle persone e dalle comunità, dare vita ad un modello che renda gli ESG naturali e necessari prima che utili, condividere sempre di più gli ESG e, infine, liberarli dalla patina elitaria che fino ad oggi li ha caratterizzati.

Lapucci e Lucchini arrivano a queste conclusioni ripercorrendo le evoluzioni storiche nel corso delle rivoluzioni industriali, passando per le tematiche più attuali del lavoro, dell’AI e della finanza etica, i due autori disegnano così un vero e proprio manifesto pragmatico sugli ESG del futuro e accompagnano chi legge alla riscoperta di quella pulsione, già manifestata nel secolo dei Lumi, che vuole riportare al centro la dignità della Persona (non a caso scritta con la P maiuscola) come perseguimento di un benessere collettivo sempre più irrinunciabile.

Ritrovare l’umano

Massimo Lapucci, Stefano Lucchini

Baldini+Castoldi, 2024

Inclusività di genere, traguardo ancora da raggiungere pienamente

Una tesi discussa presso l’Università di Pisa fa il punto con attenzione ai settori STEM

 

Inclusività di genere come traguardo ancora da raggiungere pienamente. Questione di non poco conto, anche nei settori STEM che, anzi, spesso sono caratterizzati da uno squilibrio di status e di potere legati proprio a questo aspetto. È attorno a questo tema che ha ragionato Esmeralda Ceraj con la sua ricerca che ha preso forma di tesi discussa presso l’Università di Pisa Dipartimento di Scienze Politiche, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane.

“Donne e STEM: il contributo chiave delle risorse umane nella promozione dell’inclusività. Un’analisi qualitativa” trae spunto dalla constatazione delle ancora tante diversità di genere presenti nelle imprese, soprattutto nei settori da sempre tradizionalmente dominati da uomini, nonostante le molte politiche recenti si siano poste lo scopo di contrastare questo monopolio. Ceraj sottolinea nelle premesse come riuscire ad affrontare pregiudizi il più delle volte celati da unconscious bias, richieda una buona dose di “iniezione” di competenze anche tramite l’uso dello storytelling, cercando di cambiare quella percezione erronea secondo cui le STEM sono viste come percorsi unicamente al maschile.

La tesi esamina prima di tutto lo “stato attuale della parità di genere”  sia in termini generali che per quanto concerne le STEM in particolare; successivamente – anche attraverso l’uso di un particolare metodo di ricerca narrativa mediante interviste semi-strutturate – viene esaminato un caso studio particolare (quello della Baker Hughes, impresa petrolifera che ha fatto della parità di genere uno dei suoi principi guida), oltre che una serie di “storie che hanno come obiettivo di catturare emozioni, riflessioni personali che potrebbero sfuggire a metodologie più formali”.

La ricerca non solo identifica le barriere di genere esistenti, ma riesce anche a scavare in profondità nelle esperienze individuali arrivando a delineare percorsi di miglioramento delle relazioni di lavoro verso una sempre più accentuata parità di genere. Percorsi che, ancora una volta, pongono al centro un’evoluzione particolare della cultura d’impresa che comprenda l’inclusività oltre che l’efficienza.

Donne e STEM: il contributo chiave delle risorse umane nella promozione dell’inclusività. Un’analisi qualitativa

Esmeralda Ceraj, Tesi, Università di Pisa, Scienze Politiche, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane, 2024

Una tesi discussa presso l’Università di Pisa fa il punto con attenzione ai settori STEM

 

Inclusività di genere come traguardo ancora da raggiungere pienamente. Questione di non poco conto, anche nei settori STEM che, anzi, spesso sono caratterizzati da uno squilibrio di status e di potere legati proprio a questo aspetto. È attorno a questo tema che ha ragionato Esmeralda Ceraj con la sua ricerca che ha preso forma di tesi discussa presso l’Università di Pisa Dipartimento di Scienze Politiche, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane.

“Donne e STEM: il contributo chiave delle risorse umane nella promozione dell’inclusività. Un’analisi qualitativa” trae spunto dalla constatazione delle ancora tante diversità di genere presenti nelle imprese, soprattutto nei settori da sempre tradizionalmente dominati da uomini, nonostante le molte politiche recenti si siano poste lo scopo di contrastare questo monopolio. Ceraj sottolinea nelle premesse come riuscire ad affrontare pregiudizi il più delle volte celati da unconscious bias, richieda una buona dose di “iniezione” di competenze anche tramite l’uso dello storytelling, cercando di cambiare quella percezione erronea secondo cui le STEM sono viste come percorsi unicamente al maschile.

La tesi esamina prima di tutto lo “stato attuale della parità di genere”  sia in termini generali che per quanto concerne le STEM in particolare; successivamente – anche attraverso l’uso di un particolare metodo di ricerca narrativa mediante interviste semi-strutturate – viene esaminato un caso studio particolare (quello della Baker Hughes, impresa petrolifera che ha fatto della parità di genere uno dei suoi principi guida), oltre che una serie di “storie che hanno come obiettivo di catturare emozioni, riflessioni personali che potrebbero sfuggire a metodologie più formali”.

La ricerca non solo identifica le barriere di genere esistenti, ma riesce anche a scavare in profondità nelle esperienze individuali arrivando a delineare percorsi di miglioramento delle relazioni di lavoro verso una sempre più accentuata parità di genere. Percorsi che, ancora una volta, pongono al centro un’evoluzione particolare della cultura d’impresa che comprenda l’inclusività oltre che l’efficienza.

Donne e STEM: il contributo chiave delle risorse umane nella promozione dell’inclusività. Un’analisi qualitativa

Esmeralda Ceraj, Tesi, Università di Pisa, Scienze Politiche, Comunicazione d’impresa e politica delle risorse umane, 2024

Responsabilità politiche e intraprendenza privata: rileggere il boom economico e pensare al futuro

Formidabili, quegli anni. Quelli del boom economico, tanto intenso da essere chiamato “miracolo”. La lunga stagione, dal dopoguerra al 1963, in cui il Pil dell’Italia cresce in media del 5,9% all’anno, con un picco dell’8,3% nel ’61. Il tempo scandito dall’intraprendenza, dalla voglia di fare e di crescere, da una diffusa speranza nel miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Un periodo cui vanno, da qualche tempo, pensieri e ricordi, una certa nostalgia canaglia, un desiderio, velato di malinconia, di ritorno a quando si stava peggio e ci si impegnava a lavorare, produrre, inventare, cambiare.

Senza cedere al retrogusto dolciastro dell’amarcord (solo l’ironia di Fellini, memore dell’affilata intelligenza critica di Ennio Flaiano, poteva farne un capolavoro di film), vale comunque la pena ripensare a quegli anni per ragionare, oggi, su come rimettere in campo energie creative e produttive, per cercare di affrontare efficacemente un tempo di radicali e travolgenti cambiamenti economici, politici e sociali.

Per averne una dimensione esatta, vale innanzitutto la pena leggere le documentate pagine di Nicola Rossi, sapiente economista di solida cultura politica (è stato parlamentare del Pd e oggi è consigliere d’amministrazione dell’Istituto Bruno Leoni, centro della migliore cultura liberale), in “Un miracolo non fa il santo – La distruzione creatrice nella società italiana, 1861-2021”, edito da Ibl Libri.

Si nota, sulla base di dati, fatti e riletture critiche della nostra storia economica, come la crescita italiana degli anni Cinquanta e Sessanta sia stata determinata non solo da lungimiranti scelte politiche internazionali e interne (il Piano Marshall, l’apertura del mercato europeo, le attenzioni einaudiane per la solidità della lira e l’equilibrio dei conti pubblici, gli investimenti della mano pubblica in infrastrutture e industrie di base: energia, acciaio, etc.) ma anche dalla grande libertà lasciata al dinamismo degli imprenditori privati, tanto da trasformare in poco tempo l’Italia i una della maggiori potenze industriali europee.

Le auto Fiat, Alfa Romeo e Lancia, la chimica di Eni e Montedison, i pneumatici Pirelli, la Vespa Piaggio e la Lambretta Innocenti, il cemento Pesenti, gli alimentari Motta, Alemagna, Pavesi, Galbani, Barilla e Ferrero, gli elettrodomestici, i prodotti dell’abbigliamento e dell’arredamento, etc. ne sono testimoni esemplari (i musei e gli archivi d’impresa ne custodiscono e ne valorizzano le storie).

“Distruzione creatrice”, appunto. “Animal spirits” d’un capitalismo diffuso. Cui però – sostiene Rossi – dalla fine degli anni Sessanta in poi, si sono sostituite scelte politiche secondo cui l’Italia “è tornata a proteggere, più che a creare, imprese e ricchezza”, con classi dirigenti che “hanno ristretto lo spazio delle libertà economiche” e protetto, più che l’intraprendenza, la forza e la prepotenza di corporazioni elettoralmente influenti. Quel “miracolo economico” sembra, insomma, “irripetibile”.

Vale la pena discuterne, comunque. Non solo e non tanto per amore di critica storica e per verificare il ruolo negativo di riforme mancate e di scelte di costruzione di fragili e costosi consensi con lo strumento disinvolto dell’aumento del debito pubblico (scaricando, fin dai primi anni Ottanta, sulle nuove generazioni il costo del benessere contingente). Quanto soprattutto per cercare di capire, proprio oggi, in tempi di radicali transizioni (ambientali, tecnologiche, sociali) e di profondi mutamenti geopolitici, quali politiche avviare, quali attori sociali sollecitare per costruire percorsi virtuosi di sviluppo sostenibile. Sostenibile socialmente e cioè accettabile dalle pubbliche opinioni democratiche (senza contrapporre la necessaria tutela dell’ambiente e la conservazione di lavoro e redditi). E sostenibile nel corso del tempo, in grado cioè di determinare lunghi percorsi virtuosi di crescita economica e miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

Negli anni Cinquanta e primi Sessanta, c’era fiducia, pensando e lavorando per un tempo che sarebbe stato migliore (nonostante le acute tensioni sociali e le paure legate alla “guerra fredda” tra Occidente e Unione Sovietica). E dunque erano evidenti le disponibilità a investire, risparmiare, indebitarsi, fare sacrifici (per fare studiare i figli, comprare una casa, avviare un’attività, ampliare l’impresa, fondare una rivista o un quotidiano, costituire una cooperativa). Una straordinaria molla di progresso. Un uso accorto e lungimirante del capitale sociale progressivo.

Ecco, oggi è indispensabile proprio ricostruire la fiducia. Stimolare a scrivere “una storia al futuro”. Ricominciare a pensare e a scrivere che, nonostante tutto, c’è uno spazio per la speranza. Con un impegno forte di “ottimismo della volontà”. Di cambiamento. E di rilancio dei valori della democrazia e della cultura d’impresa, d’un mercato aperto, ben regolato e competitivo.

Non certo per caso, speranza, fiducia e rispetto sono tre delle parole più importanti usate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di auguri di fine d’anno agli italiani. C’è “l’urgenza della pace”. Ma anche un grande bisogno di ricucire il tessuto sociale lacerato, di “riorientare” la convivenza civile. È un “patriottismo” mite e civile (la frase è chiarissima: “È patriottismo quello di chi, con origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità”). E dunque è una straordinaria indicazione per il futuro d’una comunità che scarti le trappole degli egoismi e dei nazionalismi e sappia farsi carico dell’importanza di fare vivere, nella storia quotidiana di ognuno di noi, forti valori sociali.

Come? In tempi così difficili, servono certamente le “politiche industriali” e “fiscali” di impronta europea, le scelte tecnicamente sapienti sui conti pubblici in ordine (una garanzia per le nuove generazioni, da sgravare dal fardello del debito e rassicurare con le possibilità di investimenti produttivi di migliore sviluppo) e sulle risposte concrete ai settori industriali e agli ambienti sociali in crisi. Ma, seguendo l’ispirazione di Mattarella, occorre innanzitutto muoversi guardando a un orizzonte più ampio.

Vale la pena, dunque, rileggere un monito di Aldo Moro sulla necessità di una buona politica che contagi e guidi la pubblica opinione: “Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà un nuovo senso del dovere”. E sapere che “speranza” non può essere una parola generica, ma va innervata con scelte sapienti, responsabili, lungimiranti, di un avvenire migliore, guardando concretamente alle nuove generazioni.

L’orizzonte, appunto, è l’Europa, la sua tradizione politica e culturale di conciliazione tra democrazia liberale, mercato e welfare, fra libertà d’intraprendenza e responsabilità d’un destino generale. E proprio adesso che la Ue sembra fragile e ben poco presente nel cuore delle tensioni geopolitiche, minacciata non solo dall’esterno ma anche dal suo interno da dottrine e comportamenti illiberali e populisti, ai suoi valori fondanti è necessario tornare: libertà e sviluppo, democrazia e destino comune camminando insieme. L’Europa come speranza, appunto.

Per le nuove generazioni italiane, una scelta del genere significa puntare sulla formazione, sulla scuola di qualità, sulla ricerca scientifica, sull’innovazione, sulla costruzione di un nuovo e migliore senso di comunità. Valori forti, capitale sociale di “partecipazione” (ecco un’altra delle parole chiave usate dal presidente Mattarella). Perché, se i “miracoli” non sono ripetibili, il declino sociale e politico dell’Europa e dell’Italia non è affatto un destino obbligato. Tutt’altro. Servono “buona politica”, cultura, conoscenza critica, fiducia nei valori di progetti comuni. Ecco, anche in questo, certe esperienze degli anni Cinquanta e Sessanta, sia pubbliche (e cioè politiche e culturali) sia private (l’impresa responsabile, capace di farsi carico di lavoro di qualità e valori di sviluppo) possono ancora dirci qualcosa. Senza cadere nella nostalgia.

(Foto Getty Images)

Formidabili, quegli anni. Quelli del boom economico, tanto intenso da essere chiamato “miracolo”. La lunga stagione, dal dopoguerra al 1963, in cui il Pil dell’Italia cresce in media del 5,9% all’anno, con un picco dell’8,3% nel ’61. Il tempo scandito dall’intraprendenza, dalla voglia di fare e di crescere, da una diffusa speranza nel miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Un periodo cui vanno, da qualche tempo, pensieri e ricordi, una certa nostalgia canaglia, un desiderio, velato di malinconia, di ritorno a quando si stava peggio e ci si impegnava a lavorare, produrre, inventare, cambiare.

Senza cedere al retrogusto dolciastro dell’amarcord (solo l’ironia di Fellini, memore dell’affilata intelligenza critica di Ennio Flaiano, poteva farne un capolavoro di film), vale comunque la pena ripensare a quegli anni per ragionare, oggi, su come rimettere in campo energie creative e produttive, per cercare di affrontare efficacemente un tempo di radicali e travolgenti cambiamenti economici, politici e sociali.

Per averne una dimensione esatta, vale innanzitutto la pena leggere le documentate pagine di Nicola Rossi, sapiente economista di solida cultura politica (è stato parlamentare del Pd e oggi è consigliere d’amministrazione dell’Istituto Bruno Leoni, centro della migliore cultura liberale), in “Un miracolo non fa il santo – La distruzione creatrice nella società italiana, 1861-2021”, edito da Ibl Libri.

Si nota, sulla base di dati, fatti e riletture critiche della nostra storia economica, come la crescita italiana degli anni Cinquanta e Sessanta sia stata determinata non solo da lungimiranti scelte politiche internazionali e interne (il Piano Marshall, l’apertura del mercato europeo, le attenzioni einaudiane per la solidità della lira e l’equilibrio dei conti pubblici, gli investimenti della mano pubblica in infrastrutture e industrie di base: energia, acciaio, etc.) ma anche dalla grande libertà lasciata al dinamismo degli imprenditori privati, tanto da trasformare in poco tempo l’Italia i una della maggiori potenze industriali europee.

Le auto Fiat, Alfa Romeo e Lancia, la chimica di Eni e Montedison, i pneumatici Pirelli, la Vespa Piaggio e la Lambretta Innocenti, il cemento Pesenti, gli alimentari Motta, Alemagna, Pavesi, Galbani, Barilla e Ferrero, gli elettrodomestici, i prodotti dell’abbigliamento e dell’arredamento, etc. ne sono testimoni esemplari (i musei e gli archivi d’impresa ne custodiscono e ne valorizzano le storie).

“Distruzione creatrice”, appunto. “Animal spirits” d’un capitalismo diffuso. Cui però – sostiene Rossi – dalla fine degli anni Sessanta in poi, si sono sostituite scelte politiche secondo cui l’Italia “è tornata a proteggere, più che a creare, imprese e ricchezza”, con classi dirigenti che “hanno ristretto lo spazio delle libertà economiche” e protetto, più che l’intraprendenza, la forza e la prepotenza di corporazioni elettoralmente influenti. Quel “miracolo economico” sembra, insomma, “irripetibile”.

Vale la pena discuterne, comunque. Non solo e non tanto per amore di critica storica e per verificare il ruolo negativo di riforme mancate e di scelte di costruzione di fragili e costosi consensi con lo strumento disinvolto dell’aumento del debito pubblico (scaricando, fin dai primi anni Ottanta, sulle nuove generazioni il costo del benessere contingente). Quanto soprattutto per cercare di capire, proprio oggi, in tempi di radicali transizioni (ambientali, tecnologiche, sociali) e di profondi mutamenti geopolitici, quali politiche avviare, quali attori sociali sollecitare per costruire percorsi virtuosi di sviluppo sostenibile. Sostenibile socialmente e cioè accettabile dalle pubbliche opinioni democratiche (senza contrapporre la necessaria tutela dell’ambiente e la conservazione di lavoro e redditi). E sostenibile nel corso del tempo, in grado cioè di determinare lunghi percorsi virtuosi di crescita economica e miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

Negli anni Cinquanta e primi Sessanta, c’era fiducia, pensando e lavorando per un tempo che sarebbe stato migliore (nonostante le acute tensioni sociali e le paure legate alla “guerra fredda” tra Occidente e Unione Sovietica). E dunque erano evidenti le disponibilità a investire, risparmiare, indebitarsi, fare sacrifici (per fare studiare i figli, comprare una casa, avviare un’attività, ampliare l’impresa, fondare una rivista o un quotidiano, costituire una cooperativa). Una straordinaria molla di progresso. Un uso accorto e lungimirante del capitale sociale progressivo.

Ecco, oggi è indispensabile proprio ricostruire la fiducia. Stimolare a scrivere “una storia al futuro”. Ricominciare a pensare e a scrivere che, nonostante tutto, c’è uno spazio per la speranza. Con un impegno forte di “ottimismo della volontà”. Di cambiamento. E di rilancio dei valori della democrazia e della cultura d’impresa, d’un mercato aperto, ben regolato e competitivo.

Non certo per caso, speranza, fiducia e rispetto sono tre delle parole più importanti usate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di auguri di fine d’anno agli italiani. C’è “l’urgenza della pace”. Ma anche un grande bisogno di ricucire il tessuto sociale lacerato, di “riorientare” la convivenza civile. È un “patriottismo” mite e civile (la frase è chiarissima: “È patriottismo quello di chi, con origini in altri Paesi, ama l’Italia, ne fa propri i valori costituzionali e le leggi, ne vive appieno la quotidianità, e con il suo lavoro e con la sua sensibilità ne diventa parte e contribuisce ad arricchire la nostra comunità”). E dunque è una straordinaria indicazione per il futuro d’una comunità che scarti le trappole degli egoismi e dei nazionalismi e sappia farsi carico dell’importanza di fare vivere, nella storia quotidiana di ognuno di noi, forti valori sociali.

Come? In tempi così difficili, servono certamente le “politiche industriali” e “fiscali” di impronta europea, le scelte tecnicamente sapienti sui conti pubblici in ordine (una garanzia per le nuove generazioni, da sgravare dal fardello del debito e rassicurare con le possibilità di investimenti produttivi di migliore sviluppo) e sulle risposte concrete ai settori industriali e agli ambienti sociali in crisi. Ma, seguendo l’ispirazione di Mattarella, occorre innanzitutto muoversi guardando a un orizzonte più ampio.

Vale la pena, dunque, rileggere un monito di Aldo Moro sulla necessità di una buona politica che contagi e guidi la pubblica opinione: “Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se non nascerà un nuovo senso del dovere”. E sapere che “speranza” non può essere una parola generica, ma va innervata con scelte sapienti, responsabili, lungimiranti, di un avvenire migliore, guardando concretamente alle nuove generazioni.

L’orizzonte, appunto, è l’Europa, la sua tradizione politica e culturale di conciliazione tra democrazia liberale, mercato e welfare, fra libertà d’intraprendenza e responsabilità d’un destino generale. E proprio adesso che la Ue sembra fragile e ben poco presente nel cuore delle tensioni geopolitiche, minacciata non solo dall’esterno ma anche dal suo interno da dottrine e comportamenti illiberali e populisti, ai suoi valori fondanti è necessario tornare: libertà e sviluppo, democrazia e destino comune camminando insieme. L’Europa come speranza, appunto.

Per le nuove generazioni italiane, una scelta del genere significa puntare sulla formazione, sulla scuola di qualità, sulla ricerca scientifica, sull’innovazione, sulla costruzione di un nuovo e migliore senso di comunità. Valori forti, capitale sociale di “partecipazione” (ecco un’altra delle parole chiave usate dal presidente Mattarella). Perché, se i “miracoli” non sono ripetibili, il declino sociale e politico dell’Europa e dell’Italia non è affatto un destino obbligato. Tutt’altro. Servono “buona politica”, cultura, conoscenza critica, fiducia nei valori di progetti comuni. Ecco, anche in questo, certe esperienze degli anni Cinquanta e Sessanta, sia pubbliche (e cioè politiche e culturali) sia private (l’impresa responsabile, capace di farsi carico di lavoro di qualità e valori di sviluppo) possono ancora dirci qualcosa. Senza cadere nella nostalgia.

(Foto Getty Images)

“L’officina dello sport” al Circolo dei Lettori di Torino

A Torino una presentazione dedicata a “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”, il libro a cura della Fondazione Pirelli pubblicato da Marsilio Arte. L’appuntamento è per venerdì 17 gennaio 2025 alle 18.30 al Circolo dei Lettori con il direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò e il giornalista e scrittore Darwin Pastorin; l’incontro sarà moderato da Alberto Infelise del quotidiano “La Stampa”.

Il progetto editoriale, uscito a giugno 2024 e disponibile in versione italiana e versione inglese separata, indaga il mondo sportivo attraverso i suoi cantieri, i laboratori, le fabbriche, il backstage delle competizioni, e documenta con approfondimenti tematici le discipline che hanno visto protagonista Pirelli nel corso della sua storia, tra vittorie, innovazioni, campionesse e campioni. Al volume hanno contribuito, tra gli altri, lo scrittore texano Joe R. Lansdale con il racconto inedito “Il cazzotto di Batman è una guida alla vita” e l’artista Lorenzo Mattotti, che ha firmato sei illustrazioni originali, oltre alla cover del libro.

Tra gli autori anche Calabrò, Christillin e Pastorin, che nel corso della serata si confronteranno sul progetto, in un dialogo tra diritti e regole del gioco, cronache dei maestri del giornalismo, approfondimenti sul legame tra la P lunga e lo sport, in oltre un secolo e mezzo di vita aziendale.

A Torino una presentazione dedicata a “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”, il libro a cura della Fondazione Pirelli pubblicato da Marsilio Arte. L’appuntamento è per venerdì 17 gennaio 2025 alle 18.30 al Circolo dei Lettori con il direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò e il giornalista e scrittore Darwin Pastorin; l’incontro sarà moderato da Alberto Infelise del quotidiano “La Stampa”.

Il progetto editoriale, uscito a giugno 2024 e disponibile in versione italiana e versione inglese separata, indaga il mondo sportivo attraverso i suoi cantieri, i laboratori, le fabbriche, il backstage delle competizioni, e documenta con approfondimenti tematici le discipline che hanno visto protagonista Pirelli nel corso della sua storia, tra vittorie, innovazioni, campionesse e campioni. Al volume hanno contribuito, tra gli altri, lo scrittore texano Joe R. Lansdale con il racconto inedito “Il cazzotto di Batman è una guida alla vita” e l’artista Lorenzo Mattotti, che ha firmato sei illustrazioni originali, oltre alla cover del libro.

Tra gli autori anche Calabrò, Christillin e Pastorin, che nel corso della serata si confronteranno sul progetto, in un dialogo tra diritti e regole del gioco, cronache dei maestri del giornalismo, approfondimenti sul legame tra la P lunga e lo sport, in oltre un secolo e mezzo di vita aziendale.

Tutti in sella per Cinema & Storia 2025

Ritorna nel 2025 Cinema & Storia, il corso di formazione e aggiornamento gratuito per i docenti delle scuole secondarie, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC, in collaborazione con la Cineteca di Bologna. Il titolo della XIII edizione è “L’Italia in bicicletta. Modernità industriale, conflitti politici e sociali, immaginari artistici”.

A distanza di oltre due secoli dai suoi primi, scomodi predecessori, la bicicletta, capace oggi come ieri di incorporare tecnologia e ricordi d’infanzia, avventure private e passaggi epocali, mantiene inalterato il suo fascino.
La nuova proposta di Cinema & Storia mira a esplorare alcuni lati di uno degli oggetti simbolo della modernità: dai processi produttivi grazie a cui è diventato un prodotto di largo consumo agli snodi storici otto-novecenteschi nei quali ha svolto un ruolo politico; dalla lotta delle donne per “montare sul sellino” alla vita quotidiana dei ceti subalterni che della bicicletta hanno fatto, e fanno tuttora, mezzo di trasporto e strumento di lavoro.
E ancora: sulle due ruote viaggia da decenni anche un universo simbolico e linguistico in grado di dialogare fittamente con gli elementi più vitali del nostro immaginario collettivo.

Il corso si articolerà in sei appuntamenti online e una visita in presenza presso la Fondazione Pirelli. Alle cinque lezioni storiche si affiancherà un incontro tenuto dalla Cineteca di Bologna e una selezione di film da loro curata.
Le lezioni si terranno dalle ore 16 alle ore 18, nelle seguenti date:

Lunedì 17 febbraio – 1° lezione online
Lunedì 24 febbraio – 2° lezione online
Mercoledì 5 marzo – 3° lezione online
Lunedì 10 marzo – 4° lezione online
Lunedì 17 marzo – 5° lezione online
Lunedì 24 marzo – Visita in presenza presso la Fondazione Pirelli
Mercoledì 26 marzo – 6° lezione online

L’iscrizione, gratuita e obbligatoria, sarà possibile a partire dal 13 gennaio scrivendo a didattica2@fondazioneisec.it. Il corso è a numero chiuso e le iscrizioni saranno accettate in ordine di arrivo.
Gli incontri si terranno in diretta sulla piattaforma Microsoft Teams.
Clicca qui e scopri il programma.

Appuntamento al 17 febbraio ore 16!

Ritorna nel 2025 Cinema & Storia, il corso di formazione e aggiornamento gratuito per i docenti delle scuole secondarie, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC, in collaborazione con la Cineteca di Bologna. Il titolo della XIII edizione è “L’Italia in bicicletta. Modernità industriale, conflitti politici e sociali, immaginari artistici”.

A distanza di oltre due secoli dai suoi primi, scomodi predecessori, la bicicletta, capace oggi come ieri di incorporare tecnologia e ricordi d’infanzia, avventure private e passaggi epocali, mantiene inalterato il suo fascino.
La nuova proposta di Cinema & Storia mira a esplorare alcuni lati di uno degli oggetti simbolo della modernità: dai processi produttivi grazie a cui è diventato un prodotto di largo consumo agli snodi storici otto-novecenteschi nei quali ha svolto un ruolo politico; dalla lotta delle donne per “montare sul sellino” alla vita quotidiana dei ceti subalterni che della bicicletta hanno fatto, e fanno tuttora, mezzo di trasporto e strumento di lavoro.
E ancora: sulle due ruote viaggia da decenni anche un universo simbolico e linguistico in grado di dialogare fittamente con gli elementi più vitali del nostro immaginario collettivo.

Il corso si articolerà in sei appuntamenti online e una visita in presenza presso la Fondazione Pirelli. Alle cinque lezioni storiche si affiancherà un incontro tenuto dalla Cineteca di Bologna e una selezione di film da loro curata.
Le lezioni si terranno dalle ore 16 alle ore 18, nelle seguenti date:

Lunedì 17 febbraio – 1° lezione online
Lunedì 24 febbraio – 2° lezione online
Mercoledì 5 marzo – 3° lezione online
Lunedì 10 marzo – 4° lezione online
Lunedì 17 marzo – 5° lezione online
Lunedì 24 marzo – Visita in presenza presso la Fondazione Pirelli
Mercoledì 26 marzo – 6° lezione online

L’iscrizione, gratuita e obbligatoria, sarà possibile a partire dal 13 gennaio scrivendo a didattica2@fondazioneisec.it. Il corso è a numero chiuso e le iscrizioni saranno accettate in ordine di arrivo.
Gli incontri si terranno in diretta sulla piattaforma Microsoft Teams.
Clicca qui e scopri il programma.

Appuntamento al 17 febbraio ore 16!

La fotografia pubblicitaria, dove arte e prodotto si incontrano

Pirelli è sinonimo di prodotti che sono entrati nella vita quotidiana dei consumatori, plasmando l’immaginario collettivo grazie anche a una comunicazione pubblicitaria efficace, nel segno dell’innovazione e della qualità. Coinvolgendo nella sua ideazione e realizzazione artisti di fama internazionale – tra cui designer, pittori, registi, scrittori e grafici – Pirelli ha anticipato le evoluzioni dei linguaggi e degli strumenti della comunicazione visiva, in Italia ma non solo.
Anche l’obiettivo contribuisce a veicolare il messaggio dell’impresa. Quando la visione degli artisti incontra il prodotto aziendale nasce la fotografia pubblicitaria, il cui scopo è valorizzare gli articoli ed esaltarne le caratteristiche, tentando di catturare l’attenzione e stimolare l’interesse di chi la osserva. La narrazione visiva non si limita quindi a trasmettere un messaggio, ma deve coinvolgere ed emozionare.

Negli anni Cinquanta si fa leva sull’azione e la velocità, sui piloti e le vittorie più celebri: il volto di Juan Manuel Fangio campeggia su brochure, manifesti e cartoline, a mostrare il prestigio dello Stelvio, il “pneumatico dei record”, che equipaggia la Maserati del pilota argentino, portandolo sul gradino più alto del podio nel 1954. Anche l’immagine del campione del mondo Alberto Ascari, a bordo della sua Ferrari gommata “P lunga” – in pista o prima della partenza, guardando con sicurezza in camera – dimostra che “nessuna casa di pneumatici al mondo può vantare titoli pari a questi”. Non solo quello che accade in pista, ma anche il backstage delle competizioni diventa parte della comunicazione aziendale. In occasione del Gran Premio d’Italia del 1950, lo Stella Bianca, simbolo dell’età d’oro delle corse, è protagonista del reportage di Federico Patellani, utilizzato per manifesti e opuscoli: l’obiettivo è puntato sui meccanici-gommisti ai box intenti al controllo delle ruote, in tute e cappellini Pirelli, in una celebrazione delle capacità tecniche del Gruppo. Due anni dopo, è sempre un’immagine del “Servizio Corse Pirelli” a Monza, alle prese con la Ferrari numero 20 di Nino Farina, a dominare le pagine della Rivista Pirelli, con una squadra di specialisti che “assiste e consiglia, in tutte le gare e su tutte le strade, i maestri della velocità”.
La tradizione dei testimonial continua anche negli anni Novanta: non è più necessario mostrare il prodotto, i grandi campioni dominano da soli la scena. Basti pensare a Carl Lewis, fotografato ai blocchi di partenza da Annie Leibovitz nel 1994, con il famoso headline “La potenza è nulla senza controllo”, e ritratto due anni dopo anche da Albert Watson: un drammatico contrasto in bianco e nero, un close up del volto del velocista americano che emerge dal fondo e i suoi feroci denti aguzzi che “divorano la strada”, così come il pneumatico Dragon per motocicli.

Non solo i pneumatici che hanno fatto la storia delle competizioni sportive, ma anche i grandi protagonisti della motorizzazione di massa. Alla fine degli anni Cinquanta, Aldo Ballo immortala le prestazioni del pneumatico Inverno, in grado di sfidare la neve in salita e in discesa, in curva e in frenata, dando una performance “tale da tranquillizzare l’automobilista più prudente”. Uno scatto dell’acqua alta in piazza San Marco di Gianni Berengo Gardin, datato 1958, viene utilizzato per la comunicazione del rivoluzionario P3: infatti, il “patrimonio unico di energia e intelligenza” di Pirelli non ha solo permesso all’azienda di lavorare alprogetto di una diga anti-marea per Venezia, ma ha anche portato alla messa a punto del P3, capace di unire le tre caratteristiche fondamentali da offrire al guidatore, ovvero durata, sicurezza e comfort. Negli anni Sessanta François Robert fotografa, su una strada allagata dalla pioggia, una macchina in corsa gommata CINTURATO, sottolineandone la sicurezza sul bagnato, mentre lo stesso pneumatico è al centro delle immagini di Fulvio Roiter – un’istantanea di gioia e spensieratezza, con dei bambini che giocano con un carretto di legno per strada – e di Ugo Mulas: un veicolo parcheggiato con il disegno battistrada in evidenza, uno specchio d’acqua e una ragazza assorta nella lettura di un libro. Il primo radiale di casa Pirelli accompagna l’evoluzione della società italiana, che vede in quegli anni l’affermarsi di un nuovo concetto di mobilità alla portata di tutti e un’idea moderna di tempo libero. È sempre Mulas a raffigurare il CINTURATO sul lago di Como, a ritrarre il Sempione in ravvicinate inquadrature di grande eleganza formale – l’immagine del fotografo di Pozzolengo, sdraiato per terra, si riflette sul paraurti cromato della mitica Bianchina – e a evidenziare l’affidabilità del pneumatico N+R, in nailon più raion, utilizzando come volto della campagna genitori e figli, fratelli e sorelle… e anche un Setter irlandese.

La creatività degli artisti è a servizio anche delle due ruote: lo shooting del 1953 di una giovane donna sulla Vespa, simbolo di progresso e indipendenza, mostra come Pirelli sia la prima azienda in Italia a progettare pneumatici per motorscooter, contribuendo al successo di questo “modernissimo veicolo”. I tubolari velo sono invece al centro della celebre pubblicità che Massimo Vignelli realizza nel 1964: lo scatto di Aldo Ballo, raffigurante una ragazza sorridente in bicicletta, viene tradotto a livello grafico dal designer milanese dapprima su sfondo rosa e poi giallo, diventando parte della collezione permanente del MoMA. Un’immagine che va oltre il singolo prodotto, diventando una celebrazione della libertà, un’affermazione di emancipazione femminile e un autentico inno alla vita.
Gli stessi artisti sono poi chiamati a immortalare il vasto mondo dei prodotti diversificati: Ballo realizza numerosi still life per i cataloghi di prodotto, dagli articoli per il mare ai giocattoli in gomma; lo scatto firmato da Fulvio Roiter di una colomba in volo, di ritorno al proprio “tiepido e soffice” nido, viene utilizzato per i materassi in gommapiuma Pirelli, mentre Mulas fotografa uomini e donne con indosso impermeabili Pirelli, in ritratti caratterizzati da un’eleganza senza tempo.

Una storia di immagini e prodotti iconici, di sperimentazione e creatività, ieri come oggi. Il “saper fare” e il “saper comunicare” sono tutt’ora due elementi fondamentali e interconnessi del mondo Pirelli. L’evoluzione dei linguaggi digitali e l’innovazione continua dei processi produttivi vanno di pari passo con l’obiettivo dell’azienda di raccontare sé stessa, la propria memoria e gli obiettivi futuri. Comunicare la propria identità.

Pirelli è sinonimo di prodotti che sono entrati nella vita quotidiana dei consumatori, plasmando l’immaginario collettivo grazie anche a una comunicazione pubblicitaria efficace, nel segno dell’innovazione e della qualità. Coinvolgendo nella sua ideazione e realizzazione artisti di fama internazionale – tra cui designer, pittori, registi, scrittori e grafici – Pirelli ha anticipato le evoluzioni dei linguaggi e degli strumenti della comunicazione visiva, in Italia ma non solo.
Anche l’obiettivo contribuisce a veicolare il messaggio dell’impresa. Quando la visione degli artisti incontra il prodotto aziendale nasce la fotografia pubblicitaria, il cui scopo è valorizzare gli articoli ed esaltarne le caratteristiche, tentando di catturare l’attenzione e stimolare l’interesse di chi la osserva. La narrazione visiva non si limita quindi a trasmettere un messaggio, ma deve coinvolgere ed emozionare.

Negli anni Cinquanta si fa leva sull’azione e la velocità, sui piloti e le vittorie più celebri: il volto di Juan Manuel Fangio campeggia su brochure, manifesti e cartoline, a mostrare il prestigio dello Stelvio, il “pneumatico dei record”, che equipaggia la Maserati del pilota argentino, portandolo sul gradino più alto del podio nel 1954. Anche l’immagine del campione del mondo Alberto Ascari, a bordo della sua Ferrari gommata “P lunga” – in pista o prima della partenza, guardando con sicurezza in camera – dimostra che “nessuna casa di pneumatici al mondo può vantare titoli pari a questi”. Non solo quello che accade in pista, ma anche il backstage delle competizioni diventa parte della comunicazione aziendale. In occasione del Gran Premio d’Italia del 1950, lo Stella Bianca, simbolo dell’età d’oro delle corse, è protagonista del reportage di Federico Patellani, utilizzato per manifesti e opuscoli: l’obiettivo è puntato sui meccanici-gommisti ai box intenti al controllo delle ruote, in tute e cappellini Pirelli, in una celebrazione delle capacità tecniche del Gruppo. Due anni dopo, è sempre un’immagine del “Servizio Corse Pirelli” a Monza, alle prese con la Ferrari numero 20 di Nino Farina, a dominare le pagine della Rivista Pirelli, con una squadra di specialisti che “assiste e consiglia, in tutte le gare e su tutte le strade, i maestri della velocità”.
La tradizione dei testimonial continua anche negli anni Novanta: non è più necessario mostrare il prodotto, i grandi campioni dominano da soli la scena. Basti pensare a Carl Lewis, fotografato ai blocchi di partenza da Annie Leibovitz nel 1994, con il famoso headline “La potenza è nulla senza controllo”, e ritratto due anni dopo anche da Albert Watson: un drammatico contrasto in bianco e nero, un close up del volto del velocista americano che emerge dal fondo e i suoi feroci denti aguzzi che “divorano la strada”, così come il pneumatico Dragon per motocicli.

Non solo i pneumatici che hanno fatto la storia delle competizioni sportive, ma anche i grandi protagonisti della motorizzazione di massa. Alla fine degli anni Cinquanta, Aldo Ballo immortala le prestazioni del pneumatico Inverno, in grado di sfidare la neve in salita e in discesa, in curva e in frenata, dando una performance “tale da tranquillizzare l’automobilista più prudente”. Uno scatto dell’acqua alta in piazza San Marco di Gianni Berengo Gardin, datato 1958, viene utilizzato per la comunicazione del rivoluzionario P3: infatti, il “patrimonio unico di energia e intelligenza” di Pirelli non ha solo permesso all’azienda di lavorare alprogetto di una diga anti-marea per Venezia, ma ha anche portato alla messa a punto del P3, capace di unire le tre caratteristiche fondamentali da offrire al guidatore, ovvero durata, sicurezza e comfort. Negli anni Sessanta François Robert fotografa, su una strada allagata dalla pioggia, una macchina in corsa gommata CINTURATO, sottolineandone la sicurezza sul bagnato, mentre lo stesso pneumatico è al centro delle immagini di Fulvio Roiter – un’istantanea di gioia e spensieratezza, con dei bambini che giocano con un carretto di legno per strada – e di Ugo Mulas: un veicolo parcheggiato con il disegno battistrada in evidenza, uno specchio d’acqua e una ragazza assorta nella lettura di un libro. Il primo radiale di casa Pirelli accompagna l’evoluzione della società italiana, che vede in quegli anni l’affermarsi di un nuovo concetto di mobilità alla portata di tutti e un’idea moderna di tempo libero. È sempre Mulas a raffigurare il CINTURATO sul lago di Como, a ritrarre il Sempione in ravvicinate inquadrature di grande eleganza formale – l’immagine del fotografo di Pozzolengo, sdraiato per terra, si riflette sul paraurti cromato della mitica Bianchina – e a evidenziare l’affidabilità del pneumatico N+R, in nailon più raion, utilizzando come volto della campagna genitori e figli, fratelli e sorelle… e anche un Setter irlandese.

La creatività degli artisti è a servizio anche delle due ruote: lo shooting del 1953 di una giovane donna sulla Vespa, simbolo di progresso e indipendenza, mostra come Pirelli sia la prima azienda in Italia a progettare pneumatici per motorscooter, contribuendo al successo di questo “modernissimo veicolo”. I tubolari velo sono invece al centro della celebre pubblicità che Massimo Vignelli realizza nel 1964: lo scatto di Aldo Ballo, raffigurante una ragazza sorridente in bicicletta, viene tradotto a livello grafico dal designer milanese dapprima su sfondo rosa e poi giallo, diventando parte della collezione permanente del MoMA. Un’immagine che va oltre il singolo prodotto, diventando una celebrazione della libertà, un’affermazione di emancipazione femminile e un autentico inno alla vita.
Gli stessi artisti sono poi chiamati a immortalare il vasto mondo dei prodotti diversificati: Ballo realizza numerosi still life per i cataloghi di prodotto, dagli articoli per il mare ai giocattoli in gomma; lo scatto firmato da Fulvio Roiter di una colomba in volo, di ritorno al proprio “tiepido e soffice” nido, viene utilizzato per i materassi in gommapiuma Pirelli, mentre Mulas fotografa uomini e donne con indosso impermeabili Pirelli, in ritratti caratterizzati da un’eleganza senza tempo.

Una storia di immagini e prodotti iconici, di sperimentazione e creatività, ieri come oggi. Il “saper fare” e il “saper comunicare” sono tutt’ora due elementi fondamentali e interconnessi del mondo Pirelli. L’evoluzione dei linguaggi digitali e l’innovazione continua dei processi produttivi vanno di pari passo con l’obiettivo dell’azienda di raccontare sé stessa, la propria memoria e gli obiettivi futuri. Comunicare la propria identità.

Nuovi equilibri d’impresa

Una ricerca appena pubblicata cerca di unire in un solo modello le indicazioni di tre approcci diversi all’economia della produzione

Equilibrio. È questo il traguardo che sempre più imprese cercano di raggiungere conciliando, per quanto possibile, due obiettivi in apparenza distanti e inconciliabili: il profitto e lo scopo  più vasto per il quale le imprese esistono. Ed è attorno all’integrazione tra

Economia Aziendale (EA), Economia Civile (EC) e Dottrina Sociale della Chiesa

(DSC) che ragionano Antonio D’Alessio, Leonardo Laterza e Martina Tafuro con il loro intervento “Superare la tensione tra profitto e scopo: un Framework Integrato tra Economia Aziendale, Economia Civile e Dottrina Sociale della Chiesa” pubblicato di recente.

Gli autori prendono le mosse per il loro percorso di ricerca constatando che le crisi attuali derivano da una visione distorta del ruolo dell’impresa, che ha portato alla massimizzazione del profitto a discapito del bene comune. D’Alessio, Laterza e Tafuro ricordano quindi come l’economia aziendale abbia posto il profitto come condizione necessaria ma non sufficiente, richiamando la necessità di ottenere un profitto “ragionevole”. D’altra parte, la Dottrina sociale della Chiesa considera il profitto come una funzione economica primaria ma non come fine ultimo, valorizzando così il bene comune come traguardo principe dell’agire d’impresa. La ricerca cerca quindi di integrare l’economia d’azienda e la Dottrina sociale della Chiesa con l’economia civile, vista un po’ come ultima espressione (in ordine di tempo e come elaborazione di pensiero) dell’agire economico che promuove un approccio cooperativo e fondato sulle relazioni. I tre autori arrivano quindi a delineare un modello di impresa capace di bilanciare profitto e scopo, accrescendo il benessere umano e la qualità dell’ambiente.

Il contributo di D’Alessio Laterza e Tafuro, dopo un’introduzione che analizza anche i diversi profili teorici in gioco, pone più attenzione al concetto e alla pratica di bene comune per arrivare quindi a delineare il superamento degli studi teorici con l’esame di una serie di pratiche di governo d’impresa che mettano in pratica quanto indicato e che accrescano il livello di responsabilità sociale delle aziende. Oltre che un cambio netto della cultura del produrre.

Superare la tensione tra profitto e scopo: un Framework Integrato tra Economia Aziendale, Economia Civile e Dottrina Sociale della Chiesa

Antonio D’Alessio, Leonardo Laterza, Martina Tafuro

Impresa Progetto. Elettronico Journal of management, 2, 2024

Una ricerca appena pubblicata cerca di unire in un solo modello le indicazioni di tre approcci diversi all’economia della produzione

Equilibrio. È questo il traguardo che sempre più imprese cercano di raggiungere conciliando, per quanto possibile, due obiettivi in apparenza distanti e inconciliabili: il profitto e lo scopo  più vasto per il quale le imprese esistono. Ed è attorno all’integrazione tra

Economia Aziendale (EA), Economia Civile (EC) e Dottrina Sociale della Chiesa

(DSC) che ragionano Antonio D’Alessio, Leonardo Laterza e Martina Tafuro con il loro intervento “Superare la tensione tra profitto e scopo: un Framework Integrato tra Economia Aziendale, Economia Civile e Dottrina Sociale della Chiesa” pubblicato di recente.

Gli autori prendono le mosse per il loro percorso di ricerca constatando che le crisi attuali derivano da una visione distorta del ruolo dell’impresa, che ha portato alla massimizzazione del profitto a discapito del bene comune. D’Alessio, Laterza e Tafuro ricordano quindi come l’economia aziendale abbia posto il profitto come condizione necessaria ma non sufficiente, richiamando la necessità di ottenere un profitto “ragionevole”. D’altra parte, la Dottrina sociale della Chiesa considera il profitto come una funzione economica primaria ma non come fine ultimo, valorizzando così il bene comune come traguardo principe dell’agire d’impresa. La ricerca cerca quindi di integrare l’economia d’azienda e la Dottrina sociale della Chiesa con l’economia civile, vista un po’ come ultima espressione (in ordine di tempo e come elaborazione di pensiero) dell’agire economico che promuove un approccio cooperativo e fondato sulle relazioni. I tre autori arrivano quindi a delineare un modello di impresa capace di bilanciare profitto e scopo, accrescendo il benessere umano e la qualità dell’ambiente.

Il contributo di D’Alessio Laterza e Tafuro, dopo un’introduzione che analizza anche i diversi profili teorici in gioco, pone più attenzione al concetto e alla pratica di bene comune per arrivare quindi a delineare il superamento degli studi teorici con l’esame di una serie di pratiche di governo d’impresa che mettano in pratica quanto indicato e che accrescano il livello di responsabilità sociale delle aziende. Oltre che un cambio netto della cultura del produrre.

Superare la tensione tra profitto e scopo: un Framework Integrato tra Economia Aziendale, Economia Civile e Dottrina Sociale della Chiesa

Antonio D’Alessio, Leonardo Laterza, Martina Tafuro

Impresa Progetto. Elettronico Journal of management, 2, 2024

Raccontare l’impresa in modo diverso

Il purpose come strumento per conciliare morale e interesse

Raccontare l’impresa attraverso il brand o, meglio, attraverso il purpose cioè il senso profondo di ciò che si fa, si realizza e si comunica. Non è solo la nuova frontiera della comunicazione aziendale, ma un modo diverso di intendere i racconti che delle organizzazioni della produzione si possono fare.

È attorno all’idea di purpose  che ragiona – e scrive – Alberto De Martini con il suo “Purpose narrative strategy. Un noi più grande” appena pubblicato. Il libro prende le mosse dalla constatazione che fino a qualche anno fa, il brand era intento a costruire la propria identità narrativa. Oggi quello stesso brand non può evitare – dice De Martini – di interrogarsi su una nuova dimensione: il suo scopo, il purpose, ovvero i propositi assunti dal brand stesso per migliorare il mondo inteso come ecosistema umano e naturale. Non solo narrazione del prodotto e dell’impresa, ma, in un certo senso, anche narrazione delle relazioni tra l’azienda e il mondo esterno, e dell’impegno dell’azienda verso il suo miglioramento.

Detto in altro modo, chi si occupa di impresa e di brand deve creare i presupposti per adottare comportamenti sia responsabili sia convenienti per l’impresa, grazie alla convergenza delle preferenze di clienti, consumatori e investitori e agli incentivi dei governi. Il Brand Purpose appare così come naturale risultante di due forze, morale e interesse, fino ad oggi concepite come opposte. Una sorta di beneficio gratuito offerto all’ambiente esterno e alle persone che lo popolano, un beneficio fatto dagli stessi valori che sono alla base del business dell’azienda e dallo stesso tipo di empatia che lega il brand al proprio target “commerciale”.

Questo insieme di idee viene sviluppato da un racconto di circa 150 pagine che inizia puntualizzando una serie di concetti: dal mito ai valori (anche d’impresa), dall’empatia al cambiamento per arrivare agli strumenti che possono essere usati e ai processi che possono essere attivati. In una seconda parte, il libro lega insieme la strategia narrativa del brand con il purpose ponendo anche alcuni casi studio.

Leggere l’ultimo libro di Alberto De Martini non è sempre facile, ma è sempre, invece, stimolante soprattutto per chi, con varie collocazioni, deve occuparsi di raccontare impresa e prodotto guardando anche al senso di entrambi.

Purpose narrative strategy. Un noi più grande

Alberto De Martini

Franco Angeli, 2024

Il purpose come strumento per conciliare morale e interesse

Raccontare l’impresa attraverso il brand o, meglio, attraverso il purpose cioè il senso profondo di ciò che si fa, si realizza e si comunica. Non è solo la nuova frontiera della comunicazione aziendale, ma un modo diverso di intendere i racconti che delle organizzazioni della produzione si possono fare.

È attorno all’idea di purpose  che ragiona – e scrive – Alberto De Martini con il suo “Purpose narrative strategy. Un noi più grande” appena pubblicato. Il libro prende le mosse dalla constatazione che fino a qualche anno fa, il brand era intento a costruire la propria identità narrativa. Oggi quello stesso brand non può evitare – dice De Martini – di interrogarsi su una nuova dimensione: il suo scopo, il purpose, ovvero i propositi assunti dal brand stesso per migliorare il mondo inteso come ecosistema umano e naturale. Non solo narrazione del prodotto e dell’impresa, ma, in un certo senso, anche narrazione delle relazioni tra l’azienda e il mondo esterno, e dell’impegno dell’azienda verso il suo miglioramento.

Detto in altro modo, chi si occupa di impresa e di brand deve creare i presupposti per adottare comportamenti sia responsabili sia convenienti per l’impresa, grazie alla convergenza delle preferenze di clienti, consumatori e investitori e agli incentivi dei governi. Il Brand Purpose appare così come naturale risultante di due forze, morale e interesse, fino ad oggi concepite come opposte. Una sorta di beneficio gratuito offerto all’ambiente esterno e alle persone che lo popolano, un beneficio fatto dagli stessi valori che sono alla base del business dell’azienda e dallo stesso tipo di empatia che lega il brand al proprio target “commerciale”.

Questo insieme di idee viene sviluppato da un racconto di circa 150 pagine che inizia puntualizzando una serie di concetti: dal mito ai valori (anche d’impresa), dall’empatia al cambiamento per arrivare agli strumenti che possono essere usati e ai processi che possono essere attivati. In una seconda parte, il libro lega insieme la strategia narrativa del brand con il purpose ponendo anche alcuni casi studio.

Leggere l’ultimo libro di Alberto De Martini non è sempre facile, ma è sempre, invece, stimolante soprattutto per chi, con varie collocazioni, deve occuparsi di raccontare impresa e prodotto guardando anche al senso di entrambi.

Purpose narrative strategy. Un noi più grande

Alberto De Martini

Franco Angeli, 2024

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