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Natura d’impresa, non solo il profitto

L’ultima riga del conto economico. In nero, in attivo, cioè. L’imperativo di un’impresa: fare un profitto. Senza il quale non sono possibili salari e stipendi, investimenti, nuovo lavoro, utili per l’imprenditore e i suoi azionisti (“creare valore per gli azionisti”, dice un mantra recente della letteratura aziendale). Certo, il profitto. Non si discute. Si discute, semmai, su come arrivarci (rispettando leggi, regole di mercato, diritti dei lavoratori e di tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa, salvaguardia dell’ambiente, sicurezza, etc.). E su cos’altro deve caratterizzare una buona impresa, oltre l’indispensabile profitto.  Ecco una indicazione di Adriano Olivetti, nel suo discorso agli operai di Pozzuoli nel 1955: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica?”. Domande che hanno in sé le proprie risposte, che parlano di valori, dignità, orgoglio del lavoro ben fatto e utile alla comunità. Ecco una parola chiave. Comunità. Nella nuove Edizioni di Comunità (riedizione della casa editrice voluta appunto da Olivetti nel 1946), in un piccolo libro intitolato “Ai lavoratori”, dopo una bella prefazione di Luciano Gallino, si ripubblica sia il discorso di Pozzuoli che quello, analogo, fatto nel 1954 ai dipendenti di Ivrea. Fabbrica e civiltà. Industria e responsabilità generale. Oltre il profitto, appunto. Quasi sessant’anni dopo, le stesse opinioni si ritrovano (forza lenta ma tenace delle buone idee) nelle considerazioni ricavate da due studiosi, Marina Capizzi e Ulderico Capucci, dalle interviste a 60 capi azienda per l’Osservatorio Assolombarda-Bocconi. Si parla di “valore”, ci si chiede “per chi?” e si conclude: “La logica del valore che emerge come nuova via per la competitività si fonda sul concetto della reciprocità del vantaggio con la produzione di benefici per terzi implicati direttamente o indirettamente: la produzione di profitti per sé, per essere duratura, deve essere generata attraverso la produzione di benefici per altri. I benefici non riguardano solo chi acquista e gli azionisti, ma anche gli utilizzatori, i fornitori, i cittadini, etc.”. Profitto di lunga durata, appunto. Nelle mani di tutti gli stakeholders. Buona indicazione, antica e nuova, contro la crisi.

L’ultima riga del conto economico. In nero, in attivo, cioè. L’imperativo di un’impresa: fare un profitto. Senza il quale non sono possibili salari e stipendi, investimenti, nuovo lavoro, utili per l’imprenditore e i suoi azionisti (“creare valore per gli azionisti”, dice un mantra recente della letteratura aziendale). Certo, il profitto. Non si discute. Si discute, semmai, su come arrivarci (rispettando leggi, regole di mercato, diritti dei lavoratori e di tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa, salvaguardia dell’ambiente, sicurezza, etc.). E su cos’altro deve caratterizzare una buona impresa, oltre l’indispensabile profitto.  Ecco una indicazione di Adriano Olivetti, nel suo discorso agli operai di Pozzuoli nel 1955: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica?”. Domande che hanno in sé le proprie risposte, che parlano di valori, dignità, orgoglio del lavoro ben fatto e utile alla comunità. Ecco una parola chiave. Comunità. Nella nuove Edizioni di Comunità (riedizione della casa editrice voluta appunto da Olivetti nel 1946), in un piccolo libro intitolato “Ai lavoratori”, dopo una bella prefazione di Luciano Gallino, si ripubblica sia il discorso di Pozzuoli che quello, analogo, fatto nel 1954 ai dipendenti di Ivrea. Fabbrica e civiltà. Industria e responsabilità generale. Oltre il profitto, appunto. Quasi sessant’anni dopo, le stesse opinioni si ritrovano (forza lenta ma tenace delle buone idee) nelle considerazioni ricavate da due studiosi, Marina Capizzi e Ulderico Capucci, dalle interviste a 60 capi azienda per l’Osservatorio Assolombarda-Bocconi. Si parla di “valore”, ci si chiede “per chi?” e si conclude: “La logica del valore che emerge come nuova via per la competitività si fonda sul concetto della reciprocità del vantaggio con la produzione di benefici per terzi implicati direttamente o indirettamente: la produzione di profitti per sé, per essere duratura, deve essere generata attraverso la produzione di benefici per altri. I benefici non riguardano solo chi acquista e gli azionisti, ma anche gli utilizzatori, i fornitori, i cittadini, etc.”. Profitto di lunga durata, appunto. Nelle mani di tutti gli stakeholders. Buona indicazione, antica e nuova, contro la crisi.

Quale crisi? E come uscirne?

Capire la crisi per capire come uscirne. Compito non facile al quale sono chiamate anche le imprese e gli imprenditori. Ciò che stiamo vivendo, infatti, non è un periodo difficile solo per alcuni: i problemi sono per tutti e, ciascuno per la sua parte, deve contribuire a risolverli. Alla base, tuttavia, ci deve essere – appunto – una comprensione chiara di quello che sta accadendo.

A contribuire a delucidare la complessità dell’oggi ci si è messo ancora una volta Stefano Zamagni – economista di lungo corso con una visione particolare dell’economia – in un saggio pubblicato da Aiccon Ricerca. “Una crisi di senso, dunque di direzione” è una analisi della natura delle crisi che una società può attraversare, delle loro cause e, soprattutto, dei mezzi per uscirne. Zamagni parte da un assunto di fondo: “Porre l’origine della ricchezza nella finanza, anziché nel lavoro ha avuto, come effetto devastante quello di fare da amplificatore alla diffusione della pseudo cultura dell’attività”. Detta in altre parole, la crisi dell’oggi sarebbe stata determinata dall’idea “secondo cui sarebbe la finanza speculativa a creare ricchezza, molti di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa”.

A farne le spese anche le imprese, l’idea di un’imprenditorialità sana e costruttiva, lo sguardo attento ai risvolti  sociali ed etici del produrre e del fare profitto.

Zamagni analizza il nocciolo di questi temi con profondità e rigore, lanciando sagge provocazioni. Come l’interrogativo: “Di chi è agente il manager? Della classe degli azionisti oppure dell’impresa stessa?”. Chiedendosi quindi di chi sia il controllo effettivo dell’impresa. Oppure bocciando senza appello la soluzione della cosiddetta “decrescita” ai problemi della crisi e spiegando: “L’antidoto all’attuale modello consumistico non è la decrescita quanto piuttosto l’economia civile, un programma di ricerca e uno stile di pensiero, tipicamente italiani”. Insomma, si esce dalla palude costruendo un’economia nuova e una cultura d’impresa diverse da quelle oggi dominanti.

“Una crisi di senso, dunque di direzione” è un saggio denso, importante, da leggere attentamente, che rende più ricchi.

Una crisi di senso, dunque di direzione

Stefano Zamagni

Aiccon Ricerca – Università di Bologna, 2012

Capire la crisi per capire come uscirne. Compito non facile al quale sono chiamate anche le imprese e gli imprenditori. Ciò che stiamo vivendo, infatti, non è un periodo difficile solo per alcuni: i problemi sono per tutti e, ciascuno per la sua parte, deve contribuire a risolverli. Alla base, tuttavia, ci deve essere – appunto – una comprensione chiara di quello che sta accadendo.

A contribuire a delucidare la complessità dell’oggi ci si è messo ancora una volta Stefano Zamagni – economista di lungo corso con una visione particolare dell’economia – in un saggio pubblicato da Aiccon Ricerca. “Una crisi di senso, dunque di direzione” è una analisi della natura delle crisi che una società può attraversare, delle loro cause e, soprattutto, dei mezzi per uscirne. Zamagni parte da un assunto di fondo: “Porre l’origine della ricchezza nella finanza, anziché nel lavoro ha avuto, come effetto devastante quello di fare da amplificatore alla diffusione della pseudo cultura dell’attività”. Detta in altre parole, la crisi dell’oggi sarebbe stata determinata dall’idea “secondo cui sarebbe la finanza speculativa a creare ricchezza, molti di più e assai più in fretta dell’attività lavorativa”.

A farne le spese anche le imprese, l’idea di un’imprenditorialità sana e costruttiva, lo sguardo attento ai risvolti  sociali ed etici del produrre e del fare profitto.

Zamagni analizza il nocciolo di questi temi con profondità e rigore, lanciando sagge provocazioni. Come l’interrogativo: “Di chi è agente il manager? Della classe degli azionisti oppure dell’impresa stessa?”. Chiedendosi quindi di chi sia il controllo effettivo dell’impresa. Oppure bocciando senza appello la soluzione della cosiddetta “decrescita” ai problemi della crisi e spiegando: “L’antidoto all’attuale modello consumistico non è la decrescita quanto piuttosto l’economia civile, un programma di ricerca e uno stile di pensiero, tipicamente italiani”. Insomma, si esce dalla palude costruendo un’economia nuova e una cultura d’impresa diverse da quelle oggi dominanti.

“Una crisi di senso, dunque di direzione” è un saggio denso, importante, da leggere attentamente, che rende più ricchi.

Una crisi di senso, dunque di direzione

Stefano Zamagni

Aiccon Ricerca – Università di Bologna, 2012

La cultura della piccola impresa

Viva la piccola impresa, quella che resiste nonostante tutto, quella che “fa l’Italia”, quella che ogni giorno alza la saracinesca e lavora fino  sera. E’ questo il ritratto più consueto delle piccole aziende. Ma come sono per davvero queste realtà?

L’istantanea più recente sul mondo delle piccole imprese italiane è stata scattata da Giulio Sapelli – storico dell’economia ed economista, docente universitario ma con un solido passato in molte aziende -,  che ha scritto “Elogio della piccola impresa”: un llibro stringato ed essenziale (poco più di 100 pagine), che mette insieme teoria e storie d’azienda costruendo un ritratto  amaramente realistico delle imprese piccole  industriali e artigiane in Italia. Imprese spesso destinate a morire schiacciate da un’economia che non fa per loro, ma che comunque riescono a rigenerarsi mettendo in gioco risorse inaspettate e una straordinaria cultura d’impresa.

Sapelli, dopo una quadro teorico – intercalato da testimonianze di imprenditori di svariati settori -, passa ad esaminare alcuni aspetti determinanti come il ruolo della famiglia dell’imprenditore, i rapporti con il credito, quelli con lo Stato (con l’incombere dei ritardi dei pagamenti), la presenza dei giovani (il tema del passaggio generazionale è determinate per queste realtà), percorrendo tutte le aree dello Stivale in cui le piccole industrie hanno fatto la storia. E’ lo stesso Sapelli a delineare i tratti della piccola impresa industriale e artigiana oggi: “Essa si fonda sulla persona e quindi sulla fiducia, sull’inesauribile flessibilità di cui persone e famiglie sono capaci pur tra mille errori. E questo perché esiste volta a volta una sorta di omeostasi con il mercato e la politica insieme che il nostro costrutto sociale forma e riforma tra economia e mondi vitali. Per questo non cresce. Perché essa si costituisce prima e fuori dal mercato. Nel mercato agisce, certo, ma da esso si difende se si attenta alla sua costitutività personale e familiare: vuole conservare se stessa. Certo può crescere, ma allora piccolissima impresa artigiana o piccola impresa non è più”.

Teoria, quindi, unita a pratica tradotta in numerose testimonianze di imprenditori che raccontano le loro esperienze. Il risultato è una corsa a perdifiato nella storia recente dell’industria italiana, nella società dentro e attorno ad essa con uno sguardo volto ai rischi del presente e alle sfide del futuro.

Elogio della piccola impresa

Giulio Sapelli,

Il Mulino, 2013

Viva la piccola impresa, quella che resiste nonostante tutto, quella che “fa l’Italia”, quella che ogni giorno alza la saracinesca e lavora fino  sera. E’ questo il ritratto più consueto delle piccole aziende. Ma come sono per davvero queste realtà?

L’istantanea più recente sul mondo delle piccole imprese italiane è stata scattata da Giulio Sapelli – storico dell’economia ed economista, docente universitario ma con un solido passato in molte aziende -,  che ha scritto “Elogio della piccola impresa”: un llibro stringato ed essenziale (poco più di 100 pagine), che mette insieme teoria e storie d’azienda costruendo un ritratto  amaramente realistico delle imprese piccole  industriali e artigiane in Italia. Imprese spesso destinate a morire schiacciate da un’economia che non fa per loro, ma che comunque riescono a rigenerarsi mettendo in gioco risorse inaspettate e una straordinaria cultura d’impresa.

Sapelli, dopo una quadro teorico – intercalato da testimonianze di imprenditori di svariati settori -, passa ad esaminare alcuni aspetti determinanti come il ruolo della famiglia dell’imprenditore, i rapporti con il credito, quelli con lo Stato (con l’incombere dei ritardi dei pagamenti), la presenza dei giovani (il tema del passaggio generazionale è determinate per queste realtà), percorrendo tutte le aree dello Stivale in cui le piccole industrie hanno fatto la storia. E’ lo stesso Sapelli a delineare i tratti della piccola impresa industriale e artigiana oggi: “Essa si fonda sulla persona e quindi sulla fiducia, sull’inesauribile flessibilità di cui persone e famiglie sono capaci pur tra mille errori. E questo perché esiste volta a volta una sorta di omeostasi con il mercato e la politica insieme che il nostro costrutto sociale forma e riforma tra economia e mondi vitali. Per questo non cresce. Perché essa si costituisce prima e fuori dal mercato. Nel mercato agisce, certo, ma da esso si difende se si attenta alla sua costitutività personale e familiare: vuole conservare se stessa. Certo può crescere, ma allora piccolissima impresa artigiana o piccola impresa non è più”.

Teoria, quindi, unita a pratica tradotta in numerose testimonianze di imprenditori che raccontano le loro esperienze. Il risultato è una corsa a perdifiato nella storia recente dell’industria italiana, nella società dentro e attorno ad essa con uno sguardo volto ai rischi del presente e alle sfide del futuro.

Elogio della piccola impresa

Giulio Sapelli,

Il Mulino, 2013

La passione di nuove idee per evitare la mediocrità

“Ci sono più cose in cielo e in terra di quante non ne sogni la tua filosofia, Orazio”. L’ammonimento dell’Amleto di William Shakespeare all’amico filosofo torna in mente quando si pensa ai saperi che un imprenditore o un manager devono coltivare per affrontare tempi oramai lunghi e particolarmente faticosi di crisi. C’è un altro ammonimento, di Emil Cioran, da segnare sui taccuini della nostra coscienza: “La mediocrità di un manager si riconosce dal numero di idee precise che afferma con sicurezza”. Ottimo termometro, per misurare la qualità di molti interlocutori, nel lavoro di ogni giorno. In una nuova cultura d’impresa da ricostruire e ridefinire (in certi casi: da costruire ex novo) è indispensabile dare retta al principe di Danimarca (e al sociologo franco-rumeno) e cercare altre idee, strumenti interpretativi, linguaggi, per governare inedite complessità. In due volumi recenti, “Che cos’è il management” (edito da Mind) e “Il lungo addio / E altri racconti” (edito da Metamorfosi), Pier Luigi Celli, manager con una storia di successi alle spalle (Olivetti, Enel, Unicredit, Rai, di cui è stato direttore generale) e con un’attualità universitaria (dirige l’università Luiss di Roma) mette in crisi il gioco della tradizionale cultura manageriale, inadatta a tempi che hanno lacerato certezze gerarchiche e poteri organizzativi disciplinati secondo norme amministrative e criteri “quantitativi” (la sub cultura dell’ossessione della crescita per volumi e non per qualità). E insiste invece su altre culture fondate non più sul semplice (e autoritario) comando ma sull’autorevolezza della leadership, per motivare persone e sviluppare aziende. Culture dei valori, insomma e non solo del valore come semplice espressione del profitto. Viviamo stagioni controverse di incertezze e cambiamenti. I modelli verticali sono stati stravolti da conoscenze e competenze che si muovono secondo percorsi orizzontali (complici gli schemi internettiani e le logiche profonde delle nuove tecnologie Ict, ma anche lo sfarinamento di antiche istituzioni politiche e sociali). E dunque le strutture concettuali e organizzative aziendali e i poteri manageriali devono risentire dei cambiamenti (rivoluzioni radicali o metamorfosi che siano).  Per evitare l’evidenza di “Sotto il gessato, niente” e per sottrarsi dunque al crollo di poteri, organizzazioni, funzioni, bisogna fare largo alle idee e non alla banale contabilità del “già noto”. Idee eretiche, lungimiranti, dubbiose, capaci di stare dentro la “crisi” e interpretarne sia i pericoli sia le opportunità di svolta. Un manager è un innovatore, insiste Celli. Capace di nutrire e trasmettere passioni per sfide e costruzioni. Di avere “un’anima”.

“Ci sono più cose in cielo e in terra di quante non ne sogni la tua filosofia, Orazio”. L’ammonimento dell’Amleto di William Shakespeare all’amico filosofo torna in mente quando si pensa ai saperi che un imprenditore o un manager devono coltivare per affrontare tempi oramai lunghi e particolarmente faticosi di crisi. C’è un altro ammonimento, di Emil Cioran, da segnare sui taccuini della nostra coscienza: “La mediocrità di un manager si riconosce dal numero di idee precise che afferma con sicurezza”. Ottimo termometro, per misurare la qualità di molti interlocutori, nel lavoro di ogni giorno. In una nuova cultura d’impresa da ricostruire e ridefinire (in certi casi: da costruire ex novo) è indispensabile dare retta al principe di Danimarca (e al sociologo franco-rumeno) e cercare altre idee, strumenti interpretativi, linguaggi, per governare inedite complessità. In due volumi recenti, “Che cos’è il management” (edito da Mind) e “Il lungo addio / E altri racconti” (edito da Metamorfosi), Pier Luigi Celli, manager con una storia di successi alle spalle (Olivetti, Enel, Unicredit, Rai, di cui è stato direttore generale) e con un’attualità universitaria (dirige l’università Luiss di Roma) mette in crisi il gioco della tradizionale cultura manageriale, inadatta a tempi che hanno lacerato certezze gerarchiche e poteri organizzativi disciplinati secondo norme amministrative e criteri “quantitativi” (la sub cultura dell’ossessione della crescita per volumi e non per qualità). E insiste invece su altre culture fondate non più sul semplice (e autoritario) comando ma sull’autorevolezza della leadership, per motivare persone e sviluppare aziende. Culture dei valori, insomma e non solo del valore come semplice espressione del profitto. Viviamo stagioni controverse di incertezze e cambiamenti. I modelli verticali sono stati stravolti da conoscenze e competenze che si muovono secondo percorsi orizzontali (complici gli schemi internettiani e le logiche profonde delle nuove tecnologie Ict, ma anche lo sfarinamento di antiche istituzioni politiche e sociali). E dunque le strutture concettuali e organizzative aziendali e i poteri manageriali devono risentire dei cambiamenti (rivoluzioni radicali o metamorfosi che siano).  Per evitare l’evidenza di “Sotto il gessato, niente” e per sottrarsi dunque al crollo di poteri, organizzazioni, funzioni, bisogna fare largo alle idee e non alla banale contabilità del “già noto”. Idee eretiche, lungimiranti, dubbiose, capaci di stare dentro la “crisi” e interpretarne sia i pericoli sia le opportunità di svolta. Un manager è un innovatore, insiste Celli. Capace di nutrire e trasmettere passioni per sfide e costruzioni. Di avere “un’anima”.

Imprese geopolitiche

L’impresa fa geopolitica e questa condiziona l’impresa. Ieri come oggi, e domani ancora di più. Perché è un dato di fatto: in tempi di reti sempre più strette, di gangli economici e sociali sempre più interconnessi, produrre e fare impresa comporta un coinvolgimento costante nelle dinamiche mondiali. Per tutte le aziende, anche quelle che si pensano piccole. Cambia, di conseguenza, anche l’apparato culturale con il quale l’impresa deve guardare oltre i suoi cancelli.

A ragionare sui legami fra geopolitica, imprese e società ci ha provato Jean-Marc de Leersnyder, professore di marketing internazionale alla HEC (l’Ecole des Hautes Etudes Commerciales) di Parigi  nel suo “Cultura d’impresa e geopolitica”, un articolo che in poche pagine riesce a descrivere con efficacia gli intensi intrecci che legavano e legano l’attività produttiva ai grandi movimenti politici, le imprese agli Stati, le scelte degli imprenditori a quelle della società internazionale.

“La geopolitica – scrive de Leersnyder  -, rappresenterebbe il campo privilegiato per gli attori pubblici (gli Stati, le organizzazioni governative, le organizzazioni internazionali) o per gli attori rappresentativi del settore non-profit (le organizzazioni non governative). Le imprese, in tal modo, non avrebbero altro da fare che subire le conseguenze della situazione geopolitica senza poter reagire o avere influenza su tale situazione. Ora, l’impresa è diventata uno dei maggiori autori della geopolitica in quanto mantiene, rispetto alle problematiche mondiali, una propria razionalità; così il risultato dei giochi degli attori, e cioè le imprese, non manca certo di avere degli effetti e una notevole influenza sulla situazione geopolitica”.

La realtà, ben focalizzata da de Leersnyder, è quella di una sorta di affiancamento fra la geopolitica degli Stati, e la “diplomazia delle imprese”. Con tutti i rischi e le opportunità del caso.

“Non c’è – spiega ancora de Leersnyder  -, che un unico ambiente internazionale. La sfera commerciale non è distinta da quella politica. La geopolitica è la risultante dei giochi di tutti gli attori sulla scena internazionale”.  In altre parole, imprese e Stati sono come due attori che recitano sullo stesso palcoscenico ma spesso con copioni diversi. Due culture diverse che devono, però, integrarsi per non disintegrare tutto.

Cultura d’impresa e geopolitica

Jean-Marc de Leersnyder

ISTEI – Istituto di Economia d’Impresa

Università degli Studi di Milano – Bicocca

L’impresa fa geopolitica e questa condiziona l’impresa. Ieri come oggi, e domani ancora di più. Perché è un dato di fatto: in tempi di reti sempre più strette, di gangli economici e sociali sempre più interconnessi, produrre e fare impresa comporta un coinvolgimento costante nelle dinamiche mondiali. Per tutte le aziende, anche quelle che si pensano piccole. Cambia, di conseguenza, anche l’apparato culturale con il quale l’impresa deve guardare oltre i suoi cancelli.

A ragionare sui legami fra geopolitica, imprese e società ci ha provato Jean-Marc de Leersnyder, professore di marketing internazionale alla HEC (l’Ecole des Hautes Etudes Commerciales) di Parigi  nel suo “Cultura d’impresa e geopolitica”, un articolo che in poche pagine riesce a descrivere con efficacia gli intensi intrecci che legavano e legano l’attività produttiva ai grandi movimenti politici, le imprese agli Stati, le scelte degli imprenditori a quelle della società internazionale.

“La geopolitica – scrive de Leersnyder  -, rappresenterebbe il campo privilegiato per gli attori pubblici (gli Stati, le organizzazioni governative, le organizzazioni internazionali) o per gli attori rappresentativi del settore non-profit (le organizzazioni non governative). Le imprese, in tal modo, non avrebbero altro da fare che subire le conseguenze della situazione geopolitica senza poter reagire o avere influenza su tale situazione. Ora, l’impresa è diventata uno dei maggiori autori della geopolitica in quanto mantiene, rispetto alle problematiche mondiali, una propria razionalità; così il risultato dei giochi degli attori, e cioè le imprese, non manca certo di avere degli effetti e una notevole influenza sulla situazione geopolitica”.

La realtà, ben focalizzata da de Leersnyder, è quella di una sorta di affiancamento fra la geopolitica degli Stati, e la “diplomazia delle imprese”. Con tutti i rischi e le opportunità del caso.

“Non c’è – spiega ancora de Leersnyder  -, che un unico ambiente internazionale. La sfera commerciale non è distinta da quella politica. La geopolitica è la risultante dei giochi di tutti gli attori sulla scena internazionale”.  In altre parole, imprese e Stati sono come due attori che recitano sullo stesso palcoscenico ma spesso con copioni diversi. Due culture diverse che devono, però, integrarsi per non disintegrare tutto.

Cultura d’impresa e geopolitica

Jean-Marc de Leersnyder

ISTEI – Istituto di Economia d’Impresa

Università degli Studi di Milano – Bicocca

L’impresa che crea “valore”

L’impresa crea valore e questo fa funzionare l’impresa. A patto che chi la gestisce lavori in modo corretto e lungimirante. D’altra parte, pensare ad un’impresa capace di creare valore al di là del profitto, non è un’utopia fuori dal tempo. Basta crederci e agire di conseguenza. Gli esempi non mancano.

A metterne in fila ben 16 ci hanno pensato Vittorio Coda, Mario Minoja, Antonio Tessitore e  Marco Vitale in 540 pagine dal titolo “Valori d’impresa in azione”.

Gli autori hanno un obiettivo: rivolgersi a chi le imprese le gestisce per  far capire che creare valore al di là del denaro si può fare e che, se ci si riesce, a beneficiarne sono anche i bilanci. Dopo una analisi a livello teorico dei legami fra imprese, valori e imprenditori, gli autori prendono in considerazione storie d’aziende dei più svariati settori. Una dietro l’altra sfilano quindi: Arti Grafiche Boccia, Banca Popolare di Sondrio, Calzedonia, Cassa Padana, Chiorino, Etica SGR, Gi Group, Kayser Italia, Manni, Mezzacorona, Palm, Sabaf, Sofidel, Solvay, Veronesi e Zambon. Tutti casi caratterizzati dalla capacità di coniugare profitto e altro.

Un passaggio dell’introduzione al volume, spiega più di tutto lo spirito del lavoro. “I valori di cui qui si tratta, proprio perché ‘in azione’, non si prestano ad essere usati strumentalmente per farne foglie di fico destinate a mascherare comportamenti non corretti. Né possono essere ricondotti ad un valore singolo (come potrebbe essere, ad esempio, il “profitto” o la “creazione di valore azionario” o la “crescita dimensionale”), a cui gli altri valori vengono sistematicamente subordinati e in qualche misura sacrificati. Essi perciò sono estranei a chi non riesce a concepire la conduzione di un’impresa senza una funzione obiettivo da massimizzare o a chi sostiene che le imprese sono soggetti privi di obiettivi propri perseguendo gli obiettivi di coloro che pro tempore ne detengono il controllo”.

Far profitto può essere più facile che creare valore vero, ma è quest’ultimo che conduce l’impresa al successo. Le pagine e di Coda, Minoja, Tessitore e  Vitale raccontano come.

Valori d’impresa in azione

Vittorio Coda, Mario Minoja, Antonio Tessitore e  Marco Vitale

EGEA, 2012

L’impresa crea valore e questo fa funzionare l’impresa. A patto che chi la gestisce lavori in modo corretto e lungimirante. D’altra parte, pensare ad un’impresa capace di creare valore al di là del profitto, non è un’utopia fuori dal tempo. Basta crederci e agire di conseguenza. Gli esempi non mancano.

A metterne in fila ben 16 ci hanno pensato Vittorio Coda, Mario Minoja, Antonio Tessitore e  Marco Vitale in 540 pagine dal titolo “Valori d’impresa in azione”.

Gli autori hanno un obiettivo: rivolgersi a chi le imprese le gestisce per  far capire che creare valore al di là del denaro si può fare e che, se ci si riesce, a beneficiarne sono anche i bilanci. Dopo una analisi a livello teorico dei legami fra imprese, valori e imprenditori, gli autori prendono in considerazione storie d’aziende dei più svariati settori. Una dietro l’altra sfilano quindi: Arti Grafiche Boccia, Banca Popolare di Sondrio, Calzedonia, Cassa Padana, Chiorino, Etica SGR, Gi Group, Kayser Italia, Manni, Mezzacorona, Palm, Sabaf, Sofidel, Solvay, Veronesi e Zambon. Tutti casi caratterizzati dalla capacità di coniugare profitto e altro.

Un passaggio dell’introduzione al volume, spiega più di tutto lo spirito del lavoro. “I valori di cui qui si tratta, proprio perché ‘in azione’, non si prestano ad essere usati strumentalmente per farne foglie di fico destinate a mascherare comportamenti non corretti. Né possono essere ricondotti ad un valore singolo (come potrebbe essere, ad esempio, il “profitto” o la “creazione di valore azionario” o la “crescita dimensionale”), a cui gli altri valori vengono sistematicamente subordinati e in qualche misura sacrificati. Essi perciò sono estranei a chi non riesce a concepire la conduzione di un’impresa senza una funzione obiettivo da massimizzare o a chi sostiene che le imprese sono soggetti privi di obiettivi propri perseguendo gli obiettivi di coloro che pro tempore ne detengono il controllo”.

Far profitto può essere più facile che creare valore vero, ma è quest’ultimo che conduce l’impresa al successo. Le pagine e di Coda, Minoja, Tessitore e  Vitale raccontano come.

Valori d’impresa in azione

Vittorio Coda, Mario Minoja, Antonio Tessitore e  Marco Vitale

EGEA, 2012

Come cambia l’impresa quando arriva l’indice Bes

Bes” e cioè l’indice di “Benessere equo e sostenibile”. L’ha messo a punto l’Istat, presieduto da un economista colto e lungimirante, Enrico Giovannini. Ed è composto da dodici indicatori, che misurano salute, istruzione, lavoro, paesaggio e patrimonio culturale, sicurezza, buona politica, etc. L’idea di fondo è che bisogna uscire dall’ossessione della crescita economica ad ogni costo, indicata dal Pil. E cogliere proprio la lezione della Grande Crisi (provocata dall’esplodere di una serie di squilibri, che hanno alimentato la bolla finanziaria) per ripensare radicalmente i tradizionali paradigmi economici della produzione, dell’accumulazione, della distribuzione e dei consumi. Sarà proprio l’Italia dell’Istat a presiedere il gruppo di lavoro statistico dell’Onu per la definizione, entro il 2015, dei nuovi indicatori di sviluppo sostenibile. E d’altronde, cultura economica nuova a parte, in Italia ci sono già eccellenti esempi di sintesi di nuova cultura d’impresa della produzione e del prodotto, in molte delle industrie medie e medio grandi che hanno già assorbito la lezione della “green economy” e ne hanno fatto strumento di competitività, di migliori relazioni con i territori delle fabbriche, con i propri dipendenti e con tutti gli altri stakeholders. Qualche settimana fa, in questo blog, vi avevamo parlato del Piq, il prodotto interno di qualità. Adesso, riflettiamo sul nuovo indice. Cosa vuol dire, per un’impresa, tenere conto del “Bes”? Strutture produttive che risparmino energia e acqua, per esempio e che siano realizzate secondo i più rigorosi criteri di sicurezza sul lavoro. Relazioni industriali che guardino molto al benessere dei dipendenti (le fabbriche “belle”, luminose, piacevoli da vivere). Ma anche prodotti che abbiamo garanzie di sicurezza, affidabilità, confort per chi li usa. Cura estrema per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti. Stimoli per i processi culturali diffusi sul territorio di riferimento, in modo che le industrie siano aggregatrici di interessi sociali, al di là del ciclo produzione-lavoro-salario (utili, in questo senso, le Fondazioni d’impresa). Tutto un mondo da ripensare criticamente. E in cui in Italia non siamo affatto, per fortuna, all’anno zero.

Bes” e cioè l’indice di “Benessere equo e sostenibile”. L’ha messo a punto l’Istat, presieduto da un economista colto e lungimirante, Enrico Giovannini. Ed è composto da dodici indicatori, che misurano salute, istruzione, lavoro, paesaggio e patrimonio culturale, sicurezza, buona politica, etc. L’idea di fondo è che bisogna uscire dall’ossessione della crescita economica ad ogni costo, indicata dal Pil. E cogliere proprio la lezione della Grande Crisi (provocata dall’esplodere di una serie di squilibri, che hanno alimentato la bolla finanziaria) per ripensare radicalmente i tradizionali paradigmi economici della produzione, dell’accumulazione, della distribuzione e dei consumi. Sarà proprio l’Italia dell’Istat a presiedere il gruppo di lavoro statistico dell’Onu per la definizione, entro il 2015, dei nuovi indicatori di sviluppo sostenibile. E d’altronde, cultura economica nuova a parte, in Italia ci sono già eccellenti esempi di sintesi di nuova cultura d’impresa della produzione e del prodotto, in molte delle industrie medie e medio grandi che hanno già assorbito la lezione della “green economy” e ne hanno fatto strumento di competitività, di migliori relazioni con i territori delle fabbriche, con i propri dipendenti e con tutti gli altri stakeholders. Qualche settimana fa, in questo blog, vi avevamo parlato del Piq, il prodotto interno di qualità. Adesso, riflettiamo sul nuovo indice. Cosa vuol dire, per un’impresa, tenere conto del “Bes”? Strutture produttive che risparmino energia e acqua, per esempio e che siano realizzate secondo i più rigorosi criteri di sicurezza sul lavoro. Relazioni industriali che guardino molto al benessere dei dipendenti (le fabbriche “belle”, luminose, piacevoli da vivere). Ma anche prodotti che abbiamo garanzie di sicurezza, affidabilità, confort per chi li usa. Cura estrema per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti. Stimoli per i processi culturali diffusi sul territorio di riferimento, in modo che le industrie siano aggregatrici di interessi sociali, al di là del ciclo produzione-lavoro-salario (utili, in questo senso, le Fondazioni d’impresa). Tutto un mondo da ripensare criticamente. E in cui in Italia non siamo affatto, per fortuna, all’anno zero.

Imprese fra contratti di rete e isolamento

Il concetto è di quelli già noti: insieme si produce meglio e si cresce con più facilità. La conoscenza di questo principio, tuttavia, non ha facilitato fino ad oggi la creazione di quelle reti d’imprese che indicano un approccio diverso al tema e, soprattutto, una cultura d’impresa capace di guardare oltre l’ostacolo.

Lo ha sottolineato anche la Banca d’Italia in uno studio di tre suoi ricercatori (Chiara Bentivogli, Fabio Quintiliani e Daniele Sabbatini), appena uscito nella serie Questioni di Economia e Finanza.  “Le reti di imprese (The network contract)”, mette insieme ragionamento economico, quadro giuridico e indagine empirica per delineare lo stato dell’arte dei “contratti di rete”. Appannata l’efficacia dei distretti industriali, potrebbero proprio essere questi gli strumenti a disposizione delle imprese per crescere. Strumenti dalla forma giuridica definita – almeno dal 2009 – ma che stentano ad innescare la marcia giusta.

Eppure le “reti” potrebbero fare molto: servire per l’innovazione, sostituire la crescita delle singole unità, creare maggiore forza nei confronti della ricerca e del mercato, mettere insieme grandi e piccoli produttori.

Ma perché la loro efficacia non è esplosa? Dietro il parziale successo ci sono questioni tecniche, regole giuridiche non ancora messe a punto e la atavica diffidenza delle imprese italiane – specialmente le medio-piccole – a “mettersi insieme”, collaborare per un obiettivo comune, marciare verso una traguardo condiviso. Insomma, gli imprenditori ancora oggi spesso pensano che sia meglio il proprio orto magari un po’ rachitico ma di cui si è padroni, che un campo prosperoso ma da condividere con altri.

Per capire meglio, i tre ricercatori non trascurano nemmeno i casi pratici come le reti d’impresa DicoNet (fra Trento e il bolognese), Olonetwork companies (che include imprese del modenese e delle province di Pisa e Pesaro-Urbino), e MecNet (composta da imprese delle province di Udine, Brescia, Napoli e Milano).

Il risultato è chiaro: la strada è quella giusta, ma deve essere perfezionata. A partire dalle regole ma anche dall’approccio con il quale le imprese si avvicinano all’argomento.

Le reti di imprese (The network contract) 

Chiara Bentivogli, Fabio Quintiliani, Daniele Sabbatini 

Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza – Occasional Paper

n.152, Febbraio 2013

Il concetto è di quelli già noti: insieme si produce meglio e si cresce con più facilità. La conoscenza di questo principio, tuttavia, non ha facilitato fino ad oggi la creazione di quelle reti d’imprese che indicano un approccio diverso al tema e, soprattutto, una cultura d’impresa capace di guardare oltre l’ostacolo.

Lo ha sottolineato anche la Banca d’Italia in uno studio di tre suoi ricercatori (Chiara Bentivogli, Fabio Quintiliani e Daniele Sabbatini), appena uscito nella serie Questioni di Economia e Finanza.  “Le reti di imprese (The network contract)”, mette insieme ragionamento economico, quadro giuridico e indagine empirica per delineare lo stato dell’arte dei “contratti di rete”. Appannata l’efficacia dei distretti industriali, potrebbero proprio essere questi gli strumenti a disposizione delle imprese per crescere. Strumenti dalla forma giuridica definita – almeno dal 2009 – ma che stentano ad innescare la marcia giusta.

Eppure le “reti” potrebbero fare molto: servire per l’innovazione, sostituire la crescita delle singole unità, creare maggiore forza nei confronti della ricerca e del mercato, mettere insieme grandi e piccoli produttori.

Ma perché la loro efficacia non è esplosa? Dietro il parziale successo ci sono questioni tecniche, regole giuridiche non ancora messe a punto e la atavica diffidenza delle imprese italiane – specialmente le medio-piccole – a “mettersi insieme”, collaborare per un obiettivo comune, marciare verso una traguardo condiviso. Insomma, gli imprenditori ancora oggi spesso pensano che sia meglio il proprio orto magari un po’ rachitico ma di cui si è padroni, che un campo prosperoso ma da condividere con altri.

Per capire meglio, i tre ricercatori non trascurano nemmeno i casi pratici come le reti d’impresa DicoNet (fra Trento e il bolognese), Olonetwork companies (che include imprese del modenese e delle province di Pisa e Pesaro-Urbino), e MecNet (composta da imprese delle province di Udine, Brescia, Napoli e Milano).

Il risultato è chiaro: la strada è quella giusta, ma deve essere perfezionata. A partire dalle regole ma anche dall’approccio con il quale le imprese si avvicinano all’argomento.

Le reti di imprese (The network contract) 

Chiara Bentivogli, Fabio Quintiliani, Daniele Sabbatini 

Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza – Occasional Paper

n.152, Febbraio 2013

L’impresa “francescana” può far profitto

Si sa, San Francesco non era un capitano d’industria. Però la sua Regola ha molto da dire anche agli imprenditori. Cose controcorrente, ma che fanno pensare. Anche perché possono costituire la base per una gestione diversa delle aziende, dei rapporti con il personale, delle relazioni con i clienti. Forse profitto e Regola francescana non stanno fra di loro come il diavolo e l’acqua santa: possono convivere e non solo perché possono esserci degli imprenditori “buoni”.

Il tema è stato affrontato  da Thomas Dienberg, professore di Teologia e Spiritualità, rettore della Philosophisch-Theologische Hochscule di Münster e soprattutto frate minore cappuccino. Il suo “Economia e spiritualità. Regola francescana e cultura d’impresa” è un volumetto agile ma profondo, che si legge d’un fiato.

Il punto di partenza è una constatazione. La Chiesa ha dato un rilevante contributo alla nascita della moderna società dell’organizzazione e le regole degli ordini religiosi – dai francescani ai benedettini – si possono interpretare come il tentativo di armonizzare necessità di governo e istanze spirituali, povertà evangelica e guida delle istituzioni. Proprio la cosiddetta “dimensione dello spirito”, viene da più parti sempre di più evocata come componente importante per il futuro dell’economia e per lo sviluppo di un più moderno, cosciente e responsabile management della cura collettiva, della salute, del cambiamento, della qualità e del personale.

Detto in altre parole – magari anche sull’onda degli scandali e del malaffare che emerge da più parti -, cresce la richiesta di attribuire un senso al lavoro, di gestire le relazioni aziendali in modo aperto e onesto, di governare i conflitti. Si cerca un’impresa che sia innovativa non solo nel prodotto ma anche nella capacità di recuperare in modo autentico e credibile il servizio come un pilastro dell’agire d’impresa.

Da tutto questo l’analisi di Dienberg che, dopo un excursus generale sui collegamenti fra economia, impresa e Regola, punta l’attenzione sul management della cura collettiva della salute, sul management del cambiamento, su quello della qualità e sul management del personale.

Economia e spiritualità. Regola francescana  e cultura d’impresa

Thomas Dienberg

EDB, 2013

Si sa, San Francesco non era un capitano d’industria. Però la sua Regola ha molto da dire anche agli imprenditori. Cose controcorrente, ma che fanno pensare. Anche perché possono costituire la base per una gestione diversa delle aziende, dei rapporti con il personale, delle relazioni con i clienti. Forse profitto e Regola francescana non stanno fra di loro come il diavolo e l’acqua santa: possono convivere e non solo perché possono esserci degli imprenditori “buoni”.

Il tema è stato affrontato  da Thomas Dienberg, professore di Teologia e Spiritualità, rettore della Philosophisch-Theologische Hochscule di Münster e soprattutto frate minore cappuccino. Il suo “Economia e spiritualità. Regola francescana e cultura d’impresa” è un volumetto agile ma profondo, che si legge d’un fiato.

Il punto di partenza è una constatazione. La Chiesa ha dato un rilevante contributo alla nascita della moderna società dell’organizzazione e le regole degli ordini religiosi – dai francescani ai benedettini – si possono interpretare come il tentativo di armonizzare necessità di governo e istanze spirituali, povertà evangelica e guida delle istituzioni. Proprio la cosiddetta “dimensione dello spirito”, viene da più parti sempre di più evocata come componente importante per il futuro dell’economia e per lo sviluppo di un più moderno, cosciente e responsabile management della cura collettiva, della salute, del cambiamento, della qualità e del personale.

Detto in altre parole – magari anche sull’onda degli scandali e del malaffare che emerge da più parti -, cresce la richiesta di attribuire un senso al lavoro, di gestire le relazioni aziendali in modo aperto e onesto, di governare i conflitti. Si cerca un’impresa che sia innovativa non solo nel prodotto ma anche nella capacità di recuperare in modo autentico e credibile il servizio come un pilastro dell’agire d’impresa.

Da tutto questo l’analisi di Dienberg che, dopo un excursus generale sui collegamenti fra economia, impresa e Regola, punta l’attenzione sul management della cura collettiva della salute, sul management del cambiamento, su quello della qualità e sul management del personale.

Economia e spiritualità. Regola francescana  e cultura d’impresa

Thomas Dienberg

EDB, 2013

Mercato e regole, senza invasioni della “cattiva politica”

Cultura d’impresa. Come cultura del mercato. E dunque (ecco un passaggio essenziale) come cultura delle regole, della competizione fair, della trasparenza, del merito. Una cultura dove democrazia e capitalismo si incontrano virtuosamente. Non è lezione accademica. Ma pratica possibile, già vista e vissuta nella storia e nella contemporaneità, ostacolata certo, ma tutta da difendere e riaffermare. Per ribadire i concetti, qui si usano le parole di un bravo giornalista, Pierluigi Battista, in un recente articolo (20 gennaio 2013) sul Corriere della Sera: “C’è ancora l’idea, molto diffusa tra i più convinti vessilliferi della ‘questione morale“, che il mercato sia il luogo dell’immoralità e dell’avidità e che dunque ogni proposta di restituire al mercato ciò che è stato usurpato dell’intermediazione politica non possa che aggravare i termini di un’urgente ‘questione morale’”. E’ stata invece proprio una certa intermediazione politica (talvolta con la complicità delle imprese peggiori) a stravolgere l’economia italiana, fare esplodere i costi delle opere e delle forniture pubbliche (distorcendo il mercato), pesare con la corruzione sullo spreco delle risorse pubbliche, impedire una buona selezione competitiva delle imprese. Insiste Battista: “E’ il mercato regolato dalle leggi, ma non asfissiato da una politica avida e intrusiva, a diminuire l’occasione per i partiti di ottenere qualcosa in cambio di autorizzazioni e appalti che non dovrebbero essere concessioni magnanime di un potere pubblico, questo sì sregolato e invadente, ma diritti. Diritti dei singoli. Diritti dei cittadini. Diritti degli imprenditori che non devono essere costretti a chiedere favori. Questa è la vera ‘questione morale’: considerare del tutto ovvio che sia elargito come un favore ciò che un cittadino dovrebbe e potrebbe esercitare come un diritto”. “Meno Stato e più mercato”, si usa dire. Non si tratta di questo. Ma di avere un migliore Stato che regola e controlla, un mercato più trasparente ed efficiente. E di imprese che maturino una migliore cultura della concorrenza, dei diritti, dei doveri.

Cultura d’impresa. Come cultura del mercato. E dunque (ecco un passaggio essenziale) come cultura delle regole, della competizione fair, della trasparenza, del merito. Una cultura dove democrazia e capitalismo si incontrano virtuosamente. Non è lezione accademica. Ma pratica possibile, già vista e vissuta nella storia e nella contemporaneità, ostacolata certo, ma tutta da difendere e riaffermare. Per ribadire i concetti, qui si usano le parole di un bravo giornalista, Pierluigi Battista, in un recente articolo (20 gennaio 2013) sul Corriere della Sera: “C’è ancora l’idea, molto diffusa tra i più convinti vessilliferi della ‘questione morale“, che il mercato sia il luogo dell’immoralità e dell’avidità e che dunque ogni proposta di restituire al mercato ciò che è stato usurpato dell’intermediazione politica non possa che aggravare i termini di un’urgente ‘questione morale’”. E’ stata invece proprio una certa intermediazione politica (talvolta con la complicità delle imprese peggiori) a stravolgere l’economia italiana, fare esplodere i costi delle opere e delle forniture pubbliche (distorcendo il mercato), pesare con la corruzione sullo spreco delle risorse pubbliche, impedire una buona selezione competitiva delle imprese. Insiste Battista: “E’ il mercato regolato dalle leggi, ma non asfissiato da una politica avida e intrusiva, a diminuire l’occasione per i partiti di ottenere qualcosa in cambio di autorizzazioni e appalti che non dovrebbero essere concessioni magnanime di un potere pubblico, questo sì sregolato e invadente, ma diritti. Diritti dei singoli. Diritti dei cittadini. Diritti degli imprenditori che non devono essere costretti a chiedere favori. Questa è la vera ‘questione morale’: considerare del tutto ovvio che sia elargito come un favore ciò che un cittadino dovrebbe e potrebbe esercitare come un diritto”. “Meno Stato e più mercato”, si usa dire. Non si tratta di questo. Ma di avere un migliore Stato che regola e controlla, un mercato più trasparente ed efficiente. E di imprese che maturino una migliore cultura della concorrenza, dei diritti, dei doveri.

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