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Se l’impresa “pensa diversamente”

Leonardo da Vinci pensava in modo diverso dal resto dei suoi contemporanei. Anche Albert Einstein aveva un cervello “non comune”. Tutto sommato anche Steve Jobs aveva un’intelligenza fuori dalla media. Geni, oppure, più semplicemente, uomini capaci di affrontare la realtà, analizzarla ed elaborarla in maniera diversa dal resto del sistema sociale in cui sono vissuti. Per questo, da Vinci, Einstein e Jobs, ognuno a modo suo, hanno avuto tutti successo.

Accade una cosa simile per le imprese. Quelle che riescono a sfondare, a crescere, a superare le difficoltà della congiuntura difficile, oppure più semplicemente i problemi dati dalla concorrenza avversa, sono le strutture produttive in grado di staccarsi dal pensiero corrente del fare impresa. Non ci sono ricette preconfezionate per riuscire in un’operazione di questo genere: alcune aziende riescono, altre, la maggioranza, no e vivacchiano. Più facile, forse, nelle piccole realtà, molto più difficile quando con la “diversità di pensiero” si confrontano i grandi gruppi industriali.

I meccanismi secondo i quali tutto questo accade sono affascinanti ma complicati, non ancora messi completamente a fuoco. Ci ha provato anche Rosabeth Moss Kanter  – definita una delle 50 donne più potenti al mondo o, in alternativa, uno dei 50 cervelli finanziari più influenti sul pianeta -, con il suo “How Great Companies Think Differently” pubblicato da Harvard Business Review, andato in libreria negli Usa nel 2011 ma non ancora pubblicato in Italia, fa ma ancora attualissimo in quanto a fascino e a provocazioni che contiene.

Moss Kanter dimostra che, invece di essere semplici macchine per fare soldi, le grandi aziende possono combinano logica finanziaria e sociale per costruire il loro successo duraturo. Alla base di tutto, stando alle argomentazioni dello studio, non ci sono solamente calcolo, ma anche emozioni, coinvolgimento, saper guardare oltre, spirito d’avventura. Perché, secondo l’autrice, le imprese sono entità sociali che si confrontano con l’incertezza e che riescono però a generare e trasmettere valori sociali attraverso chi vi lavora. Insomma, la vera impresa genera non solo profitti ma una propria cultura, un proprio modo di intendere la produzione e il proprio ruolo nella società che diventano potenti motori di crescita e sviluppo. A patto che si riesca a far funzionare tutto in maniera adeguata.

How Great Companies Think Differently

Rosabeth Moss Kanter

Harvard Business Review, 2011

Leonardo da Vinci pensava in modo diverso dal resto dei suoi contemporanei. Anche Albert Einstein aveva un cervello “non comune”. Tutto sommato anche Steve Jobs aveva un’intelligenza fuori dalla media. Geni, oppure, più semplicemente, uomini capaci di affrontare la realtà, analizzarla ed elaborarla in maniera diversa dal resto del sistema sociale in cui sono vissuti. Per questo, da Vinci, Einstein e Jobs, ognuno a modo suo, hanno avuto tutti successo.

Accade una cosa simile per le imprese. Quelle che riescono a sfondare, a crescere, a superare le difficoltà della congiuntura difficile, oppure più semplicemente i problemi dati dalla concorrenza avversa, sono le strutture produttive in grado di staccarsi dal pensiero corrente del fare impresa. Non ci sono ricette preconfezionate per riuscire in un’operazione di questo genere: alcune aziende riescono, altre, la maggioranza, no e vivacchiano. Più facile, forse, nelle piccole realtà, molto più difficile quando con la “diversità di pensiero” si confrontano i grandi gruppi industriali.

I meccanismi secondo i quali tutto questo accade sono affascinanti ma complicati, non ancora messi completamente a fuoco. Ci ha provato anche Rosabeth Moss Kanter  – definita una delle 50 donne più potenti al mondo o, in alternativa, uno dei 50 cervelli finanziari più influenti sul pianeta -, con il suo “How Great Companies Think Differently” pubblicato da Harvard Business Review, andato in libreria negli Usa nel 2011 ma non ancora pubblicato in Italia, fa ma ancora attualissimo in quanto a fascino e a provocazioni che contiene.

Moss Kanter dimostra che, invece di essere semplici macchine per fare soldi, le grandi aziende possono combinano logica finanziaria e sociale per costruire il loro successo duraturo. Alla base di tutto, stando alle argomentazioni dello studio, non ci sono solamente calcolo, ma anche emozioni, coinvolgimento, saper guardare oltre, spirito d’avventura. Perché, secondo l’autrice, le imprese sono entità sociali che si confrontano con l’incertezza e che riescono però a generare e trasmettere valori sociali attraverso chi vi lavora. Insomma, la vera impresa genera non solo profitti ma una propria cultura, un proprio modo di intendere la produzione e il proprio ruolo nella società che diventano potenti motori di crescita e sviluppo. A patto che si riesca a far funzionare tutto in maniera adeguata.

How Great Companies Think Differently

Rosabeth Moss Kanter

Harvard Business Review, 2011

La qualità non basta più, il brand nemmeno

Sapienza produttiva, certamente. Qualità eccelsa, ovviamente. Stile inconfondibile, naturalmente. Ma, di fronte ad una concorrenza sempre più sfrenata, ad una competitività che deve essere globale, a mercati schizofrenici e a modelli di consumo imprevedibili, tutto questo non basta più. Occorre essere organizzati in maniera diversa e, soprattutto, non solo all’interno dello stabilimento ma anche al di fuori, creando una rete di relazioni impensabile fino a poco tempo fa.

Detta in altro modo, se il cosiddetto brand e la qualità dei prodotti rischiano di non essere più sufficienti a garantire competitività, occorre far leva anche su altro. Ma come? E su cosa?

Una strada è il miglioramento dei processi di supply chain management (SCM). Per capire come fare e come è già stato fatto, basta leggere uno degli ultimi lavori di Raffaele Secchi, ricercatore e docente presso il Dipartimento di Management dell’università Bocconi di Milano. Nelle 300 pagine circa di “Supply chain management e made in Italy” – questo il titolo del volume -, non si trova però semplicemente la teoria, ma nove casi pratici corrispondenti ad altrettante aziende. Si tratta di: Barilla, Granarolo, Lavazza, B&B Italia, Elica, Poltrona Frau Group, Loro Piana, Luxottica, Piquadro. Tutte – come si vede – imprese nostrane che hanno sperimentato, in vario modo, il contributo dei processi di supply chain management alla loro competitività.

Il nocciolo del lavoro è semplice. L’adozione di prassi di integrazione dei processi e lo sviluppo di logiche di collaborazione con gli attori a monte e a valle della supply chain, consente di consolidare in misura significativa la competitività aziendale. Come lo si scopre leggendo il libro.

In definitiva, brand e qualità del prodotto sono ancora il punto di forza del Made in Italy, ma per difendere la competitività nei mercati internazionali non è più possibile trascurare una terza leva: l’organizzazione dei processi di supply chain management: modelli di eccellenza anche oltre i confini dei settori food, design e fashion.

Supply chain management e made in Italy. Lezioni da nove casi di eccellenza

Raffaele Secchi

Egea, 2012

Sapienza produttiva, certamente. Qualità eccelsa, ovviamente. Stile inconfondibile, naturalmente. Ma, di fronte ad una concorrenza sempre più sfrenata, ad una competitività che deve essere globale, a mercati schizofrenici e a modelli di consumo imprevedibili, tutto questo non basta più. Occorre essere organizzati in maniera diversa e, soprattutto, non solo all’interno dello stabilimento ma anche al di fuori, creando una rete di relazioni impensabile fino a poco tempo fa.

Detta in altro modo, se il cosiddetto brand e la qualità dei prodotti rischiano di non essere più sufficienti a garantire competitività, occorre far leva anche su altro. Ma come? E su cosa?

Una strada è il miglioramento dei processi di supply chain management (SCM). Per capire come fare e come è già stato fatto, basta leggere uno degli ultimi lavori di Raffaele Secchi, ricercatore e docente presso il Dipartimento di Management dell’università Bocconi di Milano. Nelle 300 pagine circa di “Supply chain management e made in Italy” – questo il titolo del volume -, non si trova però semplicemente la teoria, ma nove casi pratici corrispondenti ad altrettante aziende. Si tratta di: Barilla, Granarolo, Lavazza, B&B Italia, Elica, Poltrona Frau Group, Loro Piana, Luxottica, Piquadro. Tutte – come si vede – imprese nostrane che hanno sperimentato, in vario modo, il contributo dei processi di supply chain management alla loro competitività.

Il nocciolo del lavoro è semplice. L’adozione di prassi di integrazione dei processi e lo sviluppo di logiche di collaborazione con gli attori a monte e a valle della supply chain, consente di consolidare in misura significativa la competitività aziendale. Come lo si scopre leggendo il libro.

In definitiva, brand e qualità del prodotto sono ancora il punto di forza del Made in Italy, ma per difendere la competitività nei mercati internazionali non è più possibile trascurare una terza leva: l’organizzazione dei processi di supply chain management: modelli di eccellenza anche oltre i confini dei settori food, design e fashion.

Supply chain management e made in Italy. Lezioni da nove casi di eccellenza

Raffaele Secchi

Egea, 2012

Il Cinturato: dall’Europa all’America

Il Cinturato Pirelli: un brevetto del 1951

“Dopo cinque lunghi anni di studi, abbiamo prodotto e posto in vendita un nuovo pneumatico chiamato Cinturato, costruito sulla base di criteri completamente diversi da quelli soliti. Il particolare fondamentale che caratterizza la sua struttura è dato da una robusta cintura di tessuto situata tra il battistrada e la carcassa; quest’ultima, grazie a particolari accorgimenti, presenta anch’essa una solidità tale da resistere in modo superiore all’usura dell’impiego”. Così, nella relazione di Bilancio 1952, Pirelli annunciava la nascita del radiale: era il Cinturato, destinato a rivoluzionare il mondo dei pneumatici e – con esso – quello dei mezzi di trasporto su gomma.

La struttura radiale tessile Pirelli – studiata dall’ingegner Luigi Emanueli nell’immediato dopoguerra – viene brevettata nel 1951, ma il Cinturato ci metterà una buona decina d’anni ad imporsi presso le case automobilistiche e presso gli utenti, proprio per gli stessi motivi che alla lunga ne decreteranno il successo planetario: troppo poco confortevole, troppo rigido per quei tanti automobilisti che in quegli anni di motorizzazione di massa cercavano più il confort delle prestazioni.

Cinturato CN72, l’americano

“Per la nuova Camaro il nuovo Cinturato Pirelli”, titola il comunicato stampa del 1967 che annuncia lo storico sbarco del Cinturato negli Stati Uniti, paese tradizionalmente poco sensibile alla tecnologia radiale. Per equipaggiare quella che in America si presenta come la grande avversaria della Ford Mustang, i tecnici Pirelli sono intervenuti con nuove strutture e nuovo disegno battistrada rispetto al Cinturato “europeo”. Nasce il Cinturato CN72, dalla linea complessa e “fiorita”: lo ritroviamo presto anche in Europa, come nuovo disegno del Cinturato HS adottato ora anche dalla mitica Lamborghini Miura. E quando, di lì a un paio d’anni, la Lamborghini più famosa della storia richiederà  – assieme alla Maserati Ghibli – un ribassatoSerie 70”, ecco entrare in listino il Cinturato CN73. Un’altra rivoluzione sta per iniziare sotto il marchio Cinturato…

E la storia continua…

Il Cinturato Pirelli: un brevetto del 1951

“Dopo cinque lunghi anni di studi, abbiamo prodotto e posto in vendita un nuovo pneumatico chiamato Cinturato, costruito sulla base di criteri completamente diversi da quelli soliti. Il particolare fondamentale che caratterizza la sua struttura è dato da una robusta cintura di tessuto situata tra il battistrada e la carcassa; quest’ultima, grazie a particolari accorgimenti, presenta anch’essa una solidità tale da resistere in modo superiore all’usura dell’impiego”. Così, nella relazione di Bilancio 1952, Pirelli annunciava la nascita del radiale: era il Cinturato, destinato a rivoluzionare il mondo dei pneumatici e – con esso – quello dei mezzi di trasporto su gomma.

La struttura radiale tessile Pirelli – studiata dall’ingegner Luigi Emanueli nell’immediato dopoguerra – viene brevettata nel 1951, ma il Cinturato ci metterà una buona decina d’anni ad imporsi presso le case automobilistiche e presso gli utenti, proprio per gli stessi motivi che alla lunga ne decreteranno il successo planetario: troppo poco confortevole, troppo rigido per quei tanti automobilisti che in quegli anni di motorizzazione di massa cercavano più il confort delle prestazioni.

Cinturato CN72, l’americano

“Per la nuova Camaro il nuovo Cinturato Pirelli”, titola il comunicato stampa del 1967 che annuncia lo storico sbarco del Cinturato negli Stati Uniti, paese tradizionalmente poco sensibile alla tecnologia radiale. Per equipaggiare quella che in America si presenta come la grande avversaria della Ford Mustang, i tecnici Pirelli sono intervenuti con nuove strutture e nuovo disegno battistrada rispetto al Cinturato “europeo”. Nasce il Cinturato CN72, dalla linea complessa e “fiorita”: lo ritroviamo presto anche in Europa, come nuovo disegno del Cinturato HS adottato ora anche dalla mitica Lamborghini Miura. E quando, di lì a un paio d’anni, la Lamborghini più famosa della storia richiederà  – assieme alla Maserati Ghibli – un ribassatoSerie 70”, ecco entrare in listino il Cinturato CN73. Un’altra rivoluzione sta per iniziare sotto il marchio Cinturato…

E la storia continua…

Sul Corriere della Sera, “L’Italia riparte dalla cultura d’impresa”

L’Italia riparte dalla cultura d’impresa”,  ha scritto nei giorni scorsi (20 febbraio) il professor  Carlo Bellavite Pellegrini (storico dell’Università  Cattolica di Milano) sulle pagine dei commenti del “Corriere della Sera”. Un ragionamento serio, che vale la pena riprendere per i lettori del nostro blog. Cultura d’impresa come “quadro di valori e di principi”. Valido per le imprese che ne sono protagoniste, naturalmente. Ma anche per il Paese nel suo complesso, soprattutto in tempi di grande crisi. Infatti, nota Bellavite Pellegrini, “nell’attuale contesto di progressivo svilimento della nostra identità, storia e memoria nazionale, la cultura aziendale di alcune imprese italiane può utilmente diventare segno tangibile e vessillo planetario, immediatamente riconoscibile, per comunicare ai mercati e al mondo gli straordinari talenti, la creatività e il gusto che da sempre hanno stabile dimora in Italia”. L’identità diventa motore di competitività. E rappresentazione di storia e di futuro. Lo storico cita gli Archivi Storici di Fondazione Pirelli, Intesa San Paolo e Mediobanca come testimonianze dell’impegno positivo di grandi imprese, non solo per la conservazione della memoria, ma anche per comunicare a tutti gli stakeholders e al mercato l’insieme dei valori che l’impresa ha interpretato e intende continuare a far vivere. C’è da costruire, inoltre, un sistema, simbolico e funzionale,  di relazioni tra creatività, ricerca artistica e scientifica (una nuova frontiera che vede protagonisti molti degli artisti contemporeanei più innovativi, come Saraceno e Nicolai, protagonisti di opere di gran successo di critica e di pubblico all’HangarBicocca),  interpretazione dei cambiamenti delle tendenze dei gusti e dei mercati, decifrazione delle metamorfosi sociali e dunque anche economiche.  E c’è da rafforzare un rapporto con il territorio (la Bicocca, per la Fondazione Pirelli). Nota infatti Bellavite Pellegrini: “La cultura e l’arte sono valori condivisi nella storia di una nazione e come tali rappresentano fattori di stabilità, fiducia civile e coesione sociale, prerequisiti indispensabili per il mantenimento di un adeguato ‘capitale sociale’ necessario per il corretto funzionamento dei mercati”. In questo senso “la cultura d’impresa rappresenta un’esternalità positiva a beneficio del paese”, anche attraverso “la riqualificazione di centri e periferie, a seconda delle vocazioni, che le culture aziendali compiono a favore delle comunità presso cui insistono” . Impresa è cultura, dunque, anche da questo punto di vista.

L’Italia riparte dalla cultura d’impresa”,  ha scritto nei giorni scorsi (20 febbraio) il professor  Carlo Bellavite Pellegrini (storico dell’Università  Cattolica di Milano) sulle pagine dei commenti del “Corriere della Sera”. Un ragionamento serio, che vale la pena riprendere per i lettori del nostro blog. Cultura d’impresa come “quadro di valori e di principi”. Valido per le imprese che ne sono protagoniste, naturalmente. Ma anche per il Paese nel suo complesso, soprattutto in tempi di grande crisi. Infatti, nota Bellavite Pellegrini, “nell’attuale contesto di progressivo svilimento della nostra identità, storia e memoria nazionale, la cultura aziendale di alcune imprese italiane può utilmente diventare segno tangibile e vessillo planetario, immediatamente riconoscibile, per comunicare ai mercati e al mondo gli straordinari talenti, la creatività e il gusto che da sempre hanno stabile dimora in Italia”. L’identità diventa motore di competitività. E rappresentazione di storia e di futuro. Lo storico cita gli Archivi Storici di Fondazione Pirelli, Intesa San Paolo e Mediobanca come testimonianze dell’impegno positivo di grandi imprese, non solo per la conservazione della memoria, ma anche per comunicare a tutti gli stakeholders e al mercato l’insieme dei valori che l’impresa ha interpretato e intende continuare a far vivere. C’è da costruire, inoltre, un sistema, simbolico e funzionale,  di relazioni tra creatività, ricerca artistica e scientifica (una nuova frontiera che vede protagonisti molti degli artisti contemporeanei più innovativi, come Saraceno e Nicolai, protagonisti di opere di gran successo di critica e di pubblico all’HangarBicocca),  interpretazione dei cambiamenti delle tendenze dei gusti e dei mercati, decifrazione delle metamorfosi sociali e dunque anche economiche.  E c’è da rafforzare un rapporto con il territorio (la Bicocca, per la Fondazione Pirelli). Nota infatti Bellavite Pellegrini: “La cultura e l’arte sono valori condivisi nella storia di una nazione e come tali rappresentano fattori di stabilità, fiducia civile e coesione sociale, prerequisiti indispensabili per il mantenimento di un adeguato ‘capitale sociale’ necessario per il corretto funzionamento dei mercati”. In questo senso “la cultura d’impresa rappresenta un’esternalità positiva a beneficio del paese”, anche attraverso “la riqualificazione di centri e periferie, a seconda delle vocazioni, che le culture aziendali compiono a favore delle comunità presso cui insistono” . Impresa è cultura, dunque, anche da questo punto di vista.

Le imprese crescono meglio se innovano in rete

In rete si lavora meglio e si innova di più, si crea più efficienza, si distribuisce il rischio. Anzi, l’innovazione nasce più facilmente quando si riesce a colloquiare in tutte le direzioni. Nell’ambito dell’industria, questi concetti sono diffusi da tempo ma non ancora totalmente messi in pratica. Anche se negli ultimi anni, le aziende si sono sempre più allontanate dal modello gerarchico e integrato di supply chain in favore di reti interorganizzative più frammentate, costituite da collaborazioni strategiche con unità esterne. Ne sono esempi i tanti casi in settori come quelli dell’auto, del tessile e dell’abbigliamento, dell’alimentare, delle manifatture particolari come quelle della rubinetteria, della meccanica fine, dell’elettronica applicata.

Ma l’economia reale sorprende sempre la teoria. Alcune ricerche empiriche, per esempio, mostrano come l’approccio “a rete” si stia ora diffondendo anche in contesti in cui giocano un ruolo centrale le tecnologie digitali, che consentono di lavorare abbattendo le tradizionali barriere temporali, spaziali e funzionali. E proprio da questi comparti stanno arrivando, di ritorno, indicazioni utili per le imprese manifatturiere che per prime avevano sperimentato determinate soluzioni.

Per capire cosa sta accadendo, è possibile leggere “Digital Business Strategy and Value Creation: Framing the Dynamic Cycle of Control Points” di Margherita Pagani (del Dipartimento di Marketing dell’Università Bocconi), in corso di pubblicazione su MIS Quarterly. Pagani parte dallo studio, prima teorico e poi sul campo, dell’evoluzione dell’organizzazione produttiva dell’industria europea ed americana del broadcasting per arrivare a conclusioni che possono interessare l’intero ambito industriale. Lo studio dei casi e i dati empirici, anzi, arriva a individuare tre differenti costellazioni di punti di controllo, cioè specifiche configurazioni mediante le quali le transazioni necessarie alla fornitura di un servizio sono effettuate: una verticale, una struttura a rete e una basata su una piattaforma multilaterale. Ma non solo. La ricerca, infatti, dimostra come, spinte dal mercato e dalla tecnologia, le imprese per sopravvivere debbano imparare a sfruttare anche i cosiddetti “elementi di rottura” – cioè quegli elementi innovativi, quei salti di percorso, quegli scarti di direzione che causano la frantumazione degli equilibri preesistenti in un’organizzazione e che possono distruggerla oppure ricrearla -, oltre che imparare a comunicare meglio al loro interno e fra di loro.

Digital Business Strategy and Value Creation: Framing the Dynamic Cycle of Control Points

Margherita Pagani

MIS Quarterly, 2013

In rete si lavora meglio e si innova di più, si crea più efficienza, si distribuisce il rischio. Anzi, l’innovazione nasce più facilmente quando si riesce a colloquiare in tutte le direzioni. Nell’ambito dell’industria, questi concetti sono diffusi da tempo ma non ancora totalmente messi in pratica. Anche se negli ultimi anni, le aziende si sono sempre più allontanate dal modello gerarchico e integrato di supply chain in favore di reti interorganizzative più frammentate, costituite da collaborazioni strategiche con unità esterne. Ne sono esempi i tanti casi in settori come quelli dell’auto, del tessile e dell’abbigliamento, dell’alimentare, delle manifatture particolari come quelle della rubinetteria, della meccanica fine, dell’elettronica applicata.

Ma l’economia reale sorprende sempre la teoria. Alcune ricerche empiriche, per esempio, mostrano come l’approccio “a rete” si stia ora diffondendo anche in contesti in cui giocano un ruolo centrale le tecnologie digitali, che consentono di lavorare abbattendo le tradizionali barriere temporali, spaziali e funzionali. E proprio da questi comparti stanno arrivando, di ritorno, indicazioni utili per le imprese manifatturiere che per prime avevano sperimentato determinate soluzioni.

Per capire cosa sta accadendo, è possibile leggere “Digital Business Strategy and Value Creation: Framing the Dynamic Cycle of Control Points” di Margherita Pagani (del Dipartimento di Marketing dell’Università Bocconi), in corso di pubblicazione su MIS Quarterly. Pagani parte dallo studio, prima teorico e poi sul campo, dell’evoluzione dell’organizzazione produttiva dell’industria europea ed americana del broadcasting per arrivare a conclusioni che possono interessare l’intero ambito industriale. Lo studio dei casi e i dati empirici, anzi, arriva a individuare tre differenti costellazioni di punti di controllo, cioè specifiche configurazioni mediante le quali le transazioni necessarie alla fornitura di un servizio sono effettuate: una verticale, una struttura a rete e una basata su una piattaforma multilaterale. Ma non solo. La ricerca, infatti, dimostra come, spinte dal mercato e dalla tecnologia, le imprese per sopravvivere debbano imparare a sfruttare anche i cosiddetti “elementi di rottura” – cioè quegli elementi innovativi, quei salti di percorso, quegli scarti di direzione che causano la frantumazione degli equilibri preesistenti in un’organizzazione e che possono distruggerla oppure ricrearla -, oltre che imparare a comunicare meglio al loro interno e fra di loro.

Digital Business Strategy and Value Creation: Framing the Dynamic Cycle of Control Points

Margherita Pagani

MIS Quarterly, 2013

Esiste l’impresa per gli altri?

Esistono forme di impresa fondate sul principio della gratuità? E davvero si può conciliare l’economia con l’altruismo, l’impresa con l’altro, il mercato con il dono? L’economia è una sfida da vincere non solo perché ogni giorno le imprese combattono la battaglia dei costi e dei prezzi, ma anche perché la stessa economia può avere risvolti diversi, più vicini all’uomo, arrivando a delineare una gestione dell’impresa diversa da quella che, oggi, è in gran parte diffusa.

Si tratta di questioni non teoriche, ma assolutamente pratiche visto che possono condizionare la gestione operative delle aziende.

Per capire meglio, economisti, imprenditori e filosofi si sono esercitati a ragionare attorno all’’Enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate”. Ne è nato “Cultura d’impresa e costruzione del bene comune. L’Enciclica Caritas in Veritate per un mondo migliore”: circa trecento pagine di interventi coordinati da Angelo Ferro e Pierluigi Sassi per l’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti e la Libreria Editrice Vaticana.

Se l’economia è una sfida, la Caritas in Veritate costituisce una sfida alla sfida. L’Enciclica è, infatti, un’analisi economica e sociale della realtà del XXI secolo con un forte richiamo etico, ma che soprattutto ragiona sulla necessità di non separare l’economia dall’uomo, allargando cioè il concetto di persona al concetto di relazionalità che rende l’agire umano segno di realizzazione del “bene comune, cioè del vivere sociale delle persone”.

Il volume, così, racconta di una riflessione originale ed approfondita nella quale si affianca al contributo degli economisti il racconto e la descrizione delle applicazioni pratiche della dottrina sociale a realtà imprenditoriali di successo, al mondo della formazione, del credito e della dinamica sociale. Un percorso che fornisce alla fine spunti originali da provare ad applicare anche in altre aziende.

Enciclica e interventi attorno ad essa, finiscono così per ragionare su almeno due concetti – carità e impresa – apparentemente scollegati fra di loro, ma che sempre di più si cercano reciprocamente, spesso trovandosi.

Cultura d’impresa e costruzione del bene comune. L’enciclica Caritas in veritate per un mondo migliore

A. Ferro – P. Sassi

Libreria Editrice Vaticana, 2010

Esistono forme di impresa fondate sul principio della gratuità? E davvero si può conciliare l’economia con l’altruismo, l’impresa con l’altro, il mercato con il dono? L’economia è una sfida da vincere non solo perché ogni giorno le imprese combattono la battaglia dei costi e dei prezzi, ma anche perché la stessa economia può avere risvolti diversi, più vicini all’uomo, arrivando a delineare una gestione dell’impresa diversa da quella che, oggi, è in gran parte diffusa.

Si tratta di questioni non teoriche, ma assolutamente pratiche visto che possono condizionare la gestione operative delle aziende.

Per capire meglio, economisti, imprenditori e filosofi si sono esercitati a ragionare attorno all’’Enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate”. Ne è nato “Cultura d’impresa e costruzione del bene comune. L’Enciclica Caritas in Veritate per un mondo migliore”: circa trecento pagine di interventi coordinati da Angelo Ferro e Pierluigi Sassi per l’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti e la Libreria Editrice Vaticana.

Se l’economia è una sfida, la Caritas in Veritate costituisce una sfida alla sfida. L’Enciclica è, infatti, un’analisi economica e sociale della realtà del XXI secolo con un forte richiamo etico, ma che soprattutto ragiona sulla necessità di non separare l’economia dall’uomo, allargando cioè il concetto di persona al concetto di relazionalità che rende l’agire umano segno di realizzazione del “bene comune, cioè del vivere sociale delle persone”.

Il volume, così, racconta di una riflessione originale ed approfondita nella quale si affianca al contributo degli economisti il racconto e la descrizione delle applicazioni pratiche della dottrina sociale a realtà imprenditoriali di successo, al mondo della formazione, del credito e della dinamica sociale. Un percorso che fornisce alla fine spunti originali da provare ad applicare anche in altre aziende.

Enciclica e interventi attorno ad essa, finiscono così per ragionare su almeno due concetti – carità e impresa – apparentemente scollegati fra di loro, ma che sempre di più si cercano reciprocamente, spesso trovandosi.

Cultura d’impresa e costruzione del bene comune. L’enciclica Caritas in veritate per un mondo migliore

A. Ferro – P. Sassi

Libreria Editrice Vaticana, 2010

“Resiliente”, l’economia flessibile contro la crisi

C’è un termine antico, dal sapore di nuovo, che anima il dibattito economico più sofisticato: resilienza. Si parla di “età della resilienza”, nei documenti sulle politiche economiche della Casa Bianca di Obama, ma anche nelle analisi dell’Ocse. L’espressione è risuonata in molti dei discorsi del World Economic Forum di Davos. E ha avuto eco su ben tre pagine de “la Repubblica” (23 gennaio). La “resilienza”, dunque. E cioè, con termine che viene dal latino (“resilere”: saltare indietro), adattarsi ai cambiamenti, assorbirli, non resistere frontalmente rischiando di frantumarsi ma accoglierli. Adattamento. Il contrario della rigidità. E della fragilità. Per gli studiosi degli ecosistemi, approfondire l’attitudine a ritrovare un nuovo equilibrio, dopo uno shock esterno. Per gli ingegneri che lavorano sui materiali, studiare la gomma e le plastiche o certe caratteristiche che le nanotecnologie introducono perfino negli acciai e nei cementi. Per gli economisti, definire flessibilità in relazione alle mutazioni. Ma la flessibilità, appunto, è caratteristica di fondo della cultura d’impresa italiana. E’ il “su misura”, cui si conformano non solo gli artigiani del made in Italy tradizionale, ma soprattutto i sofisticatissimi industriali delle macchine utensili, che costruiscono impianti produttivi (dalle acciaierie alle strutture per il confezionamento e l’imballaggio di prodotti alimentari o medicinali) per i loro clienti in tutto il mondo. Potremmo anche dire che l’industria italiana di qualità è sempre stata “resiliente”, adattativa. E sottolinearne adesso la contemporaneità, lungo l’orizzonte della “fabbrica degli anni Duemila”, una fabbrica che è originale sintesi tra laser e sapienza artigiana, tra laboratori di ricerca, stanze di sperimentazione dei prototipi, strutture di produzione, uffici di servizi complessi, luoghi dell’incontro tra tecniche ed estetiche, nuovi materiali, nuove forme, nuovi usi. Adesso, appunto, abbiamo persino un termine di gran moda nei più autorevoli circuiti economici per dare nome a questa nostra attitudine. “L’industria resiliente”. Letterariamente, forse, non è il massimo della bellezza formale. Nella sostanza, è il riconoscimento di un successo. Su cui insistere.

C’è un termine antico, dal sapore di nuovo, che anima il dibattito economico più sofisticato: resilienza. Si parla di “età della resilienza”, nei documenti sulle politiche economiche della Casa Bianca di Obama, ma anche nelle analisi dell’Ocse. L’espressione è risuonata in molti dei discorsi del World Economic Forum di Davos. E ha avuto eco su ben tre pagine de “la Repubblica” (23 gennaio). La “resilienza”, dunque. E cioè, con termine che viene dal latino (“resilere”: saltare indietro), adattarsi ai cambiamenti, assorbirli, non resistere frontalmente rischiando di frantumarsi ma accoglierli. Adattamento. Il contrario della rigidità. E della fragilità. Per gli studiosi degli ecosistemi, approfondire l’attitudine a ritrovare un nuovo equilibrio, dopo uno shock esterno. Per gli ingegneri che lavorano sui materiali, studiare la gomma e le plastiche o certe caratteristiche che le nanotecnologie introducono perfino negli acciai e nei cementi. Per gli economisti, definire flessibilità in relazione alle mutazioni. Ma la flessibilità, appunto, è caratteristica di fondo della cultura d’impresa italiana. E’ il “su misura”, cui si conformano non solo gli artigiani del made in Italy tradizionale, ma soprattutto i sofisticatissimi industriali delle macchine utensili, che costruiscono impianti produttivi (dalle acciaierie alle strutture per il confezionamento e l’imballaggio di prodotti alimentari o medicinali) per i loro clienti in tutto il mondo. Potremmo anche dire che l’industria italiana di qualità è sempre stata “resiliente”, adattativa. E sottolinearne adesso la contemporaneità, lungo l’orizzonte della “fabbrica degli anni Duemila”, una fabbrica che è originale sintesi tra laser e sapienza artigiana, tra laboratori di ricerca, stanze di sperimentazione dei prototipi, strutture di produzione, uffici di servizi complessi, luoghi dell’incontro tra tecniche ed estetiche, nuovi materiali, nuove forme, nuovi usi. Adesso, appunto, abbiamo persino un termine di gran moda nei più autorevoli circuiti economici per dare nome a questa nostra attitudine. “L’industria resiliente”. Letterariamente, forse, non è il massimo della bellezza formale. Nella sostanza, è il riconoscimento di un successo. Su cui insistere.

Chi decide in azienda?

In azienda si decide in tanti. Anche quando “il capo” è uno solo. Questa, almeno, è la situazione che si coglie guardando dentro ad una serie di imprese che, nonostante tutto, crescono  in quanto a produzione e presenza sui mercati. Anzi, più l’impresa è grande e più il processo decisionale e la creazione imprenditoriale hanno origini diffuse. Può apparire una banalità, ma non è così. Perché studiare e comprendere in pieno come le decisioni prendono forma fino a trovare applicazione concreta, è una strada efficace per capire la cultura d’impresa delle singole realtà e, soprattutto, migliorare ancora la loro gestione.

La radiografia di come vengono prese le decisioni un una grande azienda è stata condotta recentemente da Olga Belousova e da Benoît Gailly  – entrambi della Louvain School of Management (Université catholique de Louvain) -, in un denso articolo apparso sui Working Papers della scuola stessa.

Corporate entrepreneurship in a dispersed setting: actors, behaviors, process”, questo il titolo del lavoro, ha un obiettivo: esaminare come si forma e si evolve “l’imprenditorialità aziendale in un ambiente disperso” cioè in un ambiente in cui è possibile ottenere contributi da diversi “ranghi” aziendali.

Dopo una carrellata della letteratura economica e di management già disponibile sull’argomento, i due autori scelgono di scendere in campo, cioè in azienda, per capire meglio. Il lavoro, quindi, studia i meccanismi decisionali in un’azienda chimica multinazionale, con 140 anni di storia, che opera in più di dieci diverse aree concentrate in due settori di attività e che impiega più di 25.000 dipendenti in circa 50 paesi in tutto il mondo. Guardando al percorso delle scelte che interessano nuovi prodotti, nuovi mercati ma anche nuove tecnologie di produzione,  Belousova e Gailly spiegano come i dipendenti di diversi ranghi manageriali possano contribuire alla creazione dell’imprenditorialità aziendale e  come questi contributi riescano anche a cambiare un progetto che si sviluppa nel corso del tempo. Tutto per arrivare ad una conclusione: l’imprenditorialità aziendale è sempre di più una combinazione di attività formali e informali assunte da molteplici individui tanto da delineare un’immagine collettiva dell’impresa, sempre più lontana da quella dell’uomo solo al comando.

Corporate entrepreneurship in a dispersed setting: actors, behaviors, process

Olga Belousova-Benoît Gailly

Louvain School of Management Working Paper Series (2012,05).

In azienda si decide in tanti. Anche quando “il capo” è uno solo. Questa, almeno, è la situazione che si coglie guardando dentro ad una serie di imprese che, nonostante tutto, crescono  in quanto a produzione e presenza sui mercati. Anzi, più l’impresa è grande e più il processo decisionale e la creazione imprenditoriale hanno origini diffuse. Può apparire una banalità, ma non è così. Perché studiare e comprendere in pieno come le decisioni prendono forma fino a trovare applicazione concreta, è una strada efficace per capire la cultura d’impresa delle singole realtà e, soprattutto, migliorare ancora la loro gestione.

La radiografia di come vengono prese le decisioni un una grande azienda è stata condotta recentemente da Olga Belousova e da Benoît Gailly  – entrambi della Louvain School of Management (Université catholique de Louvain) -, in un denso articolo apparso sui Working Papers della scuola stessa.

Corporate entrepreneurship in a dispersed setting: actors, behaviors, process”, questo il titolo del lavoro, ha un obiettivo: esaminare come si forma e si evolve “l’imprenditorialità aziendale in un ambiente disperso” cioè in un ambiente in cui è possibile ottenere contributi da diversi “ranghi” aziendali.

Dopo una carrellata della letteratura economica e di management già disponibile sull’argomento, i due autori scelgono di scendere in campo, cioè in azienda, per capire meglio. Il lavoro, quindi, studia i meccanismi decisionali in un’azienda chimica multinazionale, con 140 anni di storia, che opera in più di dieci diverse aree concentrate in due settori di attività e che impiega più di 25.000 dipendenti in circa 50 paesi in tutto il mondo. Guardando al percorso delle scelte che interessano nuovi prodotti, nuovi mercati ma anche nuove tecnologie di produzione,  Belousova e Gailly spiegano come i dipendenti di diversi ranghi manageriali possano contribuire alla creazione dell’imprenditorialità aziendale e  come questi contributi riescano anche a cambiare un progetto che si sviluppa nel corso del tempo. Tutto per arrivare ad una conclusione: l’imprenditorialità aziendale è sempre di più una combinazione di attività formali e informali assunte da molteplici individui tanto da delineare un’immagine collettiva dell’impresa, sempre più lontana da quella dell’uomo solo al comando.

Corporate entrepreneurship in a dispersed setting: actors, behaviors, process

Olga Belousova-Benoît Gailly

Louvain School of Management Working Paper Series (2012,05).

Pensare bene l’impresa

Un “manuale” per creare un’impresa, o, meglio, per creare un ambiente dove si produce, si fa cultura del produrre, si crea una socialità nuova. Perché le imprese, le fabbriche, gli stabilimenti, non sono solamente luoghi dove si confeziona qualcosa – di materiale o immateriale – ma luoghi nei quali si crea qualcosa. Sempre che l’impresa sia pensata, creata e gestita in un determinato modo. Altro da quanto spesso si vede.

Ma occorre avere un’indicazione della strada, dei passi da compiere, un’ispirazione. Per molti aspetti è quanto ha fatto Filippo Monge con il suo “Sistema impresa. Cultura, valore, innovazione”, un manuale alla terza edizione che condensa in circa 300 pagine tutto ciò che occorre sapere per dare vita ad un’impresa come si deve.

Monge insegna materie economiche all’Università di Torino ma è anche immerso nel mondo reale delle imprese e parla quindi in maniera concreta partendo da alcune domande.  Perché, per esempio,  i bambini colorano e hanno sempre colorato la fabbrica con la matita grigia? Perché nell’immaginario collettivo la parola impresa/azienda evoca immagini non sempre positive?

Le risposte stanno in un vuoto – quello creato dall’assenza di una moderna cultura d’impresa – che proprio questo manuale vuole iniziare a riempire.

Per troppo tempo – dice infatti Monge -, è mancata, nelle nuove generazioni, una moderna cultura d’impresa. Oggi, spesso, si insegna a governare un’impresa, a dirigerla, ma mai (o poco) a fondarla. Per capire di più, occorre tornare ai Maestri di questa materia come Zappa, Fazi, Golinelli e Ghoshal per i quali l’impresa diventa laboratorio positivo di esperienze e di sviluppo economico.

Da qui la filosofia che Monge vuole applicare e che costituisce l’anima del libro. Creare impresa vuol dire non solo creare business ma anche generare risorse, esperienze, competenze, conoscenze. E per farlo servono nuove idee, in una moderna visione attenta alle esigenze degli stakehoder e alla competitività dei territori; ma anche scelte responsabili e decisioni sostenibili.

Sistema impresa. Cultura, valore, innovazione

Filippo Monge

Franco Angeli, 2012.

Un “manuale” per creare un’impresa, o, meglio, per creare un ambiente dove si produce, si fa cultura del produrre, si crea una socialità nuova. Perché le imprese, le fabbriche, gli stabilimenti, non sono solamente luoghi dove si confeziona qualcosa – di materiale o immateriale – ma luoghi nei quali si crea qualcosa. Sempre che l’impresa sia pensata, creata e gestita in un determinato modo. Altro da quanto spesso si vede.

Ma occorre avere un’indicazione della strada, dei passi da compiere, un’ispirazione. Per molti aspetti è quanto ha fatto Filippo Monge con il suo “Sistema impresa. Cultura, valore, innovazione”, un manuale alla terza edizione che condensa in circa 300 pagine tutto ciò che occorre sapere per dare vita ad un’impresa come si deve.

Monge insegna materie economiche all’Università di Torino ma è anche immerso nel mondo reale delle imprese e parla quindi in maniera concreta partendo da alcune domande.  Perché, per esempio,  i bambini colorano e hanno sempre colorato la fabbrica con la matita grigia? Perché nell’immaginario collettivo la parola impresa/azienda evoca immagini non sempre positive?

Le risposte stanno in un vuoto – quello creato dall’assenza di una moderna cultura d’impresa – che proprio questo manuale vuole iniziare a riempire.

Per troppo tempo – dice infatti Monge -, è mancata, nelle nuove generazioni, una moderna cultura d’impresa. Oggi, spesso, si insegna a governare un’impresa, a dirigerla, ma mai (o poco) a fondarla. Per capire di più, occorre tornare ai Maestri di questa materia come Zappa, Fazi, Golinelli e Ghoshal per i quali l’impresa diventa laboratorio positivo di esperienze e di sviluppo economico.

Da qui la filosofia che Monge vuole applicare e che costituisce l’anima del libro. Creare impresa vuol dire non solo creare business ma anche generare risorse, esperienze, competenze, conoscenze. E per farlo servono nuove idee, in una moderna visione attenta alle esigenze degli stakehoder e alla competitività dei territori; ma anche scelte responsabili e decisioni sostenibili.

Sistema impresa. Cultura, valore, innovazione

Filippo Monge

Franco Angeli, 2012.

“Valore cultura” tra Napolitano e Armstrong

La cultura ha e deve avere un valore intrinseco. Non strumentale, non direttamente orientabile. E solo se saremo in grado di riconoscere questo valore non negoziabile, ne avremo anche gli ampi effetti di crescita economica e di miglioramento della qualità della vita che la cultura inevitabilmente produrrà. L’affermazione, assolutamente condivisibile, è del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E ne parla “Il Sole 24Ore”, a proposito degli Stati Generali della Cultura lanciati dal quotidiano. Il tema è rilanciato dal filosofo John Armstrong: “La solidità e la diffusione delle discipline umanistiche” sono“essenziali per la democrazia; tali discipline insegnano a pensare criticamente, a usare l’immaginazione, a essere compassionevoli e trasformano gli individui in  cittadini globali, ossia in persone capaci di una visione d’insieme del mondo”. E dunque? Serve “un’educazione che insegni la bellezza e il pensiero critico” e “i pensieri vanno riformati per promuovere umanesimo, logica e alti studi”. Una vera e propria “cultura politecnica”, per usare un’espressione cara alla cultura d’impresa Pirelli. C’è una valenza economica, naturalmente: “Se ciò che vogliamo – spiega Armstrong sulla rivista ‘Philosophical Inquiries’ – è un’economia florida, allora dobbiamo fare sì che il mondo degli affari assorba il meglio di quanto le discipline umanistiche sono in grado di offrire”. Non solo tecniche, ma scienza. Filosofia. Senso delle cose. Sguardo in profondità e in prospettiva. Le sintesi di un nuovo umanesimo. Naturalmente, parlando di economia, “senza demonizzare il profitto, che arriverà di conseguenza”.

La cultura ha e deve avere un valore intrinseco. Non strumentale, non direttamente orientabile. E solo se saremo in grado di riconoscere questo valore non negoziabile, ne avremo anche gli ampi effetti di crescita economica e di miglioramento della qualità della vita che la cultura inevitabilmente produrrà. L’affermazione, assolutamente condivisibile, è del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E ne parla “Il Sole 24Ore”, a proposito degli Stati Generali della Cultura lanciati dal quotidiano. Il tema è rilanciato dal filosofo John Armstrong: “La solidità e la diffusione delle discipline umanistiche” sono“essenziali per la democrazia; tali discipline insegnano a pensare criticamente, a usare l’immaginazione, a essere compassionevoli e trasformano gli individui in  cittadini globali, ossia in persone capaci di una visione d’insieme del mondo”. E dunque? Serve “un’educazione che insegni la bellezza e il pensiero critico” e “i pensieri vanno riformati per promuovere umanesimo, logica e alti studi”. Una vera e propria “cultura politecnica”, per usare un’espressione cara alla cultura d’impresa Pirelli. C’è una valenza economica, naturalmente: “Se ciò che vogliamo – spiega Armstrong sulla rivista ‘Philosophical Inquiries’ – è un’economia florida, allora dobbiamo fare sì che il mondo degli affari assorba il meglio di quanto le discipline umanistiche sono in grado di offrire”. Non solo tecniche, ma scienza. Filosofia. Senso delle cose. Sguardo in profondità e in prospettiva. Le sintesi di un nuovo umanesimo. Naturalmente, parlando di economia, “senza demonizzare il profitto, che arriverà di conseguenza”.

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