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Erik Satie, i pneumatici e l’estetica del sottrarre

Viviamo tempi risparmiosi. In stagioni di crisi che ancora si prolungano, bisogna fare più con meno. Ridurre i consumi di energia, materiali, territorio. Non sprecare, insomma. E sperimentare, semmai, nuovi e più sobri equilibri. “La bellezza è sottrazione”, proclama un brillante designer inglese, Benjamin Hubert. Un’idea contemporaneamente antica e nuova. In altri tempi, nella straordinaria evoluzione dell’Europa dal romanticismo al Novecento, proprio questa era stata la regola di grandi artisti pronti a costruire una nuova estetica rivoluzionando pittura e scrittura, di compositori come Anton Webern ed Erik Satie, attento, nelle sue sonate per piano, a una musica che fosse secca, lineare, scritta “a levare”, a eliminare ridondanze. L’eleganza della modernità.

Un secolo dopo, cercando una via d’uscita dalla bulimia dell’opulenza vistosa e del consumismo senza freni (e con scarsa cura degli squilibri e e dei debiti), rieccoci pronti a ribadire il bisogno d’essenziale. Scelta etica, per un mondo più sostenibile. E scelta estetica, in buona sintonia.

Carlotta De Bevilacqua, imprenditrice di punta della bella industria della luce made in italy e famosa nel mondo, insiste: “Togliere è segno di intelligenza. Soprattutto in termini di materia, pesi, ingombri, ore di lavorazione, impegni energetici, scarti” (CasAmica, 6 aprile). Buoni propositi. Ma anche scelte produttive delle migliori imprese, le più colte e responsabili. Non una “decrescita felice” (ideologia snob). Ma la garanzia di un’elegante e funzionale scelta, appunto, dell’essenziale.

Nuove culture del progetto e del prodotto. Un radicale cambio di paradigmi di produzione e di consumo. Anche per i pneumatici di nuova generazione, naturalmente. Meno gomma, minor peso, minore attrito, minore consumo di carburante dell’auto, meno silice minerale costosa e inquinante da sostituire con la silice vegetale degli scarti di riso. Un procedimento molto “green”, sostenibile. Per un pneumatico alla Satie. Musicale.

Viviamo tempi risparmiosi. In stagioni di crisi che ancora si prolungano, bisogna fare più con meno. Ridurre i consumi di energia, materiali, territorio. Non sprecare, insomma. E sperimentare, semmai, nuovi e più sobri equilibri. “La bellezza è sottrazione”, proclama un brillante designer inglese, Benjamin Hubert. Un’idea contemporaneamente antica e nuova. In altri tempi, nella straordinaria evoluzione dell’Europa dal romanticismo al Novecento, proprio questa era stata la regola di grandi artisti pronti a costruire una nuova estetica rivoluzionando pittura e scrittura, di compositori come Anton Webern ed Erik Satie, attento, nelle sue sonate per piano, a una musica che fosse secca, lineare, scritta “a levare”, a eliminare ridondanze. L’eleganza della modernità.

Un secolo dopo, cercando una via d’uscita dalla bulimia dell’opulenza vistosa e del consumismo senza freni (e con scarsa cura degli squilibri e e dei debiti), rieccoci pronti a ribadire il bisogno d’essenziale. Scelta etica, per un mondo più sostenibile. E scelta estetica, in buona sintonia.

Carlotta De Bevilacqua, imprenditrice di punta della bella industria della luce made in italy e famosa nel mondo, insiste: “Togliere è segno di intelligenza. Soprattutto in termini di materia, pesi, ingombri, ore di lavorazione, impegni energetici, scarti” (CasAmica, 6 aprile). Buoni propositi. Ma anche scelte produttive delle migliori imprese, le più colte e responsabili. Non una “decrescita felice” (ideologia snob). Ma la garanzia di un’elegante e funzionale scelta, appunto, dell’essenziale.

Nuove culture del progetto e del prodotto. Un radicale cambio di paradigmi di produzione e di consumo. Anche per i pneumatici di nuova generazione, naturalmente. Meno gomma, minor peso, minore attrito, minore consumo di carburante dell’auto, meno silice minerale costosa e inquinante da sostituire con la silice vegetale degli scarti di riso. Un procedimento molto “green”, sostenibile. Per un pneumatico alla Satie. Musicale.

Azienda, cultura, globalizzazione. Cosa può nascere?

La cultura aziendale cambia con l’evoluzione dell’azienda. Apparentemente si tratta di un’affermazione scontata, ma non è così. Il cambiamento della cultura di un’impresa è influenzato dall’evoluzione della stessa ma, a sua volta, può – anche pesantemente – agire sulle dinamiche con cui le decisioni vengono prese, su come i mercati vengono visti, sulle modalità di gestione del personale, sulla visione che si ha dei clienti e della loro soddisfazione. Tutto poi si complica quando l’impresa in questione è una multinazionale oppure quando da locale diventa globale.

Cosa accade allora?

Alcune risposte le fornisce Maria S. Plakhotnik – professore associato alla Florida International University – che in un testo breve e chiaro percorre la letteratura più significativa sull’argomento e ragiona partendo da una constatazione: come molte aziende, diventate globali, cambiano i loro mercati, la struttura, i processi, le pratiche e la cultura, così altre aziende globali tentano di costruire un nuovo tipo di cultura organizzativa che si basa su valori e credenze che sono “completi e avvincenti” per tutti i dipendenti, a prescindere dalla loro nazione di origine, etnia o esperienza professionale. Plakhotnik conia, per identificare meglio il tipo di aziende messe sotto la lente d’ingrandimento, l’idea di “imprese geocentriche” cioè quelle realtà che “trascendono le differenze culturali” per arrivare a costruire assetti nuovi dal punto di vista umano e organizzativo. In particolare, poi, la ricerca prende in considerazione i rapporti e le relazioni che si instaurano fra chi lavora in azienda e la cultura che la stessa – globalizzata – tende a creare al suo interno.

Si tratta, a ben vedere, di un esercizio interessante proprio adesso, nel momento in cui sempre di più nelle imprese si trovano a lavorare gomito a gomito persone provenienti da paesi e aree culturali notevolmente diverse.

Quello di Maria Plakhotnik è quindi viaggio interessante in un nuovo modo di intendere la cultura d’impresa, sempre di più basata sul globale ma che deve fare i conti anche con sentimenti e pulsioni locali.

Geocentric Corporate Organizational Culture and Employee National Identity

Maria S. Plakhotnik

in Proceedings of the Seventh Annual College of Education Research Conference: Urban and International Education Section (pp. 117-122). Miami: Florida International University, USA.

La cultura aziendale cambia con l’evoluzione dell’azienda. Apparentemente si tratta di un’affermazione scontata, ma non è così. Il cambiamento della cultura di un’impresa è influenzato dall’evoluzione della stessa ma, a sua volta, può – anche pesantemente – agire sulle dinamiche con cui le decisioni vengono prese, su come i mercati vengono visti, sulle modalità di gestione del personale, sulla visione che si ha dei clienti e della loro soddisfazione. Tutto poi si complica quando l’impresa in questione è una multinazionale oppure quando da locale diventa globale.

Cosa accade allora?

Alcune risposte le fornisce Maria S. Plakhotnik – professore associato alla Florida International University – che in un testo breve e chiaro percorre la letteratura più significativa sull’argomento e ragiona partendo da una constatazione: come molte aziende, diventate globali, cambiano i loro mercati, la struttura, i processi, le pratiche e la cultura, così altre aziende globali tentano di costruire un nuovo tipo di cultura organizzativa che si basa su valori e credenze che sono “completi e avvincenti” per tutti i dipendenti, a prescindere dalla loro nazione di origine, etnia o esperienza professionale. Plakhotnik conia, per identificare meglio il tipo di aziende messe sotto la lente d’ingrandimento, l’idea di “imprese geocentriche” cioè quelle realtà che “trascendono le differenze culturali” per arrivare a costruire assetti nuovi dal punto di vista umano e organizzativo. In particolare, poi, la ricerca prende in considerazione i rapporti e le relazioni che si instaurano fra chi lavora in azienda e la cultura che la stessa – globalizzata – tende a creare al suo interno.

Si tratta, a ben vedere, di un esercizio interessante proprio adesso, nel momento in cui sempre di più nelle imprese si trovano a lavorare gomito a gomito persone provenienti da paesi e aree culturali notevolmente diverse.

Quello di Maria Plakhotnik è quindi viaggio interessante in un nuovo modo di intendere la cultura d’impresa, sempre di più basata sul globale ma che deve fare i conti anche con sentimenti e pulsioni locali.

Geocentric Corporate Organizational Culture and Employee National Identity

Maria S. Plakhotnik

in Proceedings of the Seventh Annual College of Education Research Conference: Urban and International Education Section (pp. 117-122). Miami: Florida International University, USA.

Donne in carriera ancora difficile

Anche se in miglioramento rispetto al decennio precedente, le statistiche della presenza e soprattutto del ruolo delle donne nelle imprese e nelle istituzioni, non lasciano spazio a molti dubbi sulla necessità di quanto ancora occorra fare per arrivare all’uguaglianza dei sessi sul posto di lavoro. Su 197 capi di Stato, solo 22 sono donne, mentre solo il 20% dei seggi parlamentari a livello globale è occupato da donne, e guardando alle prime 500 imprese mondiali classificate da Fortune, solamente 18 hanno amministratori delegati di sesso femminile.  E’ chiaro che il tipo di cultura che un’impresa si dà passa anche da questo aspetto. Con situazione del tutto inaspettate che saltano fuori quando chi – donna – inizia a raccontare la sua vita all’interno delle aziende, magari di altissimo livello.

E’ quanto ha fatto Sheryl Sandberg – 43 anni, imprenditrice e politica statunitense, attuale direttore operativo di Facebook – che nel suo “Lean In: Women, Work, and the Will to Lead” racconta  la sua esperienza di lavoro in alcune delle aziende di maggior successo al mondo e guarda a ciò che le donne possono fare per aiutare se stesse cambiando anche la cultura dell’azienda in cui lavorano.

E’ interessante un assunto presente nel volume: se si chiede alla maggior parte delle donne se hanno il diritto all’uguaglianza sul posto di lavoro e la risposta sarà un sonoro sì, ma se si domanda alle stesse donne se si sentono in grado di chiedere un aumento, una promozione o la parità di retribuzione, un po’ di reticenza si insinua nelle loro risposte.

Sheryl Sandberg, quindi racconta, esplora, individua passaggi cruciali, esempi, storie che fanno capire quanto le imprese, le donne e gli uomini debbano anche camminare per risolvere problemi di convivenza e di cultura aziendale. Ne nasce anche uno spaccato aggiornato e disincantato della presenza e del ruolo delle donne nelle imprese e nelle Istituzioni USA: un’istantanea del  mito delle pari opportunità e della situazione del lavoro femminile negli USA che fa pensare e che può insegnare molto anche alle aziende di casa nostra.

Lean In: Women, Work, and the Will to Lead

Sheryl Sandberg

Alfred A. Knopf, 2013

Facciamoci avanti: le donne, il lavoro e la voglia di riuscire

Sheryl Sandberg

Mondadori, 2013

Anche se in miglioramento rispetto al decennio precedente, le statistiche della presenza e soprattutto del ruolo delle donne nelle imprese e nelle istituzioni, non lasciano spazio a molti dubbi sulla necessità di quanto ancora occorra fare per arrivare all’uguaglianza dei sessi sul posto di lavoro. Su 197 capi di Stato, solo 22 sono donne, mentre solo il 20% dei seggi parlamentari a livello globale è occupato da donne, e guardando alle prime 500 imprese mondiali classificate da Fortune, solamente 18 hanno amministratori delegati di sesso femminile.  E’ chiaro che il tipo di cultura che un’impresa si dà passa anche da questo aspetto. Con situazione del tutto inaspettate che saltano fuori quando chi – donna – inizia a raccontare la sua vita all’interno delle aziende, magari di altissimo livello.

E’ quanto ha fatto Sheryl Sandberg – 43 anni, imprenditrice e politica statunitense, attuale direttore operativo di Facebook – che nel suo “Lean In: Women, Work, and the Will to Lead” racconta  la sua esperienza di lavoro in alcune delle aziende di maggior successo al mondo e guarda a ciò che le donne possono fare per aiutare se stesse cambiando anche la cultura dell’azienda in cui lavorano.

E’ interessante un assunto presente nel volume: se si chiede alla maggior parte delle donne se hanno il diritto all’uguaglianza sul posto di lavoro e la risposta sarà un sonoro sì, ma se si domanda alle stesse donne se si sentono in grado di chiedere un aumento, una promozione o la parità di retribuzione, un po’ di reticenza si insinua nelle loro risposte.

Sheryl Sandberg, quindi racconta, esplora, individua passaggi cruciali, esempi, storie che fanno capire quanto le imprese, le donne e gli uomini debbano anche camminare per risolvere problemi di convivenza e di cultura aziendale. Ne nasce anche uno spaccato aggiornato e disincantato della presenza e del ruolo delle donne nelle imprese e nelle Istituzioni USA: un’istantanea del  mito delle pari opportunità e della situazione del lavoro femminile negli USA che fa pensare e che può insegnare molto anche alle aziende di casa nostra.

Lean In: Women, Work, and the Will to Lead

Sheryl Sandberg

Alfred A. Knopf, 2013

Facciamoci avanti: le donne, il lavoro e la voglia di riuscire

Sheryl Sandberg

Mondadori, 2013

Se l’Italia investe poco su cultura e persone

I punti di forza di Pirelli sono tre: “Le persone, le persone e ancora le persone”. La frase di Marco Tronchetti Provera, pronunciata alcuni anni fa, è tema ricorrente delle conversazioni sui valori e la cultura d’impresa del gruppo. Se ne trova riscontro nelle affermazioni di tanti altri grandi imprenditori e manager. L’ultima dichiarazione è di Luca Cordero di Montezemolo: “In Ferrari diamo valore alla persone” (la Repubblica, 7 aprile). Ecco: le persone, le loro capacità, la loro cultura, il loro dinamismo nel fare, e fare bene. In un paese, come l’Italia, povero di materie prime e bravissimo nell’industria manifatturiera (creare valore con la trasformazione), le priorità di qualunque programma di sviluppo dovrebbero riguardare appunto le persone e cioè la crescita del capitale umano e del capitale sociale, della rete di relazioni positive. Dunque, cultura e istruzione. Eppure, guardando i dati più recenti di Eurostat, si nota che l’Italia è fanalino di coda dei paesi Ue per investimenti pubblici in cultura e scuola. La Francia destina ai due settori il 2,5% della spesa pubblica, il Regno Unito il 2,1, la Germania l’1,8. La media Ue è il 2,2. La Grecia, poverissima, l’1,2. E l’Italia? L’1,1 appena, la metà della media europea, una miseria. I dati confermano per l’ennesima volta una situazione già nota, l’irresponsabilità dei pubblici amministratori verso la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio storico, culturale e ambientale e verso la formazione di un nuovo patrimonio (gli investimenti in cultura e arte contemporanea). E le imprese private, che pur investono e spesso generosamente, non possono naturalmente supplire al mancato investimento delle strutture pubbliche.

Ma c’è un altro dato, ad aggravare l’allarme: la ripresa massiccia dell’emigrazione. Nel 2012 79mila italiani sono andati via. 35mila sono giovani tra 20 e 40 anni, un aumento del 28% sull’anno precedente. Vanno verso la Germania e gli altri paesi Ue, la Svizzera, l’America Latina, gli Usa, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. Capitale umano perso. Rete di relazioni e competenze strappata.

In sintesi: non investiamo in cultura e formazione e perdiamo parte ampia del capitale che abbiamo formato. Le imprese ne soffrono. L’Italia si ritrova più vecchia, povera, meno dinamica e pronta allo sviluppo.

I punti di forza di Pirelli sono tre: “Le persone, le persone e ancora le persone”. La frase di Marco Tronchetti Provera, pronunciata alcuni anni fa, è tema ricorrente delle conversazioni sui valori e la cultura d’impresa del gruppo. Se ne trova riscontro nelle affermazioni di tanti altri grandi imprenditori e manager. L’ultima dichiarazione è di Luca Cordero di Montezemolo: “In Ferrari diamo valore alla persone” (la Repubblica, 7 aprile). Ecco: le persone, le loro capacità, la loro cultura, il loro dinamismo nel fare, e fare bene. In un paese, come l’Italia, povero di materie prime e bravissimo nell’industria manifatturiera (creare valore con la trasformazione), le priorità di qualunque programma di sviluppo dovrebbero riguardare appunto le persone e cioè la crescita del capitale umano e del capitale sociale, della rete di relazioni positive. Dunque, cultura e istruzione. Eppure, guardando i dati più recenti di Eurostat, si nota che l’Italia è fanalino di coda dei paesi Ue per investimenti pubblici in cultura e scuola. La Francia destina ai due settori il 2,5% della spesa pubblica, il Regno Unito il 2,1, la Germania l’1,8. La media Ue è il 2,2. La Grecia, poverissima, l’1,2. E l’Italia? L’1,1 appena, la metà della media europea, una miseria. I dati confermano per l’ennesima volta una situazione già nota, l’irresponsabilità dei pubblici amministratori verso la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio storico, culturale e ambientale e verso la formazione di un nuovo patrimonio (gli investimenti in cultura e arte contemporanea). E le imprese private, che pur investono e spesso generosamente, non possono naturalmente supplire al mancato investimento delle strutture pubbliche.

Ma c’è un altro dato, ad aggravare l’allarme: la ripresa massiccia dell’emigrazione. Nel 2012 79mila italiani sono andati via. 35mila sono giovani tra 20 e 40 anni, un aumento del 28% sull’anno precedente. Vanno verso la Germania e gli altri paesi Ue, la Svizzera, l’America Latina, gli Usa, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. Capitale umano perso. Rete di relazioni e competenze strappata.

In sintesi: non investiamo in cultura e formazione e perdiamo parte ampia del capitale che abbiamo formato. Le imprese ne soffrono. L’Italia si ritrova più vecchia, povera, meno dinamica e pronta allo sviluppo.

Cosa accade quando l’etica entra in azienda?

Come si intrecciano l’etica e l’organizzazione delle imprese? Cosa si produce dall’interazione fra quotidianità delle organizzazioni produttive e agire dei singoli? E, poi, quanto c’è di “etico” in un’impresa? Non si tratta di domande fini a sé stesse, ma di interrogativi le cui risposte sono utili per capire di più come si evolve la cultura delle imprese, il loro atteggiamento nei confronti della produzione, del mercato, dei lavoratori, il grado di libertà di questi ultimi e delle strutture in cui agiscono.

Per comprendere meglio, però, occorrono delle guide, delle mappe cognitive come quella scritta da Carl Rhodes (della University of Leicester) e da Edward Wray-Bliss (della Deakin University, Australia).

The ethical difference of Organization”, apparso recentemente sulle pagine dell’omonima rivista, è proprio un vademecum che aiuta a districarsi entro 20 anni di letteratura prodotta per analizzare i legami fra etica, impresa, organizzazione e singoli.

Mentre la tradizionale “etica aziendale” – spiegano i due autori -,  ha come suo luogo di interesse l’eticità delle organizzazioni stesse, le questioni centrali che sono emerse in due decenni di studi riguardano anche come gli individui interagiscono eticamente nei confronti delle organizzazioni aziendali e come alcuni accordi d’impresa possono essere “contestati politicamente in nome dell’etica”. Questa, quindi, da elemento positivo di gestione può trasformarsi anche in paradossale freno allo sviluppo quando riflette interessi di pochi a scapito di quelli di molti.

Rhodes e Wray-Bliss, però vanno anche oltre arrivando ad individuare nei sistemi aziendali (e sociali) un’etica del business, ma anche un’etica “del consenso” e una “della differenza”: volti diversi di uno stesso concetto che spesso però vengono confusi nella pratica.

In una decina di pagine, appaiono così chiari i legami e gli intrecci fra la particolare etica adottata nelle aziende e nella società, e i percorsi di crescita delle imprese, la loro cultura, il loro modo di essere e di percepirsi.

The ethical difference of Organization

Carl Rhodes, Edward Wray-Bliss

Organization, 2013 20: 39

Come si intrecciano l’etica e l’organizzazione delle imprese? Cosa si produce dall’interazione fra quotidianità delle organizzazioni produttive e agire dei singoli? E, poi, quanto c’è di “etico” in un’impresa? Non si tratta di domande fini a sé stesse, ma di interrogativi le cui risposte sono utili per capire di più come si evolve la cultura delle imprese, il loro atteggiamento nei confronti della produzione, del mercato, dei lavoratori, il grado di libertà di questi ultimi e delle strutture in cui agiscono.

Per comprendere meglio, però, occorrono delle guide, delle mappe cognitive come quella scritta da Carl Rhodes (della University of Leicester) e da Edward Wray-Bliss (della Deakin University, Australia).

The ethical difference of Organization”, apparso recentemente sulle pagine dell’omonima rivista, è proprio un vademecum che aiuta a districarsi entro 20 anni di letteratura prodotta per analizzare i legami fra etica, impresa, organizzazione e singoli.

Mentre la tradizionale “etica aziendale” – spiegano i due autori -,  ha come suo luogo di interesse l’eticità delle organizzazioni stesse, le questioni centrali che sono emerse in due decenni di studi riguardano anche come gli individui interagiscono eticamente nei confronti delle organizzazioni aziendali e come alcuni accordi d’impresa possono essere “contestati politicamente in nome dell’etica”. Questa, quindi, da elemento positivo di gestione può trasformarsi anche in paradossale freno allo sviluppo quando riflette interessi di pochi a scapito di quelli di molti.

Rhodes e Wray-Bliss, però vanno anche oltre arrivando ad individuare nei sistemi aziendali (e sociali) un’etica del business, ma anche un’etica “del consenso” e una “della differenza”: volti diversi di uno stesso concetto che spesso però vengono confusi nella pratica.

In una decina di pagine, appaiono così chiari i legami e gli intrecci fra la particolare etica adottata nelle aziende e nella società, e i percorsi di crescita delle imprese, la loro cultura, il loro modo di essere e di percepirsi.

The ethical difference of Organization

Carl Rhodes, Edward Wray-Bliss

Organization, 2013 20: 39

I limiti dell’abbondanza

Nell’era dell’abbondanza e del consumismo sfrenati (che però iniziano a far vedere tutte le loro crepe), vale la pena di chiedersi seriamente “quanto sia abbastanza”, cioè quale sia il limite “giusto” nella ricerca, per esempio, del profitto, dell’acquisto di beni, delle strategie commerciali più sfrenate, dell’affermazione sui mercati, del successo aziendale e personale. Viviamo immersi nell’economia di mercato che, adesso, ci presenta il conto. Che, in qualche modo, occorre pagare.

Come farlo nel migliore dei modi, arrivando non tanto ad un’economia diversa ma soprattutto ad un “vita buona”, ci viene indicato da una schiera sempre più fitta di pensatori. Ma “Quanto è abbastanza” di Robert e Edward Skidelski (padre e figlio, economista all’Università di Warwick il primo, filosofo all’Università di Exeter il secondo), rappresenta un raro esempio di viaggio a rotta di collo lungo un percorso inconsueto, accattivante, denso e sorprendente verso il traguardo di un assetto sociale ed economico nuovi, un modo di fare impresa più avanzato, una concezione del mercato moderna e sostenibile.

I due Skidelski, accompagnano chi legge da buoni divulgatori che maneggiano con cognizione di causa l’intero scibile delle due materie di cui si occupano: un linguaggio leggero ma preciso, afferrabile da tutti ma denso. Partendo da un famoso saggio di John Maynard Keynes – “Prospettive economiche per i nostri nipoti” -, gli autori esplorano la nascita e la crescita dell’attuale sistema di produzione e di mercato, il sorgere dell’imprenditorialità e delle questioni legate al profitto, i passi dell’economia e della filosofia per dare senso al tutto.  L’economia e la cultura dell’impresa vengono collegate ai cambiamenti sociali, questi all’evoluzione delle necessità per il sostentamento materiale e immateriale, tutto per arrivare ad una serie di “elementi per una vita nuova” fatti da “beni fondamentali” materiali e (soprattutto) immateriali. E, a fare da guide lungo tutto il viaggio, alcuni dei più bei nomi dell’economia e della filosofia dell’ultimo secolo.

Quanto è abbastanza

Robert e Edward Skidelski

Mondadori, 2013

Nell’era dell’abbondanza e del consumismo sfrenati (che però iniziano a far vedere tutte le loro crepe), vale la pena di chiedersi seriamente “quanto sia abbastanza”, cioè quale sia il limite “giusto” nella ricerca, per esempio, del profitto, dell’acquisto di beni, delle strategie commerciali più sfrenate, dell’affermazione sui mercati, del successo aziendale e personale. Viviamo immersi nell’economia di mercato che, adesso, ci presenta il conto. Che, in qualche modo, occorre pagare.

Come farlo nel migliore dei modi, arrivando non tanto ad un’economia diversa ma soprattutto ad un “vita buona”, ci viene indicato da una schiera sempre più fitta di pensatori. Ma “Quanto è abbastanza” di Robert e Edward Skidelski (padre e figlio, economista all’Università di Warwick il primo, filosofo all’Università di Exeter il secondo), rappresenta un raro esempio di viaggio a rotta di collo lungo un percorso inconsueto, accattivante, denso e sorprendente verso il traguardo di un assetto sociale ed economico nuovi, un modo di fare impresa più avanzato, una concezione del mercato moderna e sostenibile.

I due Skidelski, accompagnano chi legge da buoni divulgatori che maneggiano con cognizione di causa l’intero scibile delle due materie di cui si occupano: un linguaggio leggero ma preciso, afferrabile da tutti ma denso. Partendo da un famoso saggio di John Maynard Keynes – “Prospettive economiche per i nostri nipoti” -, gli autori esplorano la nascita e la crescita dell’attuale sistema di produzione e di mercato, il sorgere dell’imprenditorialità e delle questioni legate al profitto, i passi dell’economia e della filosofia per dare senso al tutto.  L’economia e la cultura dell’impresa vengono collegate ai cambiamenti sociali, questi all’evoluzione delle necessità per il sostentamento materiale e immateriale, tutto per arrivare ad una serie di “elementi per una vita nuova” fatti da “beni fondamentali” materiali e (soprattutto) immateriali. E, a fare da guide lungo tutto il viaggio, alcuni dei più bei nomi dell’economia e della filosofia dell’ultimo secolo.

Quanto è abbastanza

Robert e Edward Skidelski

Mondadori, 2013

Cum petere delle imprese per rilanciare la produttività

In Italia la produttività è ferma da troppo tempo”, sostiene il capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Branchard (Il Sole24Ore del 28 marzo). Lo sappiamo bene, naturalmente. La sanzione negativa dei vertici del Fmi è comunque utile perché i decisori politici avviino al più presto le riforme per migliorare la produttività del sistema Paese (burocrazia e anti-corruzione, fisco, giustizia civile, infrastrutture, formazione, ricerca pubblica, mercato del lavoro) e rendere più agevole la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese.

Nel corso dell’ultimo decennio, d’altronde, le imprese italiane hanno fatto moltissimo, per essere più competitive. Si sono riorganizzate, ristrutturate, aperte ai mercati internazionali, hanno innovato prodotti e processi, lavorato per affermarsi come produttori d’eccellenza internazionale nelle cosiddette “4A” e cioè automazione e meccanica d’avanguardia, agro-alimentare, arredamento e abbigliamento, emblemi del made in Italy di qualità (insieme a cui si muovono anche meccanica, chimica e farmaceutica di nicchia, gomma, nautica, etc.). La produttività complessiva resta perà bassa. Per vincoli del sistema Paese. Ma anche per responsabilità presenti nel mondo stesso delle imprese, rimaste piccole, sottocapitalizzate, irrigidite in un “capitalismo familista” che non sa ancora esprimere tutte le potenzialità di una sintesi virtusa tra imprenditoria di famiglia e gestione con forti caratteristiche manageriali.

Serve, per la produttività, una vera e propria radicale trasformazione della cultura d’impresa. Apertura a logiche e regole di mercati aperti. Chiusura del capitolo dei sostegni pubblici a pioggia e insistenza per politiche industriali pubbliche concentrate su innovazizone, ricerca e crescita dimensionale. Privilegio della collaborazione in distretti, meta-distretti e “filiere lunghe” anche di dimensione internazionale.

Un salto, insomma, dalla “solitudine dell’imprenditore” alla collaborazione-competizione. Alla radice di una migliore produttività, di sistema e di impresa, sta anche la comprensione di una parola chiave. Competitività. Dal latino cum petere, darsi un obiettivo e provare a raggiungerlo insieme.

In Italia la produttività è ferma da troppo tempo”, sostiene il capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Branchard (Il Sole24Ore del 28 marzo). Lo sappiamo bene, naturalmente. La sanzione negativa dei vertici del Fmi è comunque utile perché i decisori politici avviino al più presto le riforme per migliorare la produttività del sistema Paese (burocrazia e anti-corruzione, fisco, giustizia civile, infrastrutture, formazione, ricerca pubblica, mercato del lavoro) e rendere più agevole la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese.

Nel corso dell’ultimo decennio, d’altronde, le imprese italiane hanno fatto moltissimo, per essere più competitive. Si sono riorganizzate, ristrutturate, aperte ai mercati internazionali, hanno innovato prodotti e processi, lavorato per affermarsi come produttori d’eccellenza internazionale nelle cosiddette “4A” e cioè automazione e meccanica d’avanguardia, agro-alimentare, arredamento e abbigliamento, emblemi del made in Italy di qualità (insieme a cui si muovono anche meccanica, chimica e farmaceutica di nicchia, gomma, nautica, etc.). La produttività complessiva resta perà bassa. Per vincoli del sistema Paese. Ma anche per responsabilità presenti nel mondo stesso delle imprese, rimaste piccole, sottocapitalizzate, irrigidite in un “capitalismo familista” che non sa ancora esprimere tutte le potenzialità di una sintesi virtusa tra imprenditoria di famiglia e gestione con forti caratteristiche manageriali.

Serve, per la produttività, una vera e propria radicale trasformazione della cultura d’impresa. Apertura a logiche e regole di mercati aperti. Chiusura del capitolo dei sostegni pubblici a pioggia e insistenza per politiche industriali pubbliche concentrate su innovazizone, ricerca e crescita dimensionale. Privilegio della collaborazione in distretti, meta-distretti e “filiere lunghe” anche di dimensione internazionale.

Un salto, insomma, dalla “solitudine dell’imprenditore” alla collaborazione-competizione. Alla radice di una migliore produttività, di sistema e di impresa, sta anche la comprensione di una parola chiave. Competitività. Dal latino cum petere, darsi un obiettivo e provare a raggiungerlo insieme.

Cultura d’impresa è cultura della qualità, per tutti

Esistono e crescono, resistono e si fanno strada. In tempi di crisi e di difficoltà che appaiono insuperabili, l’esercito di imprese italiane manifatturiere che esportano nel comparto del cosiddetto “bello e ben fatto” (imprese-BBF), delinea un modo vincente di pensare la produzione. Un’indicazione chiara di quella cultura d’impresa che diventa cultura della qualità e che si rivolge al mondo: la strategia  che appare essere sempre di più l’unica strada, almeno per ora, in grado di ridare orizzonti positivi alla nostra industria.

E’ importante quindi capire dove siano, quali siano e come si comportano le imprese di questo genere. Senza nascondere le difficoltà, ma rilevando anche le peculiarità tipiche di queste strutture produttive. A partire ovviamente dai settori tipici del BBF italiano: l’abbigliamento, l’alimentare, l’arredamento e le calzature. E’ fresca di stampa, a questo proposito, la Nota del Centro Studi Confindustria “Le imprese produttrici di export italiano di qualità: identikit e performance”: poche pagine che scattano una fotografia chiara della situazione, nel delineano i tratti e le prospettive.

Per mezzo di pochi numeri, il CSC riesce a dare un quadro esaustivo del tutto: utile per capire come si sta muovendo una parte importante dell’industria nazionale.

Le imprese-BBF, un quinto del totale, hanno per esempio alcune caratteristiche: sono più piccole della media ma hanno una vocazione internazionale più forte, sono riuscite a diversificare maggiormente del resto del sistema ma il loro recupero è stato più lento di quello delle aziende non-BBF. Importante, poi, un’altra caratteristica che emerge dallo studio: la gran parte delle imprese-BBF sono di piccole e piccolissime dimensioni. Oltre la metà del totale sta sotto i 49 dipendenti e una buona parte di queste sotto i nove.

Microimprese, quindi, forti della loro capacità produttiva ma anche della cultura che si portano dentro; quella cultura della qualità e del saper fare che, in alcune descrizioni della crisi, sembrerebbe scomparsa o almeno appannata e che, invece, rimane forte anche se andrebbe certamente coltivata e fatta crescere ancora di più.

Le imprese produttrici di export italiano di qualità: identikit e performance

Centro Studi Confindustria

Nota n. 2013-3, Marzo 2013

Esistono e crescono, resistono e si fanno strada. In tempi di crisi e di difficoltà che appaiono insuperabili, l’esercito di imprese italiane manifatturiere che esportano nel comparto del cosiddetto “bello e ben fatto” (imprese-BBF), delinea un modo vincente di pensare la produzione. Un’indicazione chiara di quella cultura d’impresa che diventa cultura della qualità e che si rivolge al mondo: la strategia  che appare essere sempre di più l’unica strada, almeno per ora, in grado di ridare orizzonti positivi alla nostra industria.

E’ importante quindi capire dove siano, quali siano e come si comportano le imprese di questo genere. Senza nascondere le difficoltà, ma rilevando anche le peculiarità tipiche di queste strutture produttive. A partire ovviamente dai settori tipici del BBF italiano: l’abbigliamento, l’alimentare, l’arredamento e le calzature. E’ fresca di stampa, a questo proposito, la Nota del Centro Studi Confindustria “Le imprese produttrici di export italiano di qualità: identikit e performance”: poche pagine che scattano una fotografia chiara della situazione, nel delineano i tratti e le prospettive.

Per mezzo di pochi numeri, il CSC riesce a dare un quadro esaustivo del tutto: utile per capire come si sta muovendo una parte importante dell’industria nazionale.

Le imprese-BBF, un quinto del totale, hanno per esempio alcune caratteristiche: sono più piccole della media ma hanno una vocazione internazionale più forte, sono riuscite a diversificare maggiormente del resto del sistema ma il loro recupero è stato più lento di quello delle aziende non-BBF. Importante, poi, un’altra caratteristica che emerge dallo studio: la gran parte delle imprese-BBF sono di piccole e piccolissime dimensioni. Oltre la metà del totale sta sotto i 49 dipendenti e una buona parte di queste sotto i nove.

Microimprese, quindi, forti della loro capacità produttiva ma anche della cultura che si portano dentro; quella cultura della qualità e del saper fare che, in alcune descrizioni della crisi, sembrerebbe scomparsa o almeno appannata e che, invece, rimane forte anche se andrebbe certamente coltivata e fatta crescere ancora di più.

Le imprese produttrici di export italiano di qualità: identikit e performance

Centro Studi Confindustria

Nota n. 2013-3, Marzo 2013

La strategia migliora se parte dalla cultura

“Cultura d’impresa significa il racconto condiviso di quel fare quotidiano che caratterizza l’impegno delle aziende, la sua proiezione verso l’insieme delle imprese e verso l’intera società”. E’ da questo concetto – contenuto nel “Manifesto della cultura d’impresa” redatto da Confindustria -, che si capisce bene perché la cultura nelle imprese e delle imprese sia così importante per la gestione delle stesse e per il loro sviluppo.

Anche oggi, soprattutto oggi, in tempi turbolenti, il tema della cultura d’impresa appare essere nevralgico per ogni strategia aziendale che si rispetti.

Ma come fare? E, soprattutto, quali esempi seguire e quali non seguire? Una risposta piacevole e utile a questi interrogativi è contenuta in “Strategia e cultura d’impresa. Come favorire strategie di successo impostando al meglio la cultura aziendale”, un volume di Hermann Simon e Danilo Zatta che analizza la questione pragmaticamente cercando di capire come in realtà la cultura aziendale possa influenzare le prestazioni dell’impresa. Anche in termini di bilanci e profitti.

Simon e Zatta partono dallo studio teorico di tutte le fasi che compongono l’evoluzione dell’impresa, per passare poi ad un’attenta analisi su come indirizzare e gestire la cultura d’impresa in modo da aiutare la strategia. Accanto ai concetti teorici è posta però una serie di casi aziendali italiani (Fiat, Technogym, System, Diesel ecc.) ed esteri (Nestlé, Würth, Lufthansa, Gore ecc.). percorrendo teoria e pratica, chi legge riesce a farsi un’idea precisa di quali siano le interazioni fra cultura d’impresa e profitto e di come la prima possa utilmente influenzare il secondo.

“Strategia e cultura d’impresa”, è quindi una sorta di vademecum utile per viaggiare con agilità nell’ambito di un argomento non facile da sintetizzare, un manuale al quale si può affiancare “Aziende vincenti: Campioni nascosti del 21° secolo”, sempre degli stessi autori: una carrellata fra i fattori che portano le aziende al successo e alcuni recenti casi di successo internazionali e italiani.

Strategia e cultura d’impresa. Come favorire strategie di successo impostando al meglio la cultura aziendale.

di Hermann Simon e Danilo Zatta

Il Sole 24 Ore

Aziende vincenti: campioni nascosti del 21° secolo

di Hermann Simon e Danilo Zatta

Hoepli

“Cultura d’impresa significa il racconto condiviso di quel fare quotidiano che caratterizza l’impegno delle aziende, la sua proiezione verso l’insieme delle imprese e verso l’intera società”. E’ da questo concetto – contenuto nel “Manifesto della cultura d’impresa” redatto da Confindustria -, che si capisce bene perché la cultura nelle imprese e delle imprese sia così importante per la gestione delle stesse e per il loro sviluppo.

Anche oggi, soprattutto oggi, in tempi turbolenti, il tema della cultura d’impresa appare essere nevralgico per ogni strategia aziendale che si rispetti.

Ma come fare? E, soprattutto, quali esempi seguire e quali non seguire? Una risposta piacevole e utile a questi interrogativi è contenuta in “Strategia e cultura d’impresa. Come favorire strategie di successo impostando al meglio la cultura aziendale”, un volume di Hermann Simon e Danilo Zatta che analizza la questione pragmaticamente cercando di capire come in realtà la cultura aziendale possa influenzare le prestazioni dell’impresa. Anche in termini di bilanci e profitti.

Simon e Zatta partono dallo studio teorico di tutte le fasi che compongono l’evoluzione dell’impresa, per passare poi ad un’attenta analisi su come indirizzare e gestire la cultura d’impresa in modo da aiutare la strategia. Accanto ai concetti teorici è posta però una serie di casi aziendali italiani (Fiat, Technogym, System, Diesel ecc.) ed esteri (Nestlé, Würth, Lufthansa, Gore ecc.). percorrendo teoria e pratica, chi legge riesce a farsi un’idea precisa di quali siano le interazioni fra cultura d’impresa e profitto e di come la prima possa utilmente influenzare il secondo.

“Strategia e cultura d’impresa”, è quindi una sorta di vademecum utile per viaggiare con agilità nell’ambito di un argomento non facile da sintetizzare, un manuale al quale si può affiancare “Aziende vincenti: Campioni nascosti del 21° secolo”, sempre degli stessi autori: una carrellata fra i fattori che portano le aziende al successo e alcuni recenti casi di successo internazionali e italiani.

Strategia e cultura d’impresa. Come favorire strategie di successo impostando al meglio la cultura aziendale.

di Hermann Simon e Danilo Zatta

Il Sole 24 Ore

Aziende vincenti: campioni nascosti del 21° secolo

di Hermann Simon e Danilo Zatta

Hoepli

1913-2013, i cent’anni del poeta Vittorio Sereni

Si celebra quest’anno il centenario della nascita di Vittorio Sereni (1913-1983) famoso scrittore e poeta italiano che collaborò per Pirelli dal 1952 al 1970. La sua parentesi pirelliana si apre nel 1952 quando viene assunto presso l’Ufficio Stampa del Servizio Propaganda Pirelli – ufficio che guiderà a partire dal 1955 – e inizia a scrivere per la Rivista Pirelli.

Il suo primo articolo si intitola “Case Lombarde” ed è un suggestivo ricordo della campagna lombarda in trasformazione. Nel 1957 Arrigo Castellani gli affida il compito di “guidare il settore ideativo e di assicurare la qualità artistica e letteraria di tutto il lavoro della Direzione Propaganda”.

Dal 1958 lascia l’incarico ma rimane in Pirelli come consulente con il compito di collaborare “con la Direzione Propaganda in campo artistico con particolare riguardo alla rubrica “terza pagina, turismo, arte e costume e problemi del giorno della Rivista Pirelli”. Nello stesso anno scrive “I creatori condizionati” un articolo a difesa della creatività del grafico messa a dura prova dalle nuove regole pubblicitarie che limitano estro e individualità artistica e “Una P lunga Cinquant’anni”, breve storia sulla nascita del famoso logo Pirelli.

Dal 1963 inizia la sua collaborazione come giornalista e si intensifica la produzione di articoli e racconti pubblicati sulla rivista fino al 1970, tra cui  “La cattura”, racconto del 1963 dove ricorda l’esperienza della guerra, triste capitolo della storia italiana. Nel 1964 inizia l’appuntamento mensile con la rubrica letteraria Vittorio Sereni/Nei Libri e Fuori, percorsi di lettura tematici che partono dalle recensioni di libri. Nel 1964 scrive “Ritorno dalla notte”, “Due autoritratti”, “In quale secolo, “L’oro e la cenere” e continua nel 1965 con  “L’onore della cronaca”, “Un caso e un libro”, “Che cosa premiano i premi.

Ne “Il fantasma nerazzurro”, comparso sulla rivista nel 1964, si racconta di Pepìn Meazza e delle sue magie, e poi di Sarti, e di Suarez e di casti striscioni che recitavano “sia la sorte azzurra o nera/viva l’Inter viva Herrera”. In “Prove per un ritratto” (1968) Sereni delinea un originale ritratto del grafico e designer Giovanni Pintori  e le sue parole sono accompagnate dagli scatti di Ugo Mulas.

Il suo ultimo articolo “Due voci veneziane” appare sul numero 5 del 1970. Dopo la morte di Arrigo Castellani nel 1969 e la chiusura della rivista nel 1972 si conclude anche la lunga e proficua collaborazione di Vittorio Sereni con Pirelli.

Si celebra quest’anno il centenario della nascita di Vittorio Sereni (1913-1983) famoso scrittore e poeta italiano che collaborò per Pirelli dal 1952 al 1970. La sua parentesi pirelliana si apre nel 1952 quando viene assunto presso l’Ufficio Stampa del Servizio Propaganda Pirelli – ufficio che guiderà a partire dal 1955 – e inizia a scrivere per la Rivista Pirelli.

Il suo primo articolo si intitola “Case Lombarde” ed è un suggestivo ricordo della campagna lombarda in trasformazione. Nel 1957 Arrigo Castellani gli affida il compito di “guidare il settore ideativo e di assicurare la qualità artistica e letteraria di tutto il lavoro della Direzione Propaganda”.

Dal 1958 lascia l’incarico ma rimane in Pirelli come consulente con il compito di collaborare “con la Direzione Propaganda in campo artistico con particolare riguardo alla rubrica “terza pagina, turismo, arte e costume e problemi del giorno della Rivista Pirelli”. Nello stesso anno scrive “I creatori condizionati” un articolo a difesa della creatività del grafico messa a dura prova dalle nuove regole pubblicitarie che limitano estro e individualità artistica e “Una P lunga Cinquant’anni”, breve storia sulla nascita del famoso logo Pirelli.

Dal 1963 inizia la sua collaborazione come giornalista e si intensifica la produzione di articoli e racconti pubblicati sulla rivista fino al 1970, tra cui  “La cattura”, racconto del 1963 dove ricorda l’esperienza della guerra, triste capitolo della storia italiana. Nel 1964 inizia l’appuntamento mensile con la rubrica letteraria Vittorio Sereni/Nei Libri e Fuori, percorsi di lettura tematici che partono dalle recensioni di libri. Nel 1964 scrive “Ritorno dalla notte”, “Due autoritratti”, “In quale secolo, “L’oro e la cenere” e continua nel 1965 con  “L’onore della cronaca”, “Un caso e un libro”, “Che cosa premiano i premi.

Ne “Il fantasma nerazzurro”, comparso sulla rivista nel 1964, si racconta di Pepìn Meazza e delle sue magie, e poi di Sarti, e di Suarez e di casti striscioni che recitavano “sia la sorte azzurra o nera/viva l’Inter viva Herrera”. In “Prove per un ritratto” (1968) Sereni delinea un originale ritratto del grafico e designer Giovanni Pintori  e le sue parole sono accompagnate dagli scatti di Ugo Mulas.

Il suo ultimo articolo “Due voci veneziane” appare sul numero 5 del 1970. Dopo la morte di Arrigo Castellani nel 1969 e la chiusura della rivista nel 1972 si conclude anche la lunga e proficua collaborazione di Vittorio Sereni con Pirelli.

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