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Contro “la fabbrica degli ignoranti” costruire biblioteche e abituare i bambini al piacere dei libri e della fantasia

“Il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici: una volta che li avete inventati, non potete fare di meglio”. La frase, famosa, è di Umberto Eco. Ed è facile ricordarsene tutte le volte in cui vale la pena ribadire, con esemplare chiarezza, l’essenzialità della lettura, del piacere del testo, del gioco di trovare, tra le parole ben impaginate, il gusto della conoscenza, della scoperta, dell’avventura. “Non sperate di liberarvi dei libri”, sosteneva appunto Eco, in una brillante e colta conversazione con Jean-Claude Carrière, pubblicata nel 2017 da La nave di Teseo.

Riprendere in mano i libri, dunque. E abituare le bambine e i bambini, fin da piccoli, a considerarli oggetti normali, piacevoli, divertenti, che animano la nostra quotidianità. Come il cucchiaio, appunto.

Oggi siamo davanti alle considerazioni dell’ultimo rapporto Censis che descrive realisticamente e impietosamente gli italiani oramai rassegnati a vivere in un paese impoverito e scoraggiato, “intrappolato nella continuità nella medietà”, convinto che sia impossibile risalire la scala sociale e dunque ripiegato a “galleggiare”, con un sistema di istruzione ridotto a “fabbrica di ignoranti”, uno status di cui purtroppo in tanti si mostrano “orgogliosi” (Antonio Polito, Corriere della Sera, 7 dicembre), senza rendersi conto d’essere “esposti alla lusinga della manipolazione nel caos digitale e dunque “succubi e sudditi” (Agnese Pini, Il Giorno, 8 dicembre). E dunque è ancora più necessario e urgente investire risorse, intelligenze e volontà nei luoghi d’elezione dei libri, le biblioteche e le librerie e fare capire la bellezza della lettura già fin dall’inizio delle scuole primarie. Una scommessa culturale e civile. Un impegno fondamentale che investe le persone di cultura, ma anche le istituzioni, la scuola, la politica e gli attori sociali, a cominciare proprio dalle imprese.

Ancora due frasi, per continuare a ragionare. La prima è di Gianni Rodari, uno dei migliori scrittori per bambini del Novecento (sulle pagine di “Favole al telefono” e “La grammatica della fantasia” si sono formate più di un paio di generazioni): “Tutti gli usi della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”. La seconda è di Marguerite Yourcenar, tratta da “Le memorie di Adriano”: “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.

Ecco il punto: fondare biblioteche, in accompagnamento e sostegno a una necessaria politica che ridia spazio e dignità alla formazione, allo studio, alla ricerca, ai valori della conoscenza e della scienza.

Biblioteche di quartiere. E biblioteche scolastiche, ricche di libri adatti agli interessi e alle passioni di bambini e adolescenti. Biblioteche di condominio (a Milano ce ne sono più di venti, la prima è stata fondata nel 2013). Ma anche biblioteche in fabbrica, negli uffici, in tutti i posti di lavoro in cui si ritrovano comunità di persone. Biblioteche negli ospedali. E, perché no?, negli alberghi, per fare compagnia ai viaggiatori nelle notti in cui è più difficile ritrovare il sonno. Un investimento pubblico e privato sulla lettura. All’insegna di un buon motto che connota una delle più stimolanti fiere letterarie, “Più libri, più liberi” e dunque anche più consapevoli, più critici, più cittadini responsabili.

Quelle biblioteche (in scuole, quartieri, fabbriche, etc.) potrebbero anche essere messe in circolo, collegate ai sistemi bibliotecari di comuni e regioni, rifornite di volumi scelti secondo gli interessi dei vari gruppi di lettori. E diventare punti di incontro, di conversazione, di confronto. Luoghi in cui matura il capitale sociale di una comunità.

Di biblioteche in fabbrica ce ne sono già alcune, in Pirelli (secondo una tradizione di buona cultura d’impresa che risale alla prima metà del Novecento) e in Bracco a Milano, all’Unipol di Bologna, in Italchimica a Padova e alla Tosa Group di Santo Stefano Belbo, alla toscana NtFood, al Gruppo Casalino di Corato (Bari) e alla Farmalabor di Canosa di Puglia e in parecchi altri posti ancora. E di avviare un programma ambizioso di diffusione dell’iniziativa si parla nelle riunioni del Gruppo Cultura di Confindustria, rilanciando un’idea già avviata una decina di anni fa.

In più d’una di quelle biblioteche aziendali ci sono reparti specializzati in libri per bambini e ragazzi. Leggere, appunto, migliora la qualità degli ambienti di lavoro e dei meccanismi di welfare. E stimola i genitori a fare leggere i loro ragazzi, senza peraltro incidere sui bilanci familiari.

Se ne è parlato, nei giorni scorsi, anche durante la riunione della giuria del Premio Campiello Junior (promosso dalla Fondazione Campiello e dalla Fondazione Pirelli) per scegliere le terne di libri da affidare al giudizio delle due “giurie popolari” composte da 240 ragazzi, una per i libri dai 7 ai 10 anni e l’altra per la fascia d’età dagli 11 ai 14 anni. Con una idea di fondo: tutti gli strumenti utili a stimolare la lettura (dai libri ben scritti ai luoghi in cui andarli a trovare) sono quanto mai essenziali per cercare di fare fronte non solo alle curiosità di una buona, equilibrata crescita personale, ma anche per provare a trovare risposte al diffuso senso di incertezza e di smarrimento.

Viviamo, infatti, tempi complicati, difficili, controversi, carichi di tensioni e di conflitti. “Tempi rabbiosi”, li definisce lo scrittore Sandro Veronesi, facendo riferimento pure al ruolo negativo dei social media (La Stampa, 6 dicembre). Ed è dunque necessario costruire menti aperte, in grado di fare i conti con un pensiero diverso dal loro, senza doverlo fare proprio, ma senza respingerlo. Perché proprio la diversità delle opinioni, dei pareri, delle emozioni, delle sensazioni, è una ricchezza, il sale della “società aperta”, l’essenza della democrazia.

Educare le bambine e i bambini alla discussione e all’accettazione delle diversità è, appunto, una grande responsabilità culturale e civile. E la chiave sta nel piacere di leggere, di giocare con le parole, di scoprire nuovi luoghi ed entrare in altre vite e in altre avventure, di costruirsi con la fantasia universi meno disagiati. Non per evadere, ma per avere consapevolezza della storia che viviamo e del futuro migliore che possiamo costruire.

È vero, i consumi culturali delle nuove generazioni passano poco attraverso i libri e molto di più attraverso gli strumenti digitali, i social media, i canali come Tik Tok. Battaglia di minoranza, allora, battaglia persa, insistere sui libri? Probabilmente no. L’editoria giovanile, come dimostrano i dati della Fiera di Bologna specializzata in editoria infantile e giovanile, testimoniano una grande e crescente vitalità del settore pure in Italia, oltre che negli Usa, nei paesi del Nord Europa e in Francia. E l’esperienza di chi ha figli e nipoti mostra come bambine e bambini usino con grande disinvoltura sia i libri di carta che i contenitori digitali. Bravissimi, insomma, gli editori che fanno libri di carta belli da usare pure per i bambini molto piccoli e tutti coloro che costruiscono prodotti adatti alle generazioni che non vivono la contraddizione tecnologica e passano tranquillamente dai cartoni Tv e dai video ai libri di carta e ai libri letti sui device digitali.

Siamo dentro una transizione quanto mai complessa, di stili di vita, abitudini, consumi e costumi. Di linguaggi e tecnologie. La diffusione dell’Intelligenza Artificiale, che incide molto sui processi e sui prodotti culturali, rende il contesto ancora più complicato. Ecco, allora, perché è indispensabile fare crescere la capacità di lettura, stimolare la fantasia personale, favorire il pensiero critico. Premiare chi lavora per una buona letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. E fondare biblioteche. Ricordando appunto il saggio imperatore Adriano: ammassare riserve contro “l’inverno dello spirito” che vediamo tutti arrivare. E a cui non ci si può rassegnare.

(Photo Getty Images)

“Il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici: una volta che li avete inventati, non potete fare di meglio”. La frase, famosa, è di Umberto Eco. Ed è facile ricordarsene tutte le volte in cui vale la pena ribadire, con esemplare chiarezza, l’essenzialità della lettura, del piacere del testo, del gioco di trovare, tra le parole ben impaginate, il gusto della conoscenza, della scoperta, dell’avventura. “Non sperate di liberarvi dei libri”, sosteneva appunto Eco, in una brillante e colta conversazione con Jean-Claude Carrière, pubblicata nel 2017 da La nave di Teseo.

Riprendere in mano i libri, dunque. E abituare le bambine e i bambini, fin da piccoli, a considerarli oggetti normali, piacevoli, divertenti, che animano la nostra quotidianità. Come il cucchiaio, appunto.

Oggi siamo davanti alle considerazioni dell’ultimo rapporto Censis che descrive realisticamente e impietosamente gli italiani oramai rassegnati a vivere in un paese impoverito e scoraggiato, “intrappolato nella continuità nella medietà”, convinto che sia impossibile risalire la scala sociale e dunque ripiegato a “galleggiare”, con un sistema di istruzione ridotto a “fabbrica di ignoranti”, uno status di cui purtroppo in tanti si mostrano “orgogliosi” (Antonio Polito, Corriere della Sera, 7 dicembre), senza rendersi conto d’essere “esposti alla lusinga della manipolazione nel caos digitale e dunque “succubi e sudditi” (Agnese Pini, Il Giorno, 8 dicembre). E dunque è ancora più necessario e urgente investire risorse, intelligenze e volontà nei luoghi d’elezione dei libri, le biblioteche e le librerie e fare capire la bellezza della lettura già fin dall’inizio delle scuole primarie. Una scommessa culturale e civile. Un impegno fondamentale che investe le persone di cultura, ma anche le istituzioni, la scuola, la politica e gli attori sociali, a cominciare proprio dalle imprese.

Ancora due frasi, per continuare a ragionare. La prima è di Gianni Rodari, uno dei migliori scrittori per bambini del Novecento (sulle pagine di “Favole al telefono” e “La grammatica della fantasia” si sono formate più di un paio di generazioni): “Tutti gli usi della parola a tutti” mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico, non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”. La seconda è di Marguerite Yourcenar, tratta da “Le memorie di Adriano”: “Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.

Ecco il punto: fondare biblioteche, in accompagnamento e sostegno a una necessaria politica che ridia spazio e dignità alla formazione, allo studio, alla ricerca, ai valori della conoscenza e della scienza.

Biblioteche di quartiere. E biblioteche scolastiche, ricche di libri adatti agli interessi e alle passioni di bambini e adolescenti. Biblioteche di condominio (a Milano ce ne sono più di venti, la prima è stata fondata nel 2013). Ma anche biblioteche in fabbrica, negli uffici, in tutti i posti di lavoro in cui si ritrovano comunità di persone. Biblioteche negli ospedali. E, perché no?, negli alberghi, per fare compagnia ai viaggiatori nelle notti in cui è più difficile ritrovare il sonno. Un investimento pubblico e privato sulla lettura. All’insegna di un buon motto che connota una delle più stimolanti fiere letterarie, “Più libri, più liberi” e dunque anche più consapevoli, più critici, più cittadini responsabili.

Quelle biblioteche (in scuole, quartieri, fabbriche, etc.) potrebbero anche essere messe in circolo, collegate ai sistemi bibliotecari di comuni e regioni, rifornite di volumi scelti secondo gli interessi dei vari gruppi di lettori. E diventare punti di incontro, di conversazione, di confronto. Luoghi in cui matura il capitale sociale di una comunità.

Di biblioteche in fabbrica ce ne sono già alcune, in Pirelli (secondo una tradizione di buona cultura d’impresa che risale alla prima metà del Novecento) e in Bracco a Milano, all’Unipol di Bologna, in Italchimica a Padova e alla Tosa Group di Santo Stefano Belbo, alla toscana NtFood, al Gruppo Casalino di Corato (Bari) e alla Farmalabor di Canosa di Puglia e in parecchi altri posti ancora. E di avviare un programma ambizioso di diffusione dell’iniziativa si parla nelle riunioni del Gruppo Cultura di Confindustria, rilanciando un’idea già avviata una decina di anni fa.

In più d’una di quelle biblioteche aziendali ci sono reparti specializzati in libri per bambini e ragazzi. Leggere, appunto, migliora la qualità degli ambienti di lavoro e dei meccanismi di welfare. E stimola i genitori a fare leggere i loro ragazzi, senza peraltro incidere sui bilanci familiari.

Se ne è parlato, nei giorni scorsi, anche durante la riunione della giuria del Premio Campiello Junior (promosso dalla Fondazione Campiello e dalla Fondazione Pirelli) per scegliere le terne di libri da affidare al giudizio delle due “giurie popolari” composte da 240 ragazzi, una per i libri dai 7 ai 10 anni e l’altra per la fascia d’età dagli 11 ai 14 anni. Con una idea di fondo: tutti gli strumenti utili a stimolare la lettura (dai libri ben scritti ai luoghi in cui andarli a trovare) sono quanto mai essenziali per cercare di fare fronte non solo alle curiosità di una buona, equilibrata crescita personale, ma anche per provare a trovare risposte al diffuso senso di incertezza e di smarrimento.

Viviamo, infatti, tempi complicati, difficili, controversi, carichi di tensioni e di conflitti. “Tempi rabbiosi”, li definisce lo scrittore Sandro Veronesi, facendo riferimento pure al ruolo negativo dei social media (La Stampa, 6 dicembre). Ed è dunque necessario costruire menti aperte, in grado di fare i conti con un pensiero diverso dal loro, senza doverlo fare proprio, ma senza respingerlo. Perché proprio la diversità delle opinioni, dei pareri, delle emozioni, delle sensazioni, è una ricchezza, il sale della “società aperta”, l’essenza della democrazia.

Educare le bambine e i bambini alla discussione e all’accettazione delle diversità è, appunto, una grande responsabilità culturale e civile. E la chiave sta nel piacere di leggere, di giocare con le parole, di scoprire nuovi luoghi ed entrare in altre vite e in altre avventure, di costruirsi con la fantasia universi meno disagiati. Non per evadere, ma per avere consapevolezza della storia che viviamo e del futuro migliore che possiamo costruire.

È vero, i consumi culturali delle nuove generazioni passano poco attraverso i libri e molto di più attraverso gli strumenti digitali, i social media, i canali come Tik Tok. Battaglia di minoranza, allora, battaglia persa, insistere sui libri? Probabilmente no. L’editoria giovanile, come dimostrano i dati della Fiera di Bologna specializzata in editoria infantile e giovanile, testimoniano una grande e crescente vitalità del settore pure in Italia, oltre che negli Usa, nei paesi del Nord Europa e in Francia. E l’esperienza di chi ha figli e nipoti mostra come bambine e bambini usino con grande disinvoltura sia i libri di carta che i contenitori digitali. Bravissimi, insomma, gli editori che fanno libri di carta belli da usare pure per i bambini molto piccoli e tutti coloro che costruiscono prodotti adatti alle generazioni che non vivono la contraddizione tecnologica e passano tranquillamente dai cartoni Tv e dai video ai libri di carta e ai libri letti sui device digitali.

Siamo dentro una transizione quanto mai complessa, di stili di vita, abitudini, consumi e costumi. Di linguaggi e tecnologie. La diffusione dell’Intelligenza Artificiale, che incide molto sui processi e sui prodotti culturali, rende il contesto ancora più complicato. Ecco, allora, perché è indispensabile fare crescere la capacità di lettura, stimolare la fantasia personale, favorire il pensiero critico. Premiare chi lavora per una buona letteratura per l’infanzia e l’adolescenza. E fondare biblioteche. Ricordando appunto il saggio imperatore Adriano: ammassare riserve contro “l’inverno dello spirito” che vediamo tutti arrivare. E a cui non ci si può rassegnare.

(Photo Getty Images)

Campiello Junior: svelati i finalisti della quarta edizione

Giovedì 5 dicembre 2024, presso l’Headquarters Pirelli, sono state annunciate le Terne Finaliste della quarta edizione del Campiello Junior, il riconoscimento letterario nato dalla collaborazione tra la Fondazione Il Campiello, Fondazione Pirelli e Pirelli per opere italiane di narrativa e poesia scritte per bambini di 7-10 anni e per ragazzi tra gli 11 e i 14 anni.

La selezione dei libri finalisti è stata affidata alla Giuria del Premio, guidata dal Presidente Pino Boero, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna, Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Tra i quasi cento libri in concorso, i finalisti per la categoria 7-10 anni sono: Vivian Lamarque, “Storia con mare, cielo e paura (Adriano Salani editore); Ilaria Mattioni, “La figlia del gigante” (Feltrinelli Editore) e Guia Risari, “I giorni di Alban” (Giunti Editore).

Per la categoria 11-14 anni sono invece stati selezionati: “Il ciambellano e il lupo” di Simona Baldelli, edito da Emons libri e audiolibri, “Nella tua pelle” di Chiara Carminati, Bompiani, e “Una casa fuori dal tempo” di Beatrice Masini, edito da Mondadori.

I 240 giovani lettori della Giuria popolare potranno ora leggere i libri finalisti e scegliere il loro preferito, contribuendo a decretare i vincitori di questa edizione, che verranno annunciati a Vicenza nel mese di aprile 2025.

Per conoscere tutte le iniziative del Campiello Junior continuate a seguirci sul sito www.fondazionepirelli.org e sui nostri canali social.

Giovedì 5 dicembre 2024, presso l’Headquarters Pirelli, sono state annunciate le Terne Finaliste della quarta edizione del Campiello Junior, il riconoscimento letterario nato dalla collaborazione tra la Fondazione Il Campiello, Fondazione Pirelli e Pirelli per opere italiane di narrativa e poesia scritte per bambini di 7-10 anni e per ragazzi tra gli 11 e i 14 anni.

La selezione dei libri finalisti è stata affidata alla Giuria del Premio, guidata dal Presidente Pino Boero, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia e Pedagogia della lettura, e composta da Chiara Lagani, attrice e drammaturga, Michela Possamai, docente presso l’Università IUSVE di Venezia, già membro del Comitato Tecnico del Campiello Giovani, Emma Beseghi, già professore ordinario di Letteratura per l’infanzia presso l’Università di Bologna, Lea Martina Forti Grazzini, autrice e sceneggiatrice di programmi radio e tv Rai.

Tra i quasi cento libri in concorso, i finalisti per la categoria 7-10 anni sono: Vivian Lamarque, “Storia con mare, cielo e paura (Adriano Salani editore); Ilaria Mattioni, “La figlia del gigante” (Feltrinelli Editore) e Guia Risari, “I giorni di Alban” (Giunti Editore).

Per la categoria 11-14 anni sono invece stati selezionati: “Il ciambellano e il lupo” di Simona Baldelli, edito da Emons libri e audiolibri, “Nella tua pelle” di Chiara Carminati, Bompiani, e “Una casa fuori dal tempo” di Beatrice Masini, edito da Mondadori.

I 240 giovani lettori della Giuria popolare potranno ora leggere i libri finalisti e scegliere il loro preferito, contribuendo a decretare i vincitori di questa edizione, che verranno annunciati a Vicenza nel mese di aprile 2025.

Per conoscere tutte le iniziative del Campiello Junior continuate a seguirci sul sito www.fondazionepirelli.org e sui nostri canali social.

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Correre nel nuovo millennio

Il nuovo millennio si apre per Pirelli con una nuova vittoria. Nel Rally Safari 2000, infatti, il P Zero vince equipaggiando tutte e tre le auto che salgono sul podio: due Subaru al primo e secondo posto (pilotate rispettivamente da Richard Burns e Juha Kankkunen) e una Seat al terzo (con pilota Didier Auriol). Ma è forse l’anno successivo, il 2001, a evidenziare ancora di più gli alti livelli di prestazione raggiunti dalla P Lunga. Nelle cronache delle corse si dà conto della conquista del 18° titolo nel Mondiale Rally. “Richard Burns vince l’ultimo appuntamento del Rally 2001 in Gran Bretagna con la Subaru gommata P Zero e conquista il Titolo Mondiale Piloti”.

Un appuntamento, quello di Pirelli con le vittorie dei rally del primo decennio del nuovo secolo, che si ripete nel 2002 e nel 2003, quando viene conquistato un altro titolo mondiale sempre con il P Zero. Negli anni Duemila si affaccia anche un altro pneumatico – il KP Pirelli -, che “completa la gamma P Zero da sterrato mettendo in gara una copertura immediatamente capace di fare la differenza”. È un articolo ancora una volta di “Fatti e Notizie” che nel 2004 a raccontare che proprio il nuovo pneumatico ha portato alla vittoria una Subaru Impreza nel Rally della Nuova Zelanda con Peter Solberg.

Tecnologia e ricerca, così, vanno di pari passo per tutti e due i primi decenni del XXI secolo, con le vittorie nei diversi rally in tutto il mondo. Nel 2015, il pilota polacco Kajetan Kajetanowicz a bordo di una Ford Fiesta conquista il titolo di Campione Europeo Rally utilizzando l’intera gamma di pneumatici, dai Pirelli Scorpion K ai P Zero RK fino ai Pirelli Sottozero Ice. Nello stesso anno un italiano, Paolo Andreucci al volante di una Peugeot 208 T16 gommata Pirelli, conquista anche il titolo rally italiano.

Nel 2019 l’azienda della P Lunga viene scelta dalla FIA – Federazione Internazionale dell’Automobile – come fornitore di pneumatici unico per il Campionato del Mondo Rally per le stagioni dal 2021 al 2024. Tutte le vetture 4×4 che prendono parte alle gare per il WRC che si contendono il titolo assoluto, le R5 che sono protagoniste del WRC2 e le auto dei diversi campionati regionali e nazionali di tutto il mondo montano gomme Pirelli.

Una nota stampa della casa dell’azienda il 30 dicembre 2020 spiega come solo in quell’anno le vittorie siano state 85, mentre 40 sono stati i paesi in cui Pirelli è stata presente nelle competizioni rallistiche e 275 le prove speciali vinte. Solo nei cinque anni precedenti sono stati forniti oltre 509mila pneumatici ai campioni delle corse più difficili del mondo. Fino alla fine del 2020, inoltre, Pirelli è stata presente in più di 580 competizioni rallistiche, con 181 vittorie e 25 titoli.

Oggi Pirelli, dopo aver raggiunto tutti gli obiettivi prefissati da fornitore unico nel WRC per il periodo 2021-2024 continua a supportare tutte le altre competizioni rally in cui è attualmente coinvolta e ha inoltre unito le forze con FIA per sostenere il programma Rally Star recentemente istituito, dando seguito all’impegno a lungo termine dell’azienda italiana nel supportare i giovani piloti di talento in tutti i livelli del rally.

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Il nuovo millennio si apre per Pirelli con una nuova vittoria. Nel Rally Safari 2000, infatti, il P Zero vince equipaggiando tutte e tre le auto che salgono sul podio: due Subaru al primo e secondo posto (pilotate rispettivamente da Richard Burns e Juha Kankkunen) e una Seat al terzo (con pilota Didier Auriol). Ma è forse l’anno successivo, il 2001, a evidenziare ancora di più gli alti livelli di prestazione raggiunti dalla P Lunga. Nelle cronache delle corse si dà conto della conquista del 18° titolo nel Mondiale Rally. “Richard Burns vince l’ultimo appuntamento del Rally 2001 in Gran Bretagna con la Subaru gommata P Zero e conquista il Titolo Mondiale Piloti”.

Un appuntamento, quello di Pirelli con le vittorie dei rally del primo decennio del nuovo secolo, che si ripete nel 2002 e nel 2003, quando viene conquistato un altro titolo mondiale sempre con il P Zero. Negli anni Duemila si affaccia anche un altro pneumatico – il KP Pirelli -, che “completa la gamma P Zero da sterrato mettendo in gara una copertura immediatamente capace di fare la differenza”. È un articolo ancora una volta di “Fatti e Notizie” che nel 2004 a raccontare che proprio il nuovo pneumatico ha portato alla vittoria una Subaru Impreza nel Rally della Nuova Zelanda con Peter Solberg.

Tecnologia e ricerca, così, vanno di pari passo per tutti e due i primi decenni del XXI secolo, con le vittorie nei diversi rally in tutto il mondo. Nel 2015, il pilota polacco Kajetan Kajetanowicz a bordo di una Ford Fiesta conquista il titolo di Campione Europeo Rally utilizzando l’intera gamma di pneumatici, dai Pirelli Scorpion K ai P Zero RK fino ai Pirelli Sottozero Ice. Nello stesso anno un italiano, Paolo Andreucci al volante di una Peugeot 208 T16 gommata Pirelli, conquista anche il titolo rally italiano.

Nel 2019 l’azienda della P Lunga viene scelta dalla FIA – Federazione Internazionale dell’Automobile – come fornitore di pneumatici unico per il Campionato del Mondo Rally per le stagioni dal 2021 al 2024. Tutte le vetture 4×4 che prendono parte alle gare per il WRC che si contendono il titolo assoluto, le R5 che sono protagoniste del WRC2 e le auto dei diversi campionati regionali e nazionali di tutto il mondo montano gomme Pirelli.

Una nota stampa della casa dell’azienda il 30 dicembre 2020 spiega come solo in quell’anno le vittorie siano state 85, mentre 40 sono stati i paesi in cui Pirelli è stata presente nelle competizioni rallistiche e 275 le prove speciali vinte. Solo nei cinque anni precedenti sono stati forniti oltre 509mila pneumatici ai campioni delle corse più difficili del mondo. Fino alla fine del 2020, inoltre, Pirelli è stata presente in più di 580 competizioni rallistiche, con 181 vittorie e 25 titoli.

Oggi Pirelli, dopo aver raggiunto tutti gli obiettivi prefissati da fornitore unico nel WRC per il periodo 2021-2024 continua a supportare tutte le altre competizioni rally in cui è attualmente coinvolta e ha inoltre unito le forze con FIA per sostenere il programma Rally Star recentemente istituito, dando seguito all’impegno a lungo termine dell’azienda italiana nel supportare i giovani piloti di talento in tutti i livelli del rally.

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Gli anni Sessanta e Settanta: in principio fu il “pneumatico con il cappotto”

Il legame forte tra Pirelli e le competizioni rallistiche si capisce subito, dai primi anni Sessanta.
In principio è il “pneumatico con il cappotto” e cioè il “Battistrada Separato 3”, BS3, che proprio da un rally ha una delle sue conferme più importanti. E’ un pneumatico composto da una carcassa e un battistrada non vulcanizzati assieme: in questo modo il battistrada risulta facilmente intercambiabile. Una soluzione tecnologica innovativa, rimasta in produzione per alcuni anni, che ha anticipato il cambio stagionale dei pneumatici perché rendeva semplice il passaggio dalle prestazioni estive a quelle invernali, e viceversa. È proprio il BS3 che viene montato, durante il Rally di Montecarlo del 1961, da 28 equipaggi in gara, di cui 23 arrivati alla fine della competizione. Ed è ancora il BS3 a essere il precursore del primo vero invernale di Pirelli, l’MS35, che in alcune pubblicità televisive dell’epoca è in bella mostra accanto a Sandro Munari al volante della Lancia Fulvia su cui vince diverse gare, fra cui lo stesso Rally di Montecarlo nel 1972.

E’ Munari il “Drago”, che proprio negli anni Settanta tiene quasi a battesimo – almeno per quanto concerne i rally -, un altro pneumatico che ha fatto la storia: il P7. L’house organ Pirelli “Fatti e Notizie” racconta tutto. Munari non ha dubbi: il P7 super-ribassato progettato dai tecnici Pirelli e montato sulla Lancia Stratos Alitalia è, insieme all’affidabilità dell’auto, l’elemento in gara che fa la differenza. E che, proprio a Montecarlo, dimostra tutta la sua potenzialità.

Sono gloriosi per Pirelli gli anni Settanta nel mondo del rally. È in questo decennio che con il P7 l’azienda consolida il suo legame con le gare automobilistiche più dure e sfidanti, in un continuo scambio tra corse e ricerca di soluzioni tecnologiche sempre più avanzate. In quel periodo il rally diventa “un misto di Mille Miglia e di 24 Ore di Le Mans, un miscuglio di tecnica, organizzazione e imprevisto, una logorante fatica di uomini e di macchine”, sempre stando alle cronache riportate dai comunicati aziendali.

Tutto con alcuni capisaldi: le gare più importanti (a iniziare dal rally per antonomasia, quello di Montecarlo), i campioni più amati (uno tra tutti appunto Sandro Munari), le auto più vincenti (Bmw, Fiat, Lancia) e, soprattutto, i pneumatici. Perché una vittoria in un rally è merito del pilota per almeno il 30%, della vettura per un altro 30%, ma ancora per un 30% esclusivamente dei pneumatici.
Ed è negli anni Settanta che alcuni dei pneumatici che hanno fatto la storia della Pirelli passano anche dai rally per essere testati oppure modificati proprio per le corse. I nomi sono quelli più noti: oltre al P7 anche il Supersport, il CINTURATO CN 36 (anche nella versione “C” che consente l’uso dei chiodi), il CINTURATO MS 35, il CN 54.
Risultati di gara che si traducono subito in traguardi di ricerca. E viceversa. Sono ancora le cronache dei magazine aziendali a sintetizzare tutto in un articolo dedicato al MS35: “Il computer ha dato l’impostazione generale. La messa a punto è venuta dalle prove pratiche su strada. La verifica finale dai rallies”. Per non parlare delle innumerevoli vittorie che le auto equipaggiate con la P Lunga collezionano: oltre 20 nella prima metà del decennio. Il rally quindi come banco di prova. Anche per gli uomini il cui lavoro è dietro a ogni particolare. “I magnifici quindici della squadra rally”, titola sempre “Fatti e Notizie” in un articolo che racconta di chi lavora negli anni Settanta al Centro Rally, cuore pulsante delle forniture di pneumatici per tutte le gare.
Tecnologia, voglia di vincere e, soprattutto, uomini appassionati di quello che fanno. A tutti i livelli.

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Il legame forte tra Pirelli e le competizioni rallistiche si capisce subito, dai primi anni Sessanta.
In principio è il “pneumatico con il cappotto” e cioè il “Battistrada Separato 3”, BS3, che proprio da un rally ha una delle sue conferme più importanti. E’ un pneumatico composto da una carcassa e un battistrada non vulcanizzati assieme: in questo modo il battistrada risulta facilmente intercambiabile. Una soluzione tecnologica innovativa, rimasta in produzione per alcuni anni, che ha anticipato il cambio stagionale dei pneumatici perché rendeva semplice il passaggio dalle prestazioni estive a quelle invernali, e viceversa. È proprio il BS3 che viene montato, durante il Rally di Montecarlo del 1961, da 28 equipaggi in gara, di cui 23 arrivati alla fine della competizione. Ed è ancora il BS3 a essere il precursore del primo vero invernale di Pirelli, l’MS35, che in alcune pubblicità televisive dell’epoca è in bella mostra accanto a Sandro Munari al volante della Lancia Fulvia su cui vince diverse gare, fra cui lo stesso Rally di Montecarlo nel 1972.

E’ Munari il “Drago”, che proprio negli anni Settanta tiene quasi a battesimo – almeno per quanto concerne i rally -, un altro pneumatico che ha fatto la storia: il P7. L’house organ Pirelli “Fatti e Notizie” racconta tutto. Munari non ha dubbi: il P7 super-ribassato progettato dai tecnici Pirelli e montato sulla Lancia Stratos Alitalia è, insieme all’affidabilità dell’auto, l’elemento in gara che fa la differenza. E che, proprio a Montecarlo, dimostra tutta la sua potenzialità.

Sono gloriosi per Pirelli gli anni Settanta nel mondo del rally. È in questo decennio che con il P7 l’azienda consolida il suo legame con le gare automobilistiche più dure e sfidanti, in un continuo scambio tra corse e ricerca di soluzioni tecnologiche sempre più avanzate. In quel periodo il rally diventa “un misto di Mille Miglia e di 24 Ore di Le Mans, un miscuglio di tecnica, organizzazione e imprevisto, una logorante fatica di uomini e di macchine”, sempre stando alle cronache riportate dai comunicati aziendali.

Tutto con alcuni capisaldi: le gare più importanti (a iniziare dal rally per antonomasia, quello di Montecarlo), i campioni più amati (uno tra tutti appunto Sandro Munari), le auto più vincenti (Bmw, Fiat, Lancia) e, soprattutto, i pneumatici. Perché una vittoria in un rally è merito del pilota per almeno il 30%, della vettura per un altro 30%, ma ancora per un 30% esclusivamente dei pneumatici.
Ed è negli anni Settanta che alcuni dei pneumatici che hanno fatto la storia della Pirelli passano anche dai rally per essere testati oppure modificati proprio per le corse. I nomi sono quelli più noti: oltre al P7 anche il Supersport, il CINTURATO CN 36 (anche nella versione “C” che consente l’uso dei chiodi), il CINTURATO MS 35, il CN 54.
Risultati di gara che si traducono subito in traguardi di ricerca. E viceversa. Sono ancora le cronache dei magazine aziendali a sintetizzare tutto in un articolo dedicato al MS35: “Il computer ha dato l’impostazione generale. La messa a punto è venuta dalle prove pratiche su strada. La verifica finale dai rallies”. Per non parlare delle innumerevoli vittorie che le auto equipaggiate con la P Lunga collezionano: oltre 20 nella prima metà del decennio. Il rally quindi come banco di prova. Anche per gli uomini il cui lavoro è dietro a ogni particolare. “I magnifici quindici della squadra rally”, titola sempre “Fatti e Notizie” in un articolo che racconta di chi lavora negli anni Settanta al Centro Rally, cuore pulsante delle forniture di pneumatici per tutte le gare.
Tecnologia, voglia di vincere e, soprattutto, uomini appassionati di quello che fanno. A tutti i livelli.

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L’evoluzione tecnologica nelle gare: dal PZero al P7000

Cinquant’anni dall’ultima vittoria. È il 1980 e una Fiat 131 Abarth pilotata dal tedesco Walter Röhrl trionfa al 48° Rally di Montecarlo. Un successo per la casa automobilistica di Torino che non vinceva la competizione dal 1928. E un successo per la Pirelli, i cui pneumatici sono adottati, oltre che dalla 131 del vincitore, anche da altre quattro vetture che si collocano nei primissimi posti in classifica.

Inizia così un decennio ricco di vittorie, anche dal punto di vista tecnologico oltre che sportivo. “Più di un trionfo”, titola “Fatti e Notizie” nell’articolo che dà conto della serie di primati di Montecarlo e che oggi suona un po’ come una facile previsione. A fare la parte da protagonista, per quanto riguarda la dotazione di pneumatici, è ancora una volta il Pirelli P7 nelle sue diverse versioni.

Vittorie, dunque. Che proseguono subito dopo con un vero poker di vetture – questa volta Lancia – tutte gommate Pirelli, che conquistano i primi quattro posti del Rally della Corsica e poi anche quello della Grecia. Conquiste sportive con un bilancio d’eccezione: nel 1980 si arriva alla vittoria Pirelli numero 50 dall’inizio, nel 1972, del campionato del mondo di rally. Un primato che davvero dice tutto sulla tecnologia applicata a queste competizioni. Il 1983 è anche l’anno in cui l’eccezionale connubio tra auto e pneumatici dà il meglio: Walter Röhrl ancora a Montecarlo guida alla vittoria la Lancia 037 gommata Pirelli. Un podio che si fa ancora più importante: al secondo e terzo posto, infatti, si collocano altre due Lancia 037 sempre equipaggiate dalla P Lunga. Tra il 1983 e il 1984, la Lancia 037 totalizza dieci vittorie.

D’altra parte, negli anni Ottanta la corsa dei pneumatici Pirelli non si ferma mai. E, oltre alle vittorie, l’azienda continua a coltivare il legame tra gare e ricerca. A confermarlo nel 1987 è Mario Mezzanotte (responsabile dello Sviluppo tecnico delle attività sportive), che spiega: “A partire dal Rally di Sanremo di quest’anno si è andato affermando il nodo sempre più netto il nuovo Pirelli PZero. È una copertura che sta diventando emblematica rispetto al processo di travaso tecnologico dalle competizioni al prodotto di serie che Pirelli persegue da sempre”. A vincere con il PZero è, in questo caso, un’altra auto iconica dei rally, la Lancia Delta S4 a trazione integrale.

La strada è sempre la stessa: dal laboratorio degli ingegneri alle vie più impervie dei rally, per arrivare poi a equipaggiare le auto di serie di tutto il mondo. Adesso nella comunicazione pubblicitaria si dice “Pirally”: sette lettere per indicare un mondo di passioni e di conoscenze tecnologiche. Un vocabolo spesso utilizzato dall’azienda negli anni Novanta, che caratterizza il ruolo dell’azienda nelle competizioni rallistiche. Ruolo che in quel decennio si consolida, a iniziare dalla vittoria del 59° Rally di Montecarlo con Carlos Sainz su una Toyota Celica 4WD gommata Pirelli, nel 1991. Proprio i responsabili della casa automobilistica giapponese in visita alla Bicocca non mancano di elogiare la capacità tecnica, organizzativa e logistica dimostrata. Un segno di riconoscenza testimoniato anche dal trofeo consegnato a Carlo Banchieri, direttore prodotto di Pirelli Tyre Holding.

I premi più ambiti, tuttavia, continuano ad arrivare dalle competizioni. Nel 1993, per esempio, Gianfranco Cunico con una Ford equipaggiata Pirelli conquista il Rally di Sanremo. Protagonisti, in questo caso, i pneumatici Pirelli R76, capaci di resistere a escursioni termiche dai 30 gradi su fondo bagnato ai 140 su asciutto.

Ma è forse il 1994 l’anno più significativo del decennio in ambito rallistico. Da lì in avanti è un susseguirsi di vittorie: dal Rally di Sanremo a quello di Montecarlo, da quello dell’Acropoli a quello della Corsica. Protagonista quasi sempre Carlos Sainz, che colleziona una serie incredibile di vittorie.

Ed è sempre sull’onda dei rally che viene presentato – a Monza -, il Pirelli P7000, il prodotto che viene definito il “pneumatico dal controllo feroce” e che proprio per le competizioni più dure è stato progettato e realizzato prima di passare a equipaggiare i veicoli da strada. . “Con P7000”, racconta un articolo di “Fatti e Notizie” del 1995, la tradizione sportiva di Pirelli è ancora una volta a disposizione dell’automobilista”.

Nel 1997, Pirelli conquista il traguardo della centesima vittoria nel Mondiale Rally vincendo, su “tre terreni diversissimi: asfalto, pioggia e neve al Montecarlo; sterrato congelato e ancora neve in Svezia; sterrato durissimo, savana e guadi al Safari”.

Le vittorie sono merito dei “pneumatici Pirelli rivelatesi sempre vincenti e super-affidabili, ma soprattutto estremamente versatili al cambiare del fondo e delle situazioni di gara”.

 

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Cinquant’anni dall’ultima vittoria. È il 1980 e una Fiat 131 Abarth pilotata dal tedesco Walter Röhrl trionfa al 48° Rally di Montecarlo. Un successo per la casa automobilistica di Torino che non vinceva la competizione dal 1928. E un successo per la Pirelli, i cui pneumatici sono adottati, oltre che dalla 131 del vincitore, anche da altre quattro vetture che si collocano nei primissimi posti in classifica.

Inizia così un decennio ricco di vittorie, anche dal punto di vista tecnologico oltre che sportivo. “Più di un trionfo”, titola “Fatti e Notizie” nell’articolo che dà conto della serie di primati di Montecarlo e che oggi suona un po’ come una facile previsione. A fare la parte da protagonista, per quanto riguarda la dotazione di pneumatici, è ancora una volta il Pirelli P7 nelle sue diverse versioni.

Vittorie, dunque. Che proseguono subito dopo con un vero poker di vetture – questa volta Lancia – tutte gommate Pirelli, che conquistano i primi quattro posti del Rally della Corsica e poi anche quello della Grecia. Conquiste sportive con un bilancio d’eccezione: nel 1980 si arriva alla vittoria Pirelli numero 50 dall’inizio, nel 1972, del campionato del mondo di rally. Un primato che davvero dice tutto sulla tecnologia applicata a queste competizioni. Il 1983 è anche l’anno in cui l’eccezionale connubio tra auto e pneumatici dà il meglio: Walter Röhrl ancora a Montecarlo guida alla vittoria la Lancia 037 gommata Pirelli. Un podio che si fa ancora più importante: al secondo e terzo posto, infatti, si collocano altre due Lancia 037 sempre equipaggiate dalla P Lunga. Tra il 1983 e il 1984, la Lancia 037 totalizza dieci vittorie.

D’altra parte, negli anni Ottanta la corsa dei pneumatici Pirelli non si ferma mai. E, oltre alle vittorie, l’azienda continua a coltivare il legame tra gare e ricerca. A confermarlo nel 1987 è Mario Mezzanotte (responsabile dello Sviluppo tecnico delle attività sportive), che spiega: “A partire dal Rally di Sanremo di quest’anno si è andato affermando il nodo sempre più netto il nuovo Pirelli PZero. È una copertura che sta diventando emblematica rispetto al processo di travaso tecnologico dalle competizioni al prodotto di serie che Pirelli persegue da sempre”. A vincere con il PZero è, in questo caso, un’altra auto iconica dei rally, la Lancia Delta S4 a trazione integrale.

La strada è sempre la stessa: dal laboratorio degli ingegneri alle vie più impervie dei rally, per arrivare poi a equipaggiare le auto di serie di tutto il mondo. Adesso nella comunicazione pubblicitaria si dice “Pirally”: sette lettere per indicare un mondo di passioni e di conoscenze tecnologiche. Un vocabolo spesso utilizzato dall’azienda negli anni Novanta, che caratterizza il ruolo dell’azienda nelle competizioni rallistiche. Ruolo che in quel decennio si consolida, a iniziare dalla vittoria del 59° Rally di Montecarlo con Carlos Sainz su una Toyota Celica 4WD gommata Pirelli, nel 1991. Proprio i responsabili della casa automobilistica giapponese in visita alla Bicocca non mancano di elogiare la capacità tecnica, organizzativa e logistica dimostrata. Un segno di riconoscenza testimoniato anche dal trofeo consegnato a Carlo Banchieri, direttore prodotto di Pirelli Tyre Holding.

I premi più ambiti, tuttavia, continuano ad arrivare dalle competizioni. Nel 1993, per esempio, Gianfranco Cunico con una Ford equipaggiata Pirelli conquista il Rally di Sanremo. Protagonisti, in questo caso, i pneumatici Pirelli R76, capaci di resistere a escursioni termiche dai 30 gradi su fondo bagnato ai 140 su asciutto.

Ma è forse il 1994 l’anno più significativo del decennio in ambito rallistico. Da lì in avanti è un susseguirsi di vittorie: dal Rally di Sanremo a quello di Montecarlo, da quello dell’Acropoli a quello della Corsica. Protagonista quasi sempre Carlos Sainz, che colleziona una serie incredibile di vittorie.

Ed è sempre sull’onda dei rally che viene presentato – a Monza -, il Pirelli P7000, il prodotto che viene definito il “pneumatico dal controllo feroce” e che proprio per le competizioni più dure è stato progettato e realizzato prima di passare a equipaggiare i veicoli da strada. . “Con P7000”, racconta un articolo di “Fatti e Notizie” del 1995, la tradizione sportiva di Pirelli è ancora una volta a disposizione dell’automobilista”.

Nel 1997, Pirelli conquista il traguardo della centesima vittoria nel Mondiale Rally vincendo, su “tre terreni diversissimi: asfalto, pioggia e neve al Montecarlo; sterrato congelato e ancora neve in Svezia; sterrato durissimo, savana e guadi al Safari”.

Le vittorie sono merito dei “pneumatici Pirelli rivelatesi sempre vincenti e super-affidabili, ma soprattutto estremamente versatili al cambiare del fondo e delle situazioni di gara”.

 

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Persone per far crescere le imprese

L’evoluzione del mestiere di responsabile del personale

Imprese e quindi persone. Anzi, prima persone e poi imprese. Perché nessuna impresa può esistere – a lungo e bene – senza un attento coinvolgimento delle persone che vi lavorano (a più livelli e con responsabilità diverse).

Lavorare con le persone non è tuttavia cosa facile. Per questo il mestiere del responsabile del personale non solo è tra i più complessi all’interno di una organizzazione della produzione, ma è anche tra quelli in continuo cambiamento.

È attorno a queste idee che ragionano Franco Civelli e Daniele Manara con il loro “I nuovi paradigmi dell’HR manager. Evoluzione di una professione nel mondo del lavoro che cambia”. Il libro cerca di rispondere ad una domanda: cosa fa, oggi, e cosa farà domani un HR manager? Perché, diversamente da prima, è parere degli autori che oggi la funzione HR abbia l’occasione di conquistare una posizione di primo piano nelle gerarchie aziendali. Una prospettiva che deriva proprio da quanto si diceva all’inizio: l’importanza delle persone all’interno delle aziende. Per questo, la responsabilità di HR avrà sempre più rilevanza per le  organizzazioni, perché è a questa responsabilità che sarà affidato il compito di promuovere lo sviluppo continuo delle persone. Si tratta di un cambio della stessa cultura del produrre che passa dai numeri e dalle tabelle a qualcosa di diverso.

Il libro quindi dopo aver analizzato storia e realtà dell’HR si propone come una guida per quanti decideranno di scegliere la professione di gestori di risorse umane e può offrire, qualche suggerimento agli imprenditori su come promuovere motivazione, coinvolgimento e partecipazione in azienda. Da leggere e soprattutto da usare.

I nuovi paradigmi dell’HR manager. Evoluzione di una professione nel mondo del lavoro che cambia

Franco Civelli, Daniele Manara

PostEditori, 2024

L’evoluzione del mestiere di responsabile del personale

Imprese e quindi persone. Anzi, prima persone e poi imprese. Perché nessuna impresa può esistere – a lungo e bene – senza un attento coinvolgimento delle persone che vi lavorano (a più livelli e con responsabilità diverse).

Lavorare con le persone non è tuttavia cosa facile. Per questo il mestiere del responsabile del personale non solo è tra i più complessi all’interno di una organizzazione della produzione, ma è anche tra quelli in continuo cambiamento.

È attorno a queste idee che ragionano Franco Civelli e Daniele Manara con il loro “I nuovi paradigmi dell’HR manager. Evoluzione di una professione nel mondo del lavoro che cambia”. Il libro cerca di rispondere ad una domanda: cosa fa, oggi, e cosa farà domani un HR manager? Perché, diversamente da prima, è parere degli autori che oggi la funzione HR abbia l’occasione di conquistare una posizione di primo piano nelle gerarchie aziendali. Una prospettiva che deriva proprio da quanto si diceva all’inizio: l’importanza delle persone all’interno delle aziende. Per questo, la responsabilità di HR avrà sempre più rilevanza per le  organizzazioni, perché è a questa responsabilità che sarà affidato il compito di promuovere lo sviluppo continuo delle persone. Si tratta di un cambio della stessa cultura del produrre che passa dai numeri e dalle tabelle a qualcosa di diverso.

Il libro quindi dopo aver analizzato storia e realtà dell’HR si propone come una guida per quanti decideranno di scegliere la professione di gestori di risorse umane e può offrire, qualche suggerimento agli imprenditori su come promuovere motivazione, coinvolgimento e partecipazione in azienda. Da leggere e soprattutto da usare.

I nuovi paradigmi dell’HR manager. Evoluzione di una professione nel mondo del lavoro che cambia

Franco Civelli, Daniele Manara

PostEditori, 2024

Storie di territori e imprese

Alla Ca’ Foscari discussa una tesi sulla storia di una delle aree industriali più importanti in Italia

Territori e imprese. Donne e uomini e imprese. Con tutte le loro storie personali, che si fondono poi in storie di comunità. E di economia. L’Italia è densa di vicende industriali che hanno connotati di questo genere. E vale sempre la fatica di studiarli e di condividerli. È il caso dalla ricerca condotta da Niccolò Baggio. “Rapporto tra impresa e territorio nel distretto tessile Altovicentino. Storia di sostenibilità ambientale e sociale tra il Lanificio Rossi, Marzotto e Miteni” è una nella tesi discussa in Ca’ Foscari che racconta le vicende di un territorio industriale partendo da quelle di alcune delle imprese più significative a livello locale ma anche nazionale e internazionale.

Baggio spiega come il rapporto tra imprese e territorio sia in continua evoluzione, e come lo sia stato “da quando si consideravano imprese i piccoli laboratori artigiani, e lo è anche oggi che le grandi multinazionali si presentano tutte come sostenibili”. È da questa constatazione che ha preso forma l’idea di analizzare un territorio circoscritto e osserva e descrive come il rapporto tra impresa e territorio si sia evoluto fino a, talvolta, incrinarsi.

L’indagine ha riguardato la zona dell’Altovicentino e le imprese Lanificio Rossi, Marzotto e Miteni. Il filo conduttore della tesi è – appunto – la comunità locale e la sua reazione a scelte manageriali, talvolta controverse e discutibili. Il metodo adottato è quello della prospettiva storica di lungo periodo che non si soffermi sui singoli eventi ma che consenta di avere una visione d’insieme delle dinamiche dell’impresa e del lavoro.

Il lavoro di Niccolò Baggio si dipana lineare partendo dall’inquadramento del tema e della realtà dei distretti industriali italiani, passando a raccontare le vicende dell’area scelta e, fine, quelle delle tre imprese prese in considerazione.

L’indagine di Baggio è da leggere soprattutto perché ha il pregio di provare – e in buona parte riuscire – a scavare nel profondo di un territorio importante e significativo. E di mettere in relazione l’umanità con l’economia.

Rapporto tra impresa e territorio nel distretto tessile Altovicentino. Storia di sostenibilità ambientale e sociale tra il Lanificio Rossi, Marzotto e Miteni

Niccolò Baggio

Tesi, Università Ca’ Foscari, Corso di Laurea Magistrale in Economia e gestione delle aziende, 2024

Alla Ca’ Foscari discussa una tesi sulla storia di una delle aree industriali più importanti in Italia

Territori e imprese. Donne e uomini e imprese. Con tutte le loro storie personali, che si fondono poi in storie di comunità. E di economia. L’Italia è densa di vicende industriali che hanno connotati di questo genere. E vale sempre la fatica di studiarli e di condividerli. È il caso dalla ricerca condotta da Niccolò Baggio. “Rapporto tra impresa e territorio nel distretto tessile Altovicentino. Storia di sostenibilità ambientale e sociale tra il Lanificio Rossi, Marzotto e Miteni” è una nella tesi discussa in Ca’ Foscari che racconta le vicende di un territorio industriale partendo da quelle di alcune delle imprese più significative a livello locale ma anche nazionale e internazionale.

Baggio spiega come il rapporto tra imprese e territorio sia in continua evoluzione, e come lo sia stato “da quando si consideravano imprese i piccoli laboratori artigiani, e lo è anche oggi che le grandi multinazionali si presentano tutte come sostenibili”. È da questa constatazione che ha preso forma l’idea di analizzare un territorio circoscritto e osserva e descrive come il rapporto tra impresa e territorio si sia evoluto fino a, talvolta, incrinarsi.

L’indagine ha riguardato la zona dell’Altovicentino e le imprese Lanificio Rossi, Marzotto e Miteni. Il filo conduttore della tesi è – appunto – la comunità locale e la sua reazione a scelte manageriali, talvolta controverse e discutibili. Il metodo adottato è quello della prospettiva storica di lungo periodo che non si soffermi sui singoli eventi ma che consenta di avere una visione d’insieme delle dinamiche dell’impresa e del lavoro.

Il lavoro di Niccolò Baggio si dipana lineare partendo dall’inquadramento del tema e della realtà dei distretti industriali italiani, passando a raccontare le vicende dell’area scelta e, fine, quelle delle tre imprese prese in considerazione.

L’indagine di Baggio è da leggere soprattutto perché ha il pregio di provare – e in buona parte riuscire – a scavare nel profondo di un territorio importante e significativo. E di mettere in relazione l’umanità con l’economia.

Rapporto tra impresa e territorio nel distretto tessile Altovicentino. Storia di sostenibilità ambientale e sociale tra il Lanificio Rossi, Marzotto e Miteni

Niccolò Baggio

Tesi, Università Ca’ Foscari, Corso di Laurea Magistrale in Economia e gestione delle aziende, 2024

Milano è tutt’altro che violenta e “fuori controllo” ma ai divari crescenti vanno date risposte solidali

Milano, ovvero la via commerciale più cara al mondo, Montenapoleone, con 20mila euro al metro quadro di canone commerciale annuale, più che nell’Upper 5th Avenue a New York, nella New Bond Street a Londra e nella Tsim Sha Tsui di Hong Kong (con un aumento del 30% in due anni). La ricchezza, i consumi opulenti, la grande moda.

Milano, ovvero il Corvetto, periferia carica di tensioni sociali e proteste infiammate, preoccupazioni per il lavoro e il reddito, disagi legati alla difficile integrazione delle nuove generazioni e alle paure degli anziani.

Ma si può davvero raccontare soltanto così, Milano, in queste sintesi estreme ricavate dalle cronache degli ultimi giorni di novembre, con il cono di luce sparato sulle drammatiche divaricazioni economiche e sociali, tra le mille luci del lusso e la notte buia e dolorosa di chi fa sempre più fatica per tirare a campare?

Naturalmente no. Adesso che s’è un po’ depositata la polvere delle polemiche sulla “rivolta del Corvetto” o sulla “polveriera Corvetto” (le frasi più usate sui media, dopo la morte del giovane Ramy Elgam durante un inseguimento tra uno scooter e una “gazzella” dei carabinieri), vale la pena cercare di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali che riguardano la metropoli (magari parlando anche di “involuzioni”) e che indicazioni trarre da una serie di fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.

“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, più di mezzo secolo fa, mettendo in pagina, in un dialogo immaginario tra Marco Polo e il Kublai Khan, undici serie di “città invisibili” e ragionando di memoria, desideri, segni, scambi, nomi, occhi e di spazi urbani “sottili”, “continui”, “nascosti” e di tanto altro ancora. Era un poema d’amore per quei luoghi in cui già allora e oramai sempre più intensamente s’addensa una composita umanità e in cui si fanno i conti con una difficile, controversa e, perché no?, contraddittoria modernità (d’altronde contraddirsi significa “contenere moltitudini”, secondo l’acuta intuizione poetica di Walt Whitman). 

Come succede in tutte le storie d’amore, Calvino metteva in luce aspettative, illusioni, delusioni, felicità luminose e taglienti dolori di tradimento e d’abbandono. E però, come in ogni gioco dell’intelligenza e della volontà, lasciava intravvedere voglia di capire e bisogno d’intervenire. Su più piani. La ragione. E i sentimenti. Perché, ricordando Blaise Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce.

Cercare di capire, dunque. E indagare, ricercare, esplorare. Ancora Calvino: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali, impetuose trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori socialiproduttività e inclusionecompetitività economica e solidarietà. L’attenzione ai soldi. E lo sguardo sinceramente compassionevole. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Milano, insomma, paradigma di come si possa declinare in modo efficace la sintesi europea tra democrazia, mercato e welfare

Proprio per questo speciale “capitale sociale”, per lunghe stagioni della storia è stato chiaro che “milanesi si diventa”, pur venendo da Parma e da Palermo, da Treviso e da Bari, da Firenze e da Napoli, da uno dei tanti comuni italiani meno dinamici per imparare, proprio attraverso l’impresa e il lavoro, a essere produttori e, soprattutto, cittadini. Una religione laica (ben presente anche negli ambienti cattolici) del “fare, fare bene e fare del bene”. La “città che sale” e che include, appunto.

Da qualche tempo, però, l’aria è cambiata. I divari economici e sociali sono cresciuti, come ha documentato bene Il Giorno (24 novembre), mostrando una “Milano a due facce”, con “l’abisso del reddito cinque volte più alto nel centro città” rispetto alle periferie come Quarto Oggiaro e con un aumento dei “lavoratori poveri” e precari. E sul Corriere della Sera (21 novembre) Giangiacomo Schiavi, scrupoloso analista di dati, sentimenti e opinioni cittadine, ha raccontato la crisi per la qualità della vita e della felicità “senza cinquemila euro al mese”. E tre giorni dopo (24 novembre) ha insistito: “Nella Milano dell’attrattività e dell’eventismo c’è una povertà fatta di vite al minimo, di persone che cercano di risalire su un ascensore sociale e non ce la fanno. Sono storie che contraddicono la visione di un uguale status di cittadinanza, storie di uomini e donne invisibili sopraffatti dalle emergenze, che mostrano un distacco dalla vita civile e si nascondono nella vergogna di una cosa per un piatto di minestra nelle mense della solidarietà ambrosiana”.    

Ecco anche la Repubblica (17 novembre): “Nuovi residenti in calo, sull’addio a Milano pesa l’effetto carovita”.  Nel ‘24, infatti (dati ad agosto) hanno lasciato la città 50mila persone, a fronte di 35mila nuovi arrivi. Pesa l’aumento del costo della vita, ben maggiore degli incrementi di salari e stipendi medi. E a dominare negativamente queste tendenze, c’è il boom insopportabile dei valori immobiliari: “Affitti più costosi del 40% in cinque anni. C’è il caro-casa dietro le nuove povertà”, scrive Zita Dazzi su la Repubblica (24 novembre) sulla base dei dati di una ricerca dell’Università Bicocca per la Fondazione Pellegrini.

Ecco un punto chiave: grazie alla legge Renzi del 2017 sulla flat tax da 100mila euro (portata a 200mila euro dal governo Meloni nell’agosto scorso) circa 1.600 super ricchi hanno scelto di vivere in Italia e soprattutto a Milano, invece che a Londra o in altre metropoli internazionali, facendo impazzire innanzitutto il mercato immobiliare. E l’Italia “é diventata un paradiso fiscale in grado di fare concorrenza alla Svizzera”, critica Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 2 dicembre). 

Disparità sociali in aumento, in una Milano affollata da city users benestanti e sempre meno da cittadini con un progetto di vita, un amore per gli spazi, i servizi e i valori comuni (cultura compresa) e un’attenzione severa per la qualità della vita in generale, dalla sanità alla scuola, dalla sicurezza alle relazioni di vicinato.

Milano, insomma, ha bisogno di rileggere le pagine intense di Alberto Savinio“ascolta il tuo cuore, città”. E subire meno il fascino del palcoscenico di mode e consumi e dedicare invece maggiore attenzione all’economia reale, ai salari, ai progetti per i giovani, alla solidarietà. Ritrovare l’anima ambrosiana, appunto.

Tutto sbagliato, tutto da rifare, allora? Naturalmente no.

Milano è città molteplice, poliedrica, forte delle tante differenze presenti al suo interno e di una ancora solida cultura della cittadinanza attiva (benché adesso segnata da crepe e tarli). E dunque va raccontata bene nella sua complessità e amministrata con lungimiranza generosa.

Milano, si sa, è ipercritica con se stessa. Esigente. Segnata da un’etica del lavoro e del bene comune che ha radici ancora solide  (i Verri, Beccaria, Manzoni, Cattaneo) e attualità d’impresa (la lezione delle grandi famiglie imprenditoriali, Pirelli, Bocconi, Falck, Borletti, non ha esaurita la sua eco e viene riletta dalle nuove generazioni di imprenditori e imprenditrici dell’economia reale). Ha ancora la dote d’una sensibilità acuta per disparità eccessive e intollerrabili inefficienze con ricadute sociali. Una virtù. Che non va mortificata.  

Ecco perché sono sbagliate le letture schiacciate sui fenomeni estremi, pur allarmanti, come se fossimo di fronte a una città fuori controllo. E altrettanto fuorvianti i giudizi effimeri sul successo e sul rapido arricchimento. Milano ha una sua straordinaria complessità, tutta ancora da leggere bene, fare emergere, valorizzare.

Nel racconto metropolitano, dunque, possono emergere le iniziative progettate dal Comune per l’housing sociale, tenendo in conto diritti e aspettative dei 200mila studenti universitari, il buon futuro di Milano. La crescita di Mind (Milano Innovation District) nell’ex area dove quasi dieci anni fa l’Expo celebrò la ripresa della città fino a farne un simbolo, “the place to be”, secondo il New York Times. La Scala che apre la visione della “prima” del 7 dicembre, sant’Ambrogio, agli spettatori in 37 punti diversi della città, dalla Galleria a San Vittore e ai maxi schermi nelle periferie, perché la buona cultura è popolare e di tutti. L’Assolombarda che inaugura al suo interno un asilo nido aperto al quartiere, come stimolo per tutte le imprese iscritte a fare altrettanto. E il Museo della Scienza e della Tecnica che inaugura un nuovo Playlab per i bambini, imparare giocando.

Le cronache dei giornali milanesi, di buone pratiche economiche e sociali, offrono parecchi esempi, accanto alle inchieste su tutto ciò che non va.

Milano città molteplice, insomma. Da saper leggere. E, perché no?, severamente continuare ad amare.

“A Milano serve più integrazione, basta con i catastrofismi”, sintetizza l’arcivescovo Mario Delpini: “Fuori dal centro scintillante ci sono rioni con problemi economici, ma non sono ghetti. Lì ci vogliono dialogo e accoglienza” (la Repubblica, 29 novembre). E Donatella Sciutorettrice del Politecnico, università di peso e prestigio a livello internazionale (la Repubblica, 30 novembre), invita a “ricucire la città”, “fare sentire vicinanza, fare parlare uno con l’altro i pezzi di Milano”, ricordando di avere inaugurato, lo scorso anno, uno studentato proprio al Corvetto. Dove comunque lavorano “le voci della realtà che costruiscono ponti”: la Comunità di Sant’Egidio, le suore di via Martinengo, una serie di cooperative e di centri sociali. Per lavorare insieme sull’inclusione”, appunto, aggiunge la Sciuto. Senza esasperare i conflitti.

Se questo è il contesto, di problemi e ferite sociali ma anche di impegno e pensieri generosi, vale la pena guardare anche al di là della cronaca. E, per esempio, continuare a leggere Calvino, sino alle ultime pagine de “Le città infinite”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. 

(foto Getty Images)

Milano, ovvero la via commerciale più cara al mondo, Montenapoleone, con 20mila euro al metro quadro di canone commerciale annuale, più che nell’Upper 5th Avenue a New York, nella New Bond Street a Londra e nella Tsim Sha Tsui di Hong Kong (con un aumento del 30% in due anni). La ricchezza, i consumi opulenti, la grande moda.

Milano, ovvero il Corvetto, periferia carica di tensioni sociali e proteste infiammate, preoccupazioni per il lavoro e il reddito, disagi legati alla difficile integrazione delle nuove generazioni e alle paure degli anziani.

Ma si può davvero raccontare soltanto così, Milano, in queste sintesi estreme ricavate dalle cronache degli ultimi giorni di novembre, con il cono di luce sparato sulle drammatiche divaricazioni economiche e sociali, tra le mille luci del lusso e la notte buia e dolorosa di chi fa sempre più fatica per tirare a campare?

Naturalmente no. Adesso che s’è un po’ depositata la polvere delle polemiche sulla “rivolta del Corvetto” o sulla “polveriera Corvetto” (le frasi più usate sui media, dopo la morte del giovane Ramy Elgam durante un inseguimento tra uno scooter e una “gazzella” dei carabinieri), vale la pena cercare di capire meglio quali siano gli aspetti più evidenti e le radici profonde delle evoluzioni economiche e sociali che riguardano la metropoli (magari parlando anche di “involuzioni”) e che indicazioni trarre da una serie di fenomeni che chiamano in causa, oltre che la politica e la pubblica amministrazione, anche la società civile, le forze economiche e la cultura.

“Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra”, scriveva Italo Calvino nel 1972, più di mezzo secolo fa, mettendo in pagina, in un dialogo immaginario tra Marco Polo e il Kublai Khan, undici serie di “città invisibili” e ragionando di memoria, desideri, segni, scambi, nomi, occhi e di spazi urbani “sottili”, “continui”, “nascosti” e di tanto altro ancora. Era un poema d’amore per quei luoghi in cui già allora e oramai sempre più intensamente s’addensa una composita umanità e in cui si fanno i conti con una difficile, controversa e, perché no?, contraddittoria modernità (d’altronde contraddirsi significa “contenere moltitudini”, secondo l’acuta intuizione poetica di Walt Whitman). 

Come succede in tutte le storie d’amore, Calvino metteva in luce aspettative, illusioni, delusioni, felicità luminose e taglienti dolori di tradimento e d’abbandono. E però, come in ogni gioco dell’intelligenza e della volontà, lasciava intravvedere voglia di capire e bisogno d’intervenire. Su più piani. La ragione. E i sentimenti. Perché, ricordando Blaise Pascal, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce.

Cercare di capire, dunque. E indagare, ricercare, esplorare. Ancora Calvino: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

Che domande facciamo, dunque, oggi a Milano? D’essere comunque fedele, pur nel cuore di radicali, impetuose trasformazioni, alla capacità di tenere insieme intraprendenza personale e valori socialiproduttività e inclusionecompetitività economica e solidarietà. L’attenzione ai soldi. E lo sguardo sinceramente compassionevole. La ricchezza e la misura, l’eleganza, il rigore. Il successo. E la buona cultura aperta e creativa. Una miscela speciale di capitalismo e riformismo, mercato e interessi generali. Milano, insomma, paradigma di come si possa declinare in modo efficace la sintesi europea tra democrazia, mercato e welfare

Proprio per questo speciale “capitale sociale”, per lunghe stagioni della storia è stato chiaro che “milanesi si diventa”, pur venendo da Parma e da Palermo, da Treviso e da Bari, da Firenze e da Napoli, da uno dei tanti comuni italiani meno dinamici per imparare, proprio attraverso l’impresa e il lavoro, a essere produttori e, soprattutto, cittadini. Una religione laica (ben presente anche negli ambienti cattolici) del “fare, fare bene e fare del bene”. La “città che sale” e che include, appunto.

Da qualche tempo, però, l’aria è cambiata. I divari economici e sociali sono cresciuti, come ha documentato bene Il Giorno (24 novembre), mostrando una “Milano a due facce”, con “l’abisso del reddito cinque volte più alto nel centro città” rispetto alle periferie come Quarto Oggiaro e con un aumento dei “lavoratori poveri” e precari. E sul Corriere della Sera (21 novembre) Giangiacomo Schiavi, scrupoloso analista di dati, sentimenti e opinioni cittadine, ha raccontato la crisi per la qualità della vita e della felicità “senza cinquemila euro al mese”. E tre giorni dopo (24 novembre) ha insistito: “Nella Milano dell’attrattività e dell’eventismo c’è una povertà fatta di vite al minimo, di persone che cercano di risalire su un ascensore sociale e non ce la fanno. Sono storie che contraddicono la visione di un uguale status di cittadinanza, storie di uomini e donne invisibili sopraffatti dalle emergenze, che mostrano un distacco dalla vita civile e si nascondono nella vergogna di una cosa per un piatto di minestra nelle mense della solidarietà ambrosiana”.    

Ecco anche la Repubblica (17 novembre): “Nuovi residenti in calo, sull’addio a Milano pesa l’effetto carovita”.  Nel ‘24, infatti (dati ad agosto) hanno lasciato la città 50mila persone, a fronte di 35mila nuovi arrivi. Pesa l’aumento del costo della vita, ben maggiore degli incrementi di salari e stipendi medi. E a dominare negativamente queste tendenze, c’è il boom insopportabile dei valori immobiliari: “Affitti più costosi del 40% in cinque anni. C’è il caro-casa dietro le nuove povertà”, scrive Zita Dazzi su la Repubblica (24 novembre) sulla base dei dati di una ricerca dell’Università Bicocca per la Fondazione Pellegrini.

Ecco un punto chiave: grazie alla legge Renzi del 2017 sulla flat tax da 100mila euro (portata a 200mila euro dal governo Meloni nell’agosto scorso) circa 1.600 super ricchi hanno scelto di vivere in Italia e soprattutto a Milano, invece che a Londra o in altre metropoli internazionali, facendo impazzire innanzitutto il mercato immobiliare. E l’Italia “é diventata un paradiso fiscale in grado di fare concorrenza alla Svizzera”, critica Ferruccio de Bortoli (Corriere della Sera, 2 dicembre). 

Disparità sociali in aumento, in una Milano affollata da city users benestanti e sempre meno da cittadini con un progetto di vita, un amore per gli spazi, i servizi e i valori comuni (cultura compresa) e un’attenzione severa per la qualità della vita in generale, dalla sanità alla scuola, dalla sicurezza alle relazioni di vicinato.

Milano, insomma, ha bisogno di rileggere le pagine intense di Alberto Savinio“ascolta il tuo cuore, città”. E subire meno il fascino del palcoscenico di mode e consumi e dedicare invece maggiore attenzione all’economia reale, ai salari, ai progetti per i giovani, alla solidarietà. Ritrovare l’anima ambrosiana, appunto.

Tutto sbagliato, tutto da rifare, allora? Naturalmente no.

Milano è città molteplice, poliedrica, forte delle tante differenze presenti al suo interno e di una ancora solida cultura della cittadinanza attiva (benché adesso segnata da crepe e tarli). E dunque va raccontata bene nella sua complessità e amministrata con lungimiranza generosa.

Milano, si sa, è ipercritica con se stessa. Esigente. Segnata da un’etica del lavoro e del bene comune che ha radici ancora solide  (i Verri, Beccaria, Manzoni, Cattaneo) e attualità d’impresa (la lezione delle grandi famiglie imprenditoriali, Pirelli, Bocconi, Falck, Borletti, non ha esaurita la sua eco e viene riletta dalle nuove generazioni di imprenditori e imprenditrici dell’economia reale). Ha ancora la dote d’una sensibilità acuta per disparità eccessive e intollerrabili inefficienze con ricadute sociali. Una virtù. Che non va mortificata.  

Ecco perché sono sbagliate le letture schiacciate sui fenomeni estremi, pur allarmanti, come se fossimo di fronte a una città fuori controllo. E altrettanto fuorvianti i giudizi effimeri sul successo e sul rapido arricchimento. Milano ha una sua straordinaria complessità, tutta ancora da leggere bene, fare emergere, valorizzare.

Nel racconto metropolitano, dunque, possono emergere le iniziative progettate dal Comune per l’housing sociale, tenendo in conto diritti e aspettative dei 200mila studenti universitari, il buon futuro di Milano. La crescita di Mind (Milano Innovation District) nell’ex area dove quasi dieci anni fa l’Expo celebrò la ripresa della città fino a farne un simbolo, “the place to be”, secondo il New York Times. La Scala che apre la visione della “prima” del 7 dicembre, sant’Ambrogio, agli spettatori in 37 punti diversi della città, dalla Galleria a San Vittore e ai maxi schermi nelle periferie, perché la buona cultura è popolare e di tutti. L’Assolombarda che inaugura al suo interno un asilo nido aperto al quartiere, come stimolo per tutte le imprese iscritte a fare altrettanto. E il Museo della Scienza e della Tecnica che inaugura un nuovo Playlab per i bambini, imparare giocando.

Le cronache dei giornali milanesi, di buone pratiche economiche e sociali, offrono parecchi esempi, accanto alle inchieste su tutto ciò che non va.

Milano città molteplice, insomma. Da saper leggere. E, perché no?, severamente continuare ad amare.

“A Milano serve più integrazione, basta con i catastrofismi”, sintetizza l’arcivescovo Mario Delpini: “Fuori dal centro scintillante ci sono rioni con problemi economici, ma non sono ghetti. Lì ci vogliono dialogo e accoglienza” (la Repubblica, 29 novembre). E Donatella Sciutorettrice del Politecnico, università di peso e prestigio a livello internazionale (la Repubblica, 30 novembre), invita a “ricucire la città”, “fare sentire vicinanza, fare parlare uno con l’altro i pezzi di Milano”, ricordando di avere inaugurato, lo scorso anno, uno studentato proprio al Corvetto. Dove comunque lavorano “le voci della realtà che costruiscono ponti”: la Comunità di Sant’Egidio, le suore di via Martinengo, una serie di cooperative e di centri sociali. Per lavorare insieme sull’inclusione”, appunto, aggiunge la Sciuto. Senza esasperare i conflitti.

Se questo è il contesto, di problemi e ferite sociali ma anche di impegno e pensieri generosi, vale la pena guardare anche al di là della cronaca. E, per esempio, continuare a leggere Calvino, sino alle ultime pagine de “Le città infinite”: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. 

(foto Getty Images)

Il museo come moderno strumento di conoscenza

Dall’esperienza di un archeologo e di un’esperta di management un libro che ragiona sulla cultura e sulle sue espressioni

Anticaglie da museo. Se questo era il modello, o, meglio, l’immagine che dei musei e dei loro contenuti si aveva fino a qualche tempo fa, oggi – per fortuna – questa stessa immagine è notevolmente cambiata. Merito di un’evoluzione culturale che, rivalutando la conoscenza del passato come strumento per vivere meglio il presente e pensare al futuro con avvedutezza, ha inciso anche sui musei (e gli archivi) per farne veicolo di conoscenza a disposizione di tutti. È attorno a questi temi che ragionano Christian Greco e Paola Dubini (lui egittologo e direttore del Museo Egizio di Torino, lei professoressa di management alla Bocconi di Milano), in un sapido libro di poco meno 150 pagine che si leggono come un viaggio nella moderna (e affascinante) museologia moderna.

L’assunto dal quale partono i due autori è solo in apparenza scontato. Oggi gestire un museo non significa più soltanto valorizzare una collezione di oggetti, ma far leva sul patrimonio culturale per veicolare messaggi che oltrepassano le sale espositive. Detto in altri termini, il museo è diventato un luogo di ricerca e un ponte tra passato e futuro. Lo sanno ormai bene molte istituzioni culturali e anche numerose imprese che proprio attorno ai musei (ed ai loro archivi) hanno costruito operazioni davvero culturali e non solo di comunicazione.  A partire dall’idea di museo come archetipo metodologico, il dialogo tra Greco e Dubini arriva al senso politico di fare cultura come via per valorizzare il territorio, generare occasioni di incontro tra culture diverse, promuovere collaborazioni tra pubblico e privato, sfruttare il potere dell’arte per attivare nuove forme di diplomazia, sollecitare il confronto tra ambiti disciplinari diversi per far crescere e attrarre talenti.

Questi concetti vengono sviluppati e approfonditi beneficiando dell’esperienza di un illuminato direttore di museo e di una attenta esperta di gestione di numerose istituzioni culturali. Il risultato è il delinearsi di uno strumento vivo al servizio di tutti, uno strumento che deve essere sostenuto e curato, valorizzato e difeso. Qualcosa – il museo – che può avere declinazioni diverse ma che conserva la sua sostanza ogni volta, quella di qualcosa di privilegiato per capire meglio il percorso di vita e di lavoro delle persone e delle organizzazioni che di volta in volta queste persone realizzano. Tutto da leggere “La cultura è di tutti”.

La cultura è di tutti

Christian Greco, Paola Dubini

Egea, 2024

Dall’esperienza di un archeologo e di un’esperta di management un libro che ragiona sulla cultura e sulle sue espressioni

Anticaglie da museo. Se questo era il modello, o, meglio, l’immagine che dei musei e dei loro contenuti si aveva fino a qualche tempo fa, oggi – per fortuna – questa stessa immagine è notevolmente cambiata. Merito di un’evoluzione culturale che, rivalutando la conoscenza del passato come strumento per vivere meglio il presente e pensare al futuro con avvedutezza, ha inciso anche sui musei (e gli archivi) per farne veicolo di conoscenza a disposizione di tutti. È attorno a questi temi che ragionano Christian Greco e Paola Dubini (lui egittologo e direttore del Museo Egizio di Torino, lei professoressa di management alla Bocconi di Milano), in un sapido libro di poco meno 150 pagine che si leggono come un viaggio nella moderna (e affascinante) museologia moderna.

L’assunto dal quale partono i due autori è solo in apparenza scontato. Oggi gestire un museo non significa più soltanto valorizzare una collezione di oggetti, ma far leva sul patrimonio culturale per veicolare messaggi che oltrepassano le sale espositive. Detto in altri termini, il museo è diventato un luogo di ricerca e un ponte tra passato e futuro. Lo sanno ormai bene molte istituzioni culturali e anche numerose imprese che proprio attorno ai musei (ed ai loro archivi) hanno costruito operazioni davvero culturali e non solo di comunicazione.  A partire dall’idea di museo come archetipo metodologico, il dialogo tra Greco e Dubini arriva al senso politico di fare cultura come via per valorizzare il territorio, generare occasioni di incontro tra culture diverse, promuovere collaborazioni tra pubblico e privato, sfruttare il potere dell’arte per attivare nuove forme di diplomazia, sollecitare il confronto tra ambiti disciplinari diversi per far crescere e attrarre talenti.

Questi concetti vengono sviluppati e approfonditi beneficiando dell’esperienza di un illuminato direttore di museo e di una attenta esperta di gestione di numerose istituzioni culturali. Il risultato è il delinearsi di uno strumento vivo al servizio di tutti, uno strumento che deve essere sostenuto e curato, valorizzato e difeso. Qualcosa – il museo – che può avere declinazioni diverse ma che conserva la sua sostanza ogni volta, quella di qualcosa di privilegiato per capire meglio il percorso di vita e di lavoro delle persone e delle organizzazioni che di volta in volta queste persone realizzano. Tutto da leggere “La cultura è di tutti”.

La cultura è di tutti

Christian Greco, Paola Dubini

Egea, 2024

La bellezza come scelta per migliorare la salute e la cura: pittura, letteratura e musica utili alle “scienze della vita”

L’icona è la frase attribuita al principe Myškin, il protagonista de L’idiota di Fëdor Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. Non era un motto consolatorio, ma piuttosto l’invito a cercare, nelle ombre delle miserie e del dolore dell’esistenza quotidiana, quelle tracce di grazia e di moralità che ci consentano di alzare lo sguardo verso una migliore condizione di pensiero e di vita. L’idea sarebbe stata ripresa, in tempi più recenti, da Tzvetan Todorov in un libro dallo stesso titolo, legando a quello dello scrittore russo anche i pensieri di Oscar Wilde, Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva.
Bellezza, dunque, come ricerca di equilibrio, qualità, misura, oltre che come valore estetico (ben sapendo che già al tempo dei filosofi greci, estetica ed etica erano territori comuni di riflessione). Bellezza come via d’uscita dalla sofferenza.
Sono questi i primi pensieri che vengono in mente a proposito del recente progetto dell’Humanitas “La cura e la bellezza”, realizzato con il Museo Poldi Pezzoli di Milano per la clinica San Pio X. Sulle pareti dell’istituto di cura, ecco le riproduzioni della “Dama” di Pietro del Pollaiolo, con lo sguardo elegante e compìto e la celebre collana di perle e poi di opere di Hayez, Botticelli, Canaletto, Grechetto, Sassoferrato, Previtali, Sofonisba Anguissola e altri artisti, tutti lì per scandire i tempi dell’attesa, dare un momento di serenità nelle condizioni di sofferenza, consentire un momento di riposo ai medici e agli infermieri, ai malati e ai loro parenti, alle persone che, per una ragione o per l’altra, attraversano stanze di cura, laboratori, ambulatori, reparti sanitari. Ma anche accompagnare istanti di felicità (alla San Pio X c’è un frequentato reparto di maternità: arrivano nuove vite di bambine e bambini).
“Siamo una casa di cura. E quella casa-museo meravigliosa che è il Poldi Pezzoli ci aiuta ad evolvere e diventare una casa tout court per pazienti e personale”, sostiene Gianfelice Rocca, presidente di Humanitas.

Quadri. E oggetti d’arte della collezione del Poldi Pezzoli, orologi, strumenti segnatempo, porcellane (il progetto è stato curato da Daniele Lupo). Con l’idea di fondo di valorizzare sguardi, paesaggi, lampi di occhi e incroci di mani, luce, colori, per dare corpo e profondità alla vita che scorre e può pur avere diritto all’opportunità di un momento di tregua, di sosta, di respiro nella sofferenza. Bellezza terapeutica, appunto.
L’iniziativa con il Poldi Pezzoli è la terza tappa di un cammino iniziato anni fa dall’Humanitas. Con il Museo di Brera per l’Irccs di Rozzano e poi con l’Accademia Carrara per l’Humanitas Gavazzeni di Bergamo (un filmato su questa iniziativa, con la regia di Nicola Martini per Social Content Factory, ha appena vinto il Made Film Festival di Bergamo per il cinema d’impresa, ex aequo con “Includere per crescere” di Bnl/ Bnp Paribas).

Sono scelte rilevanti, quelle della relazione tra bellezza e salute. Certo non generalizzabili in tutte le strutture sanitarie, in un settore già carico di difficoltà, carenze, tensioni, limiti economici e funzionali. Ma scelte da guardare comunque con grande interesse. Perché la qualità dell’ambiente sanitario incide sull’umore e sul clima psicologico di pazienti e familiari, medici e infermieri e dunque migliora l’inclinazione psicologica a dare spazio alla speranza di guarigione (per fare solo un esempio, i reparti pediatrici dell’Ospedale Niguarda, a Milano, erano stati arredati e decorati qualche anno fa, con disegni allegri e colorati, dalla Pirelli; e parecchie altre imprese si sono mosse in direzioni analoghe in altre strutture ospedaliere).
D’altronde cresce, anche nel mondo imprenditoriale, la consapevolezza dell’importanza di un rapporto positivo tra azienda e stakeholders, le persone delle comunità su cui incide l’attività dell’azienda stessa. Un circuito virtuoso tra “fare, fare bene e fare del bene”. Una relazione di valori sociali e civili, al di là dello stretto compito dell’impresa come attore che produce valore economico.
La cultura d’impresa, infatti, va intesa come cultura di sostenibilità e responsabilità sociale. E le Life Sciences sono vissute non soltanto come settore sanitario, ma come mondo più ampio che ha a che fare con la salute e con la qualità della vita. Una dimensione, peraltro, in cui il mondo delle imprese italiane può raccontare storie esemplari.

La cura e la bellezza, dunque. Come scelta personale e sociale. Ragionando sull’arte figurativa, secondo il paradigma Humanitas. Ma anche sul teatro e sulla musica. Sulla poesia e sulla letteratura (“Curarsi con i libri” era il titolo di uno straordinario volume di Ella Berthoud e Susan Elderkin, pubblicato una decina di anni fa da Sellerio: “Rimedi letterari per ogni malanno”). Su tutti gli aspetti della “cultura politecnica” italiana che continua a saper coniugare le conoscenze umanistiche con quelle scientifiche, la bellezza e le tecnologie, la memoria e l’innovazione. Con un’idea di “umanesimo integrale” che sa guardare alla persona nella sua complessa unitarietà e al corpo sociale con i suoi legami di solidarietà e di inclusione e con le capacità di dare valore alle diversità. Una scelta di buona salute. Ma anche un’idea lungimirante di civiltà. Un robusto capitale sociale.

(foto Humanitas)

L’icona è la frase attribuita al principe Myškin, il protagonista de L’idiota di Fëdor Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. Non era un motto consolatorio, ma piuttosto l’invito a cercare, nelle ombre delle miserie e del dolore dell’esistenza quotidiana, quelle tracce di grazia e di moralità che ci consentano di alzare lo sguardo verso una migliore condizione di pensiero e di vita. L’idea sarebbe stata ripresa, in tempi più recenti, da Tzvetan Todorov in un libro dallo stesso titolo, legando a quello dello scrittore russo anche i pensieri di Oscar Wilde, Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva.
Bellezza, dunque, come ricerca di equilibrio, qualità, misura, oltre che come valore estetico (ben sapendo che già al tempo dei filosofi greci, estetica ed etica erano territori comuni di riflessione). Bellezza come via d’uscita dalla sofferenza.
Sono questi i primi pensieri che vengono in mente a proposito del recente progetto dell’Humanitas “La cura e la bellezza”, realizzato con il Museo Poldi Pezzoli di Milano per la clinica San Pio X. Sulle pareti dell’istituto di cura, ecco le riproduzioni della “Dama” di Pietro del Pollaiolo, con lo sguardo elegante e compìto e la celebre collana di perle e poi di opere di Hayez, Botticelli, Canaletto, Grechetto, Sassoferrato, Previtali, Sofonisba Anguissola e altri artisti, tutti lì per scandire i tempi dell’attesa, dare un momento di serenità nelle condizioni di sofferenza, consentire un momento di riposo ai medici e agli infermieri, ai malati e ai loro parenti, alle persone che, per una ragione o per l’altra, attraversano stanze di cura, laboratori, ambulatori, reparti sanitari. Ma anche accompagnare istanti di felicità (alla San Pio X c’è un frequentato reparto di maternità: arrivano nuove vite di bambine e bambini).
“Siamo una casa di cura. E quella casa-museo meravigliosa che è il Poldi Pezzoli ci aiuta ad evolvere e diventare una casa tout court per pazienti e personale”, sostiene Gianfelice Rocca, presidente di Humanitas.

Quadri. E oggetti d’arte della collezione del Poldi Pezzoli, orologi, strumenti segnatempo, porcellane (il progetto è stato curato da Daniele Lupo). Con l’idea di fondo di valorizzare sguardi, paesaggi, lampi di occhi e incroci di mani, luce, colori, per dare corpo e profondità alla vita che scorre e può pur avere diritto all’opportunità di un momento di tregua, di sosta, di respiro nella sofferenza. Bellezza terapeutica, appunto.
L’iniziativa con il Poldi Pezzoli è la terza tappa di un cammino iniziato anni fa dall’Humanitas. Con il Museo di Brera per l’Irccs di Rozzano e poi con l’Accademia Carrara per l’Humanitas Gavazzeni di Bergamo (un filmato su questa iniziativa, con la regia di Nicola Martini per Social Content Factory, ha appena vinto il Made Film Festival di Bergamo per il cinema d’impresa, ex aequo con “Includere per crescere” di Bnl/ Bnp Paribas).

Sono scelte rilevanti, quelle della relazione tra bellezza e salute. Certo non generalizzabili in tutte le strutture sanitarie, in un settore già carico di difficoltà, carenze, tensioni, limiti economici e funzionali. Ma scelte da guardare comunque con grande interesse. Perché la qualità dell’ambiente sanitario incide sull’umore e sul clima psicologico di pazienti e familiari, medici e infermieri e dunque migliora l’inclinazione psicologica a dare spazio alla speranza di guarigione (per fare solo un esempio, i reparti pediatrici dell’Ospedale Niguarda, a Milano, erano stati arredati e decorati qualche anno fa, con disegni allegri e colorati, dalla Pirelli; e parecchie altre imprese si sono mosse in direzioni analoghe in altre strutture ospedaliere).
D’altronde cresce, anche nel mondo imprenditoriale, la consapevolezza dell’importanza di un rapporto positivo tra azienda e stakeholders, le persone delle comunità su cui incide l’attività dell’azienda stessa. Un circuito virtuoso tra “fare, fare bene e fare del bene”. Una relazione di valori sociali e civili, al di là dello stretto compito dell’impresa come attore che produce valore economico.
La cultura d’impresa, infatti, va intesa come cultura di sostenibilità e responsabilità sociale. E le Life Sciences sono vissute non soltanto come settore sanitario, ma come mondo più ampio che ha a che fare con la salute e con la qualità della vita. Una dimensione, peraltro, in cui il mondo delle imprese italiane può raccontare storie esemplari.

La cura e la bellezza, dunque. Come scelta personale e sociale. Ragionando sull’arte figurativa, secondo il paradigma Humanitas. Ma anche sul teatro e sulla musica. Sulla poesia e sulla letteratura (“Curarsi con i libri” era il titolo di uno straordinario volume di Ella Berthoud e Susan Elderkin, pubblicato una decina di anni fa da Sellerio: “Rimedi letterari per ogni malanno”). Su tutti gli aspetti della “cultura politecnica” italiana che continua a saper coniugare le conoscenze umanistiche con quelle scientifiche, la bellezza e le tecnologie, la memoria e l’innovazione. Con un’idea di “umanesimo integrale” che sa guardare alla persona nella sua complessa unitarietà e al corpo sociale con i suoi legami di solidarietà e di inclusione e con le capacità di dare valore alle diversità. Una scelta di buona salute. Ma anche un’idea lungimirante di civiltà. Un robusto capitale sociale.

(foto Humanitas)

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