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Donne d’impresa come punti di forza

Una ricerca discussa alla Ca’ Foscari evidenzia gli elementi di competitività della leadership femminile

 

Leadership femminile come elemento di competitività e di una diversa cultura del produrre. Elementi che si riflettono, spesso, sui risultati d’impresa, anche, e soprattutto, nelle situazioni di crisi oppure nell’innovazione che può essere messa in campo.

E’ attorno a questi concetti che ragiona “Leadership Femminile come influisce la presenza di donne sulla gestione aziendale nelle situazioni di crisi e nell’attività innovativa delle imprese di cui sono manager o proprietarie”, la ricerca, sfociata in una tesi, che Aurora Dal Cin ha messo a punto nell’ambito del Corso di laurea magistrale in economia e gestione delle aziende di Ca’ Foscari a Venezia.

Obiettivo generale dell’indagine è quello “di analizzare l’impatto delle figure femminili sulla performance aziendale (…) delle imprese di cui sono manager o proprietarie”.

La ricerca inizia quindi con una puntualizzazione delle caratteristiche della leadership femminile nelle imprese, prosegue con una serie di approfondimenti, come la questione del “tetto di cristallo” e il ruolo  delle donne nelle attività di ricerca e sviluppo aziendale, e continua cin una analisi empirica sulle strategie di comportamento adottate nelle situazione di crisi e di innovazione.

La ricerca di Dal Cin arriva a due conclusioni che solo in apparenza possono apparire scontate. Da un lato la presenza di “numerosi ostacoli che le donne devono affrontare nel mondo del lavoro tra i quali molti stereotipi che le considerano troppo sensibili per svolgere il ruolo di leader, il quale viene ancora attribuito alla figura maschile”. Dall’altro, l’individuazione di particolari caratteristiche che la gestione “al femminile” comunque comporta e che influenzano i risultati d’impresa.

Leadership Femminile come influisce la presenza di donne sulla gestione aziendale nelle situazioni di crisi e nell’attività innovativa delle imprese di cui sono manager o proprietarie

Aurora Dal Cin

Tesi, Università Ca’ Foscari di Venezia, Dipartimento di Management Corso di Laurea Magistrale in Economia e Gestione delle Aziende, 2024

Una ricerca discussa alla Ca’ Foscari evidenzia gli elementi di competitività della leadership femminile

 

Leadership femminile come elemento di competitività e di una diversa cultura del produrre. Elementi che si riflettono, spesso, sui risultati d’impresa, anche, e soprattutto, nelle situazioni di crisi oppure nell’innovazione che può essere messa in campo.

E’ attorno a questi concetti che ragiona “Leadership Femminile come influisce la presenza di donne sulla gestione aziendale nelle situazioni di crisi e nell’attività innovativa delle imprese di cui sono manager o proprietarie”, la ricerca, sfociata in una tesi, che Aurora Dal Cin ha messo a punto nell’ambito del Corso di laurea magistrale in economia e gestione delle aziende di Ca’ Foscari a Venezia.

Obiettivo generale dell’indagine è quello “di analizzare l’impatto delle figure femminili sulla performance aziendale (…) delle imprese di cui sono manager o proprietarie”.

La ricerca inizia quindi con una puntualizzazione delle caratteristiche della leadership femminile nelle imprese, prosegue con una serie di approfondimenti, come la questione del “tetto di cristallo” e il ruolo  delle donne nelle attività di ricerca e sviluppo aziendale, e continua cin una analisi empirica sulle strategie di comportamento adottate nelle situazione di crisi e di innovazione.

La ricerca di Dal Cin arriva a due conclusioni che solo in apparenza possono apparire scontate. Da un lato la presenza di “numerosi ostacoli che le donne devono affrontare nel mondo del lavoro tra i quali molti stereotipi che le considerano troppo sensibili per svolgere il ruolo di leader, il quale viene ancora attribuito alla figura maschile”. Dall’altro, l’individuazione di particolari caratteristiche che la gestione “al femminile” comunque comporta e che influenzano i risultati d’impresa.

Leadership Femminile come influisce la presenza di donne sulla gestione aziendale nelle situazioni di crisi e nell’attività innovativa delle imprese di cui sono manager o proprietarie

Aurora Dal Cin

Tesi, Università Ca’ Foscari di Venezia, Dipartimento di Management Corso di Laurea Magistrale in Economia e Gestione delle Aziende, 2024

“L’Italia dei brevetti”: Pirelli alla nuova mostra a cura del Mimit

È stata inaugurata lo scorso 18 novembre presso Palazzo Piacentini a Roma “L’Italia dei Brevetti: invenzioni e innovazioni di successo”, la mostra organizzata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy in occasione dei 140 anni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e nell’ambito delle celebrazioni dei 550 anni dalla pubblicazione del primo Statuto dei Brevetti promulgato dalla Repubblica di Venezia nel 1494.

All’evento inaugurale sono intervenuti il Ministro Adolfo Urso e il Viceministro Valentino Valentini, insieme ai curatori della mostra e ai rappresentanti delle oltre cento aziende, enti e centri di ricerca partecipanti.

La mostra, aperta al pubblico dal 23 novembre 2024 al 2 marzo 2025, racconta attraverso oltre 100 brevetti di invenzione industriale l’impatto delle idee sulla società italiana e sul resto del mondo, mettendo a confronto generazioni di inventori. Le storie dei brevetti sono articolate in sette sezioni, suddivise per utilizzo e scopo di quei dispositivi innovativi che, attraverso l’integrazione di nuove tecnologie, hanno migliorato e continuano a migliorare i processi produttivi in diversi settori merceologici. L’allestimento prevede l’esposizione di materiali originali estratti dagli archivi dei fascicoli brevettuali o dagli attuali sistemi di gestione dei brevetti, di documenti fotografici e multimediali, così come di prodotti o prototipi.

Pirelli sarà presente con il brevetto della tecnologia Run Forward™ – ossia il metodo per controllare la resistenza al rotolamento di un pneumatico in marcia e per ridurre il consumo di un autoveicolo in marcia – depositato da Pirelli Tyre S.p.A. nel 2021. Un’innovazione applicata al pneumatico P Zero™ E, esposto in mostra insieme a immagini e campioni di lignina, silice da cenere di lolla di riso, bioresine, gomma naturale, polimeri bio e circolari. Il P Zero™ E, infatti, è costituito da oltre il 55% di materiali di origine naturale e riciclati: i materiali di origine naturale sono la gomma naturale, rinforzi tessili, sostanze chimiche di origine naturale, bio-resine e lignina, mentre i materiali riciclati sono rinforzi metallici, prodotti chimici e – attraverso un approccio di bilancio di massa – gomma sintetica, silice e nerofumo.

Dunque, un racconto di tecnologia, ma anche di sostenibilità, e saper fare. Tutto Made in Italy.

È stata inaugurata lo scorso 18 novembre presso Palazzo Piacentini a Roma “L’Italia dei Brevetti: invenzioni e innovazioni di successo”, la mostra organizzata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy in occasione dei 140 anni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi e nell’ambito delle celebrazioni dei 550 anni dalla pubblicazione del primo Statuto dei Brevetti promulgato dalla Repubblica di Venezia nel 1494.

All’evento inaugurale sono intervenuti il Ministro Adolfo Urso e il Viceministro Valentino Valentini, insieme ai curatori della mostra e ai rappresentanti delle oltre cento aziende, enti e centri di ricerca partecipanti.

La mostra, aperta al pubblico dal 23 novembre 2024 al 2 marzo 2025, racconta attraverso oltre 100 brevetti di invenzione industriale l’impatto delle idee sulla società italiana e sul resto del mondo, mettendo a confronto generazioni di inventori. Le storie dei brevetti sono articolate in sette sezioni, suddivise per utilizzo e scopo di quei dispositivi innovativi che, attraverso l’integrazione di nuove tecnologie, hanno migliorato e continuano a migliorare i processi produttivi in diversi settori merceologici. L’allestimento prevede l’esposizione di materiali originali estratti dagli archivi dei fascicoli brevettuali o dagli attuali sistemi di gestione dei brevetti, di documenti fotografici e multimediali, così come di prodotti o prototipi.

Pirelli sarà presente con il brevetto della tecnologia Run Forward™ – ossia il metodo per controllare la resistenza al rotolamento di un pneumatico in marcia e per ridurre il consumo di un autoveicolo in marcia – depositato da Pirelli Tyre S.p.A. nel 2021. Un’innovazione applicata al pneumatico P Zero™ E, esposto in mostra insieme a immagini e campioni di lignina, silice da cenere di lolla di riso, bioresine, gomma naturale, polimeri bio e circolari. Il P Zero™ E, infatti, è costituito da oltre il 55% di materiali di origine naturale e riciclati: i materiali di origine naturale sono la gomma naturale, rinforzi tessili, sostanze chimiche di origine naturale, bio-resine e lignina, mentre i materiali riciclati sono rinforzi metallici, prodotti chimici e – attraverso un approccio di bilancio di massa – gomma sintetica, silice e nerofumo.

Dunque, un racconto di tecnologia, ma anche di sostenibilità, e saper fare. Tutto Made in Italy.

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L’officina dello sport: cosa racconta la Fondazione Pirelli

Una nuova leadership per nuovi scenari

Un libro appena pubblicato racconta come essere “capi” al tempo della complessità

Essere capaci di convincere e gestire con efficacia per il bene dell’impresa e delle persone che vi lavorano. Obiettivo di tutti i manager (o quasi). E, a ben vedere, obiettivo di chiunque sia alle prese con la “gestione” di un’organizzazione e, quindi, anche del sistema sociale oppure di uno stato. Eppure spesso, è facile trovare politici incapaci di fornire risposte convincenti alle sfide economiche e sociali che interessano la popolazione; così come manager egocentrici e narcisisti più interessati a raggiungere i propri obiettivi che alla crescita di un’organizzazione.

Leggere “Essere leader in un mondo complesso” scritto da Alessandro Cravera e appena pubblicato, aiuta a comprendere le difficoltà dell’essere “capo” e, soprattutto, gli strumenti con i quali dovrebbe essere più agevole essere un “buon capo” di un’organizzazione (qualsiasi essa sia).

Cravera cerca di rispondere a due ordini di interrogativi. È un mondo “difficile” a metterci i bastoni tra le ruote? Oppure sono le nostre idee a non essere adeguate a uno scenario in (più che) rapido cambiamento? Detto in altri termini, è ciò che sta attorno al “capo” che crea difficoltà, oppure è il “capo” ad essere il problema?

Il libro è un percorso – in poco meno di 200 pagine – che aiuta a capire le difficoltà della leadership e, poi, il percorso più corretto per superarle. Una strada le cui tappe si comprendono fin dalle prime pagine in cui si parla della necessità di porre la condivisione al posto della protezione, di sperimentazione e di errori al posto della pianificazione e della programmazione.

La narrazione inizia quindi con un approfondimento di cosa sia davvero “essere capi” per passare poi alle origini dell’idea di leadership e quindi al “terreno su cui costruire una nuova leadership”. Un terreno nel quale si trovano alcuni punti fissi che indicano le attrezzature adatte da usare e, soprattutto, l’indicazione  che “non c’è leadership senza saggezza” cioè soprattutto senza una cultura dell’attenzione e dell’ascolto che è tutt’uno con quella della buona impresa e della buona condotta della società.

Essere leader in un mondo complesso

Alessandro Cravera

Egea, 2024

Un libro appena pubblicato racconta come essere “capi” al tempo della complessità

Essere capaci di convincere e gestire con efficacia per il bene dell’impresa e delle persone che vi lavorano. Obiettivo di tutti i manager (o quasi). E, a ben vedere, obiettivo di chiunque sia alle prese con la “gestione” di un’organizzazione e, quindi, anche del sistema sociale oppure di uno stato. Eppure spesso, è facile trovare politici incapaci di fornire risposte convincenti alle sfide economiche e sociali che interessano la popolazione; così come manager egocentrici e narcisisti più interessati a raggiungere i propri obiettivi che alla crescita di un’organizzazione.

Leggere “Essere leader in un mondo complesso” scritto da Alessandro Cravera e appena pubblicato, aiuta a comprendere le difficoltà dell’essere “capo” e, soprattutto, gli strumenti con i quali dovrebbe essere più agevole essere un “buon capo” di un’organizzazione (qualsiasi essa sia).

Cravera cerca di rispondere a due ordini di interrogativi. È un mondo “difficile” a metterci i bastoni tra le ruote? Oppure sono le nostre idee a non essere adeguate a uno scenario in (più che) rapido cambiamento? Detto in altri termini, è ciò che sta attorno al “capo” che crea difficoltà, oppure è il “capo” ad essere il problema?

Il libro è un percorso – in poco meno di 200 pagine – che aiuta a capire le difficoltà della leadership e, poi, il percorso più corretto per superarle. Una strada le cui tappe si comprendono fin dalle prime pagine in cui si parla della necessità di porre la condivisione al posto della protezione, di sperimentazione e di errori al posto della pianificazione e della programmazione.

La narrazione inizia quindi con un approfondimento di cosa sia davvero “essere capi” per passare poi alle origini dell’idea di leadership e quindi al “terreno su cui costruire una nuova leadership”. Un terreno nel quale si trovano alcuni punti fissi che indicano le attrezzature adatte da usare e, soprattutto, l’indicazione  che “non c’è leadership senza saggezza” cioè soprattutto senza una cultura dell’attenzione e dell’ascolto che è tutt’uno con quella della buona impresa e della buona condotta della società.

Essere leader in un mondo complesso

Alessandro Cravera

Egea, 2024

Lavoro a distanza, strumento (frenato) per una diversa cultura del produrre

Una ricerca Inapp mette in evidenza che cosa manca per un miglior uso dello smart working

Lavoro a distanza o smart working che dir si voglia. In ogni caso, una nuova modalità di lavorare (in ufficio soprattutto) completamente diversa da quelle consuete. Esploso nel periodo dell’emergenza pandemica del Covid, il lavoro a distanza esisteva già prima e, soprattutto, è continuato dopo l’emergenza. Capire quali effetti abbia è però ancora materia di studio e sondaggio. Oltre alla modalità di lavorare, infatti, lo smart working comporta una diversa cultura del produrre che, sempre di più, si sta diffondendo e che deve essere ben compresa.

A questo, quindi, serve leggere “Iper-luoghi e spazi di interazione: lo smart working nelle aree interne”, ricerca dell’Inapp realizzata a cura di Filippo Tantillo e Rosita Zucaro e da poco pubblicata.

Il paper viene presentato come “il primo esito organico di un’attività di ricerca volta alla misurazione e all’analisi delle significative sinergie e ricadute, che possono essere impresse da forme di lavoro a distanza sui territori in via di abbandono e a grave rischio di spopolamento, le cosiddette aree interne”. Sottolineatura importante, questa. Il lavoro a distanza, infatti, può essere la chiave per aprire porte  fino ad oggi quasi sempre chiuse, soprattutto quelle che mettono in collegamento le aree svantaggiate con il resto dell’economia.

Per capire meglio, Inapp ha quindi avviato lo studio a partire dalla vertiginosa diffusione del lavoro da remoto per esigenze emergenziali, con l’obiettivo di misurare l’impatto che queste nuove modalità lavorative possono determinare in termini di geografia del lavoro su un territorio gravato da un’accentuata polarizzazione, tra zone congestionate e territori in grave contrazione demografica.

La ricerca si articola in più fasi. Prima di tutto sono stati approfonditi i collegamenti tra smart working e aree interne, poi si sono analizzati gli indicatori a disposizione per comprendere meglio la realtà, quindi sono state approfondite le esperienze di tre aree interne. La ricerca si conclude con l’indicazione di una serie di provvedimenti nazionali e regionali che potrebbero favorire la diffusione di questo tipo di lavoro.

Il lavoro da remoto, è il messaggio dei curatori dell’indagine, non solo rappresentare una forma concreta di intendere la cultura del produrre ma anche uno strumento per frenare l’esodo della popolazione da aree in cui è “complesso” vivere. Contemporaneamente, però, la ricerca mette in evidenza la “discrasia tra esigenze e bisogno (…) e risposte dell’apparato ordinativo”.

Iper-luoghi e spazi di interazione: lo smart working nelle aree interne

Filippo Tantillo, Rosita Zucaro (a cura di)

INAPP Papers, 2024

Una ricerca Inapp mette in evidenza che cosa manca per un miglior uso dello smart working

Lavoro a distanza o smart working che dir si voglia. In ogni caso, una nuova modalità di lavorare (in ufficio soprattutto) completamente diversa da quelle consuete. Esploso nel periodo dell’emergenza pandemica del Covid, il lavoro a distanza esisteva già prima e, soprattutto, è continuato dopo l’emergenza. Capire quali effetti abbia è però ancora materia di studio e sondaggio. Oltre alla modalità di lavorare, infatti, lo smart working comporta una diversa cultura del produrre che, sempre di più, si sta diffondendo e che deve essere ben compresa.

A questo, quindi, serve leggere “Iper-luoghi e spazi di interazione: lo smart working nelle aree interne”, ricerca dell’Inapp realizzata a cura di Filippo Tantillo e Rosita Zucaro e da poco pubblicata.

Il paper viene presentato come “il primo esito organico di un’attività di ricerca volta alla misurazione e all’analisi delle significative sinergie e ricadute, che possono essere impresse da forme di lavoro a distanza sui territori in via di abbandono e a grave rischio di spopolamento, le cosiddette aree interne”. Sottolineatura importante, questa. Il lavoro a distanza, infatti, può essere la chiave per aprire porte  fino ad oggi quasi sempre chiuse, soprattutto quelle che mettono in collegamento le aree svantaggiate con il resto dell’economia.

Per capire meglio, Inapp ha quindi avviato lo studio a partire dalla vertiginosa diffusione del lavoro da remoto per esigenze emergenziali, con l’obiettivo di misurare l’impatto che queste nuove modalità lavorative possono determinare in termini di geografia del lavoro su un territorio gravato da un’accentuata polarizzazione, tra zone congestionate e territori in grave contrazione demografica.

La ricerca si articola in più fasi. Prima di tutto sono stati approfonditi i collegamenti tra smart working e aree interne, poi si sono analizzati gli indicatori a disposizione per comprendere meglio la realtà, quindi sono state approfondite le esperienze di tre aree interne. La ricerca si conclude con l’indicazione di una serie di provvedimenti nazionali e regionali che potrebbero favorire la diffusione di questo tipo di lavoro.

Il lavoro da remoto, è il messaggio dei curatori dell’indagine, non solo rappresentare una forma concreta di intendere la cultura del produrre ma anche uno strumento per frenare l’esodo della popolazione da aree in cui è “complesso” vivere. Contemporaneamente, però, la ricerca mette in evidenza la “discrasia tra esigenze e bisogno (…) e risposte dell’apparato ordinativo”.

Iper-luoghi e spazi di interazione: lo smart working nelle aree interne

Filippo Tantillo, Rosita Zucaro (a cura di)

INAPP Papers, 2024

L’Italia è un grande paese industriale, ma gli italiani non lo sanno e preferiscono pensare al turismo

Siamo il secondo paese industriale europeo, subito dopo la Germania. Ma gli italiani non lo sanno. In alcuni settori d’eccellenza (la meccatronica e la robotica, la chimica fine, la farmaceutica d’alta specialità, le componentistica auto, la cantieristica navale da diporto, etc.) abbiamo posizioni da primato internazionale, ma per gran parte della nostra opinione pubblica è innanzitutto il turismo ad assicurare la ricchezza dei territori. Siamo tra i cinque maggiori paesi esportatori del mondo, proprio grazie all’industria e a quella meccanica in prima linea, ma i cittadini per il futuro confidano negli alberghi e nelle opportunità del commercio, nello shopping. “Dissonanza cognitiva”, è il nome di questo fenomeno, un’opinione che fa a pugni con la realtà di fatti e dati. Detta in altri termini, l’Italia non sa bene chi è e come si produce la sua ricchezza e dunque non ha una fondata idea di dove andare.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo i dati dell’ultimo “Monitor sul lavoro” (Mol Community Research & Analysis) per Federmeccanica, di cui dà conto Daniele Marini su Il Sole24Ore (15 novembre) commentando: “L’industria scivola ai margini dell’immaginario collettivo, occupa un ruolo periferico nella rappresentazione sociale dello sviluppo”.

Un vero guaio, questa “dissonanza cognitiva”. Perché la Ue (e dunque anche l’Italia) è nel cuore di una stagione di passaggio e di radicali trasformazioni, stretta tra la pesante competizione politica ed economica tra gli Usa dell’era “Maga” di Trump e la Cina in espansione (mentre all’orizzonte si intravvedere, crescente, anche l’ombra dell’India). E per poter reggere la concorrenza e salvaguardare il suo prezioso modello politico-sociale (che tiene insieme, in modo originale, la democrazia liberale, l’economia di mercato costruita sull’intraprendenza individuale e i sistemi di welfare, con diffuso benessere) ha bisogno di una nuova e ambiziosa svolta di politica economica e, appunto, di politica industriale.

Ecco il punto: l’Europa può continuare a restare ancorata ai suoi valori e alla sua cultura civile se mantiene una forza industriale di peso e respiro globale. Se, cioè, affronta la transizione ambientale e digitale, insistendo sull’industria green, in cui peraltro vanta primati produttivi di alto livello. E se dunque investe sulle nuove tecnologie (infrastrutture, ricerca, processi di conoscenza e formazione) e sull’impiego ben strutturato e guidato dell’Intelligenza Artificiale, con quegli 800 o anche 1.000 miliardi all’anno per il prossimo decennio secondo le indicazioni del Rapporto Draghi.

Serve insistere sull’industria, insomma, anche in nome della nostra democrazia. Puntare ad avere “più Europa e un’Europa migliore”, nonostante tutto. Ed evitare il precipizio indicato alcune settimane fa dal “Financial Times”: perdere la sfida competitiva con Usa e Cina e ridursi a essere “il Grand Hotel dei ricchi e potenti del mondo”. Un luogo di storica eleganza. Ma privo di peso e potere. Incapace di decidere sul suo futuro.

È necessario parlare di industria, allora. E impegnarsi a fondo per ribaltare, in un tempo breve, le opinioni di quegli italiani che, appunto secondo il “Monitor sul lavoro” di Federmeccanica, pensano che sia la Germania il paese con maggior peso industriale sull’economia, seguita da Francia e Gran Bretagna (l’Italia è appena quarta, con il 12,4% dei pareri del sondaggio) e ritengono (nel 27,7% dei casi) che il settore che fino a oggi ha più contribuito allo sviluppo del territorio sia il turismo, seguito dall’industria (17,4%), dal commercio (15,4%), dall’agricoltura (14,9%) e poi via via da artigianato, costruzioni, banche e pubblica amministrazione. E per il futuro? Il turismo sale al 30,5% e il commercio al 16% mentre l’industria cala al terzo posto, con il 15,7% dei pareri.

Viene da lontano, questo fenomeno di sottovalutazione del peso industriale. Da una diffusa cultura anti-impresa, ostile al mercato, alla fabbrica ma anche alla tecnologia e alla scienza (per averne documentata consapevolezza vale la pena leggere “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” di Giuseppe Lupo, edito da Marsilio). Da una disattenzione culturale verso i fenomeni del lavoro industriale, visto durante gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, dal punto di vista del conflitto sindacale e sociale e non anche da quello della modernizzazione positiva. Da una ritrosia del mondo dell’impresa stessa ad aprirsi e a raccontarsi (“siamo gente del fare, non del parlare”, era un ritornello distorcente caro a molti uomini d’industria). Ma anche da un’opinione pubblica incline ai luoghi comuni anti-industriali e segnata da un evidente deficit informativo. E da una tendenza, ben radicata in ambienti economici ed accademici, a insistere sul tramonto dell’industria alla fine del Novecento, per cedere il passo al “terziario avanzato” e alla finanza.

Dati e fatti, soprattutto dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno smentito queste false costruzioni di un immaginario distorto e ridato invece importanza all’economia reale. E l’Italia è cresciuta, più e meglio di altre aree europee, negli anni post Covid, proprio grazie al suo “orgoglio industriale”, investendo, innovando, insistendo sulla green economy e sulla sostenibilità, ambientale e sociale, non come scelta furba di comunicazione ma come un vero e proprio “cambio di paradigma” produttivo, facendone un asset di competitività e di qualità sui mercati.

Eccola, dunque, la realtà dell’Italia industriale ad alta tecnologia e sofisticata qualità (la mostra su “L’Italia dei brevetti – Invenzioni e innovazione di successo” che è stata inaugurata ieri a Roma, a Palazzo Piacentini, sede del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ne dà una riprova).

Il passaggio da fare, per cercare di superare la “dissonanza cognitiva” di cui abbiamo parlato e dare all’Italia un ruolo di primo piano per il futuro industriale della Ue, è anche quello di affiancare al “saper fare” il “far sapere” e raccontare, soprattutto alle nuove generazioni, l’importanza del lavoro industriale, della fabbrica high tech innervata da servizi tecnologici, dei laboratori di scienza e ricerca.

Lo conferma il tema scelto per la Settimana della Cultura d’Impresa, dal 14 al 28 novembre, organizzata da Confindustria e Museimpresa, per parlare di “Intelligenza Artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. Un tema molto netto: “Mani che pensano”. Le mani e cioè la centralità della manifattura, dell’impresa che sa fare “cose belle che piacciono al mondo”, per ripetere l’efficace sintesi di Carlo Maria Cipolla. E, accanto alla sapienza d’origine artigiana che nutre anche la più sofisticata neo-fabbrica, ecco “il pensiero” e cioè la conoscenza, la ricerca, la sperimentazione originale di nuovi e migliori paradigmi produttivi, economici e sociali. Indispensabili in tempi di così radicali mutazioni tecnologiche, di sconvolgenti transizioni digitali e ambientali. Dense di rischi e di opportunità di cambiamento positivo.

Arrivata alla sua 23° edizione, la Settimana della cultura d’impresa conta oltre un centinaia di iniziative, in tutta Italia, in gran parte nei musei e negli archivi storici delle imprese (dibattiti, incontri, visite guidate di studenti e professori, mostre, festival di letteratura e video, come il Made Film Festival di Bergamo sul cinema d’impresa, concluso sabato, etc.). E mira, ogni anno con maggior impegno, a rendere l’impresa “popolare”, positiva e creativa, controbattendo a quei sentimenti ostili o comunque diffidenti verso l’impresa, di cui abbiamo detto.

Fabbriche aperte, dunque. E dialoganti. Le Settimane della Cultura d’impresa raccontano come e quanto le industrie siano, certo, attori produttivi ma anche sociali e culturali. Luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano, la memoria fa da cardine dell’innovazione, la competitività si lega all’inclusione sociale. E il valore economico si raggiunge e si mantiene grazie proprio all’attenzione ai valori morali e sociali, ai diritti e ai legittimi interessi degli stakeholders. Una cultura radicata nella storia di ogni impresa che ne avverta l’essenzialità. E un impegno per le scelte sulla sostenibilità, sulla qualità del lavoro e sul benessere delle persone. Con un’attenzione crescente contro tutte le discriminazioni, a cominciare da quelle di genere, le violenze, le alterazioni dei valori civili di una comunità.

Tutto questo, è vero, non basta ad avere rapidamente ragione di quella “dissonanza cognitiva” da cui è partito questo nostro ragionamento. Servono scelte politiche sul primato della politica industriale e delle capacità produttive. Impegni culturali (fare diventare la cultura d’impresa cardine della conoscenza dell’importanza delle culture materiali: un suggerimento per il nuovo ministro Giuli). Attività educative sull’importanza del lavoro. E sfide per i soggetti della cultura e della comunicazione, per andare al di là dello stereotipo della fabbrica fordista “brutta, sporca e cattiva”.

Sfide essenziali. Anche per evitare che la mancata conoscenza dell’Italia industriale alimenti quelle disattenzioni, quelle false percezioni della realtà che contribuirebbero ai rischi di declino economico e dunque sociale e civile del nostro Paese.

Siamo il secondo paese industriale europeo, subito dopo la Germania. Ma gli italiani non lo sanno. In alcuni settori d’eccellenza (la meccatronica e la robotica, la chimica fine, la farmaceutica d’alta specialità, le componentistica auto, la cantieristica navale da diporto, etc.) abbiamo posizioni da primato internazionale, ma per gran parte della nostra opinione pubblica è innanzitutto il turismo ad assicurare la ricchezza dei territori. Siamo tra i cinque maggiori paesi esportatori del mondo, proprio grazie all’industria e a quella meccanica in prima linea, ma i cittadini per il futuro confidano negli alberghi e nelle opportunità del commercio, nello shopping. “Dissonanza cognitiva”, è il nome di questo fenomeno, un’opinione che fa a pugni con la realtà di fatti e dati. Detta in altri termini, l’Italia non sa bene chi è e come si produce la sua ricchezza e dunque non ha una fondata idea di dove andare.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo i dati dell’ultimo “Monitor sul lavoro” (Mol Community Research & Analysis) per Federmeccanica, di cui dà conto Daniele Marini su Il Sole24Ore (15 novembre) commentando: “L’industria scivola ai margini dell’immaginario collettivo, occupa un ruolo periferico nella rappresentazione sociale dello sviluppo”.

Un vero guaio, questa “dissonanza cognitiva”. Perché la Ue (e dunque anche l’Italia) è nel cuore di una stagione di passaggio e di radicali trasformazioni, stretta tra la pesante competizione politica ed economica tra gli Usa dell’era “Maga” di Trump e la Cina in espansione (mentre all’orizzonte si intravvedere, crescente, anche l’ombra dell’India). E per poter reggere la concorrenza e salvaguardare il suo prezioso modello politico-sociale (che tiene insieme, in modo originale, la democrazia liberale, l’economia di mercato costruita sull’intraprendenza individuale e i sistemi di welfare, con diffuso benessere) ha bisogno di una nuova e ambiziosa svolta di politica economica e, appunto, di politica industriale.

Ecco il punto: l’Europa può continuare a restare ancorata ai suoi valori e alla sua cultura civile se mantiene una forza industriale di peso e respiro globale. Se, cioè, affronta la transizione ambientale e digitale, insistendo sull’industria green, in cui peraltro vanta primati produttivi di alto livello. E se dunque investe sulle nuove tecnologie (infrastrutture, ricerca, processi di conoscenza e formazione) e sull’impiego ben strutturato e guidato dell’Intelligenza Artificiale, con quegli 800 o anche 1.000 miliardi all’anno per il prossimo decennio secondo le indicazioni del Rapporto Draghi.

Serve insistere sull’industria, insomma, anche in nome della nostra democrazia. Puntare ad avere “più Europa e un’Europa migliore”, nonostante tutto. Ed evitare il precipizio indicato alcune settimane fa dal “Financial Times”: perdere la sfida competitiva con Usa e Cina e ridursi a essere “il Grand Hotel dei ricchi e potenti del mondo”. Un luogo di storica eleganza. Ma privo di peso e potere. Incapace di decidere sul suo futuro.

È necessario parlare di industria, allora. E impegnarsi a fondo per ribaltare, in un tempo breve, le opinioni di quegli italiani che, appunto secondo il “Monitor sul lavoro” di Federmeccanica, pensano che sia la Germania il paese con maggior peso industriale sull’economia, seguita da Francia e Gran Bretagna (l’Italia è appena quarta, con il 12,4% dei pareri del sondaggio) e ritengono (nel 27,7% dei casi) che il settore che fino a oggi ha più contribuito allo sviluppo del territorio sia il turismo, seguito dall’industria (17,4%), dal commercio (15,4%), dall’agricoltura (14,9%) e poi via via da artigianato, costruzioni, banche e pubblica amministrazione. E per il futuro? Il turismo sale al 30,5% e il commercio al 16% mentre l’industria cala al terzo posto, con il 15,7% dei pareri.

Viene da lontano, questo fenomeno di sottovalutazione del peso industriale. Da una diffusa cultura anti-impresa, ostile al mercato, alla fabbrica ma anche alla tecnologia e alla scienza (per averne documentata consapevolezza vale la pena leggere “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” di Giuseppe Lupo, edito da Marsilio). Da una disattenzione culturale verso i fenomeni del lavoro industriale, visto durante gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, dal punto di vista del conflitto sindacale e sociale e non anche da quello della modernizzazione positiva. Da una ritrosia del mondo dell’impresa stessa ad aprirsi e a raccontarsi (“siamo gente del fare, non del parlare”, era un ritornello distorcente caro a molti uomini d’industria). Ma anche da un’opinione pubblica incline ai luoghi comuni anti-industriali e segnata da un evidente deficit informativo. E da una tendenza, ben radicata in ambienti economici ed accademici, a insistere sul tramonto dell’industria alla fine del Novecento, per cedere il passo al “terziario avanzato” e alla finanza.

Dati e fatti, soprattutto dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno smentito queste false costruzioni di un immaginario distorto e ridato invece importanza all’economia reale. E l’Italia è cresciuta, più e meglio di altre aree europee, negli anni post Covid, proprio grazie al suo “orgoglio industriale”, investendo, innovando, insistendo sulla green economy e sulla sostenibilità, ambientale e sociale, non come scelta furba di comunicazione ma come un vero e proprio “cambio di paradigma” produttivo, facendone un asset di competitività e di qualità sui mercati.

Eccola, dunque, la realtà dell’Italia industriale ad alta tecnologia e sofisticata qualità (la mostra su “L’Italia dei brevetti – Invenzioni e innovazione di successo” che è stata inaugurata ieri a Roma, a Palazzo Piacentini, sede del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ne dà una riprova).

Il passaggio da fare, per cercare di superare la “dissonanza cognitiva” di cui abbiamo parlato e dare all’Italia un ruolo di primo piano per il futuro industriale della Ue, è anche quello di affiancare al “saper fare” il “far sapere” e raccontare, soprattutto alle nuove generazioni, l’importanza del lavoro industriale, della fabbrica high tech innervata da servizi tecnologici, dei laboratori di scienza e ricerca.

Lo conferma il tema scelto per la Settimana della Cultura d’Impresa, dal 14 al 28 novembre, organizzata da Confindustria e Museimpresa, per parlare di “Intelligenza Artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. Un tema molto netto: “Mani che pensano”. Le mani e cioè la centralità della manifattura, dell’impresa che sa fare “cose belle che piacciono al mondo”, per ripetere l’efficace sintesi di Carlo Maria Cipolla. E, accanto alla sapienza d’origine artigiana che nutre anche la più sofisticata neo-fabbrica, ecco “il pensiero” e cioè la conoscenza, la ricerca, la sperimentazione originale di nuovi e migliori paradigmi produttivi, economici e sociali. Indispensabili in tempi di così radicali mutazioni tecnologiche, di sconvolgenti transizioni digitali e ambientali. Dense di rischi e di opportunità di cambiamento positivo.

Arrivata alla sua 23° edizione, la Settimana della cultura d’impresa conta oltre un centinaia di iniziative, in tutta Italia, in gran parte nei musei e negli archivi storici delle imprese (dibattiti, incontri, visite guidate di studenti e professori, mostre, festival di letteratura e video, come il Made Film Festival di Bergamo sul cinema d’impresa, concluso sabato, etc.). E mira, ogni anno con maggior impegno, a rendere l’impresa “popolare”, positiva e creativa, controbattendo a quei sentimenti ostili o comunque diffidenti verso l’impresa, di cui abbiamo detto.

Fabbriche aperte, dunque. E dialoganti. Le Settimane della Cultura d’impresa raccontano come e quanto le industrie siano, certo, attori produttivi ma anche sociali e culturali. Luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano, la memoria fa da cardine dell’innovazione, la competitività si lega all’inclusione sociale. E il valore economico si raggiunge e si mantiene grazie proprio all’attenzione ai valori morali e sociali, ai diritti e ai legittimi interessi degli stakeholders. Una cultura radicata nella storia di ogni impresa che ne avverta l’essenzialità. E un impegno per le scelte sulla sostenibilità, sulla qualità del lavoro e sul benessere delle persone. Con un’attenzione crescente contro tutte le discriminazioni, a cominciare da quelle di genere, le violenze, le alterazioni dei valori civili di una comunità.

Tutto questo, è vero, non basta ad avere rapidamente ragione di quella “dissonanza cognitiva” da cui è partito questo nostro ragionamento. Servono scelte politiche sul primato della politica industriale e delle capacità produttive. Impegni culturali (fare diventare la cultura d’impresa cardine della conoscenza dell’importanza delle culture materiali: un suggerimento per il nuovo ministro Giuli). Attività educative sull’importanza del lavoro. E sfide per i soggetti della cultura e della comunicazione, per andare al di là dello stereotipo della fabbrica fordista “brutta, sporca e cattiva”.

Sfide essenziali. Anche per evitare che la mancata conoscenza dell’Italia industriale alimenti quelle disattenzioni, quelle false percezioni della realtà che contribuirebbero ai rischi di declino economico e dunque sociale e civile del nostro Paese.

“Il cinema racconta l’impresa”. Fondazione Pirelli e Muse Factory of Projects alla XXIII Settimana della Cultura d’Impresa

Nell’ambito della XXIII Settimana della Cultura d’Impresa promossa da Confindustria e Museimpresa Fondazione Pirelli e Muse Factory of Projects presentano “Il cinema racconta l’impresa”.

Mercoledì 27 novembre, dalle ore 18.30, Anteo Spazio Cinema ospiterà una rassegna degli audiovisivi che, attraverso una linea del tempo ed esplorando differenti generi cinematografici e televisivi, dal Carosello al documentario, dal cortometraggio all’animazione, hanno dato voce alla storia della Pirelli, ai suoi prodotti e alla sua cultura aziendale.

Il programma prevede la proiezione de “La ruota”, pubblicità cinematografica diretta da Toni Pagot nel 1956 per la Pirelli, prodotta dalla Pagot Film. Una pellicola che, all’epoca dell’uscita, avrebbe suscitato l’interesse della Walt Disney, che ne richiese una copia per la casa di produzione. Il cortometraggio animato “Paperino e la ruota” (Donald and the Wheel, 1961), diretto da Hamilton Luske per la Walt Disney Productions e distribuito da Buena Vista, sembra in effetti ispirato al film della Pagot.

La serata proseguirà con le avventure olimpiche dei cavernicoli Mammut, Babbut e Figliut, protagonisti della fortunata serie di Caroselli diretti dai fratelli Roberto e Gino Gavioli e prodotti dalla Gamma Film per l’azienda della P lunga. Un appuntamento televisivo fisso per gli italiani tra il 1962 e il 1965: due minuti di guai fino al monito “non siamo più all’età della pietra!”, mentre il codino pubblicitario invita lo spettatore a entrare nel moderno mondo della gomma.

Ispirato alla famosa favola di La Fontaine, “La lepre e la tartaruga” è un racconto dell’Italia degli anni Sessanta fra tradizione e modernizzazione, vincitore di numerosi premi, dal Festival Internazionale del Film Industriale del 1966 alla Fiera Industriale di Mosca del 1968. Il mediometraggio, diretto nel 1966 dal futuro regista di “Momenti di Gloria”, Hugh Hudson, è realizzato con la casa di produzione Cammell Hudson and Brownjohn Associates per la Pirelli Ltd inglese. Anche il MoMA conserva nei suoi archivi il film pubblicitario, i cui titoli di testa sono opera di Robert Brownjohn, l’acclamato designer celebre per le title sequences di “Goldfinger” e “A 007: dalla Russia con amore”.

A metà degli anni Ottanta la Pirelli commissiona a Silvio Soldini, all’epoca ventisettenne, “La fabbrica sospesa”. Il documentario, con Luca Bigazzi alla direzione della fotografia, racconta la fase di trasformazione dell’area industriale di Milano Bicocca attraverso una serie di testimonianze delle persone legate alla storia del sito. Obiettivo della narrazione non è dunque quello di restituire la riconversione degli spazi, ma documentare il modo in cui questa trasformazione impatta sul vissuto di chi ha vissuto, e vive, questi luoghi.

Chiude il programma “NOI SIAMO”, un progetto di Fondazione Pirelli prodotto da Muse Factory of Projects e curato da Francesca Molteni, scritto e diretto nel 2023 da Mattia Colombo e Davide Fois. Un cortometraggio, della durata di circa 7 minuti, che racconta attraverso il linguaggio cinematografico la cultura d’impresa della Pirelli, rappresentata come “palcoscenico delle arti e della tecnica”. Una narrazione per immagini ispirata a Vita di Galileo di Bertolt Brecht, che attraversa i diversi ambiti della cultura aziendale: il teatro, la musica, l’arte, la ricerca, l’innovazione, per sottolineare il binomio tra creatività artistica e scientifica che da sempre caratterizza l’identità della Pirelli.

Le proiezioni saranno introdotte e commentate da Antonio Calabrò, dalla regista e produttrice Francesca Molteni, dal regista e produttore Maurizio Nichetti e dal regista Silvio Soldini. L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti, iscrivendosi tramite questo tool entro lunedì 25 novembre.

Nell’ambito della XXIII Settimana della Cultura d’Impresa promossa da Confindustria e Museimpresa Fondazione Pirelli e Muse Factory of Projects presentano “Il cinema racconta l’impresa”.

Mercoledì 27 novembre, dalle ore 18.30, Anteo Spazio Cinema ospiterà una rassegna degli audiovisivi che, attraverso una linea del tempo ed esplorando differenti generi cinematografici e televisivi, dal Carosello al documentario, dal cortometraggio all’animazione, hanno dato voce alla storia della Pirelli, ai suoi prodotti e alla sua cultura aziendale.

Il programma prevede la proiezione de “La ruota”, pubblicità cinematografica diretta da Toni Pagot nel 1956 per la Pirelli, prodotta dalla Pagot Film. Una pellicola che, all’epoca dell’uscita, avrebbe suscitato l’interesse della Walt Disney, che ne richiese una copia per la casa di produzione. Il cortometraggio animato “Paperino e la ruota” (Donald and the Wheel, 1961), diretto da Hamilton Luske per la Walt Disney Productions e distribuito da Buena Vista, sembra in effetti ispirato al film della Pagot.

La serata proseguirà con le avventure olimpiche dei cavernicoli Mammut, Babbut e Figliut, protagonisti della fortunata serie di Caroselli diretti dai fratelli Roberto e Gino Gavioli e prodotti dalla Gamma Film per l’azienda della P lunga. Un appuntamento televisivo fisso per gli italiani tra il 1962 e il 1965: due minuti di guai fino al monito “non siamo più all’età della pietra!”, mentre il codino pubblicitario invita lo spettatore a entrare nel moderno mondo della gomma.

Ispirato alla famosa favola di La Fontaine, “La lepre e la tartaruga” è un racconto dell’Italia degli anni Sessanta fra tradizione e modernizzazione, vincitore di numerosi premi, dal Festival Internazionale del Film Industriale del 1966 alla Fiera Industriale di Mosca del 1968. Il mediometraggio, diretto nel 1966 dal futuro regista di “Momenti di Gloria”, Hugh Hudson, è realizzato con la casa di produzione Cammell Hudson and Brownjohn Associates per la Pirelli Ltd inglese. Anche il MoMA conserva nei suoi archivi il film pubblicitario, i cui titoli di testa sono opera di Robert Brownjohn, l’acclamato designer celebre per le title sequences di “Goldfinger” e “A 007: dalla Russia con amore”.

A metà degli anni Ottanta la Pirelli commissiona a Silvio Soldini, all’epoca ventisettenne, “La fabbrica sospesa”. Il documentario, con Luca Bigazzi alla direzione della fotografia, racconta la fase di trasformazione dell’area industriale di Milano Bicocca attraverso una serie di testimonianze delle persone legate alla storia del sito. Obiettivo della narrazione non è dunque quello di restituire la riconversione degli spazi, ma documentare il modo in cui questa trasformazione impatta sul vissuto di chi ha vissuto, e vive, questi luoghi.

Chiude il programma “NOI SIAMO”, un progetto di Fondazione Pirelli prodotto da Muse Factory of Projects e curato da Francesca Molteni, scritto e diretto nel 2023 da Mattia Colombo e Davide Fois. Un cortometraggio, della durata di circa 7 minuti, che racconta attraverso il linguaggio cinematografico la cultura d’impresa della Pirelli, rappresentata come “palcoscenico delle arti e della tecnica”. Una narrazione per immagini ispirata a Vita di Galileo di Bertolt Brecht, che attraversa i diversi ambiti della cultura aziendale: il teatro, la musica, l’arte, la ricerca, l’innovazione, per sottolineare il binomio tra creatività artistica e scientifica che da sempre caratterizza l’identità della Pirelli.

Le proiezioni saranno introdotte e commentate da Antonio Calabrò, dalla regista e produttrice Francesca Molteni, dal regista e produttore Maurizio Nichetti e dal regista Silvio Soldini. L’ingresso è gratuito, con prenotazione obbligatoria fino a esaurimento posti, iscrivendosi tramite questo tool entro lunedì 25 novembre.

Non solo profitto contabile

La natura e il ruolo delle società benefit viste come nuove organizzazione della produzione

 

Dal profitto ad altri obiettivi, più ampi e complessi. È la parabola di molte imprese e, a ben vedere, di buona parte del sistema industriale ed economico di molte aree produttive. È lungo questa parabola che si pongono le società benefit, esempi di una cultura del produrre che si colloca in una posizione originale rispetto ai canoni classici dell’economia, ma che non trascura i “buoni conti” come elementi da mettere sempre tra gli obiettivi d’impresa.

“Le società benefit: un fenomeno nuovo dalle origini antiche un’analisi empirica nel contesto italiano”, contributo di Arcangelo Marrone apparso recentemente nella collana di studi e ricerche dell’Università LUM, può essere una buona lettura per comprendere di più e meglio le caratteristiche di queste forme d’impresa. In particolare l’autore lavora nell’ambito dello studio di quei modelli organizzativi che, nel più ampio processo di convergenza dei soggetti for profit verso la sfera non profit si sono affermati negli ultimi decenni, sia nel panorama italiano che in quello internazionale; modelli che hanno dato vita alle cosiddette “imprese ibride”. Ed è tra queste che si collocano le società benefit che, introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano sulla scia delle Benefit Corporation americane, hanno ormai un ruolo importante anche in Italia.  Aziende che davvero danno concretezza ad un modello di cultura d’impresa particolare capace – fa notare Marrone – di coniugare la produzione del profitto economico con una o più finalità di beneficio comune, affiancando, quindi, ai tradizionali obiettivi economici la generazione, nel medio-lungo periodo, di valore condiviso con gli stakeholder, nei cui confronti queste aziende devono operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente.

La ricerca di Arcangelo Marrone descrive quindi queste nuove organizzazioni produttive collocandole nel contesto economico e sociale attuale e dando loro una prospettiva di sviluppo.

Le società benefit: un fenomeno nuovo dalle origini antiche un’analisi empirica nel contesto italiano

Arcangelo Marrone

Università LUM, 2024

La natura e il ruolo delle società benefit viste come nuove organizzazione della produzione

 

Dal profitto ad altri obiettivi, più ampi e complessi. È la parabola di molte imprese e, a ben vedere, di buona parte del sistema industriale ed economico di molte aree produttive. È lungo questa parabola che si pongono le società benefit, esempi di una cultura del produrre che si colloca in una posizione originale rispetto ai canoni classici dell’economia, ma che non trascura i “buoni conti” come elementi da mettere sempre tra gli obiettivi d’impresa.

“Le società benefit: un fenomeno nuovo dalle origini antiche un’analisi empirica nel contesto italiano”, contributo di Arcangelo Marrone apparso recentemente nella collana di studi e ricerche dell’Università LUM, può essere una buona lettura per comprendere di più e meglio le caratteristiche di queste forme d’impresa. In particolare l’autore lavora nell’ambito dello studio di quei modelli organizzativi che, nel più ampio processo di convergenza dei soggetti for profit verso la sfera non profit si sono affermati negli ultimi decenni, sia nel panorama italiano che in quello internazionale; modelli che hanno dato vita alle cosiddette “imprese ibride”. Ed è tra queste che si collocano le società benefit che, introdotte nel 2016 nell’ordinamento giuridico italiano sulla scia delle Benefit Corporation americane, hanno ormai un ruolo importante anche in Italia.  Aziende che davvero danno concretezza ad un modello di cultura d’impresa particolare capace – fa notare Marrone – di coniugare la produzione del profitto economico con una o più finalità di beneficio comune, affiancando, quindi, ai tradizionali obiettivi economici la generazione, nel medio-lungo periodo, di valore condiviso con gli stakeholder, nei cui confronti queste aziende devono operare in modo responsabile, sostenibile e trasparente.

La ricerca di Arcangelo Marrone descrive quindi queste nuove organizzazioni produttive collocandole nel contesto economico e sociale attuale e dando loro una prospettiva di sviluppo.

Le società benefit: un fenomeno nuovo dalle origini antiche un’analisi empirica nel contesto italiano

Arcangelo Marrone

Università LUM, 2024

Il futuro presente

Un libro pubblicato da poco ripercorre la storia e ne spiega i limiti oltre che i poteri

Intelligenza Artificiale e molto altro ancora. Anche nel passato. La comprensione di quanto sta accadendo oggi deve passare – obbligatoriamente – per quella di ciò che è avvenuto prima. Perché i visionari di oggi assomigliano moltissimo a quelli di un tempo. Essere consapevoli di quanto è già accaduto, in altri termini, serve per capire meglio e per davvero ciò che avviene adesso. Barbara Gallavotti ha scritto un libro – “Il futuro è già qui” – che serve molto per percorrere queste strade.

Il libro prende le mosse da una constatazione: non passa giorno senza che stampa o televisione parlino dei più recenti e strepitosi progressi dovuti all’Intelligenza Artificiale. La IA appare essere il nostro furto (nostro come cittadini e imprese). La rivoluzione industriale determinata dalla IA porta ad avere, per esempio, macchine che eseguono in pochi secondi calcoli assai complessi, oppure beneficiare di processi decisionali rapidi anche per problemi complessi. La domanda da porre è però: cosa accade quando questa tecnologia sembra diventare troppo pervasiva e pare appropriarsi di capacità che abbiamo sempre pensato fossero esclusivamente “nostre”?

Per capire sul serio cosa sta accadendo, Gallavotti ripercorre la storia dei visionari che nei secoli hanno sognato di creare macchine intelligenti quanto esseri umani e messo le basi della IA di oggi. Ma soprattutto mette in luce le profonde differenze fra il modo di funzionare del nostro cervello e quello degli strumenti che abbiamo inventato. Il punto cruciale pare essere proprio questo: solo cogliendo queste diversità è possibile spiegare perché l’Intelligenza Artificiale ci supera tanto agevolmente in certi compiti mentre altri sembrano destinati a restare fuori dalla sua portata ancora a lungo, se non per sempre. Da qui una considerazione che Gallavotti spiega chiaramente: la scelta sul ruolo da destinare alla nuova tecnologia nelle nostre vite appartiene a noi, come singoli e come collettività. Non il contrario. Solo in questo modo, l’IA potrebbe preludere ad una nuova era, quella dell’Intelligenza Naturale: l’era nella quale più che mai sapremo trarre vantaggio da ciò che abbiamo inventato.

Il libro di Barbara Gallavotti non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo ad affrontare il tema del progresso e dell’IA in particolare, ma è da leggere e rileggere.

Il futuro è già qui

Barbara Gallavotti

Mondadori, 2024

Un libro pubblicato da poco ripercorre la storia e ne spiega i limiti oltre che i poteri

Intelligenza Artificiale e molto altro ancora. Anche nel passato. La comprensione di quanto sta accadendo oggi deve passare – obbligatoriamente – per quella di ciò che è avvenuto prima. Perché i visionari di oggi assomigliano moltissimo a quelli di un tempo. Essere consapevoli di quanto è già accaduto, in altri termini, serve per capire meglio e per davvero ciò che avviene adesso. Barbara Gallavotti ha scritto un libro – “Il futuro è già qui” – che serve molto per percorrere queste strade.

Il libro prende le mosse da una constatazione: non passa giorno senza che stampa o televisione parlino dei più recenti e strepitosi progressi dovuti all’Intelligenza Artificiale. La IA appare essere il nostro furto (nostro come cittadini e imprese). La rivoluzione industriale determinata dalla IA porta ad avere, per esempio, macchine che eseguono in pochi secondi calcoli assai complessi, oppure beneficiare di processi decisionali rapidi anche per problemi complessi. La domanda da porre è però: cosa accade quando questa tecnologia sembra diventare troppo pervasiva e pare appropriarsi di capacità che abbiamo sempre pensato fossero esclusivamente “nostre”?

Per capire sul serio cosa sta accadendo, Gallavotti ripercorre la storia dei visionari che nei secoli hanno sognato di creare macchine intelligenti quanto esseri umani e messo le basi della IA di oggi. Ma soprattutto mette in luce le profonde differenze fra il modo di funzionare del nostro cervello e quello degli strumenti che abbiamo inventato. Il punto cruciale pare essere proprio questo: solo cogliendo queste diversità è possibile spiegare perché l’Intelligenza Artificiale ci supera tanto agevolmente in certi compiti mentre altri sembrano destinati a restare fuori dalla sua portata ancora a lungo, se non per sempre. Da qui una considerazione che Gallavotti spiega chiaramente: la scelta sul ruolo da destinare alla nuova tecnologia nelle nostre vite appartiene a noi, come singoli e come collettività. Non il contrario. Solo in questo modo, l’IA potrebbe preludere ad una nuova era, quella dell’Intelligenza Naturale: l’era nella quale più che mai sapremo trarre vantaggio da ciò che abbiamo inventato.

Il libro di Barbara Gallavotti non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo ad affrontare il tema del progresso e dell’IA in particolare, ma è da leggere e rileggere.

Il futuro è già qui

Barbara Gallavotti

Mondadori, 2024

Viaggio in Italia: motore di conoscenza e sviluppo grazie ai valori del turismo culturale e industriale

Il viaggio in Italia è un rito, di formazione e conoscenza, rilettura della storia e immaginazione del futuro. La riprova sta nelle pagine del Grand Tour di Goethe, Houël, Tocqueville e Dumas e in quelle più recenti di Alberto Arbasino nelle tante edizioni di “Fratelli d’Italia”. Ma anche nelle esemplari inchieste giornalistiche negli anni Cinquanta e Sessanta firmate da Mario Soldati per la Rai, Guido Piovene per il “Corriere della Sera” e Giorgio Bocca per “Il Giorno”. O ancora in quell’originale avventura corale di venti fotografi coordinati da Luigi Ghirri impegnati a raccontare, nel 1984, giusto quarant’anni fa, il paesaggio di un paese in cambiamento (“Noi, in viaggio con Ghirri nell’Italia normale, per riconoscere come abitabili i luoghi abitati, ma disprezzati e ignorati”, ricorda uno dei protagonisti, Vittore Fossati, su la Repubblica, 10 novembre).

Il ritratto che ne emerge, con tutte le naturali differenze di cultura e di stile degli autori, è quello di un paese carico di contrasti e aspetti controversi, con un paesaggio connotato da un’emozionante bellezza ma anche segnato da laceranti devastazioni. E con una particolare capacità di tenere insieme cultura e intraprendenza, egoismi localistici e solidarietà, benessere diffuso e intollerabili povertà, economiche e di spirito.

Un capitale sociale robusto comunque. Il ritratto mobile di una straordinaria umanità.

Il luogo comune dell’Italia come “museo a cielo aperto” non rende giustizia di questa speciale condizione geografica, culturale, economica. E ha ragione Andrea Carandini, grande archeologo e storico dell’arte, quando critica quella definizione (Corriere della Sera, 7 novembre) e spiega che il paese è piuttosto “un enorme contesto a cielo aperto, tra i più belli del mondo”. Contesto di interventi diversi, parti di una storia da raccontare. Nei suoi tanti aspetti. “Le nostre città – insiste Carandini, rivolgendosi al ministro della Cultura Giuli – sono contesti vivi. Ciascuna merita un museo che la spieghi. Partiamo da Roma e Napoli”.

Ecco il punto. Si ragiona, da tempo, sul valore economico della cultura, sui nessi tra patrimonio culturale e attrattività turistica, sulle caratteristiche speciali che legano i territori alle imprese. E vale la pena, proprio adesso, dopo le polemiche estive sull’overtourism e gli stravolgimenti delle principali città d’arte e le attese inquiete, a Roma, dei 35 milioni di pellegrini del Giubileo, provare a ragionare sulle caratteristiche del paesaggio italiano, così fortemente antropizzato ma anche così ricco e vario e sui valori della cultura d’impresa come cultura sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale e come motore di sviluppo equilibrato.

Una cultura che vale una quota considerevole del nostro Pil ma anche e soprattutto incide positivamente sui valori del Bes, l’indicatore del “benessere equo e sostenibile” messo a punto dall’Istat per quantificare il valore della qualità della vita (su cui pesano conoscenza, istruzione, salute, relazioni sociali positive).

Il sistema produttivo culturale e creativo, calcola il Rapporto “Io sono cultura” messo a. Punto da Symbola, Unioncamere, Centro Studi Tagliacarne e Deloitte, conta nel 2023 un valore aggiunto di 104,3 miliardi di euro (in crescita del 5,5% sull’anno precedente) e dà lavoro a 1,5 milioni di addetti. Con un moltiplicatore di 1,8 in settori economici diversi, come i trasporti e il turismo, si generano altri 192,6 miliardi. Il totale, tra ricchezza diretta della cultura e indiretta, arriva a 296,9 miliardi. Il 15,8% del Pil italiano.

Secondo Banca Ifis, nel suo studio recente sulla Economia della Bellezza, arte e cultura sono asset strategici per la competitività. Le imprese del settore sono 732 e producono 192 miliardi di ricavi annui.

Comunque si calcolino i valori dell’industria culturale e artistica (secondo Symbola ne fa parte anche l’industria dei giochi), l’incidenza sulla ricchezza nazionale è rilevante. E il rapporto con l’attrattività del sistema Paese nel suo complesso è di tutto rispetto.

Ma torniamo a guardare in particolare al turismo. “Negli ultimi dieci anni la motivazione di vacanza legata alla fruizione del patrimonio culturale è passata del settimo al primo posto, facendo presa soprattutto sulla domanda turistica internazionale, che è il 55% e su quella più altospendente”, sostiene Loretta Credaro, presidente di Isnart, l’Istituto nazionale ricerche turistiche (Il Messaggero, 7 novembre). Un turismo attento ai territori, alle esperienze anche culturali legate sì all’arte ma pure alla cucina, al vino, al design, alla moda e agli altri prodotti del made in Italy. E sensibile agli aspetti umani e sociali della qualità dell’ospitalità.

Si muove in questo contesto, appunto, pure l’idea del turismo industriale come parte del capitolo del turismo culturale, facendo leva sui musei d’impresa e gli archivi storici aziendali, riuniti in Museimpresa (150 aderenti, tra imprese grandi, medie e piccole e sostenitori istituzionali, come per esempio l’Archivio dei Cavalieri del Lavoro). Storia d’impresa. Non solo e non tanto come orgoglio per un passato d’ingegno, impegno, lavoro, creatività. Ma soprattutto come asset di competitività, come leva di identità per affermarsi su mercati internazionali molto selettivi e come stimolo d’innovazione.

In tempi di cambiamenti e grandi transizioni, infatti, lavorare sulla memoria del nostro passato e sulla valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale e industriale italiano è un modo per testimoniare di essere parte di una cittadinanza attiva che consente di pensare alla qualità dello sviluppo e alla sua inclusività. Il saper fare italiano è un punto distintivo, un dato etico del lavoro sul quale vale la pena concentrare la nostra attenzione.

Nei nostri musei e archivi d’impresa c’è, appunto, la storia di donne e di uomini che hanno saputo, di fronte alle sfide del tempo che cambia e anche in condizioni di grande difficoltà, dare una risposta produttiva e commerciale ancora attuale, come dimostrano i dati di un export ancora forte, robusto. E queste testimonianze possono essere elemento di attrattività e stimolo anche per le ragazze e i ragazzi che possono capire come le nostre imprese siano gli ambienti ideali per realizzare i loro progetti, fare valere la loro intraprendenza e la loro creatività.

Se il turismo stimola conoscenza, il turismo industriale nei territori del made in Italy può avere un ruolo importante anche per imprese perennemente in cerca di persone di qualità.

I dati di un’indagine condotta da Nomisma per Museimpresa documenta che quasi 6 milioni di italiani (5,8 milioni, per l’esattezza), negli ultimi quattro anni, hanno visitato un museo d’impresa, un archivio storico aziendale o un luogo d’archeologia industriale. Sono stati mossi dal desiderio di capire meglio cosa c’è dietro gli oggetti icone del miglior made in Italy, di conoscere la storia delle imprese e l’arte e il design collegati, di sapere quali siano i rapporti tra industrie e territori. Sono giovani (la maggior parte hanno fra i 30 e i 44 anni), con un alto livello di istruzione, vengono soprattutto dalle regioni del Nord. E giudicano l’esperienza fatta “educativa e formativa”. E fra i 34milioni di italiani che, appunto negli ultimi quattro anni, hanno fatto un viaggio o almeno una gita fuori porta, oltre al 17% che ha già visto un museo d’impresa, c’è un buon 21% che volentieri ci andrebbe. Una occasione interessante per sviluppare il “turismo industriale”, dunque. E una prospettiva quanto mai stimolante per chi ha a cuore la conoscenza della storia economica, il rilancio della cultura d’impresa e una più diffusa e responsabile comprensione del ruolo delle nostre aziende manifatturiere e dei servizi per migliorare lo sviluppo economico del nostro paese.

I musei più frequentati? Quello della Ferrari a Maranello, seguito dal Villaggio Crespi d’Adda in provincia di Bergamo, dal Museo storico Alfa Romeo ad Arese, dal Museo Lavazza a Torino e dall’Archivio Storico Olivetti a Ivrea. C’è spazio per crescere e valorizzare altre realtà un po’ in tutta Italia.

Il paesaggio industriale e il paesaggio culturale sono, insomma, parti dello stesso paesaggio. E con attenzione e rispetto ambientale e sociale possono fare da sempre più solido motore di sviluppo. Di ricchezza diffusa. Di buona economia.

(foto Getty Images)

Il viaggio in Italia è un rito, di formazione e conoscenza, rilettura della storia e immaginazione del futuro. La riprova sta nelle pagine del Grand Tour di Goethe, Houël, Tocqueville e Dumas e in quelle più recenti di Alberto Arbasino nelle tante edizioni di “Fratelli d’Italia”. Ma anche nelle esemplari inchieste giornalistiche negli anni Cinquanta e Sessanta firmate da Mario Soldati per la Rai, Guido Piovene per il “Corriere della Sera” e Giorgio Bocca per “Il Giorno”. O ancora in quell’originale avventura corale di venti fotografi coordinati da Luigi Ghirri impegnati a raccontare, nel 1984, giusto quarant’anni fa, il paesaggio di un paese in cambiamento (“Noi, in viaggio con Ghirri nell’Italia normale, per riconoscere come abitabili i luoghi abitati, ma disprezzati e ignorati”, ricorda uno dei protagonisti, Vittore Fossati, su la Repubblica, 10 novembre).

Il ritratto che ne emerge, con tutte le naturali differenze di cultura e di stile degli autori, è quello di un paese carico di contrasti e aspetti controversi, con un paesaggio connotato da un’emozionante bellezza ma anche segnato da laceranti devastazioni. E con una particolare capacità di tenere insieme cultura e intraprendenza, egoismi localistici e solidarietà, benessere diffuso e intollerabili povertà, economiche e di spirito.

Un capitale sociale robusto comunque. Il ritratto mobile di una straordinaria umanità.

Il luogo comune dell’Italia come “museo a cielo aperto” non rende giustizia di questa speciale condizione geografica, culturale, economica. E ha ragione Andrea Carandini, grande archeologo e storico dell’arte, quando critica quella definizione (Corriere della Sera, 7 novembre) e spiega che il paese è piuttosto “un enorme contesto a cielo aperto, tra i più belli del mondo”. Contesto di interventi diversi, parti di una storia da raccontare. Nei suoi tanti aspetti. “Le nostre città – insiste Carandini, rivolgendosi al ministro della Cultura Giuli – sono contesti vivi. Ciascuna merita un museo che la spieghi. Partiamo da Roma e Napoli”.

Ecco il punto. Si ragiona, da tempo, sul valore economico della cultura, sui nessi tra patrimonio culturale e attrattività turistica, sulle caratteristiche speciali che legano i territori alle imprese. E vale la pena, proprio adesso, dopo le polemiche estive sull’overtourism e gli stravolgimenti delle principali città d’arte e le attese inquiete, a Roma, dei 35 milioni di pellegrini del Giubileo, provare a ragionare sulle caratteristiche del paesaggio italiano, così fortemente antropizzato ma anche così ricco e vario e sui valori della cultura d’impresa come cultura sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale e come motore di sviluppo equilibrato.

Una cultura che vale una quota considerevole del nostro Pil ma anche e soprattutto incide positivamente sui valori del Bes, l’indicatore del “benessere equo e sostenibile” messo a punto dall’Istat per quantificare il valore della qualità della vita (su cui pesano conoscenza, istruzione, salute, relazioni sociali positive).

Il sistema produttivo culturale e creativo, calcola il Rapporto “Io sono cultura” messo a. Punto da Symbola, Unioncamere, Centro Studi Tagliacarne e Deloitte, conta nel 2023 un valore aggiunto di 104,3 miliardi di euro (in crescita del 5,5% sull’anno precedente) e dà lavoro a 1,5 milioni di addetti. Con un moltiplicatore di 1,8 in settori economici diversi, come i trasporti e il turismo, si generano altri 192,6 miliardi. Il totale, tra ricchezza diretta della cultura e indiretta, arriva a 296,9 miliardi. Il 15,8% del Pil italiano.

Secondo Banca Ifis, nel suo studio recente sulla Economia della Bellezza, arte e cultura sono asset strategici per la competitività. Le imprese del settore sono 732 e producono 192 miliardi di ricavi annui.

Comunque si calcolino i valori dell’industria culturale e artistica (secondo Symbola ne fa parte anche l’industria dei giochi), l’incidenza sulla ricchezza nazionale è rilevante. E il rapporto con l’attrattività del sistema Paese nel suo complesso è di tutto rispetto.

Ma torniamo a guardare in particolare al turismo. “Negli ultimi dieci anni la motivazione di vacanza legata alla fruizione del patrimonio culturale è passata del settimo al primo posto, facendo presa soprattutto sulla domanda turistica internazionale, che è il 55% e su quella più altospendente”, sostiene Loretta Credaro, presidente di Isnart, l’Istituto nazionale ricerche turistiche (Il Messaggero, 7 novembre). Un turismo attento ai territori, alle esperienze anche culturali legate sì all’arte ma pure alla cucina, al vino, al design, alla moda e agli altri prodotti del made in Italy. E sensibile agli aspetti umani e sociali della qualità dell’ospitalità.

Si muove in questo contesto, appunto, pure l’idea del turismo industriale come parte del capitolo del turismo culturale, facendo leva sui musei d’impresa e gli archivi storici aziendali, riuniti in Museimpresa (150 aderenti, tra imprese grandi, medie e piccole e sostenitori istituzionali, come per esempio l’Archivio dei Cavalieri del Lavoro). Storia d’impresa. Non solo e non tanto come orgoglio per un passato d’ingegno, impegno, lavoro, creatività. Ma soprattutto come asset di competitività, come leva di identità per affermarsi su mercati internazionali molto selettivi e come stimolo d’innovazione.

In tempi di cambiamenti e grandi transizioni, infatti, lavorare sulla memoria del nostro passato e sulla valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale e industriale italiano è un modo per testimoniare di essere parte di una cittadinanza attiva che consente di pensare alla qualità dello sviluppo e alla sua inclusività. Il saper fare italiano è un punto distintivo, un dato etico del lavoro sul quale vale la pena concentrare la nostra attenzione.

Nei nostri musei e archivi d’impresa c’è, appunto, la storia di donne e di uomini che hanno saputo, di fronte alle sfide del tempo che cambia e anche in condizioni di grande difficoltà, dare una risposta produttiva e commerciale ancora attuale, come dimostrano i dati di un export ancora forte, robusto. E queste testimonianze possono essere elemento di attrattività e stimolo anche per le ragazze e i ragazzi che possono capire come le nostre imprese siano gli ambienti ideali per realizzare i loro progetti, fare valere la loro intraprendenza e la loro creatività.

Se il turismo stimola conoscenza, il turismo industriale nei territori del made in Italy può avere un ruolo importante anche per imprese perennemente in cerca di persone di qualità.

I dati di un’indagine condotta da Nomisma per Museimpresa documenta che quasi 6 milioni di italiani (5,8 milioni, per l’esattezza), negli ultimi quattro anni, hanno visitato un museo d’impresa, un archivio storico aziendale o un luogo d’archeologia industriale. Sono stati mossi dal desiderio di capire meglio cosa c’è dietro gli oggetti icone del miglior made in Italy, di conoscere la storia delle imprese e l’arte e il design collegati, di sapere quali siano i rapporti tra industrie e territori. Sono giovani (la maggior parte hanno fra i 30 e i 44 anni), con un alto livello di istruzione, vengono soprattutto dalle regioni del Nord. E giudicano l’esperienza fatta “educativa e formativa”. E fra i 34milioni di italiani che, appunto negli ultimi quattro anni, hanno fatto un viaggio o almeno una gita fuori porta, oltre al 17% che ha già visto un museo d’impresa, c’è un buon 21% che volentieri ci andrebbe. Una occasione interessante per sviluppare il “turismo industriale”, dunque. E una prospettiva quanto mai stimolante per chi ha a cuore la conoscenza della storia economica, il rilancio della cultura d’impresa e una più diffusa e responsabile comprensione del ruolo delle nostre aziende manifatturiere e dei servizi per migliorare lo sviluppo economico del nostro paese.

I musei più frequentati? Quello della Ferrari a Maranello, seguito dal Villaggio Crespi d’Adda in provincia di Bergamo, dal Museo storico Alfa Romeo ad Arese, dal Museo Lavazza a Torino e dall’Archivio Storico Olivetti a Ivrea. C’è spazio per crescere e valorizzare altre realtà un po’ in tutta Italia.

Il paesaggio industriale e il paesaggio culturale sono, insomma, parti dello stesso paesaggio. E con attenzione e rispetto ambientale e sociale possono fare da sempre più solido motore di sviluppo. Di ricchezza diffusa. Di buona economia.

(foto Getty Images)

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