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Le condizioni di Industria 4.0

Una tesi discussa alla LUISS approfondisce caratteristiche ed effetti della quarta rivoluzione industriale

 

Aver chiari i termini e le condizioni dell’innovazione serve per applicare meglio la stessa innovazione. Questione di informazione consapevole. E condizione che vale anche per il “nuovo” paradigma di Industria 4.0. “Industria 4.0: la chiave per la competitività delle PMI italiane” – tesi di Marco Cocco presso il Dipartimento di Economia e Management, Cattedra di Organizzazione Aziendale, alla LUISS -, è una lettura utile proprio per farsi un’idea affidabile delle condizioni di applicazione e degli effetti di Industria 4.0 con un occhio particolare alle piccole e medie imprese italiane.

L’obiettivo dichiarato dell’indagine di Cocco è quello di “dimostrare che l’adozione dell’Industria 4.0, attraverso la progressiva automazione ed innovazione dei processi produttivi, contribuisce al miglioramento della produttività e della redditività delle PMI italiane, consentendo a quest’ultime di incrementare la competitività e di favorirne la crescita”.

Traguardo raggiunto attraverso un percorso a tappe che – giustamente -, prende le mosse dalla storia ed in particolare dall’individuazione delle altre tre “rivoluzioni industriali”, per arrivare quindi a delineare le caratteristiche delle “quarta rivoluzione” costituita dall’introduzione nelle organizzazioni della produzione dei principi di Industria 4.0. Successivamente l’autore approfondisce la condizione italiana e quindi l’intervento dello Stato con il Piano Calenda. La teoria, quindi, viene resa viva dall’osservazione di un caso aziendale.

“La realizzazione del processo di innovazione dei processi produttivi e della supply chain, su cui si fonda il paradigma 4.0 – scrivo Cocco nelle conclusioni -, ha consentito alle PMI italiane di ottenere importanti benefici in termini di miglioramento della qualità dei prodotti, grazie alla riduzione di errori e sprechi, e in termini di flessibilità produttiva, attraverso una maggiore abilità di adattamento alla mutevolezza delle preferenze dei consumatori, consentendo di passare dalla produzione di massa alla personalizzazione di massa”.

Certo, è possibile che chi legge non sia completamente d’accordo con quanto esposto dalla tesi, ma rimane un dato di fondo: quanto scritto è un onesto e chiaro punto della situazione si Industria 4.0.

Industria 4.0: la chiave per la competitività delle PMI italiane

Marco Cocco

Tesi, Dipartimento di Economia e Management, Cattedra di Organizzazione Aziendale, LUISS, 2018

Una tesi discussa alla LUISS approfondisce caratteristiche ed effetti della quarta rivoluzione industriale

 

Aver chiari i termini e le condizioni dell’innovazione serve per applicare meglio la stessa innovazione. Questione di informazione consapevole. E condizione che vale anche per il “nuovo” paradigma di Industria 4.0. “Industria 4.0: la chiave per la competitività delle PMI italiane” – tesi di Marco Cocco presso il Dipartimento di Economia e Management, Cattedra di Organizzazione Aziendale, alla LUISS -, è una lettura utile proprio per farsi un’idea affidabile delle condizioni di applicazione e degli effetti di Industria 4.0 con un occhio particolare alle piccole e medie imprese italiane.

L’obiettivo dichiarato dell’indagine di Cocco è quello di “dimostrare che l’adozione dell’Industria 4.0, attraverso la progressiva automazione ed innovazione dei processi produttivi, contribuisce al miglioramento della produttività e della redditività delle PMI italiane, consentendo a quest’ultime di incrementare la competitività e di favorirne la crescita”.

Traguardo raggiunto attraverso un percorso a tappe che – giustamente -, prende le mosse dalla storia ed in particolare dall’individuazione delle altre tre “rivoluzioni industriali”, per arrivare quindi a delineare le caratteristiche delle “quarta rivoluzione” costituita dall’introduzione nelle organizzazioni della produzione dei principi di Industria 4.0. Successivamente l’autore approfondisce la condizione italiana e quindi l’intervento dello Stato con il Piano Calenda. La teoria, quindi, viene resa viva dall’osservazione di un caso aziendale.

“La realizzazione del processo di innovazione dei processi produttivi e della supply chain, su cui si fonda il paradigma 4.0 – scrivo Cocco nelle conclusioni -, ha consentito alle PMI italiane di ottenere importanti benefici in termini di miglioramento della qualità dei prodotti, grazie alla riduzione di errori e sprechi, e in termini di flessibilità produttiva, attraverso una maggiore abilità di adattamento alla mutevolezza delle preferenze dei consumatori, consentendo di passare dalla produzione di massa alla personalizzazione di massa”.

Certo, è possibile che chi legge non sia completamente d’accordo con quanto esposto dalla tesi, ma rimane un dato di fondo: quanto scritto è un onesto e chiaro punto della situazione si Industria 4.0.

Industria 4.0: la chiave per la competitività delle PMI italiane

Marco Cocco

Tesi, Dipartimento di Economia e Management, Cattedra di Organizzazione Aziendale, LUISS, 2018

Ricordare Leonardo tra genio e impresa, per dare nuovo valore all’umanesimo industriale 

Gli ingranaggi, le ruote, le pulegge, le eliche. L’acqua, il fuoco, il vento. La fisica e la chimica. Le macchine e il loro movimento, nei disegni di Leonardo da Vinci, rappresentano una civiltà della scienza e della tecnica che ancora oggi serve riguardare e riconsiderare, come fondamento essenziale d’un nostro originale umanesimo industriale che, con sapienza, lega memoria e futuro ed è paradigma positivo sulla ribalta del pensiero scientifico e dell’economia internazionale.

Nel grande contesto delle manifestazioni, delle mostre e delle iniziative per ricordare e celebrare i cinquecento anni dalla scomparsa di un genio dell’arte e della scienza, vale la pena soffermarsi proprio su una delle principali attitudini di Leonardo: l’essere uno straordinario, visionario meccanico, come testimoniano anche i disegni del Codice Atlantico custoditi alla Biblioteca Ambrosiana e adesso in esposizione a Roma, alle Scuderie del Quirinale, per una mostra dal titolo suggestivo, “Leonardo, la scienza prima della scienza”: progetti, macchine e codici preziosi “per raccontare il percorso di un artista che con le sue ricerche anticipò le moderne tecnologie”.

Genio & impresa”, dunque. Così si chiama l’iniziativa organizzata da Assolombarda e da Confindustria Firenze, il 3 maggio, per parlare di Leonardo e insistere sull’innovazione come cardine essenziale di conoscenza e sviluppo. L’idea dei due presidenti, Carlo Bonomi e Luigi Salvatori, è “unire le capitali del saper fare italiano”, attraverso le associazioni imprenditoriali “che meglio esprimono la manifattura italiana che piace al mondo”, valorizzando una figura come Leonardo che è “un modello d’innovazione strategica in grado di stimolare la cultura imprenditoriale”, un “simbolo di progettualità”.

Leonardo, infatti, è “spirito di ricerca” ma anche costante attitudine a mettere in movimento conseguenti processi produttivi, governando il regime delle acque dei navigli, costruendo fortificazioni e macchine belliche, progettando oggetti e ingranaggi, lavorando con strumenti di officina appositamente creati. Un genio meccanico, appunto. Al lavoro seguendo le indicazioni d’un signore attivo e volitivo, come Ludovico Sforza “il Moro”.

“Genio & impresa” è il binomio che si ripete anche per una ricerca che l’Assolombarda ha avviato in collaborazione con il Leadership Design e Innovation Lab del Politecnico di Milano, per valorizzare le relazioni storiche tra ricerca e impresa (testimonial alcune delle migliori industrie italiane, come Pirelli) e individuare e dare spazio a nuove realtà in cui l’innovazione crea valore economico e sviluppo. L’idea di fondo è fare tesoro dell’abilità inventiva di Leonardo e delle sue capacità a rappresentare e realizzare la trasformazione dell’invenzione in tèchne, in attualità fattiva, produttiva, a fare correre l’immaginazione per trovare soluzioni inedite alle richieste che gli arrivavano da committenti affascinati dalle nuove possibilità offerte dalla scienza allora contemporanea (come appunto Ludovico il Moro).

C’è proprio questo costante binomio fra creatività e realizzazione, invenzione e manifattura, al fondo dell’identità economica e imprenditoriale italiana. Leonardo ne è l’apice. Ma ne sono testimonianze straordinarie anche le esperienze dei laboratori, delle officine e dei cantieri dove Brunelleschi e Michelangelo pongono le basi per le loro straordinarie operazioni di architettura e scultura, delle botteghe dei colori di Antonello da Messina, Raffaello, ancora Michelangelo e Tiziano come fabbriche chimiche e delle fonderie dei cesellatori come Cellini. Il nostro “saper fare cose belle che piacciono al mondo”, per usare l’essenziale definizione di un grande storico europeo dell’economia, Carlo Maria Cipolla, affonda le radici in questa “cultura politecnica” che si nutre di scienza, gusto, bellezza. E ancora oggi le capacità industriali italiane, nella meccanica e nella meccatronica, nella gomma, nella chimica e nella farmaceutica, nei settori tradizionali del Made in Italy come l’abbigliamento, l’arredamento e l’agro-alimentare, ma anche in mondi come l’automotive, l’avionica e la cantieristica navale sono fortemente segnate da una competitività che ha radici storiche nei territori manifatturieri e antenne culturali sensibili ai cambiamenti e alle innovazioni della creatività più spregiudicata e della passione per la ricerca e la tecnologia più innovativa.

Si torna sempre alla lezione di Leonardo. E al suo spirito propositivo. Insiste Luigi Salvadori: “La nostra alleanza, tra Assolombarda e Confindustria Firenze, vuol essere un appello all’Italia affinché spinga sull’attrazione dei talenti, per diventare una società aperta all’innovazione e alla modernità

Gli ingranaggi, le ruote, le pulegge, le eliche. L’acqua, il fuoco, il vento. La fisica e la chimica. Le macchine e il loro movimento, nei disegni di Leonardo da Vinci, rappresentano una civiltà della scienza e della tecnica che ancora oggi serve riguardare e riconsiderare, come fondamento essenziale d’un nostro originale umanesimo industriale che, con sapienza, lega memoria e futuro ed è paradigma positivo sulla ribalta del pensiero scientifico e dell’economia internazionale.

Nel grande contesto delle manifestazioni, delle mostre e delle iniziative per ricordare e celebrare i cinquecento anni dalla scomparsa di un genio dell’arte e della scienza, vale la pena soffermarsi proprio su una delle principali attitudini di Leonardo: l’essere uno straordinario, visionario meccanico, come testimoniano anche i disegni del Codice Atlantico custoditi alla Biblioteca Ambrosiana e adesso in esposizione a Roma, alle Scuderie del Quirinale, per una mostra dal titolo suggestivo, “Leonardo, la scienza prima della scienza”: progetti, macchine e codici preziosi “per raccontare il percorso di un artista che con le sue ricerche anticipò le moderne tecnologie”.

Genio & impresa”, dunque. Così si chiama l’iniziativa organizzata da Assolombarda e da Confindustria Firenze, il 3 maggio, per parlare di Leonardo e insistere sull’innovazione come cardine essenziale di conoscenza e sviluppo. L’idea dei due presidenti, Carlo Bonomi e Luigi Salvatori, è “unire le capitali del saper fare italiano”, attraverso le associazioni imprenditoriali “che meglio esprimono la manifattura italiana che piace al mondo”, valorizzando una figura come Leonardo che è “un modello d’innovazione strategica in grado di stimolare la cultura imprenditoriale”, un “simbolo di progettualità”.

Leonardo, infatti, è “spirito di ricerca” ma anche costante attitudine a mettere in movimento conseguenti processi produttivi, governando il regime delle acque dei navigli, costruendo fortificazioni e macchine belliche, progettando oggetti e ingranaggi, lavorando con strumenti di officina appositamente creati. Un genio meccanico, appunto. Al lavoro seguendo le indicazioni d’un signore attivo e volitivo, come Ludovico Sforza “il Moro”.

“Genio & impresa” è il binomio che si ripete anche per una ricerca che l’Assolombarda ha avviato in collaborazione con il Leadership Design e Innovation Lab del Politecnico di Milano, per valorizzare le relazioni storiche tra ricerca e impresa (testimonial alcune delle migliori industrie italiane, come Pirelli) e individuare e dare spazio a nuove realtà in cui l’innovazione crea valore economico e sviluppo. L’idea di fondo è fare tesoro dell’abilità inventiva di Leonardo e delle sue capacità a rappresentare e realizzare la trasformazione dell’invenzione in tèchne, in attualità fattiva, produttiva, a fare correre l’immaginazione per trovare soluzioni inedite alle richieste che gli arrivavano da committenti affascinati dalle nuove possibilità offerte dalla scienza allora contemporanea (come appunto Ludovico il Moro).

C’è proprio questo costante binomio fra creatività e realizzazione, invenzione e manifattura, al fondo dell’identità economica e imprenditoriale italiana. Leonardo ne è l’apice. Ma ne sono testimonianze straordinarie anche le esperienze dei laboratori, delle officine e dei cantieri dove Brunelleschi e Michelangelo pongono le basi per le loro straordinarie operazioni di architettura e scultura, delle botteghe dei colori di Antonello da Messina, Raffaello, ancora Michelangelo e Tiziano come fabbriche chimiche e delle fonderie dei cesellatori come Cellini. Il nostro “saper fare cose belle che piacciono al mondo”, per usare l’essenziale definizione di un grande storico europeo dell’economia, Carlo Maria Cipolla, affonda le radici in questa “cultura politecnica” che si nutre di scienza, gusto, bellezza. E ancora oggi le capacità industriali italiane, nella meccanica e nella meccatronica, nella gomma, nella chimica e nella farmaceutica, nei settori tradizionali del Made in Italy come l’abbigliamento, l’arredamento e l’agro-alimentare, ma anche in mondi come l’automotive, l’avionica e la cantieristica navale sono fortemente segnate da una competitività che ha radici storiche nei territori manifatturieri e antenne culturali sensibili ai cambiamenti e alle innovazioni della creatività più spregiudicata e della passione per la ricerca e la tecnologia più innovativa.

Si torna sempre alla lezione di Leonardo. E al suo spirito propositivo. Insiste Luigi Salvadori: “La nostra alleanza, tra Assolombarda e Confindustria Firenze, vuol essere un appello all’Italia affinché spinga sull’attrazione dei talenti, per diventare una società aperta all’innovazione e alla modernità

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Perché s’inventa un’impresa

Le motivazioni degli imprenditori analizzate dal punto di vista sociale e culturale

Imprenditori per necessità o per volontà. Storie diverse che confluiscono nella creazione di un’organizzazione della produzione che, in qualche modo, conserva qualcosa delle sue origini. Capire perché e come nasce un’impresa, passa anche dalle motivazioni che hanno spinto un imprenditore nella sua creazione E’ quanto hanno provato a fare Angela Mota, Vitor Braga, Vanessa Ratten con il loro “Entrepreneurship Motivation: Opportunity and Necessity”.

La considerazione dalla quale prende le mosse la ricerca è che i neoimprenditori avviano la propria attività per diversi motivi, ma si possono facilmente distinguere le loro motivazioni in due tipi: la volontà di essere un imprenditore e il bisogno di esserlo. Detto in altri termini, trovare una buona opportunità nel mercato non è l’unico modo per avviare un’impresa; anche gli imprenditori possono iniziare un’attività “perché non c’è scelta migliore o nessuna altra alternativa per evitare la disoccupazione”.

L’indagine di Mota, Braga e Ratten cerca di collegare le caratteristiche di origine dell’imprenditore e della sua impresa con le motivazioni della stessa. Alla base della ricerca è il Global Entrepreneurship Monitor che distingue le motivazioni degli imprenditori secondo due spinte: opportunità e necessità. La ricerca quindi prova  ad analizzare le principali motivazioni degli imprenditori nei diversi paesi, presentando le caratteristiche che maggiormente influenzano le motivazioni degli individui sia per necessità che per opportunità; e infine raggruppa i paesi in termini di tipi di imprenditorialità. Ciò che ne deriva indica come le spinte all’imprenditorialità siano fortemente correlate alle caratteristiche sociodemografiche dell’imprenditore; contano ancora una volta l’età, l’istruzione e il reddito familiare. Al contrario, viene notato dagli autori, gli imprenditori “per necessità” non cercano di avviare un’attività innovativa, né percepiscono buone opportunità nel loro contesto. Ambiente sociale, economico e “storico”, quindi, condizionano in un continuo scambio di provocazioni l’origine e il futuro delle imprese, a partire da chi le concepisce e le crea. E’, a ben vedere, lo stesso schema attraverso il quale una cultura (questa volta d’impresa), prende forma e  si sviluppa.

L’intervento di Mota, Braga e Ratten è utile da leggere per capire di più di un processo che ogni volta cambia aspetto ma probabilmente non sostanza.

Entrepreneurship Motivation: Opportunity and Necessity
Angela Mota, Vitor Braga, Vanessa Ratten
In Sustainable Entrepreneurship
The Role of Collaboration in the Global Economy, 2019

Le motivazioni degli imprenditori analizzate dal punto di vista sociale e culturale

Imprenditori per necessità o per volontà. Storie diverse che confluiscono nella creazione di un’organizzazione della produzione che, in qualche modo, conserva qualcosa delle sue origini. Capire perché e come nasce un’impresa, passa anche dalle motivazioni che hanno spinto un imprenditore nella sua creazione E’ quanto hanno provato a fare Angela Mota, Vitor Braga, Vanessa Ratten con il loro “Entrepreneurship Motivation: Opportunity and Necessity”.

La considerazione dalla quale prende le mosse la ricerca è che i neoimprenditori avviano la propria attività per diversi motivi, ma si possono facilmente distinguere le loro motivazioni in due tipi: la volontà di essere un imprenditore e il bisogno di esserlo. Detto in altri termini, trovare una buona opportunità nel mercato non è l’unico modo per avviare un’impresa; anche gli imprenditori possono iniziare un’attività “perché non c’è scelta migliore o nessuna altra alternativa per evitare la disoccupazione”.

L’indagine di Mota, Braga e Ratten cerca di collegare le caratteristiche di origine dell’imprenditore e della sua impresa con le motivazioni della stessa. Alla base della ricerca è il Global Entrepreneurship Monitor che distingue le motivazioni degli imprenditori secondo due spinte: opportunità e necessità. La ricerca quindi prova  ad analizzare le principali motivazioni degli imprenditori nei diversi paesi, presentando le caratteristiche che maggiormente influenzano le motivazioni degli individui sia per necessità che per opportunità; e infine raggruppa i paesi in termini di tipi di imprenditorialità. Ciò che ne deriva indica come le spinte all’imprenditorialità siano fortemente correlate alle caratteristiche sociodemografiche dell’imprenditore; contano ancora una volta l’età, l’istruzione e il reddito familiare. Al contrario, viene notato dagli autori, gli imprenditori “per necessità” non cercano di avviare un’attività innovativa, né percepiscono buone opportunità nel loro contesto. Ambiente sociale, economico e “storico”, quindi, condizionano in un continuo scambio di provocazioni l’origine e il futuro delle imprese, a partire da chi le concepisce e le crea. E’, a ben vedere, lo stesso schema attraverso il quale una cultura (questa volta d’impresa), prende forma e  si sviluppa.

L’intervento di Mota, Braga e Ratten è utile da leggere per capire di più di un processo che ogni volta cambia aspetto ma probabilmente non sostanza.

Entrepreneurship Motivation: Opportunity and Necessity
Angela Mota, Vitor Braga, Vanessa Ratten
In Sustainable Entrepreneurship
The Role of Collaboration in the Global Economy, 2019

La Milano del design si conferma capitale dell’innovazione ma i partiti di governo boicottano il Tribunale dei brevetti

Ancora una volta, come in ogni aprile, il mondo del design e dell’industria guarda a Milano e ne celebra un primato, quello di capitale internazionale dei progetti e dei prodotti del vivere bene, del “bello e ben fatto”. Un successo, della volontà e della capacità di rappresentazione. Una storia che viene da lontano. E si rinnova nel tempo. Una ventina d’anni fa, infatti, gli imprenditori italiani dell’arredamento decisero di non portare più i loro nuovi prodotti alla fiera di Colonia e di fare, invece, vivere e crescere proprio a Milano una grande fiera di settore, che superasse la rassegna tedesca. Rapidamente, ci sono riusciti. E anche quest’anno i dati del Salone del Mobile, nel cuore di una lunga Design Week, dicono che quel primato è riconfermato: 400mila visitatori (il 20% in più dell’edizione analoga del 2017, quella biennale con Euroluce), tre quarti dei quali dall’estero, da 160 paesi (molti i buyer cinesi), 2.350 imprese espositrici (un terzo internazionali), uno straordinario giro di manifestazioni, incontri, appuntamenti densi di cultura e di affari (il sistema dell’arredamento italiano ha un fatturato di 27,4 miliardi e stimola export per 14 miliardi). Voci, disegni, materiali innovativi e utilizzo nuovo dei materiali tradizionali (a cominciare dal legno), fantasia, concretezza industriale, qualità.

“Primi & belli nonostante tutti”, sintetizza Dario Di Vico, in un editoriale sul “Corriere della Sera” (14 aprile). Non per vanto (nello stile civile milanese c’è l’inclinazione a “stare schisci”). Ma per consapevolezza d’una grande forza che mette insieme creatività, manifattura, memoria e innovazione, in una sintesi originale e ancora profondamente competitiva.

Molti elementi concorrono a consolidare questo primato milanese. Innanzitutto, il suo essere, per antica tradizione, città aperta e inclusiva, come già ben sapeva il vescovo Ariberto, che in un suo editto del 1018, annunciava: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”. E poi, il legame sempre più stretto tra creatività e produzione industriale, in distretti e filiere produttive che vanno dalla Brianza al Nord Est, con importanti aree produttive anche in altre regioni italiane, sino alle Puglie e alla Basilicata) e che si raccordano con i luoghi cardine della progettazione, a cominciare dai Politecnici di Milano e Torino. E’, appunto, la forza di una “cultura politecnica” che tiene insieme progettazione e realizzazione industriale e fa crescere centri di ricerca e musei del design che tengono viva la memoria e stimolano l’innovazione (l’Associazione appena nata fra Triennale, Adi e Assolombarda, su stimolo del ministero dei Beni culturali, Comune di Milano e Regione Lombardia ne è eccellente testimonianza).

La centralità di Milano, in questo processo, è tutt’altro che campanilistica, ma testimonia un’attitudine a tessere relazioni nel quadro d’una larga conurbazione ricca di imprese e cultura diffusa, di luoghi produttivi e di flussi creativi e commerciali, che riguarda tutta la cosiddetta “regione A4” (l’autostrada che congiunge tutte le aree dal Nord Ovest al Nord Est) in raccordo con l’Emilia e la “dorsale adriatica”: uno straordinario cuore produttivo dell’Europa in cui cultura e “gusto del bello” italiano, industria e servizi stimolano ricchezza diffusa, inclusione sociale, sviluppo, qualità della vita.

Le parole “qualità” e “innovazione” ne tirano in ballo un’altra, ricerca. Le imprese investono in ricerca, su materiali, processi digitali legati alla produzione e ai servizi, forme e funzioni dei prodotti, processi produttivi ispirati alla sostenibilità, a una green economy che diventa rapidamente non solo scelta ambientale positiva, ma vero e proprio vantaggio competitivo nei confronti di mondi del consumo sempre più sofisticati ed esigenti. E le università e le scuole sono attive in un dialogo con le imprese che migliora gli stessi processi della conoscenza.

E’ un circuito virtuoso che va avanti da tempo. E che può fare ben sperare in un ulteriore sviluppo che dal cuore europeo settentrionale coinvolga l’intero Paese.

Ci sono altri dati, di cui tenere conto in questo quadro. Quelli dei brevetti. L’European Patent Office documenta che nel 2018 società e inventori italiani hanno presentato 4.399 richieste di brevetti (+0,9% rispetto al 2017), facendo dell’Italia il decimo paese nella classifica mondiale (i primi tre sono Usa, Germania e Giappone). Con 880 domande Milano si conferma capitale dell’innovazione, la Lombardia regione leader, con il 32% di tutte le richieste (in testa le grandi imprese come Pirelli, Solvay, Basell, Telecom, StMicroelectronics, Magneti Marelli).

Ecco il punto: la leva di ricerca e sviluppo. In cui Milano ha una sua centralità, nell’interesse generale dell’innovazione italiana.

Anche alla luce di questi dati appare non solo incomprensibile ma nettamente negativa per tutto il sistema Italia la scelta della Camera dei deputati, di approvare, con il voto determinante dei partiti di governo, Lega e M5S, una mozione sulla sede del Tribunale europeo dei Brevetti in cui la parola “Milano” viene sostituita da una più generica indicazione “Italia”.

Su quella sede del Tribunale, in uscita da Londra dopo la Brexit, è in corso una battaglia che coinvolge altre città europee. Milano, forte delle relazioni tra innovazione, impresa, università, centri di ricerca (i brevetti ne sono appunto testimonianza) è particolarmente qualificata per farcela. La scelta di Lega e Cinque Stelle di non sostenere apertamente Milano è dunque particolarmente miope e irresponsabile (s’intende creare difficoltà a una metropoli governata da un’amministrazione di centro sinistra?). E va in direzione opposta a tutte le buone scelte politiche del passato, quando i governi di centro destra e di centro sinistra sostennero la candidatura di Milano come sede dell’Expo guardando all’interesse nazionale e non al colore dell’amministrazione locale. C’è tempo perché il governo corregga il tiro e i partiti di maggioranza mostrino un più civile e lungimirante senso di responsabilità. Milano è Italia, motore di sviluppo. Ostacolare la crescita di Milano significa voler male all’Italia.

(immagine courtesy of Inexhibit)

Ancora una volta, come in ogni aprile, il mondo del design e dell’industria guarda a Milano e ne celebra un primato, quello di capitale internazionale dei progetti e dei prodotti del vivere bene, del “bello e ben fatto”. Un successo, della volontà e della capacità di rappresentazione. Una storia che viene da lontano. E si rinnova nel tempo. Una ventina d’anni fa, infatti, gli imprenditori italiani dell’arredamento decisero di non portare più i loro nuovi prodotti alla fiera di Colonia e di fare, invece, vivere e crescere proprio a Milano una grande fiera di settore, che superasse la rassegna tedesca. Rapidamente, ci sono riusciti. E anche quest’anno i dati del Salone del Mobile, nel cuore di una lunga Design Week, dicono che quel primato è riconfermato: 400mila visitatori (il 20% in più dell’edizione analoga del 2017, quella biennale con Euroluce), tre quarti dei quali dall’estero, da 160 paesi (molti i buyer cinesi), 2.350 imprese espositrici (un terzo internazionali), uno straordinario giro di manifestazioni, incontri, appuntamenti densi di cultura e di affari (il sistema dell’arredamento italiano ha un fatturato di 27,4 miliardi e stimola export per 14 miliardi). Voci, disegni, materiali innovativi e utilizzo nuovo dei materiali tradizionali (a cominciare dal legno), fantasia, concretezza industriale, qualità.

“Primi & belli nonostante tutti”, sintetizza Dario Di Vico, in un editoriale sul “Corriere della Sera” (14 aprile). Non per vanto (nello stile civile milanese c’è l’inclinazione a “stare schisci”). Ma per consapevolezza d’una grande forza che mette insieme creatività, manifattura, memoria e innovazione, in una sintesi originale e ancora profondamente competitiva.

Molti elementi concorrono a consolidare questo primato milanese. Innanzitutto, il suo essere, per antica tradizione, città aperta e inclusiva, come già ben sapeva il vescovo Ariberto, che in un suo editto del 1018, annunciava: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”. E poi, il legame sempre più stretto tra creatività e produzione industriale, in distretti e filiere produttive che vanno dalla Brianza al Nord Est, con importanti aree produttive anche in altre regioni italiane, sino alle Puglie e alla Basilicata) e che si raccordano con i luoghi cardine della progettazione, a cominciare dai Politecnici di Milano e Torino. E’, appunto, la forza di una “cultura politecnica” che tiene insieme progettazione e realizzazione industriale e fa crescere centri di ricerca e musei del design che tengono viva la memoria e stimolano l’innovazione (l’Associazione appena nata fra Triennale, Adi e Assolombarda, su stimolo del ministero dei Beni culturali, Comune di Milano e Regione Lombardia ne è eccellente testimonianza).

La centralità di Milano, in questo processo, è tutt’altro che campanilistica, ma testimonia un’attitudine a tessere relazioni nel quadro d’una larga conurbazione ricca di imprese e cultura diffusa, di luoghi produttivi e di flussi creativi e commerciali, che riguarda tutta la cosiddetta “regione A4” (l’autostrada che congiunge tutte le aree dal Nord Ovest al Nord Est) in raccordo con l’Emilia e la “dorsale adriatica”: uno straordinario cuore produttivo dell’Europa in cui cultura e “gusto del bello” italiano, industria e servizi stimolano ricchezza diffusa, inclusione sociale, sviluppo, qualità della vita.

Le parole “qualità” e “innovazione” ne tirano in ballo un’altra, ricerca. Le imprese investono in ricerca, su materiali, processi digitali legati alla produzione e ai servizi, forme e funzioni dei prodotti, processi produttivi ispirati alla sostenibilità, a una green economy che diventa rapidamente non solo scelta ambientale positiva, ma vero e proprio vantaggio competitivo nei confronti di mondi del consumo sempre più sofisticati ed esigenti. E le università e le scuole sono attive in un dialogo con le imprese che migliora gli stessi processi della conoscenza.

E’ un circuito virtuoso che va avanti da tempo. E che può fare ben sperare in un ulteriore sviluppo che dal cuore europeo settentrionale coinvolga l’intero Paese.

Ci sono altri dati, di cui tenere conto in questo quadro. Quelli dei brevetti. L’European Patent Office documenta che nel 2018 società e inventori italiani hanno presentato 4.399 richieste di brevetti (+0,9% rispetto al 2017), facendo dell’Italia il decimo paese nella classifica mondiale (i primi tre sono Usa, Germania e Giappone). Con 880 domande Milano si conferma capitale dell’innovazione, la Lombardia regione leader, con il 32% di tutte le richieste (in testa le grandi imprese come Pirelli, Solvay, Basell, Telecom, StMicroelectronics, Magneti Marelli).

Ecco il punto: la leva di ricerca e sviluppo. In cui Milano ha una sua centralità, nell’interesse generale dell’innovazione italiana.

Anche alla luce di questi dati appare non solo incomprensibile ma nettamente negativa per tutto il sistema Italia la scelta della Camera dei deputati, di approvare, con il voto determinante dei partiti di governo, Lega e M5S, una mozione sulla sede del Tribunale europeo dei Brevetti in cui la parola “Milano” viene sostituita da una più generica indicazione “Italia”.

Su quella sede del Tribunale, in uscita da Londra dopo la Brexit, è in corso una battaglia che coinvolge altre città europee. Milano, forte delle relazioni tra innovazione, impresa, università, centri di ricerca (i brevetti ne sono appunto testimonianza) è particolarmente qualificata per farcela. La scelta di Lega e Cinque Stelle di non sostenere apertamente Milano è dunque particolarmente miope e irresponsabile (s’intende creare difficoltà a una metropoli governata da un’amministrazione di centro sinistra?). E va in direzione opposta a tutte le buone scelte politiche del passato, quando i governi di centro destra e di centro sinistra sostennero la candidatura di Milano come sede dell’Expo guardando all’interesse nazionale e non al colore dell’amministrazione locale. C’è tempo perché il governo corregga il tiro e i partiti di maggioranza mostrino un più civile e lungimirante senso di responsabilità. Milano è Italia, motore di sviluppo. Ostacolare la crescita di Milano significa voler male all’Italia.

(immagine courtesy of Inexhibit)

Come non disorientarsi

Un libro racconta il percorso per non perdere la capacità di sapere cosa fare in un contesto in continuo movimento

Parola d’ordine: movimento. Vale per tutti. Anche per le imprese. E anche per chi le guida. Non la irrefrenabile tendenza a cambiare continuamente tutto, ma la consapevole necessità di essere sempre pronti a cambiare qualcosa. E’ così, ormai, anche il lavoro dei manager d’impresa diventato sempre più mobile, flessibile, variabile, con un orizzonte di breve periodo, con frequenti cambi di mansioni e aziende, o di attività, spesso a prescindere dalle qualità individuali. In un contesto di questo genere vince chi ha un metodo ma anche chi riesce ad apprendere dall’esperienza degli altri. Per questo serve leggere “Guida per manager disorientati. Dialogo su come fare innovazione” scritto da Danilo Villa e appena pubblicato.

Villa ha un lungo passato da direttore del personale e organizzazione di numerose aziende e scrive sulla base dell’esperienza acquisita offrendo a chi legge prospettive e possibili scenari, oltre che modalità e strumenti operativi per orientarsi nelle scelte e anticipare il fabbisogno di nuove competenze.

Dopo aver preso in considerazione i cambiamenti della domanda e dell’offerta, Villa approfondisce i “fronti aperti” con i quali le imprese devono fare i conti per poi passare a descrivere le relazioni fra le diverse tipologie di organizzazione per arrivare a delineare una “Matrice della cultura d’impresa”. Una parte importante del libro è quindi dedicata ai principi operativi e alla definizione del concetto di “organizzazione che apprende”.

L’indicazione generale che deriva dal libro (poco più di un centinaio di pagine che scorrono via veloci), è che davanti al cambiamento epocale dettato dalla trasformazione dei settori, delle tecnologie e delle organizzazioni, i manager devono riuscire a tenere insieme l’equipaggio e tirare fuori il meglio da ognuno, per proseguire nel viaggio alla ricerca della soddisfazione del cliente.

Quanto scritto da Villa ha un tratto importante: è un racconto che porta dentro una grande esperienza umana, ed è per questo probabilmente che si legge d’un fiato.

Guida per manager disorientati. Dialogo su come fare innovazione

Danilo Villa

Franco Angeli, 2019

Un libro racconta il percorso per non perdere la capacità di sapere cosa fare in un contesto in continuo movimento

Parola d’ordine: movimento. Vale per tutti. Anche per le imprese. E anche per chi le guida. Non la irrefrenabile tendenza a cambiare continuamente tutto, ma la consapevole necessità di essere sempre pronti a cambiare qualcosa. E’ così, ormai, anche il lavoro dei manager d’impresa diventato sempre più mobile, flessibile, variabile, con un orizzonte di breve periodo, con frequenti cambi di mansioni e aziende, o di attività, spesso a prescindere dalle qualità individuali. In un contesto di questo genere vince chi ha un metodo ma anche chi riesce ad apprendere dall’esperienza degli altri. Per questo serve leggere “Guida per manager disorientati. Dialogo su come fare innovazione” scritto da Danilo Villa e appena pubblicato.

Villa ha un lungo passato da direttore del personale e organizzazione di numerose aziende e scrive sulla base dell’esperienza acquisita offrendo a chi legge prospettive e possibili scenari, oltre che modalità e strumenti operativi per orientarsi nelle scelte e anticipare il fabbisogno di nuove competenze.

Dopo aver preso in considerazione i cambiamenti della domanda e dell’offerta, Villa approfondisce i “fronti aperti” con i quali le imprese devono fare i conti per poi passare a descrivere le relazioni fra le diverse tipologie di organizzazione per arrivare a delineare una “Matrice della cultura d’impresa”. Una parte importante del libro è quindi dedicata ai principi operativi e alla definizione del concetto di “organizzazione che apprende”.

L’indicazione generale che deriva dal libro (poco più di un centinaio di pagine che scorrono via veloci), è che davanti al cambiamento epocale dettato dalla trasformazione dei settori, delle tecnologie e delle organizzazioni, i manager devono riuscire a tenere insieme l’equipaggio e tirare fuori il meglio da ognuno, per proseguire nel viaggio alla ricerca della soddisfazione del cliente.

Quanto scritto da Villa ha un tratto importante: è un racconto che porta dentro una grande esperienza umana, ed è per questo probabilmente che si legge d’un fiato.

Guida per manager disorientati. Dialogo su come fare innovazione

Danilo Villa

Franco Angeli, 2019

Rigore d’impresa

Un libro appena tradotto in Italia propone una strada da percorrere per creare aziende con un futuro solido

 L’avvio di un’impresa è cruciale per il suo futuro. L’indicazione è chiara, ed è provata da tanti casi concreti di buone idee imprenditoriali finite male e di alcune, invece, che si sono trasformate in aziende solide. E’ il tema delle cosiddette startup quello che occorre comprendere sempre meglio e a fondo. Dal punto di vista operativo, naturalmente. Nella vasta raccolta delle “ricette” di management per startup, tuttavia, occorrono anche guide che riescano ad unire pratica e teoria in un tutt’uno fruibile. E’ quello che riesce a fare “La disciplina dell’imprenditore” di Bill Aulet appena tradotto in Italia. Il libro è tratto dalle lezioni dell’autore svolte al MIT di Boston e fornisce un buon schema per iniziare con il passo giusto un’impresa (oppure per riordinarne un’altra).

Il metodo proposto da Aulet consiste nel valutare se un cliente può trarre beneficio dal prodotto offerto dall’azienda. Tutto viene concretizzato in sei domande fondamentali: chi è il tuo cliente? cosa puoi fare per lui? come acquista il tuo prodotto? come realizzi profitto col prodotto? come lo progetti e lo costruisci? come puoi estendere la tua impresa? In totale le domande definiscono un percorso in 24 passi che costruiscono un “piano d’azione” per aiutare l’imprenditore a raggiungere l’obiettivo o a fallire più rapidamente, nel caso il fallimento sia l’esito inevitabile del percorso.

Aulet non scrive però un libro pensato come una generica guida all’imprenditorialità, ma come un’introduzione alle corretta realizzazione di imprese innovative che riescano a mettere utilmente insieme invenzione e commercializzazione.

Scritto in modo diretto e concreto, il libro di Aulet si conclude con una breve postfazione che avverte: “Un business è molto di più di 24 passi”. Una conclusione che è una ripartenza, lo stesso Aulet infatti spiega come, una volta avviata con successo l’attività, occorre aggiungervi subito dell’altro. Ad iniziare dalla costruzione di una “cultura aziendale”. Un messaggio chiaro per indicare come l’impresa non sia solo calcolo.

La disciplina dell’imprenditore

Bill Aulet

Franco Angeli, 2019

Un libro appena tradotto in Italia propone una strada da percorrere per creare aziende con un futuro solido

 L’avvio di un’impresa è cruciale per il suo futuro. L’indicazione è chiara, ed è provata da tanti casi concreti di buone idee imprenditoriali finite male e di alcune, invece, che si sono trasformate in aziende solide. E’ il tema delle cosiddette startup quello che occorre comprendere sempre meglio e a fondo. Dal punto di vista operativo, naturalmente. Nella vasta raccolta delle “ricette” di management per startup, tuttavia, occorrono anche guide che riescano ad unire pratica e teoria in un tutt’uno fruibile. E’ quello che riesce a fare “La disciplina dell’imprenditore” di Bill Aulet appena tradotto in Italia. Il libro è tratto dalle lezioni dell’autore svolte al MIT di Boston e fornisce un buon schema per iniziare con il passo giusto un’impresa (oppure per riordinarne un’altra).

Il metodo proposto da Aulet consiste nel valutare se un cliente può trarre beneficio dal prodotto offerto dall’azienda. Tutto viene concretizzato in sei domande fondamentali: chi è il tuo cliente? cosa puoi fare per lui? come acquista il tuo prodotto? come realizzi profitto col prodotto? come lo progetti e lo costruisci? come puoi estendere la tua impresa? In totale le domande definiscono un percorso in 24 passi che costruiscono un “piano d’azione” per aiutare l’imprenditore a raggiungere l’obiettivo o a fallire più rapidamente, nel caso il fallimento sia l’esito inevitabile del percorso.

Aulet non scrive però un libro pensato come una generica guida all’imprenditorialità, ma come un’introduzione alle corretta realizzazione di imprese innovative che riescano a mettere utilmente insieme invenzione e commercializzazione.

Scritto in modo diretto e concreto, il libro di Aulet si conclude con una breve postfazione che avverte: “Un business è molto di più di 24 passi”. Una conclusione che è una ripartenza, lo stesso Aulet infatti spiega come, una volta avviata con successo l’attività, occorre aggiungervi subito dell’altro. Ad iniziare dalla costruzione di una “cultura aziendale”. Un messaggio chiaro per indicare come l’impresa non sia solo calcolo.

La disciplina dell’imprenditore

Bill Aulet

Franco Angeli, 2019

Cambiare con l’uomo al centro

Un articolo apparso sull’American Journal of Economics and Business Management affronta il tema della pianificazione di marketing  con un’attenzione particolare al cliente

 

Un metodo per affrontare la pianificazione della produzione e, di fatto, l’intera costruzione aziendale. Un metodo con al centro l’uomo. L’indicazione di porre al centro l’uomo nella pianificazione d’azienda, è solo in apparenza scontata. Anche nelle imprese che cercano di evolvere seguendo una cultura del produrre non semplicemente meccanicistica. Serve la diffusione di un pensiero manageriale più complesso di quello semplicemente dedicato alla ottimale chiusura di bilancio. Interventi come “Design Thinking as a New Method For Solving Marketing Challenges” apparso poco tempo fa sull’American Journal of Economics and Business Management e scritto da Klepikova Sofya Evgenievna (della Siberian State University of Telecommunications and Information Sciences, Novosibirsk, Russia), possono essere utili letture per comprendere meglio cosa occorra fare.

L’articolo è dedicato al design thinking cioè ad un metodo per risolvere i problemi di marketing  di fronte ai quali le imprese si possono trovare. Il design thinking è un processo centrato sull’uomo che – spiega l’autrice -, permette ai professionisti del marketing di raggiungere un livello più profondo comprensione del consumatore, ponendo il cliente al centro. Il design thinking è quindi una tecnica di ricerca di soluzioni che consiste di 5 fasi: comprensione del problema, formulazione del problema, sviluppo di idee per risolverlo, creazione di “prototipi” in grado di provare le soluzioni, avvio di test  sui prototipi e scelta del migliore. Il risultato finale consiste nel fatto che l’utente riceve non solo un prodotto conveniente adattato alle esigenze moderne, ma anche una soluzione a importanti problemi di vita. L’azienda, in cambio, ne ha un miglioramento evidente dei suoi risultati di bilancio. Punto cruciale del design thinking consiste nella centralità del cliente, sia interna che esterna, nell’uso oculato dei “ritorni” di informazione e nell’applicazione rigorosa di una cultura openminded, cioè aperta al nuovo, all’altro e alle sollecitazioni provenienti dall’esterno.

Sofya Evgenievna percorre quindi il design thinking in un intervento breve e lucido che ha il gran pregio di fissare in poche pagine la sintesi di un processo di pianificazione che deve essere concretizzato in ogni caso d’azienda per trovare  correzioni e conferme.

Design Thinking as a New Method For Solving Marketing Challenges

Klepikova Sofya Evgenievna (Siberian State University of Telecommunications and Information Sciences, Novosibirsk, Russia)

American Journal of Economics and Business Management, Vol. 2, 2019

Un articolo apparso sull’American Journal of Economics and Business Management affronta il tema della pianificazione di marketing  con un’attenzione particolare al cliente

 

Un metodo per affrontare la pianificazione della produzione e, di fatto, l’intera costruzione aziendale. Un metodo con al centro l’uomo. L’indicazione di porre al centro l’uomo nella pianificazione d’azienda, è solo in apparenza scontata. Anche nelle imprese che cercano di evolvere seguendo una cultura del produrre non semplicemente meccanicistica. Serve la diffusione di un pensiero manageriale più complesso di quello semplicemente dedicato alla ottimale chiusura di bilancio. Interventi come “Design Thinking as a New Method For Solving Marketing Challenges” apparso poco tempo fa sull’American Journal of Economics and Business Management e scritto da Klepikova Sofya Evgenievna (della Siberian State University of Telecommunications and Information Sciences, Novosibirsk, Russia), possono essere utili letture per comprendere meglio cosa occorra fare.

L’articolo è dedicato al design thinking cioè ad un metodo per risolvere i problemi di marketing  di fronte ai quali le imprese si possono trovare. Il design thinking è un processo centrato sull’uomo che – spiega l’autrice -, permette ai professionisti del marketing di raggiungere un livello più profondo comprensione del consumatore, ponendo il cliente al centro. Il design thinking è quindi una tecnica di ricerca di soluzioni che consiste di 5 fasi: comprensione del problema, formulazione del problema, sviluppo di idee per risolverlo, creazione di “prototipi” in grado di provare le soluzioni, avvio di test  sui prototipi e scelta del migliore. Il risultato finale consiste nel fatto che l’utente riceve non solo un prodotto conveniente adattato alle esigenze moderne, ma anche una soluzione a importanti problemi di vita. L’azienda, in cambio, ne ha un miglioramento evidente dei suoi risultati di bilancio. Punto cruciale del design thinking consiste nella centralità del cliente, sia interna che esterna, nell’uso oculato dei “ritorni” di informazione e nell’applicazione rigorosa di una cultura openminded, cioè aperta al nuovo, all’altro e alle sollecitazioni provenienti dall’esterno.

Sofya Evgenievna percorre quindi il design thinking in un intervento breve e lucido che ha il gran pregio di fissare in poche pagine la sintesi di un processo di pianificazione che deve essere concretizzato in ogni caso d’azienda per trovare  correzioni e conferme.

Design Thinking as a New Method For Solving Marketing Challenges

Klepikova Sofya Evgenievna (Siberian State University of Telecommunications and Information Sciences, Novosibirsk, Russia)

American Journal of Economics and Business Management, Vol. 2, 2019

Europa, ecco il buon esempio di Spagna e Portogallo tra equilibrio dei conti pubblici e crescita economica

Europa, buoni esempi mediterranei. La Spagna cresciuta del 2,6% nel 2018 (il triplo, rispetto allo stentato 0,9% dell’Italia) e con la previsione di crescere del 2,2% nel 2019 (contro una crescita zero o sottozero dell’Italia). E il Portogallo, con un Pil in crescita del 2% nel 2018 (dopo un buon 2,7% del 2017) e con una stima di un altro 1,5% nel 2019. Sono entrambe economie fragili, naturalmente. Vengono fuori da una stagione di pesante recessione, con un severo lavoro di aggiustamento dei conti pubblici, tutt’altro che privo di costi sociali. Risentono di arretratezze produttive e di parziale assenza dai settori strategici dell’economia digitale. Eppure cambiano, crescono, innovano, attraggono investimenti, s’impegnano a costruire nuovi equilibri economici e sociali. E in tempi difficili di crisi e contestazioni verso la Ue, scelgono di restare chiaramente legate alle regole e alle strategie di Bruxelles, come cardine dell’impegno di risanamento e rilancio, invece che indulgere a populismi anti-euro e a sovranismi senza prospettive.

Sino a pochi anni fa erano considerati un problema per l’Europa, uno dei quattro “Pigs”, acronimo dall’eco volgare per indicare appunto Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, la deriva mediterranea, i focolai di crisi che minacciavano la stabilità della Ue, il cattivo esempio della sponda Sud. Adesso quella sigla non è più d’attualità nel discorso pubblico europeo. Spagna e Portogallo non hanno conti pubblici a rischio, non alimentano polemiche rozze contro la moneta unica, non occupano il dibattito politico contestando “i burocrati” di Bruxelles e, soprattutto, le loro economie sono in netta ripresa anche in questi ultimi mesi difficili di rallentamento delle economie globali. La Grecia sta faticosamente camminando lungo la strada del risanamento, archiviata la stagione velleitaria ed estremistica di Tsipras-Varoufakis: l’ex ministro dell’Economia, fuori dai giochi politici, se ne va in giro a fare conferenze, il premier Tsipras, dopo aver condotto il suo Paese sull’orlo della Grexit e del fallimento, ora è interprete di politiche responsabili.

Resta aperto il caso Italia: nessuna crescita, deficit pubblico in allarmante aumento verso le soglie di tolleranza ex Maastricht, debito pubblico ben oltre il 130% del Pil e senza segnali credibili di riduzione E spread molto maggiore di quelli di Spagna e Portogallo, sempre al di sopra di quota 250, dunque con ricadute sul costo parecchio più elevato per finanziare il debito. In tempi, appunto, di crisi globale e con un governo che fa delle polemiche con la Ue un fondamento d’una campagna elettorale dai toni accesi, l’Italia è l’anello debole dell’Europa. Un problema per noi e per tutta l’area dell’euro.

Vale la pena considerare alcuni altri dati (“Il Sole24Ore” sta dedicando proprio in queste settimane accurati reportage all’Europa mediterranea). Gli investimenti internazionali, per esempio: la Spagna (dati dell’Ufficio studi del Banco Santander) ha uno stock di investimenti esteri di 650 miliardi di dollari), equivalenti al 50% del Pil, rispetto al 30% di Germania e Francia e al 20% dell’Italia. Il deficit spagnolo è sceso al 2,6% del Pil,  uno dei più alti della Ue, ma caratterizzato da un percorso virtuoso di riduzione che dovrebbe portare, nei prossimi mesi, alla conclusione della procedura Ue per deficit eccessivo. Il debito è in costante calo, al 97,2% del Pil alla fine del 2018, quasi un punto in meno di quello del 2017. Basso lo spread, dunque, un terzo di quello italiano.

Risanamento dei conti pubblici e investimenti ripresa sono i cardini d’una politica economica di successo. Esportazioni e attrazione di capitali internazionali. E stimoli alla domanda interna. Tutto sempre dentro i solidi confini dell’Europa e dell’euro. Le scelte politiche di fondo sono state condivise, dai governi che si sono succeduti nel tempo, i popolari e poi i socialisti, pur in presenza di fragilità delle alleanze politiche, ma anche di gravi tensioni (l’autonomismo catalano estremizzato, con le dure polemiche tra Barcellona e Madrid). E, nonostante limiti e contraddizioni, stanno pagando in termini di equilibri, ripresa, riavvio del benessere.

Anche il Portogallo ha dati su cui riflettere. Il deficit è appena allo 0,5% del Pil, sintomo d’una ottima condizione dei conti pubblici che libera risorse per investimenti (nel 2017 quel deficit era al 3%, dopo aver toccato l’11% al culmine della Grande Crisi). Il debito resta sopra il 120% del Pil, ma l’avanzo primario che si sta generando permette di nutrire fiducia in un percorso chiaro di rientro. “Il Portogallo è riuscito a conquistare un livello di credibilità che non avevamo mai avuto”, sostiene Mario Centeno, ministro delle Finanze del governo guidato dal socialista Antonio Costa e, dal 2018, presidente dell’Eurogruppo di Bruxelles (l’organismo di coordinamento di tutti i ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’euro). Insiste Centeno: “Abbiamo riavviato un meccanismo virtuoso che, partendo dalla crescita, dai conti pubblici e dalla conseguente credibilità, ha moltiplicato la fiducia dei mercati che si è tradotta in una riduzione dei tassi d’interesse ai minimi storici”.

Anche a Lisbona, i governi conservatore prima e poi, dal 2016, socialista hanno condiviso i percorsi di risanamento e di rilancio, con uno sguardo lungimirante sul primato degli interessi del Portogallo e non della propaganda elettorale. Nessun populismo, nessun sovranismo. E intelligente legame con Bruxelles, compreso il buon utilizzo dei fondi europei a disposizione (proprio quelli che l’Italia, soprattutto nelle regioni del Sud, si dimostra incapace di usare).

Commenta Carlo Cottarelli, che da direttore esecutivo del Fondo Monetario, ha monitorato a lungo la situazione portoghese (“Il Sole24Ore”, 29 marzo): “Il governo Costa ha sempre confermato il suo fermo impegno a formulare e implementare politiche economiche e fiscali che promuovono una crescita sostenuta ed equa, in un contesto di consolidamento fiscale”, promuovendo “un aggiustamento fiscale del tutto in linea con gli impegni internazionali”, soprattutto con “un controllo della spesa, eliminando gli sprechi, com’è necessario in un paese con un elevato debito pubblico”.

Gli effetti: due paesi in crescita, nel contesto di un’Europa che li considera esempi positivi.

La loro lezione mediterranea potrebbe far bene all’Italia.

Europa, buoni esempi mediterranei. La Spagna cresciuta del 2,6% nel 2018 (il triplo, rispetto allo stentato 0,9% dell’Italia) e con la previsione di crescere del 2,2% nel 2019 (contro una crescita zero o sottozero dell’Italia). E il Portogallo, con un Pil in crescita del 2% nel 2018 (dopo un buon 2,7% del 2017) e con una stima di un altro 1,5% nel 2019. Sono entrambe economie fragili, naturalmente. Vengono fuori da una stagione di pesante recessione, con un severo lavoro di aggiustamento dei conti pubblici, tutt’altro che privo di costi sociali. Risentono di arretratezze produttive e di parziale assenza dai settori strategici dell’economia digitale. Eppure cambiano, crescono, innovano, attraggono investimenti, s’impegnano a costruire nuovi equilibri economici e sociali. E in tempi difficili di crisi e contestazioni verso la Ue, scelgono di restare chiaramente legate alle regole e alle strategie di Bruxelles, come cardine dell’impegno di risanamento e rilancio, invece che indulgere a populismi anti-euro e a sovranismi senza prospettive.

Sino a pochi anni fa erano considerati un problema per l’Europa, uno dei quattro “Pigs”, acronimo dall’eco volgare per indicare appunto Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, la deriva mediterranea, i focolai di crisi che minacciavano la stabilità della Ue, il cattivo esempio della sponda Sud. Adesso quella sigla non è più d’attualità nel discorso pubblico europeo. Spagna e Portogallo non hanno conti pubblici a rischio, non alimentano polemiche rozze contro la moneta unica, non occupano il dibattito politico contestando “i burocrati” di Bruxelles e, soprattutto, le loro economie sono in netta ripresa anche in questi ultimi mesi difficili di rallentamento delle economie globali. La Grecia sta faticosamente camminando lungo la strada del risanamento, archiviata la stagione velleitaria ed estremistica di Tsipras-Varoufakis: l’ex ministro dell’Economia, fuori dai giochi politici, se ne va in giro a fare conferenze, il premier Tsipras, dopo aver condotto il suo Paese sull’orlo della Grexit e del fallimento, ora è interprete di politiche responsabili.

Resta aperto il caso Italia: nessuna crescita, deficit pubblico in allarmante aumento verso le soglie di tolleranza ex Maastricht, debito pubblico ben oltre il 130% del Pil e senza segnali credibili di riduzione E spread molto maggiore di quelli di Spagna e Portogallo, sempre al di sopra di quota 250, dunque con ricadute sul costo parecchio più elevato per finanziare il debito. In tempi, appunto, di crisi globale e con un governo che fa delle polemiche con la Ue un fondamento d’una campagna elettorale dai toni accesi, l’Italia è l’anello debole dell’Europa. Un problema per noi e per tutta l’area dell’euro.

Vale la pena considerare alcuni altri dati (“Il Sole24Ore” sta dedicando proprio in queste settimane accurati reportage all’Europa mediterranea). Gli investimenti internazionali, per esempio: la Spagna (dati dell’Ufficio studi del Banco Santander) ha uno stock di investimenti esteri di 650 miliardi di dollari), equivalenti al 50% del Pil, rispetto al 30% di Germania e Francia e al 20% dell’Italia. Il deficit spagnolo è sceso al 2,6% del Pil,  uno dei più alti della Ue, ma caratterizzato da un percorso virtuoso di riduzione che dovrebbe portare, nei prossimi mesi, alla conclusione della procedura Ue per deficit eccessivo. Il debito è in costante calo, al 97,2% del Pil alla fine del 2018, quasi un punto in meno di quello del 2017. Basso lo spread, dunque, un terzo di quello italiano.

Risanamento dei conti pubblici e investimenti ripresa sono i cardini d’una politica economica di successo. Esportazioni e attrazione di capitali internazionali. E stimoli alla domanda interna. Tutto sempre dentro i solidi confini dell’Europa e dell’euro. Le scelte politiche di fondo sono state condivise, dai governi che si sono succeduti nel tempo, i popolari e poi i socialisti, pur in presenza di fragilità delle alleanze politiche, ma anche di gravi tensioni (l’autonomismo catalano estremizzato, con le dure polemiche tra Barcellona e Madrid). E, nonostante limiti e contraddizioni, stanno pagando in termini di equilibri, ripresa, riavvio del benessere.

Anche il Portogallo ha dati su cui riflettere. Il deficit è appena allo 0,5% del Pil, sintomo d’una ottima condizione dei conti pubblici che libera risorse per investimenti (nel 2017 quel deficit era al 3%, dopo aver toccato l’11% al culmine della Grande Crisi). Il debito resta sopra il 120% del Pil, ma l’avanzo primario che si sta generando permette di nutrire fiducia in un percorso chiaro di rientro. “Il Portogallo è riuscito a conquistare un livello di credibilità che non avevamo mai avuto”, sostiene Mario Centeno, ministro delle Finanze del governo guidato dal socialista Antonio Costa e, dal 2018, presidente dell’Eurogruppo di Bruxelles (l’organismo di coordinamento di tutti i ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’euro). Insiste Centeno: “Abbiamo riavviato un meccanismo virtuoso che, partendo dalla crescita, dai conti pubblici e dalla conseguente credibilità, ha moltiplicato la fiducia dei mercati che si è tradotta in una riduzione dei tassi d’interesse ai minimi storici”.

Anche a Lisbona, i governi conservatore prima e poi, dal 2016, socialista hanno condiviso i percorsi di risanamento e di rilancio, con uno sguardo lungimirante sul primato degli interessi del Portogallo e non della propaganda elettorale. Nessun populismo, nessun sovranismo. E intelligente legame con Bruxelles, compreso il buon utilizzo dei fondi europei a disposizione (proprio quelli che l’Italia, soprattutto nelle regioni del Sud, si dimostra incapace di usare).

Commenta Carlo Cottarelli, che da direttore esecutivo del Fondo Monetario, ha monitorato a lungo la situazione portoghese (“Il Sole24Ore”, 29 marzo): “Il governo Costa ha sempre confermato il suo fermo impegno a formulare e implementare politiche economiche e fiscali che promuovono una crescita sostenuta ed equa, in un contesto di consolidamento fiscale”, promuovendo “un aggiustamento fiscale del tutto in linea con gli impegni internazionali”, soprattutto con “un controllo della spesa, eliminando gli sprechi, com’è necessario in un paese con un elevato debito pubblico”.

Gli effetti: due paesi in crescita, nel contesto di un’Europa che li considera esempi positivi.

La loro lezione mediterranea potrebbe far bene all’Italia.

Innovare con passione. Fondazione Pirelli al National Geographic Festival delle Scienze di Roma

Si inaugura oggi presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma la XIV edizione del National Geographic Festival delle Scienze. Nell’ambito della manifestazione, la Fondazione Pirelli è presente attraverso la partecipazione alla mostra “Inside Invention. Dentro la creatività italiana” curata da Vittorio Marchis. Porta il titolo “Pirelli, la passione per la gomma. Una lunga storia di impegno e innovazione” il percorso espositivo che la Fondazione Pirelli propone al pubblico: un racconto sull’evoluzione del pneumatico attraverso i suoi progressi scientifici e tecnologici, dai primi brevetti di fine Ottocento fino alle gomme “intelligenti” di oggi passando per il rivoluzionario Cinturato e per il concetto di “ribassato”. Nel corso dei sette giorni di apertura della mostra  – da oggi a domenica 14 aprile –  i visitatori, tra cui sono previsti circa 18.000 studenti provenienti da scuole di diverso ordine e grado, potranno dunque ripercorrere le tappe salienti nella storia dei pneumatici della P Lunga attraverso l’esposizione di sezioni di coperture, brevetti, cataloghi, manifesti pubblicitari e fotografie provenienti dall’Archivio Storico Pirelli.

Si inaugura oggi presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma la XIV edizione del National Geographic Festival delle Scienze. Nell’ambito della manifestazione, la Fondazione Pirelli è presente attraverso la partecipazione alla mostra “Inside Invention. Dentro la creatività italiana” curata da Vittorio Marchis. Porta il titolo “Pirelli, la passione per la gomma. Una lunga storia di impegno e innovazione” il percorso espositivo che la Fondazione Pirelli propone al pubblico: un racconto sull’evoluzione del pneumatico attraverso i suoi progressi scientifici e tecnologici, dai primi brevetti di fine Ottocento fino alle gomme “intelligenti” di oggi passando per il rivoluzionario Cinturato e per il concetto di “ribassato”. Nel corso dei sette giorni di apertura della mostra  – da oggi a domenica 14 aprile –  i visitatori, tra cui sono previsti circa 18.000 studenti provenienti da scuole di diverso ordine e grado, potranno dunque ripercorrere le tappe salienti nella storia dei pneumatici della P Lunga attraverso l’esposizione di sezioni di coperture, brevetti, cataloghi, manifesti pubblicitari e fotografie provenienti dall’Archivio Storico Pirelli.

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La cultura dell’impresa 4.0

Analizzati aspetti operativi e di metodo dell’attuale innovazione tecnologica

 

Imprese di fronte a quelle che nel comune parlare si chiamano “sfide tecnologiche”. Storia vecchia eppure attualissima. L’innovazione – in altri termini -, che è sempre esistita e che nel corso dei secoli ha avuto accelerazioni e frenate e che oggi, fra i tanti modi, viene indicata oggi come Impresa 4.0. Le risposte al nuovo sono importanti, ed è anche importante analizzarne il senso e la portata. E’ questione di possibilità di sviluppo, così come di cultura del produrre che cambia. Per questo è interessante leggere “Le nuove sfide tecnologiche e le principali risposte della politica industriale”, studio scritto a quattro mani da Marco Calabrò e da Paolo Carnazza (della Direzione Generale per la politica industriale, la competitività e le piccole, medie imprese – Ministero dello Sviluppo economico) e presentato pochi giorni fa al XVII Workshop annuale organizzato dalla Società italiana di Economia e Politica industriale.

Obiettivo dell’intervento è quello di analizzare il Piano Nazionale Impresa 4.0, presentato nel settembre 2016 dal Ministro dello Sviluppo economico, “evidenziandone le linee direttrici e finalità e le principali misure che hanno avuto attuazione nelle tre successive leggi di bilancio 2017-2019”. Successivamente l’articolo fornisce alcune “stime sull’impatto del Piano sotto il profilo macroeconomico e in relazione ai giudizi espressi da un campione di imprese sulla base di un’indagine qualitativa svolta dall’ISTAT”. Successivamente, altri risultati di Impresa 4.0 vengono studiati attraverso un’indagine realizzata dal MET per conto del MiSE, tra il mese di ottobre 2017 e il mese di febbraio del 2018.

Tutto è funzionale al tentativo di capire quali siano state le effettive risposte del sistema industriale italiano ad un intervento così complesso come Impresa 4.0.

E le conclusioni alle quali Calabrò e Carnazza arrivano sono diverse. Al di là della valutazione positiva degli interventi effettuati, emergono anche aspetti nuovi nelle relazioni fra sistema industriale e innovazione che devono essere studiati con grande attenzione. In particolare, emergono cinque temi “critici”: la sicurezza informatica, la  privacy, nuove questioni etiche, nuove forme di alienazione e il tema della diseguaglianza. Si tratta di altrettanti profili di studio che vanno di pari passo con il tratto forse più determinante di Impresa 4.0: il significato profondamente culturale di quanto sta avvenendo.

Le nuove sfide tecnologiche e le principali risposte della politica industriale

Marco Calabrò, Paolo Carnazza

XVII Workshop annuale organizzato dalla Società italiana di Economia e Politica industriale (Roma, 31 gennaio/1 febbraio 2019)

 

Analizzati aspetti operativi e di metodo dell’attuale innovazione tecnologica

 

Imprese di fronte a quelle che nel comune parlare si chiamano “sfide tecnologiche”. Storia vecchia eppure attualissima. L’innovazione – in altri termini -, che è sempre esistita e che nel corso dei secoli ha avuto accelerazioni e frenate e che oggi, fra i tanti modi, viene indicata oggi come Impresa 4.0. Le risposte al nuovo sono importanti, ed è anche importante analizzarne il senso e la portata. E’ questione di possibilità di sviluppo, così come di cultura del produrre che cambia. Per questo è interessante leggere “Le nuove sfide tecnologiche e le principali risposte della politica industriale”, studio scritto a quattro mani da Marco Calabrò e da Paolo Carnazza (della Direzione Generale per la politica industriale, la competitività e le piccole, medie imprese – Ministero dello Sviluppo economico) e presentato pochi giorni fa al XVII Workshop annuale organizzato dalla Società italiana di Economia e Politica industriale.

Obiettivo dell’intervento è quello di analizzare il Piano Nazionale Impresa 4.0, presentato nel settembre 2016 dal Ministro dello Sviluppo economico, “evidenziandone le linee direttrici e finalità e le principali misure che hanno avuto attuazione nelle tre successive leggi di bilancio 2017-2019”. Successivamente l’articolo fornisce alcune “stime sull’impatto del Piano sotto il profilo macroeconomico e in relazione ai giudizi espressi da un campione di imprese sulla base di un’indagine qualitativa svolta dall’ISTAT”. Successivamente, altri risultati di Impresa 4.0 vengono studiati attraverso un’indagine realizzata dal MET per conto del MiSE, tra il mese di ottobre 2017 e il mese di febbraio del 2018.

Tutto è funzionale al tentativo di capire quali siano state le effettive risposte del sistema industriale italiano ad un intervento così complesso come Impresa 4.0.

E le conclusioni alle quali Calabrò e Carnazza arrivano sono diverse. Al di là della valutazione positiva degli interventi effettuati, emergono anche aspetti nuovi nelle relazioni fra sistema industriale e innovazione che devono essere studiati con grande attenzione. In particolare, emergono cinque temi “critici”: la sicurezza informatica, la  privacy, nuove questioni etiche, nuove forme di alienazione e il tema della diseguaglianza. Si tratta di altrettanti profili di studio che vanno di pari passo con il tratto forse più determinante di Impresa 4.0: il significato profondamente culturale di quanto sta avvenendo.

Le nuove sfide tecnologiche e le principali risposte della politica industriale

Marco Calabrò, Paolo Carnazza

XVII Workshop annuale organizzato dalla Società italiana di Economia e Politica industriale (Roma, 31 gennaio/1 febbraio 2019)

 

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