Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Cambiamento costante

Un libro affronta l’approccio “coevolutivo” utile per rispondere con efficace alla sollecitazioni in arrivo dal contesto nel quale le imprese si muovono

Cambiamento costante. E’ apparentemente una contraddizione in termini quella che vivono molte imprese d’oggi: sottoposte ad una sola circostanza che non muta, il cambiamento appunto. Ed è invece proprio di fronte al cambiare dei vincoli e degli scenari entro i quali le aziende si muovono, che si giocano le possibilità di sviluppo di molte di queste. Vince chi riesce a cavalcare meglio l’onda che – per definizione – non sta mai ferma.

Leggere “L’impresa coevolutiva. Le quattro sfide del management” di Daniela Bandera è buona cosa per chi voglia tentare di capire di più del sistema entro il quale le imprese si muovono e, soprattutto, di come queste devono muoversi. Bandera è una sociologa delle organizzazioni, co-fondatrice alla fine degli anni Ottanta dell’Istituto di Ricerche Sociali e di Marketing Nomesis e ricercatrice e consulente strategica di imprese e istituzioni ed ha quindi un punto di forza: guarda alle organizzazioni della produzione non solo dal punto di vista teorico, ma anche da quello pratico e quindi si propone di raccontare come affrontare i continui cambiamenti che destabilizzano l’organizzazione e perseguire obiettivi sempre più difficili da realizzare.

L’indicazione che viene data è sintetizzata nell’approccio “coevolutivo”, che nasce da una teoria che combina suggestioni provenienti dalle diverse scuole della sociologia organizzativa ma anche da altre scienze e discipline. Il nocciolo del sistema coevolutivo è la capacità dell’organizzazione della produzione di adattarsi e, simultaneamente, influenzare l’ambiente organizzativo, creando un contesto in cui fare impresa sia più facile. Percorso non semplice per le organizzazioni della produzione e per i loro manager che, proprio per questo, sono posti davanti a quattro sfide: il cambiamento continuo, un nuovo rapporto con il mercato, la creazione di un’intelligenza collettiva, la necessità di una diversa leadership. E’ da tutto questo, fra l’altro, che nasce l’acronimo Smart che racchiude le parole chiave dell’organizzazione coevolutiva: socio-sensibile, meritocratica, abilitante, riflessiva e trasformativa.

Il libro di Daniela Bandera  – che prima analizza la situazione e poi approfondisce le sfide -, non è certamente l’unico sul tema delle sfide fra imprese e ambiente che cambia, e non è certo la soluzione e tutte le questioni sul tavolo del manager, ma costituisce una buona lettura per chi voglia capire meglio come affrontare un mondo caratterizzato da una sola costante: il cambiamento, appunto

L’impresa coevolutiva. Le quattro sfide del management

Daniela Bandera

Franco Angeli, 2019

Un libro affronta l’approccio “coevolutivo” utile per rispondere con efficace alla sollecitazioni in arrivo dal contesto nel quale le imprese si muovono

Cambiamento costante. E’ apparentemente una contraddizione in termini quella che vivono molte imprese d’oggi: sottoposte ad una sola circostanza che non muta, il cambiamento appunto. Ed è invece proprio di fronte al cambiare dei vincoli e degli scenari entro i quali le aziende si muovono, che si giocano le possibilità di sviluppo di molte di queste. Vince chi riesce a cavalcare meglio l’onda che – per definizione – non sta mai ferma.

Leggere “L’impresa coevolutiva. Le quattro sfide del management” di Daniela Bandera è buona cosa per chi voglia tentare di capire di più del sistema entro il quale le imprese si muovono e, soprattutto, di come queste devono muoversi. Bandera è una sociologa delle organizzazioni, co-fondatrice alla fine degli anni Ottanta dell’Istituto di Ricerche Sociali e di Marketing Nomesis e ricercatrice e consulente strategica di imprese e istituzioni ed ha quindi un punto di forza: guarda alle organizzazioni della produzione non solo dal punto di vista teorico, ma anche da quello pratico e quindi si propone di raccontare come affrontare i continui cambiamenti che destabilizzano l’organizzazione e perseguire obiettivi sempre più difficili da realizzare.

L’indicazione che viene data è sintetizzata nell’approccio “coevolutivo”, che nasce da una teoria che combina suggestioni provenienti dalle diverse scuole della sociologia organizzativa ma anche da altre scienze e discipline. Il nocciolo del sistema coevolutivo è la capacità dell’organizzazione della produzione di adattarsi e, simultaneamente, influenzare l’ambiente organizzativo, creando un contesto in cui fare impresa sia più facile. Percorso non semplice per le organizzazioni della produzione e per i loro manager che, proprio per questo, sono posti davanti a quattro sfide: il cambiamento continuo, un nuovo rapporto con il mercato, la creazione di un’intelligenza collettiva, la necessità di una diversa leadership. E’ da tutto questo, fra l’altro, che nasce l’acronimo Smart che racchiude le parole chiave dell’organizzazione coevolutiva: socio-sensibile, meritocratica, abilitante, riflessiva e trasformativa.

Il libro di Daniela Bandera  – che prima analizza la situazione e poi approfondisce le sfide -, non è certamente l’unico sul tema delle sfide fra imprese e ambiente che cambia, e non è certo la soluzione e tutte le questioni sul tavolo del manager, ma costituisce una buona lettura per chi voglia capire meglio come affrontare un mondo caratterizzato da una sola costante: il cambiamento, appunto

L’impresa coevolutiva. Le quattro sfide del management

Daniela Bandera

Franco Angeli, 2019

Come rimettere in moto la fragile economia italiana e costruire nuove dimensioni di lavoro e solidarietà

L’economia italiana è sempre fragile, cresce poco e male, nonostante la presenza di imprese forti, dinamiche, competitive sui mercati del mondo. Siamo da mesi in recessione e le previsioni per il 2019 vanno dalla crescita zero secondo il Centro Studi Confindustria all’analogo 0,1% stimato da S&P, se non addirittura il -0,5 previsto da LC Macro Advisor, la società di consulenza di Lorenzo Codogno, ex capo economista del ministero dell’Economia e professore alla London School of Economics. Una congiuntura pesantemente negativa, tra crescita piatta e condizione recessiva per tutto il corso dell’anno, smentendo clamorosamente le ottimistiche (e infondate) previsioni del governo Conte. Uno stop grave, insomma, che adesso finalmente comincia a preoccupare anche il ministero dell’Economia, tanto che il ministro Giovanni Tria, al recente Festival dell’economia civile, ha ammesso: “Si va verso la crescita zero… s’è fermata la parte più produttiva dell’Italia” (i partiti giallo-verdi di governo hammo pèerò poco apprezzato questo momento di chiarezza, di sincerità).

Ma siamo di fronte anche a una crisi strutturale, segno di un paese che, negli ultimi vent’anni, non ha saputo costruire un ciclo positivo dello sviluppo e della produttività. In condizioni di crescita delle economie mondiali ed europee arranchiamo, in coda agli altri paesi Ue. In fasi di rallentamento andiamo peggio di tutti e ci ritroviamo, unici in Europa, in recessione. Perché?

Prova a spiegarlo Pierluigi Ciocca, economista tra i più autorevoli, per molti anni direttore della ricerca economica della Banca d’Italia, nelle pagine di “Tornare alla crescita”, Donzelli. Il quadro è drammatico: “L’Italia non produce più di quanto produceva quindici anni fa; la disoccupazione, non solo quella dei giovani, è alta, il lavoro mal pagato, precario; la povertà si estende; il debito pubblico spaventa i mercati; la questione meridionale si è incrudita; la produttività delle imprese ristagna. La cultura, le istituzioni, la politica, la società civile stentano a scuotersi, a fare fronte”. Nel corso degli anni, ricorda Ciocca, non sono state fatte né attuate riforme in grado di superare le fragilità dell’economia. La politica economica non ha affrontato gli squilibri generazionali, sociali, geografici e di reddito. Gli investimenti pubblici e privati ristagnano. L’ordinamento giuridico non ha stimolato la competitività e la crescita. Le imprese si sono a lungo adagiate su cambio debole, prima dell’euro, moderazione salariale, “scandalosa evasione fiscale” e sussidi statali. E adesso, in tempi di radicali cambiamenti economici, tecnologici e di relazioni politiche globali, non reggiamo le nuove ragioni della competitività. Eppure, da una crisi così lunga e profonda, secondo Ciocca, si può ancora uscire: risanare i conti pubblici, investire, puntare su conoscenza e innovazione, cambiare le leggi che ostacolano la concorrenza, rilanciare il Sud: “L’economia va ricostruita, rifondata”.

Serve, insomma, una nuova politica per lo sviluppo. Ben diversa da quella fatta di spesa pubblica assistenziale e blocco delle infrastrutture cui stiamo assistendo. Semmai, vanno stimolate e fatte crescere proprio quelle imprese che nel tempo, nonostante i vincoli del sistema Paese, hanno innovato, investito, esportato, conquistato posizioni di rilievo nelle nicchie ad alto valore aggiunto sui mercati globali. Non sono molte, probabilmente un quarto dell’intero panorama delle imprese italiane. Dunque non potranno fare da motore determinante dello sviluppo, se non in presenza di una ben diversa e migliore politica economica, nel contesto di strategie di sviluppo della Ue.

Un altro modo per affrontare la crisi è insistere sulla “economia civile”, come suggerisce Jeffrey Sachs, direttore di “The Earth Institute” della Columbia University di New York (ne ha parlato la scorsa settimana al festival dedicato appunto all’economia civile, a Firenze): meno diseguaglianze, più fiducia, scelte più chiare di ambientalismo sostenibile, di green economy come vero e proprio fattore di competitività (le imprese italiane sono, su questa dimensione, in prima fila, come documenta anno dopo anno Symbola). E dunque, anche lavorare sulle “Tessiture sociali”, come suggerisce il titolo del libro, edito da Egea e scritto da Aldo Bonomi, sociologo e Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad, vivace struttura cooperativa della grande distruzione. Quattro i termini di riferimento: “La comunità, l’impresa, il mutualismo, la solidarietà”. Sono tempi di sharing economy e dirompenti innovazioni. E in un’Italia fatta non solo di metropoli ma d’una miriade di realtà locali, bisogna impegnarsi per tenere insieme competitività e solidarietà. Il volume raccolta un viaggio in quaranta città, “in luoghi, al crocevia di flussi, nei quali la prossimità territoriale, il radicamento e il fare comunità” emergono come fattori economici e di competitività, tra manifattura, commercio, distribuzione globale e valori del “chilometro 0”. Lo sviluppo italiano è possibile, appunto, solo nel segno della sostenibilità, ambientale e sociale.

Sono sfide culturali, sociali e politiche. Come sostiene da tempo anche Marco Bentivogli, segretario dei metalmeccanici Cisl, e ribadisce nel suo nuovo libro di cui molto si parla, “Contrordine compagni”, un “manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia”, Rizzoli.

Bentivogli ragiona d’innovazione e nuovi e vecchi mestieri, superamento delle divisioni tra formazione scientifica e umanistica, bisogni popolari cui rispondere senza cedere alle tentazioni populiste né alle chiusure nazionalistiche impaurite. Nessun catastrofismo, insomma, per affrontare le questioni del mercato e le diseguaglianze provocante dalla globalizzazione, nessun timore del futuro. Semmai, un robusto e lungimirante riformismo che affronti i temi della competitività, della sostenibilità, dei nuovi equilibri sociali, della costruzione di originali dimensioni del lavoro.

Insiste Bentivogli (sul “Corriere Innovazione”, 29 marzo): “Fermare il progresso non solo non è possibile, ma è quanto di più pericoloso si possa fare per l’occupazione”. I robot sono nelle aziende da almeno trent’anni, hanno migliorato la qualità del lavoro, ridotto la fatica sulle mansioni più ripetitive, stimolato creatività, innovazione, responsabile partecipazione. Spiega appunto Bentivogli: “Si riducono le mansioni ripetitive, operaie e impiegatizie, ma il lavoro cambia, non muore”. Come? E’ un processo in corso, da continuare a costruire con creatività e senso di responsabilità.

C’è chi, maestro di catastrofismo e seminatore di paure, come lo Studio Casaleggio Associati (la “testa” del Movimento 5Stelle) sostiene che finirà il lavoro nel 2054. “Un’attendibilità simile alle interpretazioni del calendario dei Maya sulla fine del mondo nel 2012”, ironizza Bentivogli. Meglio, semmai, puntare su formazione, politiche del lavoro e uso intelligente del welfare non per distribuire risorse a pioggia come il reddito di cittadinanza caro al M5S ma per fare da ammortizzatore sociale durante i periodi di cambio di lavoro e impegno di studio per nuove qualificazioni. Un atteggiamento responsabile, appunto, di cui anche il sindacato sta dando prove positive. Ottimismo critico, consapevole, ragionevole.

L’economia italiana è sempre fragile, cresce poco e male, nonostante la presenza di imprese forti, dinamiche, competitive sui mercati del mondo. Siamo da mesi in recessione e le previsioni per il 2019 vanno dalla crescita zero secondo il Centro Studi Confindustria all’analogo 0,1% stimato da S&P, se non addirittura il -0,5 previsto da LC Macro Advisor, la società di consulenza di Lorenzo Codogno, ex capo economista del ministero dell’Economia e professore alla London School of Economics. Una congiuntura pesantemente negativa, tra crescita piatta e condizione recessiva per tutto il corso dell’anno, smentendo clamorosamente le ottimistiche (e infondate) previsioni del governo Conte. Uno stop grave, insomma, che adesso finalmente comincia a preoccupare anche il ministero dell’Economia, tanto che il ministro Giovanni Tria, al recente Festival dell’economia civile, ha ammesso: “Si va verso la crescita zero… s’è fermata la parte più produttiva dell’Italia” (i partiti giallo-verdi di governo hammo pèerò poco apprezzato questo momento di chiarezza, di sincerità).

Ma siamo di fronte anche a una crisi strutturale, segno di un paese che, negli ultimi vent’anni, non ha saputo costruire un ciclo positivo dello sviluppo e della produttività. In condizioni di crescita delle economie mondiali ed europee arranchiamo, in coda agli altri paesi Ue. In fasi di rallentamento andiamo peggio di tutti e ci ritroviamo, unici in Europa, in recessione. Perché?

Prova a spiegarlo Pierluigi Ciocca, economista tra i più autorevoli, per molti anni direttore della ricerca economica della Banca d’Italia, nelle pagine di “Tornare alla crescita”, Donzelli. Il quadro è drammatico: “L’Italia non produce più di quanto produceva quindici anni fa; la disoccupazione, non solo quella dei giovani, è alta, il lavoro mal pagato, precario; la povertà si estende; il debito pubblico spaventa i mercati; la questione meridionale si è incrudita; la produttività delle imprese ristagna. La cultura, le istituzioni, la politica, la società civile stentano a scuotersi, a fare fronte”. Nel corso degli anni, ricorda Ciocca, non sono state fatte né attuate riforme in grado di superare le fragilità dell’economia. La politica economica non ha affrontato gli squilibri generazionali, sociali, geografici e di reddito. Gli investimenti pubblici e privati ristagnano. L’ordinamento giuridico non ha stimolato la competitività e la crescita. Le imprese si sono a lungo adagiate su cambio debole, prima dell’euro, moderazione salariale, “scandalosa evasione fiscale” e sussidi statali. E adesso, in tempi di radicali cambiamenti economici, tecnologici e di relazioni politiche globali, non reggiamo le nuove ragioni della competitività. Eppure, da una crisi così lunga e profonda, secondo Ciocca, si può ancora uscire: risanare i conti pubblici, investire, puntare su conoscenza e innovazione, cambiare le leggi che ostacolano la concorrenza, rilanciare il Sud: “L’economia va ricostruita, rifondata”.

Serve, insomma, una nuova politica per lo sviluppo. Ben diversa da quella fatta di spesa pubblica assistenziale e blocco delle infrastrutture cui stiamo assistendo. Semmai, vanno stimolate e fatte crescere proprio quelle imprese che nel tempo, nonostante i vincoli del sistema Paese, hanno innovato, investito, esportato, conquistato posizioni di rilievo nelle nicchie ad alto valore aggiunto sui mercati globali. Non sono molte, probabilmente un quarto dell’intero panorama delle imprese italiane. Dunque non potranno fare da motore determinante dello sviluppo, se non in presenza di una ben diversa e migliore politica economica, nel contesto di strategie di sviluppo della Ue.

Un altro modo per affrontare la crisi è insistere sulla “economia civile”, come suggerisce Jeffrey Sachs, direttore di “The Earth Institute” della Columbia University di New York (ne ha parlato la scorsa settimana al festival dedicato appunto all’economia civile, a Firenze): meno diseguaglianze, più fiducia, scelte più chiare di ambientalismo sostenibile, di green economy come vero e proprio fattore di competitività (le imprese italiane sono, su questa dimensione, in prima fila, come documenta anno dopo anno Symbola). E dunque, anche lavorare sulle “Tessiture sociali”, come suggerisce il titolo del libro, edito da Egea e scritto da Aldo Bonomi, sociologo e Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad, vivace struttura cooperativa della grande distruzione. Quattro i termini di riferimento: “La comunità, l’impresa, il mutualismo, la solidarietà”. Sono tempi di sharing economy e dirompenti innovazioni. E in un’Italia fatta non solo di metropoli ma d’una miriade di realtà locali, bisogna impegnarsi per tenere insieme competitività e solidarietà. Il volume raccolta un viaggio in quaranta città, “in luoghi, al crocevia di flussi, nei quali la prossimità territoriale, il radicamento e il fare comunità” emergono come fattori economici e di competitività, tra manifattura, commercio, distribuzione globale e valori del “chilometro 0”. Lo sviluppo italiano è possibile, appunto, solo nel segno della sostenibilità, ambientale e sociale.

Sono sfide culturali, sociali e politiche. Come sostiene da tempo anche Marco Bentivogli, segretario dei metalmeccanici Cisl, e ribadisce nel suo nuovo libro di cui molto si parla, “Contrordine compagni”, un “manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia”, Rizzoli.

Bentivogli ragiona d’innovazione e nuovi e vecchi mestieri, superamento delle divisioni tra formazione scientifica e umanistica, bisogni popolari cui rispondere senza cedere alle tentazioni populiste né alle chiusure nazionalistiche impaurite. Nessun catastrofismo, insomma, per affrontare le questioni del mercato e le diseguaglianze provocante dalla globalizzazione, nessun timore del futuro. Semmai, un robusto e lungimirante riformismo che affronti i temi della competitività, della sostenibilità, dei nuovi equilibri sociali, della costruzione di originali dimensioni del lavoro.

Insiste Bentivogli (sul “Corriere Innovazione”, 29 marzo): “Fermare il progresso non solo non è possibile, ma è quanto di più pericoloso si possa fare per l’occupazione”. I robot sono nelle aziende da almeno trent’anni, hanno migliorato la qualità del lavoro, ridotto la fatica sulle mansioni più ripetitive, stimolato creatività, innovazione, responsabile partecipazione. Spiega appunto Bentivogli: “Si riducono le mansioni ripetitive, operaie e impiegatizie, ma il lavoro cambia, non muore”. Come? E’ un processo in corso, da continuare a costruire con creatività e senso di responsabilità.

C’è chi, maestro di catastrofismo e seminatore di paure, come lo Studio Casaleggio Associati (la “testa” del Movimento 5Stelle) sostiene che finirà il lavoro nel 2054. “Un’attendibilità simile alle interpretazioni del calendario dei Maya sulla fine del mondo nel 2012”, ironizza Bentivogli. Meglio, semmai, puntare su formazione, politiche del lavoro e uso intelligente del welfare non per distribuire risorse a pioggia come il reddito di cittadinanza caro al M5S ma per fare da ammortizzatore sociale durante i periodi di cambio di lavoro e impegno di studio per nuove qualificazioni. Un atteggiamento responsabile, appunto, di cui anche il sindacato sta dando prove positive. Ottimismo critico, consapevole, ragionevole.

Cinema & Storia 2018-2019
Stato, Nazione, Sovranità

Affrontare in classe alcuni temi della storia contemporanea può risultare complesso e il corso Cinema & Storia, promosso da Fondazione Pirelli, Fondazione ISEC (Istituto per l’età contemporanea) e Fondazione Cineteca Italiana si propone da sette anni come riferimento didattico per i docenti delle scuole secondarie. Per il 2019 è stato presentato un percorso di riflessione sull’esperienza degli stati nazione e sulla loro parabola storica, alla luce dei processi di globalizzazione contemporanei: “Stato, Nazione, Sovranità. Cambiamenti e conflitti tra politica, società ed economia” .

Il corso si è sviluppato attraverso quattro lezioni e visite guidate presso la Fondazione Pirelli, tre proiezioni cinematografiche al MIC (Museo Interattivo del Cinema) e un laboratorio conclusivo presso Fondazione ISEC.

La prima lezione tenuta da Marco Meriggi, professore dell’Università di Napoli, ha indagato la parabola storica dello stato contemporaneo ed è stata seguita dal film Goodbye Lenin di Wolfgang Becker.

Durante l’incontro con Alessio Petrizzo dell’Università di Padova sono stati poi presi in esame i nazionalismi tra Ottocento e Novecento e la proiezione che ha accompagnato la lezione è stata Il giovane Karl Marx di Raoul Peck.

Guido Acquaviva, funzionario internazionale, grazie alla sua esperienza professionale ha potuto descrivere gli aspetti che riguardano Stato e Sovranità nell’età della globalizzazione. L’approfondimento è proseguito con il terzo film selezionato per i docenti: A casa nostra di Lucas Belvaux.

L’ultima lezione, tenuta da Antonio Calabrò, direttore di Fondazione Pirelli, ha permesso di riflettere sulla nascita dell’Europa e dei mercati aperti dal punto di vista dell’impresa italiana anche attraverso la Rivista Pirelli -edita tra il 1948 e il 1972- dalla quale sono stati selezionati alcuni articoli di economia e politica:

L’Europa fra «mercato comune» e «libero scambio», Ugo Alloisio, Rivista Pirelli n. 4, 1961

Il paradosso americano, Arrigo Levi, Rivista Pirelli n. 5, 1968

Emigrazione e mobilità del lavoro, Francesco Forte, Rivista Pirelli n. 11, 1970

Le riflessioni conclusive e il focus group del corso si sono tenuti questo pomeriggio durante il laboratorio organizzato dalla sezione didattica di Fondazione ISEC.

Affrontare in classe alcuni temi della storia contemporanea può risultare complesso e il corso Cinema & Storia, promosso da Fondazione Pirelli, Fondazione ISEC (Istituto per l’età contemporanea) e Fondazione Cineteca Italiana si propone da sette anni come riferimento didattico per i docenti delle scuole secondarie. Per il 2019 è stato presentato un percorso di riflessione sull’esperienza degli stati nazione e sulla loro parabola storica, alla luce dei processi di globalizzazione contemporanei: “Stato, Nazione, Sovranità. Cambiamenti e conflitti tra politica, società ed economia” .

Il corso si è sviluppato attraverso quattro lezioni e visite guidate presso la Fondazione Pirelli, tre proiezioni cinematografiche al MIC (Museo Interattivo del Cinema) e un laboratorio conclusivo presso Fondazione ISEC.

La prima lezione tenuta da Marco Meriggi, professore dell’Università di Napoli, ha indagato la parabola storica dello stato contemporaneo ed è stata seguita dal film Goodbye Lenin di Wolfgang Becker.

Durante l’incontro con Alessio Petrizzo dell’Università di Padova sono stati poi presi in esame i nazionalismi tra Ottocento e Novecento e la proiezione che ha accompagnato la lezione è stata Il giovane Karl Marx di Raoul Peck.

Guido Acquaviva, funzionario internazionale, grazie alla sua esperienza professionale ha potuto descrivere gli aspetti che riguardano Stato e Sovranità nell’età della globalizzazione. L’approfondimento è proseguito con il terzo film selezionato per i docenti: A casa nostra di Lucas Belvaux.

L’ultima lezione, tenuta da Antonio Calabrò, direttore di Fondazione Pirelli, ha permesso di riflettere sulla nascita dell’Europa e dei mercati aperti dal punto di vista dell’impresa italiana anche attraverso la Rivista Pirelli -edita tra il 1948 e il 1972- dalla quale sono stati selezionati alcuni articoli di economia e politica:

L’Europa fra «mercato comune» e «libero scambio», Ugo Alloisio, Rivista Pirelli n. 4, 1961

Il paradosso americano, Arrigo Levi, Rivista Pirelli n. 5, 1968

Emigrazione e mobilità del lavoro, Francesco Forte, Rivista Pirelli n. 11, 1970

Le riflessioni conclusive e il focus group del corso si sono tenuti questo pomeriggio durante il laboratorio organizzato dalla sezione didattica di Fondazione ISEC.

Ecco perché la scienza ha bisogno della filosofia: un saggio di nove scienziati internazionali e un libro sulla “verità”

Fare leva sulla cultura. Sui pensieri critici. Sulla filosofia e sulla scienza. E dunque sui buoni libri, le ricerche libere, le conversazioni “per amore di verità”. E sulla riscoperta di una vera e propria civiltà del dialogo su cui si sono costruite le nostre democrazie liberali e dunque lo sviluppo, il benessere e la salute, la convivenza civile. E l’Europa che vale la pena difendere, riformare, rafforzare.

In tempi di passioni tristi e pensieri mediocri in cui, nel discorso pubblico, prevalgono retorica, propaganda, fake news, subculture ostili alla scienza e al libero confronto, bullismi politici e violenze verbali (che sconfinano più d’una volta in violenze fisiche) c’è per fortuna una ripresa d’impegno sui temi del dialogo, una difesa dei valori civili.

Scienza e qualità dello sviluppo economico sono tra i temi centrali. Un contributo importante arriva proprio in questi giorni da un saggio intitolato “Why science needs philosophy” e pubblicato da Pnas, e cioè Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, una delle riviste scientifiche più note a livello internazionale. Tra le firme, quelle di due grandi scienziati italiani, Alberto Mantovani, immunologo di fama internazionale e direttore scientifico dell’Humanitas di Milano e Carlo Rovelli, fisico attualmente all’università di Marsiglia, uno dei cento migliori “global thinkers” secondo la rivista Foreign Policy, e poi di Lucie Laplane (filosofa alla Sorbona a Parigi), Paolo Mantovani (professore di cultura umanistica all’università di Roehampton  a Londra), Ralph Adolphs (Humanities and Social Sciences al Caltech a Pasadena, California), Hasok Chang (storia e filosofia della scienza a Cambridge), Margaret McFall-Ngai (Pacific Biosciences Research Center all’università delle Hawai), Elliot Sober (filosofo all’università del Wisconsin) e Thomas Pradeu (Storia e filosofia della Scienza alla Sorbona). Personalità delle scienze e della cultura umanistica, donne e uomini di valore internazionale, impegnati a ragionare con conoscenza e competenza sulle leve fondamentali del pensiero contemporaneo. Dei veri intellettuali: un termine da rivalutare, ricordando la lezione di Tullio De Mauro: “E’ parola bella, è progresso culturale, è possibilità di affrontare più consapevoli in mondo”. Attenti a costruire e innovare, nel corso del tempo, una “cultura politecnica” di cui proprio l’Italia ha dato indicazioni esemplari (se ne comincia a discutere molto, proprio in queste ultime settimane, per tutte le iniziative e le manifestazioni per ricordare il Cinquecentenario di Leonardo da Vinci). E su cui non solo la nostra cultura ma anche le nostre imprese migliori continuano a dare straordinarie testimonianze, tra memoria e futuro, competenze con radici storiche e innovazione hi tech.

Del saggio su Pnas ha scritto domenica 24 marzo, sulla prima pagina del Corriere della Sera, Alberto Mantovani: “In un momento in cui il divario fra le due culture rischia di ampliarsi ulteriormente, un gruppo di filosofi e di scienziati pubblicano insieme un lavoro su una rivista scientifica autorevole in cui sostengono, argomentandolo, come la scienza abbia bisogno della filosofia. Un paradosso di questi tempi, soprattutto in un Paese come il nostro, purtroppo scientificamente analfabeta? Non lo è affatto, così come non è un caso che, come illustrazione dell’articolo, gli autori abbiano scelto la ‘Scuola di Atene’ di Raffaello: un tributo alla cultura classica ed umanistica del nostro Paese”.

Un grande quadro italiano. E, come exergo, la citazione di una lettera di Albert Einstein a Robert Thornton del 1944: “A knowledge of the historic and philosophical background gives that kind of independence from prejudices of his generation from which most scientists are suffering. This independence created by philosophical insight is—in my opinion—the mark of distinction between a mere artisan or specialist and a real seeker after truth”. La necessità della ricerca, l’indipendenza dai pregiudizi, il valore della verità (ci torneremo nelle prossime righe, a proposito di un nuovo libro, “La verità al potere” di Franca d’Agostini e Maurizio Ferrera, appena pubblicato da Enaudi).

Ma torniamo a Pnas. Sostiene Mantovani: “Scienza e filosofia hanno radici storiche antiche comuni. Non dimentichiamo, infatti, che nell’antica Grecia Aristotele è stato un grande scienziato oltre che un grande filosofo. E nell’800 la grande scienza inglese e la sua rinascita a Cambridge, uno dei luoghi nel mondo con la più alta intensità di Premi Nobel, nascono dalla cosiddetta Philosophical Society. In passato, anche in quello più recente, la contaminazione tra filosofia e scienza ha portato avanzamenti in campo scientifico. Ha radici filosofiche, ad esempio, in immunologia l’ultima ipotesi di paradigma generale del funzionamento del sistema immunitario: riconoscere la discontinuità, con il mondo microbico e nel danno ai tessuti. Ancora, nel settore delle staminali la definizione delle varie classi di cellule effettuata da Hans Clevers. Anche se, probabilmente, il settore delle scienze della vita in cui c’è stato un impatto più diretto della filosofia è quello delle scienze cognitive, dove le riflessioni di alcuni filosofi come Jerry Fodor sulla modularità della mente hanno anticipato e guidato la ricerca di tipo psiconeurologico sui meccanismi cognitivi”.

Competenze a confronto. Ma anche valori forti, da difendere, riaffermare e rilanciare, guardando molto pure allo sviluppo sostenibile, all’ambiente, al futuro delle nuove generazioni. I valori del pensiero critico.

Sostiene giustamente Mantovani: “Al di là dei contributi specifici, tuttavia, c’è un valore fondamentale e fondante della riflessione filosofica che è alla base della ricerca scientifica e medica: è la formazione al pensiero critico, che costituisce il vaccino di cui abbiamo bisogno per poterci orientare correttamente nei confronti delle cosiddette fake news. È questa la cultura umanistica di cui la scienza ha bisogno, e da cui non può prescindere. Difenderla non significa arroccarsi su posizioni obsolete e acritiche discutendo, ad esempio, dell’insegnamento di materie scientifiche in inglese. Significa, piuttosto, promuovere il pensiero critico che riflette sulle frontiere della scienza, sulle sfide anche di tipo etico che ci attendono. Penso ai recenti casi di modificazione genetica di embrioni umani che hanno portato alla nascita, in Cina, di due gemelli il cui Dna è stato modificato per renderli resistenti al virus dell’Aids, senza uno scopo medico che lo giustificasse”.

Per concludere: “L’incontro e il merge delle due culture è ciò che gli autori dell’articolo su Pnas si augurano, per il progresso della scienza e del pensiero. La filosofia che conosce bene la scienza e che si confronta con il suo avanzamento può essere dunque — magari anche attraverso la frequentazione di centri di ricerca, come proposto nell’articolo — uno strumento importante per costruire ponti al servizio della società”.

Ponti tra pensieri e punti di vista diversi, tra culture. Con un grande bisogno comune. Di tornare a parlare di “verità”, in opposizione alla propaganda, alla retorica della disinformazione, all’indifferenza tra le opinioni.

Pensiero critico e ricerca della verità convivono nelle pagine del bel libro di Franca D’Agostini e Maurizio Ferrera di cui abbiamo detto all’inizio di questo blog. “Ci servono nuovi diritti e una nuova idea di politica democratica, per tutelare il nostro bisogno di verità e fermare la circolazione incontrollata di insensatezze e falsità dannose per tutti”, scrivono gli autori, ricordando che la verità “non è una nozione dogmatica, generatrice di conflitti irriducibili” (generati invece “dalla tendenza diffusa a ritenere vero quello che non lo è affatto”) ma il risultato di una ricerca in una “società aperta” che riconosca “i diritti aletici” (dal greco a-letheia, cioè “non nascondimento”), tra cui quelli del ricevere un’educazione “tale da metterci in grado di discriminare, per quanto è possibile, il vero dal falso” e quello di “disporre di un sistema scientifico e in generale di autorità epistemiche che conferiscano credibilità a individui, tesi e teorie in modo aletico e cioè orientato alla verità, prima che a interessi esclusivamente economici o politici”.  Una sfida di verità, appunto, in un sistema che ama pregiudizi, discriminazioni, “pensieri magici” indifferenti alla scienza e ai fatti, propaganda fondata sulla paura e il disagio. Una sfida anche per “il pensiero liberale” che deve saper “attingere alle capacità e alle arti critiche che ha storicamente sviluppato”.

Fare leva sulla cultura. Sui pensieri critici. Sulla filosofia e sulla scienza. E dunque sui buoni libri, le ricerche libere, le conversazioni “per amore di verità”. E sulla riscoperta di una vera e propria civiltà del dialogo su cui si sono costruite le nostre democrazie liberali e dunque lo sviluppo, il benessere e la salute, la convivenza civile. E l’Europa che vale la pena difendere, riformare, rafforzare.

In tempi di passioni tristi e pensieri mediocri in cui, nel discorso pubblico, prevalgono retorica, propaganda, fake news, subculture ostili alla scienza e al libero confronto, bullismi politici e violenze verbali (che sconfinano più d’una volta in violenze fisiche) c’è per fortuna una ripresa d’impegno sui temi del dialogo, una difesa dei valori civili.

Scienza e qualità dello sviluppo economico sono tra i temi centrali. Un contributo importante arriva proprio in questi giorni da un saggio intitolato “Why science needs philosophy” e pubblicato da Pnas, e cioè Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, una delle riviste scientifiche più note a livello internazionale. Tra le firme, quelle di due grandi scienziati italiani, Alberto Mantovani, immunologo di fama internazionale e direttore scientifico dell’Humanitas di Milano e Carlo Rovelli, fisico attualmente all’università di Marsiglia, uno dei cento migliori “global thinkers” secondo la rivista Foreign Policy, e poi di Lucie Laplane (filosofa alla Sorbona a Parigi), Paolo Mantovani (professore di cultura umanistica all’università di Roehampton  a Londra), Ralph Adolphs (Humanities and Social Sciences al Caltech a Pasadena, California), Hasok Chang (storia e filosofia della scienza a Cambridge), Margaret McFall-Ngai (Pacific Biosciences Research Center all’università delle Hawai), Elliot Sober (filosofo all’università del Wisconsin) e Thomas Pradeu (Storia e filosofia della Scienza alla Sorbona). Personalità delle scienze e della cultura umanistica, donne e uomini di valore internazionale, impegnati a ragionare con conoscenza e competenza sulle leve fondamentali del pensiero contemporaneo. Dei veri intellettuali: un termine da rivalutare, ricordando la lezione di Tullio De Mauro: “E’ parola bella, è progresso culturale, è possibilità di affrontare più consapevoli in mondo”. Attenti a costruire e innovare, nel corso del tempo, una “cultura politecnica” di cui proprio l’Italia ha dato indicazioni esemplari (se ne comincia a discutere molto, proprio in queste ultime settimane, per tutte le iniziative e le manifestazioni per ricordare il Cinquecentenario di Leonardo da Vinci). E su cui non solo la nostra cultura ma anche le nostre imprese migliori continuano a dare straordinarie testimonianze, tra memoria e futuro, competenze con radici storiche e innovazione hi tech.

Del saggio su Pnas ha scritto domenica 24 marzo, sulla prima pagina del Corriere della Sera, Alberto Mantovani: “In un momento in cui il divario fra le due culture rischia di ampliarsi ulteriormente, un gruppo di filosofi e di scienziati pubblicano insieme un lavoro su una rivista scientifica autorevole in cui sostengono, argomentandolo, come la scienza abbia bisogno della filosofia. Un paradosso di questi tempi, soprattutto in un Paese come il nostro, purtroppo scientificamente analfabeta? Non lo è affatto, così come non è un caso che, come illustrazione dell’articolo, gli autori abbiano scelto la ‘Scuola di Atene’ di Raffaello: un tributo alla cultura classica ed umanistica del nostro Paese”.

Un grande quadro italiano. E, come exergo, la citazione di una lettera di Albert Einstein a Robert Thornton del 1944: “A knowledge of the historic and philosophical background gives that kind of independence from prejudices of his generation from which most scientists are suffering. This independence created by philosophical insight is—in my opinion—the mark of distinction between a mere artisan or specialist and a real seeker after truth”. La necessità della ricerca, l’indipendenza dai pregiudizi, il valore della verità (ci torneremo nelle prossime righe, a proposito di un nuovo libro, “La verità al potere” di Franca d’Agostini e Maurizio Ferrera, appena pubblicato da Enaudi).

Ma torniamo a Pnas. Sostiene Mantovani: “Scienza e filosofia hanno radici storiche antiche comuni. Non dimentichiamo, infatti, che nell’antica Grecia Aristotele è stato un grande scienziato oltre che un grande filosofo. E nell’800 la grande scienza inglese e la sua rinascita a Cambridge, uno dei luoghi nel mondo con la più alta intensità di Premi Nobel, nascono dalla cosiddetta Philosophical Society. In passato, anche in quello più recente, la contaminazione tra filosofia e scienza ha portato avanzamenti in campo scientifico. Ha radici filosofiche, ad esempio, in immunologia l’ultima ipotesi di paradigma generale del funzionamento del sistema immunitario: riconoscere la discontinuità, con il mondo microbico e nel danno ai tessuti. Ancora, nel settore delle staminali la definizione delle varie classi di cellule effettuata da Hans Clevers. Anche se, probabilmente, il settore delle scienze della vita in cui c’è stato un impatto più diretto della filosofia è quello delle scienze cognitive, dove le riflessioni di alcuni filosofi come Jerry Fodor sulla modularità della mente hanno anticipato e guidato la ricerca di tipo psiconeurologico sui meccanismi cognitivi”.

Competenze a confronto. Ma anche valori forti, da difendere, riaffermare e rilanciare, guardando molto pure allo sviluppo sostenibile, all’ambiente, al futuro delle nuove generazioni. I valori del pensiero critico.

Sostiene giustamente Mantovani: “Al di là dei contributi specifici, tuttavia, c’è un valore fondamentale e fondante della riflessione filosofica che è alla base della ricerca scientifica e medica: è la formazione al pensiero critico, che costituisce il vaccino di cui abbiamo bisogno per poterci orientare correttamente nei confronti delle cosiddette fake news. È questa la cultura umanistica di cui la scienza ha bisogno, e da cui non può prescindere. Difenderla non significa arroccarsi su posizioni obsolete e acritiche discutendo, ad esempio, dell’insegnamento di materie scientifiche in inglese. Significa, piuttosto, promuovere il pensiero critico che riflette sulle frontiere della scienza, sulle sfide anche di tipo etico che ci attendono. Penso ai recenti casi di modificazione genetica di embrioni umani che hanno portato alla nascita, in Cina, di due gemelli il cui Dna è stato modificato per renderli resistenti al virus dell’Aids, senza uno scopo medico che lo giustificasse”.

Per concludere: “L’incontro e il merge delle due culture è ciò che gli autori dell’articolo su Pnas si augurano, per il progresso della scienza e del pensiero. La filosofia che conosce bene la scienza e che si confronta con il suo avanzamento può essere dunque — magari anche attraverso la frequentazione di centri di ricerca, come proposto nell’articolo — uno strumento importante per costruire ponti al servizio della società”.

Ponti tra pensieri e punti di vista diversi, tra culture. Con un grande bisogno comune. Di tornare a parlare di “verità”, in opposizione alla propaganda, alla retorica della disinformazione, all’indifferenza tra le opinioni.

Pensiero critico e ricerca della verità convivono nelle pagine del bel libro di Franca D’Agostini e Maurizio Ferrera di cui abbiamo detto all’inizio di questo blog. “Ci servono nuovi diritti e una nuova idea di politica democratica, per tutelare il nostro bisogno di verità e fermare la circolazione incontrollata di insensatezze e falsità dannose per tutti”, scrivono gli autori, ricordando che la verità “non è una nozione dogmatica, generatrice di conflitti irriducibili” (generati invece “dalla tendenza diffusa a ritenere vero quello che non lo è affatto”) ma il risultato di una ricerca in una “società aperta” che riconosca “i diritti aletici” (dal greco a-letheia, cioè “non nascondimento”), tra cui quelli del ricevere un’educazione “tale da metterci in grado di discriminare, per quanto è possibile, il vero dal falso” e quello di “disporre di un sistema scientifico e in generale di autorità epistemiche che conferiscano credibilità a individui, tesi e teorie in modo aletico e cioè orientato alla verità, prima che a interessi esclusivamente economici o politici”.  Una sfida di verità, appunto, in un sistema che ama pregiudizi, discriminazioni, “pensieri magici” indifferenti alla scienza e ai fatti, propaganda fondata sulla paura e il disagio. Una sfida anche per “il pensiero liberale” che deve saper “attingere alle capacità e alle arti critiche che ha storicamente sviluppato”.

Welfare, impresa e Accademia

L’esame dei percorsi virtuosi che fanno bene alla produzione e alla comunità

Impresa e Accademia. Binomio importante, non sempre efficacemente messo in pratica, eppure fondamentale per entrambe le parti. Quando poi si cerca di coinvolgerci anche la comunità nella quale il binomia si trova a svilupparsi, il significato (e i risultati) possono essere davvero notevoli. E’ necessario però capire come fare e per questo è utile leggere “Dalla ricerca all’impresa: lo spin-off accademico per agire nella comunità” lavoro di  Cristina Cecchini (Università degli Studi di Firenze & LabCom, Ricerca e Azione per il Benessere Psicosociale) presentato nell’ambito della raccolta di interventi e ricerche “Comunità imperfette. Dalle dinamiche disgregative al decision making comunitario” da poco pubblicato.

Cecchini spiega quindi che fra le “missioni” universitarie c’è anche quella di “promuovere il trasferimento di risultati provenienti dalla ricerca accademica in prodotti e servizi innovativi” e quindi la configurazione di “percorsi strutturati che permettono di valorizzare la creazione di nuove idee imprenditoriali e favorirne l’applicazione diretta, contribuendo così allo sviluppo sociale, culturale ed economico della società”. Ricerca che diventa impresa e quindi occasione di benessere ma anche di crescita sociale. Cultura applicata che favorisce, dice sempre Cristina Cecchini, “ricadute positive, a livello di risorse e stimoli, incrementando prospettive lavorative per giovani laureati e ricercatori provenienti dall’ambito accademico”.

L’intervento aggiunge però un particolare al ragionamento. Oltre ai trasferimenti tecnologici, l’Università può anche contribuire con spin-off di ricerche e attività in ambito psicologico in grado di “fornire interventi psicologici scientificamente fondati su un approccio di comunità, compensando la minore disponibilità di risorse pubbliche a supporto del Welfare”. E’ un salto di livello nel rapporto fra Accademia, sistema delle imprese e ambito sociale. Nel momento nel quale il welfare entra nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale, proprio quando sempre più aziende si aprono alle pratiche di welfare  e di responsabilità sociale, l’intervento della ricerca può dare un supporto importante.

Il lavoro di Cristina Cecchini aiuta a capire perché e attraverso quali percorsi.

Dalla ricerca all’impresa: lo spin-off accademico per agire nella comunità

Cristina Cecchini

In AA.VV., Comunità imperfette. Dalle dinamiche disgregative al decision making comunitario, Palermo, 2019

 

L’esame dei percorsi virtuosi che fanno bene alla produzione e alla comunità

Impresa e Accademia. Binomio importante, non sempre efficacemente messo in pratica, eppure fondamentale per entrambe le parti. Quando poi si cerca di coinvolgerci anche la comunità nella quale il binomia si trova a svilupparsi, il significato (e i risultati) possono essere davvero notevoli. E’ necessario però capire come fare e per questo è utile leggere “Dalla ricerca all’impresa: lo spin-off accademico per agire nella comunità” lavoro di  Cristina Cecchini (Università degli Studi di Firenze & LabCom, Ricerca e Azione per il Benessere Psicosociale) presentato nell’ambito della raccolta di interventi e ricerche “Comunità imperfette. Dalle dinamiche disgregative al decision making comunitario” da poco pubblicato.

Cecchini spiega quindi che fra le “missioni” universitarie c’è anche quella di “promuovere il trasferimento di risultati provenienti dalla ricerca accademica in prodotti e servizi innovativi” e quindi la configurazione di “percorsi strutturati che permettono di valorizzare la creazione di nuove idee imprenditoriali e favorirne l’applicazione diretta, contribuendo così allo sviluppo sociale, culturale ed economico della società”. Ricerca che diventa impresa e quindi occasione di benessere ma anche di crescita sociale. Cultura applicata che favorisce, dice sempre Cristina Cecchini, “ricadute positive, a livello di risorse e stimoli, incrementando prospettive lavorative per giovani laureati e ricercatori provenienti dall’ambito accademico”.

L’intervento aggiunge però un particolare al ragionamento. Oltre ai trasferimenti tecnologici, l’Università può anche contribuire con spin-off di ricerche e attività in ambito psicologico in grado di “fornire interventi psicologici scientificamente fondati su un approccio di comunità, compensando la minore disponibilità di risorse pubbliche a supporto del Welfare”. E’ un salto di livello nel rapporto fra Accademia, sistema delle imprese e ambito sociale. Nel momento nel quale il welfare entra nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale, proprio quando sempre più aziende si aprono alle pratiche di welfare  e di responsabilità sociale, l’intervento della ricerca può dare un supporto importante.

Il lavoro di Cristina Cecchini aiuta a capire perché e attraverso quali percorsi.

Dalla ricerca all’impresa: lo spin-off accademico per agire nella comunità

Cristina Cecchini

In AA.VV., Comunità imperfette. Dalle dinamiche disgregative al decision making comunitario, Palermo, 2019

 

Cultura d’impresa in mostra

Un libro racconta come valorizzare e mettere a disposizione della comunità le collezioni d’arte d’impresa

Cultura d’impresa “che si vede”. Oggetti, ambienti, opere. L’idea del produrre che si fa cultura è fatta anche di fisicità – fabbriche ma non solo -, oltre che di immaterialità del vivere nelle organizzazioni della produzione. Collezioni che possono rimanere chiuse negli uffici (e nelle stanze di chi dell’impresa è imprenditore oppure manager), ma magari possono essere messe a disposizione della comunità come concreta continuazione dello spirito che ha fatto in modo di raccoglierle. In che modo e affrontando quali difficoltà, è tutto da scoprire leggendo “Musei privati. La passione per l’arte contemporanea nelle collezioni di famiglia e d’impresa” libro scritto a più mani e curato da Alessia Zorloni pubblicato da poco.
Il punto di partenza del volume è la constatazione che solo una piccola parte delle collezioni dei più importanti musei pubblici viene esposta. Un problema piuttosto sentito dai collezionisti che possono percorrere due strade diverse: decidere di donare le proprie opere chiedendo come conditio sine qua non la loro esposizione permanente oppure aprire un proprio museo mettendo a disposizione degli amanti dell’arte le loro collezioni. Situazione che vale anche per molte imprese che arrivano ad una conclusione: mettere a diposizione le proprie collezioni (ma anche gli oggetti che hanno fatto la storia della propria produzione), è uno degli aspetti che costruiscono quella responsabilità sociale d’impresa che ormai da più partri viene riconosciuta come “sale” di molte attività produttive.
Il libro, oltre a dare la parola ai protagonisti e illustrare ciò che hanno creato, analizza quindi i problemi economici, fiscali e giuridici che famiglie e imprese si trovano ad affrontare nella gestione e nella valorizzazione della propria collezione. L’obiettivo è integrare la prospettiva economica ad aspetti legali e fiscali per consentire a ogni collezionista e ai professionisti che lo affiancano di avere strumenti, metodi e competenze per la messa a punto di una strategia di gestione patrimoniale integrata.
Scorrono quindi nelle circa trecento pagine del libro, prima un inquadramento del tema e una analisi della situazione, poi un approfondimento delle modalità di gestione e valorizzazione delle collezioni, successivamente una analisi della presenza dell’arte in azienda e quindi la messa a fuoco non solo delle tecniche di esposizione ma anche degli aspetti più operativi dal punto di vista giuridico e fiscale. Chiudono il libro una serie di testimonianze (non solo italiane).
Il libro curato da Alessia Zorloni affronta un aspetto spesso trascurato della cultura d’impresa che si evolve in svariate forme: da leggere.

Musei privati. La passione per l’arte contemporanea nelle collezioni di famiglia e d’impresa
Alessia Zorloni (a cura di)
Egea, 2019

Un libro racconta come valorizzare e mettere a disposizione della comunità le collezioni d’arte d’impresa

Cultura d’impresa “che si vede”. Oggetti, ambienti, opere. L’idea del produrre che si fa cultura è fatta anche di fisicità – fabbriche ma non solo -, oltre che di immaterialità del vivere nelle organizzazioni della produzione. Collezioni che possono rimanere chiuse negli uffici (e nelle stanze di chi dell’impresa è imprenditore oppure manager), ma magari possono essere messe a disposizione della comunità come concreta continuazione dello spirito che ha fatto in modo di raccoglierle. In che modo e affrontando quali difficoltà, è tutto da scoprire leggendo “Musei privati. La passione per l’arte contemporanea nelle collezioni di famiglia e d’impresa” libro scritto a più mani e curato da Alessia Zorloni pubblicato da poco.
Il punto di partenza del volume è la constatazione che solo una piccola parte delle collezioni dei più importanti musei pubblici viene esposta. Un problema piuttosto sentito dai collezionisti che possono percorrere due strade diverse: decidere di donare le proprie opere chiedendo come conditio sine qua non la loro esposizione permanente oppure aprire un proprio museo mettendo a disposizione degli amanti dell’arte le loro collezioni. Situazione che vale anche per molte imprese che arrivano ad una conclusione: mettere a diposizione le proprie collezioni (ma anche gli oggetti che hanno fatto la storia della propria produzione), è uno degli aspetti che costruiscono quella responsabilità sociale d’impresa che ormai da più partri viene riconosciuta come “sale” di molte attività produttive.
Il libro, oltre a dare la parola ai protagonisti e illustrare ciò che hanno creato, analizza quindi i problemi economici, fiscali e giuridici che famiglie e imprese si trovano ad affrontare nella gestione e nella valorizzazione della propria collezione. L’obiettivo è integrare la prospettiva economica ad aspetti legali e fiscali per consentire a ogni collezionista e ai professionisti che lo affiancano di avere strumenti, metodi e competenze per la messa a punto di una strategia di gestione patrimoniale integrata.
Scorrono quindi nelle circa trecento pagine del libro, prima un inquadramento del tema e una analisi della situazione, poi un approfondimento delle modalità di gestione e valorizzazione delle collezioni, successivamente una analisi della presenza dell’arte in azienda e quindi la messa a fuoco non solo delle tecniche di esposizione ma anche degli aspetti più operativi dal punto di vista giuridico e fiscale. Chiudono il libro una serie di testimonianze (non solo italiane).
Il libro curato da Alessia Zorloni affronta un aspetto spesso trascurato della cultura d’impresa che si evolve in svariate forme: da leggere.

Musei privati. La passione per l’arte contemporanea nelle collezioni di famiglia e d’impresa
Alessia Zorloni (a cura di)
Egea, 2019

Cultura dell’impresa “aumentata”

L’illustrazione sintetica della RA e della RV fa intravvedere nuovi scenari produttivi

Fabbrica virtuale e nuove tecnologie. Immaterialità del produrre che si fa oggetto fisico. Manifattura impalpabile eppure reale. Oltre la sapienza produttiva tradizionale – e in qualche modo anche oltre i paradigmi dell’industria 4.0 -, i sistemi industriali sono toccati da metodi di produzione quasi al di là della realtà. Eppure esistenti. Ultima frontiera della cultura del produrre e d’impresa, gli schemi d’azione di queste nuove tecniche devono essere ancora compresi fino in fondo. Serve allora leggere “Applicazioni delle tecnologie immersive nell’industria e Realtà Aumentata come innovazione di processo nella Logistica: stato dell’arte ed implicazioni manageriali”, scritto da Marco Remondino (Ricercatore universitario di Economia e Gestione delle Imprese del Dipartimento di Economia all’Università degli Studi di Genova). L’articolo è una utile introduzione ad un mondo quasi sfuggente nella sua velocità di evoluzione.

Il concetto di “tecnologia immersiva” – dice subito l’autore -, “si riferisce all’obiettivo di rendere meno netto il confine tra il mondo fisico (reale) ed il mondo simulato e generato da un computer (virtuale), creando una sensazione di immersione e commistione tra elementi provenienti da contesti potenzialmente diversi ed eterogenei. Ci si riferisce dunque ad un’esperienza digitale coinvolgente e potenzialmente multisensoriale, che può essere fornita utilizzando diverse tecnologie, tra cui: realtà virtuale (RV), realtà aumentata (RA), video a 360°, realtà miste e combinazioni tra queste”. Fabbriche virtuali, dunque, ma anche “aumentate”. Con tutto quello che ne consegue dal punto di vista del lavoro, dell’organizzazione della produzione, dei rapporti all’interno degli stabilimenti e negli uffici, oltre che con l’esterno.

Tema vasto e complesso. Per questo l’articolo di Remondino restringe il campo ad un’analisi dello stato dell’arte dell’utilizzo di tali tecnologie, con particolare attenzione alla RA, in quanto “innovazione di processo in ambito industriale e manageriale, con particolare attenzione all’aspetto strategico relativo alla possibile ottimizzazione di processi esistenti o alla creazione di nuove possibilità”.

L’autore conduce quindi chi legge prima attraverso un inquadramento generale del tema (indicando fra l’altro che queste tecnologie potrebbero raggiungere un giro d’affari pari a 95 miliardi di dollari entro il 2025), poi focalizza l’attenzione sugli ambiti di utilizzo industriale delle RV e RA, successivamente vengono approfonditi gli aspetti relativi alle applicazioni della logistica oltre che quelli più generali collegati al management.

Lo studio di Remondino non è una pietra miliare nella saggistica relativa alla RA e alla RV, ma ha il grande pregio di spiegare con parole chiare (ed esatte), che cosa l’industria può trovarsi davanti (e dentro) non fra decenni ma subito.

Applicazioni delle tecnologie immersive nell’industria e Realtà Aumentata come innovazione di processo nella Logistica: stato dell’arte ed implicazioni manageriali

Marco Remondino

Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, n. 3, 2018

L’illustrazione sintetica della RA e della RV fa intravvedere nuovi scenari produttivi

Fabbrica virtuale e nuove tecnologie. Immaterialità del produrre che si fa oggetto fisico. Manifattura impalpabile eppure reale. Oltre la sapienza produttiva tradizionale – e in qualche modo anche oltre i paradigmi dell’industria 4.0 -, i sistemi industriali sono toccati da metodi di produzione quasi al di là della realtà. Eppure esistenti. Ultima frontiera della cultura del produrre e d’impresa, gli schemi d’azione di queste nuove tecniche devono essere ancora compresi fino in fondo. Serve allora leggere “Applicazioni delle tecnologie immersive nell’industria e Realtà Aumentata come innovazione di processo nella Logistica: stato dell’arte ed implicazioni manageriali”, scritto da Marco Remondino (Ricercatore universitario di Economia e Gestione delle Imprese del Dipartimento di Economia all’Università degli Studi di Genova). L’articolo è una utile introduzione ad un mondo quasi sfuggente nella sua velocità di evoluzione.

Il concetto di “tecnologia immersiva” – dice subito l’autore -, “si riferisce all’obiettivo di rendere meno netto il confine tra il mondo fisico (reale) ed il mondo simulato e generato da un computer (virtuale), creando una sensazione di immersione e commistione tra elementi provenienti da contesti potenzialmente diversi ed eterogenei. Ci si riferisce dunque ad un’esperienza digitale coinvolgente e potenzialmente multisensoriale, che può essere fornita utilizzando diverse tecnologie, tra cui: realtà virtuale (RV), realtà aumentata (RA), video a 360°, realtà miste e combinazioni tra queste”. Fabbriche virtuali, dunque, ma anche “aumentate”. Con tutto quello che ne consegue dal punto di vista del lavoro, dell’organizzazione della produzione, dei rapporti all’interno degli stabilimenti e negli uffici, oltre che con l’esterno.

Tema vasto e complesso. Per questo l’articolo di Remondino restringe il campo ad un’analisi dello stato dell’arte dell’utilizzo di tali tecnologie, con particolare attenzione alla RA, in quanto “innovazione di processo in ambito industriale e manageriale, con particolare attenzione all’aspetto strategico relativo alla possibile ottimizzazione di processi esistenti o alla creazione di nuove possibilità”.

L’autore conduce quindi chi legge prima attraverso un inquadramento generale del tema (indicando fra l’altro che queste tecnologie potrebbero raggiungere un giro d’affari pari a 95 miliardi di dollari entro il 2025), poi focalizza l’attenzione sugli ambiti di utilizzo industriale delle RV e RA, successivamente vengono approfonditi gli aspetti relativi alle applicazioni della logistica oltre che quelli più generali collegati al management.

Lo studio di Remondino non è una pietra miliare nella saggistica relativa alla RA e alla RV, ma ha il grande pregio di spiegare con parole chiare (ed esatte), che cosa l’industria può trovarsi davanti (e dentro) non fra decenni ma subito.

Applicazioni delle tecnologie immersive nell’industria e Realtà Aumentata come innovazione di processo nella Logistica: stato dell’arte ed implicazioni manageriali

Marco Remondino

Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, n. 3, 2018

“Mobilitazione industriale”

Nel racconto delle fabbriche durante la guerra, un aspetto poco esplorato della cultura italiana del produrre

Fabbriche in guerra. Cultura del produrre applicata alle armi, ma anche a tutto quello che può servire ad un soldato di fronte alla battaglia. Aspetto non troppo conosciuto dell’industria, anche quella italiana, quello delle fabbriche alle prese con le necessità di produzione (e di efficienza) dettate da una guerra è tutto da indagare, anche da parte di chi (imprenditore o manager), oggi si trova a gestire l’industria 4.0. E’ una questione di consapevolezza del passato, di radici del presente, di attenzione a chi ci ha preceduti. E’ importante allora leggere “Industriarsi per vincere. Le imprese e la Grande Guerra” curato da Andrea Pozzetta e pubblicato da poche settimane.
Il libro è un saggio fatto di parole e di immagini, dove le prime rincorrono le seconde e le seconde le prime, in un susseguirsi di ritratti di fabbriche, ma soprattutto di vite di donne e uomini, che nel corso della Grande Guerra hanno combattuto nelle retrovie e cioè nella produzione bellica.
Quello raccontato è un inedito percorso iconografico sulla straordinaria mobilitazione tecnica e produttiva delle aziende italiane nell’emergenza della Grande Guerra. Borracce, gavette e carne in scatola per il rancio, panni di lana per le divise in grigioverde, munizioni, vanghe, piccozze e mezzi di trasporto, dalle biciclette alle navi e agli aerei, raccontano la quotidianità del conflitto attraverso documenti, cartoline e fotografie storiche. Questi oggetti e strumenti, divenuti veri e propri simboli degli italiani in guerra, hanno costruito l’identità collettiva di generazioni di soldati e di civili impegnati nel fronte interno. La manifestazione concreta di una cultura d’impresa che è, come scrive Alessandro Barbero nella presentazione del libro, non solo “un viaggio della memoria ma una riflessione critica sull’Italia della prima guerra mondiale: l’Italia dei nostri nonni e bisnonni, impegnata in quello che è rimasto fino ad oggi lo sforzo più immane che il Paese abbia mai dovuto affrontare”.
Il racconto contenuto nel libro inizia così dalla descrizione del “cantiere della mobilitazione industriale”, per poi passare subito ad approfondire le relazioni fra cultura d’impresa, ricerca scientifica ed esigenze di guerra. Sono quindi descritti alcuni aspetti particolari come quelli della produzione tessile e alimentare, e poi quelli della produzione di cannoni e di grandi armamenti, così come quelli degli oggetti della “quotidianità della guerra”; senza dimenticare le fabbriche metalmeccaniche, aeronautiche e navali.
E’ una particolare cultura del produrre, certo, ma pur sempre un orgoglio d’impresa ciò che viene descritto nel libro curato da Andrea Pozzetta, che trova poi evoluzioni importanti. “L’innovazione e la sperimentazione tecnica – viene spiegato -, permettono, da un lato, il successo di settori in pieno sviluppo come l’aeronautica, l’automobilismo o l’ingegneria meccanica, influenzando, dopo la guerra, la vita civile e i consumi di tutti gli italiani. Dall’altro lato, si diffondono nelle officine e negli stabilimenti industriali i primi embrionali strumenti di previdenza sociale, si attuano i primi tavoli di concertazione tra sindacati e industria, mentre le donne, per la prima volta, fanno ingresso massiccio nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro”.
“Industriarsi per vincere” è un libro da leggere con attenzione, anche per capire attraverso quali inaspettati percorsi l’industria italiana è arrivata fino ad oggi, e senza dimenticare di guardare negli occhi le centinaia di persone i cui sguardi emergono come altrettanti moniti per l’oggi.

Industriarsi per vincere. Le imprese e la Grande Guerra
Andrea Pozzetta (a cura di)
Interlinea, 2018

Nel racconto delle fabbriche durante la guerra, un aspetto poco esplorato della cultura italiana del produrre

Fabbriche in guerra. Cultura del produrre applicata alle armi, ma anche a tutto quello che può servire ad un soldato di fronte alla battaglia. Aspetto non troppo conosciuto dell’industria, anche quella italiana, quello delle fabbriche alle prese con le necessità di produzione (e di efficienza) dettate da una guerra è tutto da indagare, anche da parte di chi (imprenditore o manager), oggi si trova a gestire l’industria 4.0. E’ una questione di consapevolezza del passato, di radici del presente, di attenzione a chi ci ha preceduti. E’ importante allora leggere “Industriarsi per vincere. Le imprese e la Grande Guerra” curato da Andrea Pozzetta e pubblicato da poche settimane.
Il libro è un saggio fatto di parole e di immagini, dove le prime rincorrono le seconde e le seconde le prime, in un susseguirsi di ritratti di fabbriche, ma soprattutto di vite di donne e uomini, che nel corso della Grande Guerra hanno combattuto nelle retrovie e cioè nella produzione bellica.
Quello raccontato è un inedito percorso iconografico sulla straordinaria mobilitazione tecnica e produttiva delle aziende italiane nell’emergenza della Grande Guerra. Borracce, gavette e carne in scatola per il rancio, panni di lana per le divise in grigioverde, munizioni, vanghe, piccozze e mezzi di trasporto, dalle biciclette alle navi e agli aerei, raccontano la quotidianità del conflitto attraverso documenti, cartoline e fotografie storiche. Questi oggetti e strumenti, divenuti veri e propri simboli degli italiani in guerra, hanno costruito l’identità collettiva di generazioni di soldati e di civili impegnati nel fronte interno. La manifestazione concreta di una cultura d’impresa che è, come scrive Alessandro Barbero nella presentazione del libro, non solo “un viaggio della memoria ma una riflessione critica sull’Italia della prima guerra mondiale: l’Italia dei nostri nonni e bisnonni, impegnata in quello che è rimasto fino ad oggi lo sforzo più immane che il Paese abbia mai dovuto affrontare”.
Il racconto contenuto nel libro inizia così dalla descrizione del “cantiere della mobilitazione industriale”, per poi passare subito ad approfondire le relazioni fra cultura d’impresa, ricerca scientifica ed esigenze di guerra. Sono quindi descritti alcuni aspetti particolari come quelli della produzione tessile e alimentare, e poi quelli della produzione di cannoni e di grandi armamenti, così come quelli degli oggetti della “quotidianità della guerra”; senza dimenticare le fabbriche metalmeccaniche, aeronautiche e navali.
E’ una particolare cultura del produrre, certo, ma pur sempre un orgoglio d’impresa ciò che viene descritto nel libro curato da Andrea Pozzetta, che trova poi evoluzioni importanti. “L’innovazione e la sperimentazione tecnica – viene spiegato -, permettono, da un lato, il successo di settori in pieno sviluppo come l’aeronautica, l’automobilismo o l’ingegneria meccanica, influenzando, dopo la guerra, la vita civile e i consumi di tutti gli italiani. Dall’altro lato, si diffondono nelle officine e negli stabilimenti industriali i primi embrionali strumenti di previdenza sociale, si attuano i primi tavoli di concertazione tra sindacati e industria, mentre le donne, per la prima volta, fanno ingresso massiccio nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro”.
“Industriarsi per vincere” è un libro da leggere con attenzione, anche per capire attraverso quali inaspettati percorsi l’industria italiana è arrivata fino ad oggi, e senza dimenticare di guardare negli occhi le centinaia di persone i cui sguardi emergono come altrettanti moniti per l’oggi.

Industriarsi per vincere. Le imprese e la Grande Guerra
Andrea Pozzetta (a cura di)
Interlinea, 2018

Ecco il “socio occulto” che inquina l’economia al Nord e la risposta antimafia delle imprese da Milano a Verona

“Il socio occulto”. E’ il titolo, molto efficace, dell’ultimo libro di Marella Caramazza, direttore della Fondazione Istud ed esperta di formazione aziendale, pubblicato da Egea. E indica bene quale sia la strategia delle mafie nei confronti delle imprese, soprattutto nelle aree più ricche e dinamiche d’Italia, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia, ma anche il Piemonte, la Liguria e, perché no?, la piccola ma appetibile Valle d’Aosta. Un “socio occulto” che si infiltra con una strategia di sostegni, aiuti, protezione, finanziamenti. Poi s’impossessa stabilmente dell’impresa, cacciando spesso l’imprenditore originario. E da lì si espande stravolgendo il mercato, la concorrenza, le strutture sociali e corrompendo la politica e la pubblica amministrazione.

Per anni, purtroppo sino a tempi recenti, in tanti, anche con responsabilità di governo nazionale e locale, hanno detto: “In Lombardia la mafia non esiste” o “in Veneto non ce n’è traccia, chi lo dice diffama una società sana”. Negli anni Sessanta lo si diceva pure in Sicilia o a Napoli o a Reggio Calabria, salvo poi dover prendere atto di quanto Cosa nostra, la camorra e la ‘ndrangheta avessero messo le mani su città e paesi, affari e interessi, uccidendo, violentando, ricattando, stravolgendo una parte larga del Mezzogiorno. Adesso quella mafia spara di meno e però s’impegna comunque a fare soldi e controllare affari e interessi, distruggendo parti crescenti di economia e società. Come un tumore.

Un tumore diffuso. Da affrontare e recidere anche comprendendo come si stiano evolvendo i “Modelli criminali”, per parafrasare il titolo dell’ottimo libro di Giuseppe Pignatone, Procuratore capo della Repubblica di Roma (dopo una lunga e brillante carriera a Palermo e a Reggio Calabria) e Michele Prestipino, Procuratore aggiunto di Roma: una documentata e competente ricostruzione, pubblicata da Laterza, delle trasformazioni mafiose, dai boss siciliani alle ‘ndrine che dagli anni Ottanta hanno “occupato” le province del Nord, dai traffici camorristi su droga e traffico illegale di rifiuti sino a “Mafia capitale”.

Che proprio il Nord sia una frontiera di allarmante presenza mafiosa lo conferma proprio l’ultimo rapporto della Dna, la Direzione nazionale antimafia: “Le infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’economia legale sono consistenti anche nel Nord Italia. Ciò si desume pure dalle tante interdittive antimafia rilasciate nel nord del Paese per società che operano nel settore edilizio, del trasporto e smaltimento rifiuti, dell’autotrasporto e della ristorazione”.

Attività criminali. E relazioni torbide con ambienti politici e economici. Il rapporto della Dna, infatti, sottolinea come “la ricerca da parte delle cosche di imprenditori prestanome, necessari per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, prescinda dalla loro area di origine e dal contesto geo-criminale in cui insistono le sedi legali delle società”.

Boss d’origine calabrese, siciliana o campana e, di recente, anche pugliese e imprenditori complici, a Milano in Brianza e nella ricca provincia lombarda (“‘Ndrangheta, vedi Cantù e pensi a Locri”, sostiene Nando Dalla Chiesa, direttore del Cross, l’Osservatorio universitario sulla criminalità organizzata, parlando di un processo che, appunto a Cantù, vede coinvolti capi mafia e complici locali) ma anche a Brescia e a Bergamo (arresti recenti, a metà marzo, di uomini della ‘ndrangheta specializzati nel “servizio recupero crediti”) e nelle ricche città venete ed emiliane.

Le mafie al Nord. Una minaccia crescente. Da cercare di battere, proprio in difesa della buona economia.

Una conferma arriva da Verona, dove la Camera di Commercio e Avviso Pubblico (la rete di enti locali contro la criminalità organizzata) hanno promosso, nei giorni scorsi, un convegno su “Mafie ed economia” con la presenza di magistrati, imprenditori, pubblici amministratori, uomini delle forze dell’ordine e un folto pubblico di studenti.

“Massima attenzione ai reati sentinella”, ha ammonito il Procuratore capo della Repubblica Angela Barbaglia: strani fallimenti aziendali, false fatturazioni, evasione fiscale, corruzione. E Bruno Cherchi, Procuratore antimafia del Veneto: “Tutta la regione è a rischio di infiltrazioni mafiose”. Lo conferma proprio l’ultima operazione antimafia nella regione, 50 arresti nello scorso febbraio, tra boss di ‘ndrangheta e camorra (legati al feroce “clan dei Casalesi”), amministratori locali e professionisti impegnati in attività di costruzione, riciclaggio di denaro e altri reati tipici della criminalità organizzata che trova spazio nell’economia.

La risposta? “Indebolire la mafia sottraendole potere economico”, è la tesi del nuovo prefetto di Verona, Donato Giovanni Cafagna, una lunga esperienza nella Terra dei fuochi in Campania, in Puglia ma anche a Milano, nella stagione dell’Expo, un buon esempio di come, proprio con le “interdittive” della Prefettura rivolte alle imprese sospette di relazioni con ambienti criminali, si siano salvaguardate le esigenze di fare presto e bene importanti lavori pubblici e, contemporaneamente, quelle di trasparenza ed efficienza della pubblica amministrazione.

Fermare lo sguardo su Milano, dunque. Per capire meglio tendenze criminali e reazioni della società civile.

Sostiene ancora “Il socio occulto” della Caramazza: “La scelta da parte della mafia di entrare nel mercato legale attraverso il controllo di imprese sane costituisce uno dei maggiori rischi per la tutela della libera azione economica e per l’esercizio di un’equa concorrenza”. E ancora: “Siamo in presenza di una strategia aggressiva ma silenziosa e mimetica, attraverso cui l’impresa legale diventa bersaglio delle organizzazioni criminali, fino a quando il confine tra impresa legale e impresa illecita, o addirittura criminale, non è più demarcabile”.

Proprio da questa consapevolezza è nata, dieci anni fa, la scelta di Assolombarda di puntare sulla difesa e la promozione della legalità, come funzione essenziale per la competitività di Milano e delle sue imprese, considerando le mafie (la ‘ndrangheta, innanzitutto, l’organizzazione criminale attualmente più potente e diffusa) come una presenza eversiva. Eversiva del mercato. Eversiva della sostenibilità economica dello sviluppo. Eversiva dei rapporti commerciali e di lavoro, in parecchi settori della vita economica e sociale: l’edilizia, gli appalti e le forniture pubbliche, la sanità, il commercio, il trasporto, lo smaltimento dei rifiuti, una serie di servizi finanziari. Un impegno antimafia di lunga lena. Fondato sullo studio del fenomeno, sulle relazioni positive con Palazzo di Giustizia e le strutture degli inquirenti (l’azione investigativa e repressiva è fondamentale, anche se da sola non sufficiente a battere le cosche mafiose), su un’insistente attività di sensibilizzazione e di comunicazione con i responsabili delle imprese iscritte ad Assolombarda. Il messaggio chiave: la mafia non è un’agenzia di servizi cui rivolgersi per risolvere un problema, avere un finanziamento, recuperare un credito, ottenere un appalto, vincere una gara di fornitura, battere un concorrente o risolvere un conflitto sindacale. Il rapporto con la mafia è “per sempre”. L’azienda inquinata è un’azienda condannata a finire nell’universo dell’economia illegale.

Il messaggio trova ascolto. Il “socio occulto” è ancora attivo, una tentazione costante. Ma finora non vincente.

“Il socio occulto”. E’ il titolo, molto efficace, dell’ultimo libro di Marella Caramazza, direttore della Fondazione Istud ed esperta di formazione aziendale, pubblicato da Egea. E indica bene quale sia la strategia delle mafie nei confronti delle imprese, soprattutto nelle aree più ricche e dinamiche d’Italia, la Lombardia, il Veneto, l’Emilia, ma anche il Piemonte, la Liguria e, perché no?, la piccola ma appetibile Valle d’Aosta. Un “socio occulto” che si infiltra con una strategia di sostegni, aiuti, protezione, finanziamenti. Poi s’impossessa stabilmente dell’impresa, cacciando spesso l’imprenditore originario. E da lì si espande stravolgendo il mercato, la concorrenza, le strutture sociali e corrompendo la politica e la pubblica amministrazione.

Per anni, purtroppo sino a tempi recenti, in tanti, anche con responsabilità di governo nazionale e locale, hanno detto: “In Lombardia la mafia non esiste” o “in Veneto non ce n’è traccia, chi lo dice diffama una società sana”. Negli anni Sessanta lo si diceva pure in Sicilia o a Napoli o a Reggio Calabria, salvo poi dover prendere atto di quanto Cosa nostra, la camorra e la ‘ndrangheta avessero messo le mani su città e paesi, affari e interessi, uccidendo, violentando, ricattando, stravolgendo una parte larga del Mezzogiorno. Adesso quella mafia spara di meno e però s’impegna comunque a fare soldi e controllare affari e interessi, distruggendo parti crescenti di economia e società. Come un tumore.

Un tumore diffuso. Da affrontare e recidere anche comprendendo come si stiano evolvendo i “Modelli criminali”, per parafrasare il titolo dell’ottimo libro di Giuseppe Pignatone, Procuratore capo della Repubblica di Roma (dopo una lunga e brillante carriera a Palermo e a Reggio Calabria) e Michele Prestipino, Procuratore aggiunto di Roma: una documentata e competente ricostruzione, pubblicata da Laterza, delle trasformazioni mafiose, dai boss siciliani alle ‘ndrine che dagli anni Ottanta hanno “occupato” le province del Nord, dai traffici camorristi su droga e traffico illegale di rifiuti sino a “Mafia capitale”.

Che proprio il Nord sia una frontiera di allarmante presenza mafiosa lo conferma proprio l’ultimo rapporto della Dna, la Direzione nazionale antimafia: “Le infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’economia legale sono consistenti anche nel Nord Italia. Ciò si desume pure dalle tante interdittive antimafia rilasciate nel nord del Paese per società che operano nel settore edilizio, del trasporto e smaltimento rifiuti, dell’autotrasporto e della ristorazione”.

Attività criminali. E relazioni torbide con ambienti politici e economici. Il rapporto della Dna, infatti, sottolinea come “la ricerca da parte delle cosche di imprenditori prestanome, necessari per l’aggiudicazione degli appalti pubblici, prescinda dalla loro area di origine e dal contesto geo-criminale in cui insistono le sedi legali delle società”.

Boss d’origine calabrese, siciliana o campana e, di recente, anche pugliese e imprenditori complici, a Milano in Brianza e nella ricca provincia lombarda (“‘Ndrangheta, vedi Cantù e pensi a Locri”, sostiene Nando Dalla Chiesa, direttore del Cross, l’Osservatorio universitario sulla criminalità organizzata, parlando di un processo che, appunto a Cantù, vede coinvolti capi mafia e complici locali) ma anche a Brescia e a Bergamo (arresti recenti, a metà marzo, di uomini della ‘ndrangheta specializzati nel “servizio recupero crediti”) e nelle ricche città venete ed emiliane.

Le mafie al Nord. Una minaccia crescente. Da cercare di battere, proprio in difesa della buona economia.

Una conferma arriva da Verona, dove la Camera di Commercio e Avviso Pubblico (la rete di enti locali contro la criminalità organizzata) hanno promosso, nei giorni scorsi, un convegno su “Mafie ed economia” con la presenza di magistrati, imprenditori, pubblici amministratori, uomini delle forze dell’ordine e un folto pubblico di studenti.

“Massima attenzione ai reati sentinella”, ha ammonito il Procuratore capo della Repubblica Angela Barbaglia: strani fallimenti aziendali, false fatturazioni, evasione fiscale, corruzione. E Bruno Cherchi, Procuratore antimafia del Veneto: “Tutta la regione è a rischio di infiltrazioni mafiose”. Lo conferma proprio l’ultima operazione antimafia nella regione, 50 arresti nello scorso febbraio, tra boss di ‘ndrangheta e camorra (legati al feroce “clan dei Casalesi”), amministratori locali e professionisti impegnati in attività di costruzione, riciclaggio di denaro e altri reati tipici della criminalità organizzata che trova spazio nell’economia.

La risposta? “Indebolire la mafia sottraendole potere economico”, è la tesi del nuovo prefetto di Verona, Donato Giovanni Cafagna, una lunga esperienza nella Terra dei fuochi in Campania, in Puglia ma anche a Milano, nella stagione dell’Expo, un buon esempio di come, proprio con le “interdittive” della Prefettura rivolte alle imprese sospette di relazioni con ambienti criminali, si siano salvaguardate le esigenze di fare presto e bene importanti lavori pubblici e, contemporaneamente, quelle di trasparenza ed efficienza della pubblica amministrazione.

Fermare lo sguardo su Milano, dunque. Per capire meglio tendenze criminali e reazioni della società civile.

Sostiene ancora “Il socio occulto” della Caramazza: “La scelta da parte della mafia di entrare nel mercato legale attraverso il controllo di imprese sane costituisce uno dei maggiori rischi per la tutela della libera azione economica e per l’esercizio di un’equa concorrenza”. E ancora: “Siamo in presenza di una strategia aggressiva ma silenziosa e mimetica, attraverso cui l’impresa legale diventa bersaglio delle organizzazioni criminali, fino a quando il confine tra impresa legale e impresa illecita, o addirittura criminale, non è più demarcabile”.

Proprio da questa consapevolezza è nata, dieci anni fa, la scelta di Assolombarda di puntare sulla difesa e la promozione della legalità, come funzione essenziale per la competitività di Milano e delle sue imprese, considerando le mafie (la ‘ndrangheta, innanzitutto, l’organizzazione criminale attualmente più potente e diffusa) come una presenza eversiva. Eversiva del mercato. Eversiva della sostenibilità economica dello sviluppo. Eversiva dei rapporti commerciali e di lavoro, in parecchi settori della vita economica e sociale: l’edilizia, gli appalti e le forniture pubbliche, la sanità, il commercio, il trasporto, lo smaltimento dei rifiuti, una serie di servizi finanziari. Un impegno antimafia di lunga lena. Fondato sullo studio del fenomeno, sulle relazioni positive con Palazzo di Giustizia e le strutture degli inquirenti (l’azione investigativa e repressiva è fondamentale, anche se da sola non sufficiente a battere le cosche mafiose), su un’insistente attività di sensibilizzazione e di comunicazione con i responsabili delle imprese iscritte ad Assolombarda. Il messaggio chiave: la mafia non è un’agenzia di servizi cui rivolgersi per risolvere un problema, avere un finanziamento, recuperare un credito, ottenere un appalto, vincere una gara di fornitura, battere un concorrente o risolvere un conflitto sindacale. Il rapporto con la mafia è “per sempre”. L’azienda inquinata è un’azienda condannata a finire nell’universo dell’economia illegale.

Il messaggio trova ascolto. Il “socio occulto” è ancora attivo, una tentazione costante. Ma finora non vincente.

Le biblioteche Pirelli: strumenti di welfare e di benessere

Una biblioteca sul luogo di lavoro. È questo il tema del convegno “Biblioteche in Azienda: strumenti di welfare e di benessere”, organizzato da CSBNO presso la Fondazione Stelline, oggi 14 marzo, dove si parlerà di cultura in azienda, di qualità del lavoro e di biblioteche aziendali, attraverso le esperienze di diverse realtà imprenditoriali. Pirelli sarà presente con un intervento di Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli che oggi gestisce le biblioteche aziendali di Milano e Bollate.

Quella delle biblioteche aziendali è una tradizione portata avanti da Pirelli da quasi un secolo. Risale infatti al 1928 la prima biblioteca Pirelli: una biblioteca circolante, con 800 volumi a disposizione del personale iscritto al “Dopolavoro Aziende Pirelli”. Uno dei primi esempi di promozione della lettura all’interno di un’impresa. Oggi sono tre le biblioteche aziendali Pirelli: negli uffici dell’Headquarters di Milano Bicocca, nella fabbrica di Bollate e nel Polo Industriale di Settimo Torinese. Tre biblioteche che mettono a disposizione dei dipendenti oltre 10.000 volumi. Nelle sedi milanesi sono oltre 250 i prestiti e rinnovi al mese, oltre 500 utenti registrati e oltre 320 iscritti alla newsletter periodica. Le biblioteche sono parte dei numerosi progetti dell’azienda volti al miglioramento della qualità della vita nell’ambiente di lavoro: “L’importanza della lettura come parte della formazione delle persone è sempre stata nel DNA dell’azienda. Oggi noi abbiamo aperto biblioteche a Settimo Torinese, a Bollate, in Bicocca e siamo collegati con tutto il Sistema delle Biblioteche Milanesi. Questo dà accesso a oltre un milione di materiali fra documenti, video, magazine, giornali e libri. Noi riteniamo che la lettura sia uno spazio importante nella vita delle persone e fa parte di quel rapporto fra Pirelli e la cultura che è sempre stato alla base della società aperta in cui Pirelli si è radicata.” Queste le parole di Marco Tronchetti Provera, Pirelli Executive Vice President and CEO e Presidente della Fondazione Pirelli, che ci raccontano come oggi le Biblioteche Pirelli si intrecciano con il tessuto urbano nel quale sono radicate, entrando anche a far parte dei sistemi bibliotecari delle aree in cui si trovano, come per la biblioteca di Milano Bicocca, integrata nel Sistema Bibliotecario Milanese (SBM) e quella di Settimo Torinese, che collabora con il Sistema Bibliotecario di Area Metropolitana Torinese (SBAM). Un sistema virtuoso di dialogo tra pubblico e privato.

Una biblioteca sul luogo di lavoro. È questo il tema del convegno “Biblioteche in Azienda: strumenti di welfare e di benessere”, organizzato da CSBNO presso la Fondazione Stelline, oggi 14 marzo, dove si parlerà di cultura in azienda, di qualità del lavoro e di biblioteche aziendali, attraverso le esperienze di diverse realtà imprenditoriali. Pirelli sarà presente con un intervento di Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli che oggi gestisce le biblioteche aziendali di Milano e Bollate.

Quella delle biblioteche aziendali è una tradizione portata avanti da Pirelli da quasi un secolo. Risale infatti al 1928 la prima biblioteca Pirelli: una biblioteca circolante, con 800 volumi a disposizione del personale iscritto al “Dopolavoro Aziende Pirelli”. Uno dei primi esempi di promozione della lettura all’interno di un’impresa. Oggi sono tre le biblioteche aziendali Pirelli: negli uffici dell’Headquarters di Milano Bicocca, nella fabbrica di Bollate e nel Polo Industriale di Settimo Torinese. Tre biblioteche che mettono a disposizione dei dipendenti oltre 10.000 volumi. Nelle sedi milanesi sono oltre 250 i prestiti e rinnovi al mese, oltre 500 utenti registrati e oltre 320 iscritti alla newsletter periodica. Le biblioteche sono parte dei numerosi progetti dell’azienda volti al miglioramento della qualità della vita nell’ambiente di lavoro: “L’importanza della lettura come parte della formazione delle persone è sempre stata nel DNA dell’azienda. Oggi noi abbiamo aperto biblioteche a Settimo Torinese, a Bollate, in Bicocca e siamo collegati con tutto il Sistema delle Biblioteche Milanesi. Questo dà accesso a oltre un milione di materiali fra documenti, video, magazine, giornali e libri. Noi riteniamo che la lettura sia uno spazio importante nella vita delle persone e fa parte di quel rapporto fra Pirelli e la cultura che è sempre stato alla base della società aperta in cui Pirelli si è radicata.” Queste le parole di Marco Tronchetti Provera, Pirelli Executive Vice President and CEO e Presidente della Fondazione Pirelli, che ci raccontano come oggi le Biblioteche Pirelli si intrecciano con il tessuto urbano nel quale sono radicate, entrando anche a far parte dei sistemi bibliotecari delle aree in cui si trovano, come per la biblioteca di Milano Bicocca, integrata nel Sistema Bibliotecario Milanese (SBM) e quella di Settimo Torinese, che collabora con il Sistema Bibliotecario di Area Metropolitana Torinese (SBAM). Un sistema virtuoso di dialogo tra pubblico e privato.

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?