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Milano e la sua “exciting renaissance” premiata per architettura, design, industria e cultura 

Milano sta vivendo una “exciting renaissance”, capace di coniugare “its traditional grandeur with a contemporary architectural language”, sostiene Wallpaper, una delle riviste più prestigiose e trendy del panorama internazionale. Dunque merita il premio come “Best City”, battendo Shanghai e Vancouver, secondo una giuria di architetti, designer e personalità della cultura e della moda.

E’ un riconoscimento importante, in linea con gli apprezzamenti che sempre più frequenti arrivano sulla città, dalle vivaci stagioni dell’Expo a oggi. Milano “the place to be”, secondo The New York Times. Milano capoluogo della provincia in cui si vive meglio in Italia, secondo la classifica 2018 de Il Sole24Ore sulla qualità della vita. Milano metropoli europea in cima alle valutazioni internazionali per gli investimenti, l’industria, la cultura, le life sciences, la presenza di multinazionali e di studenti che qui arrivano da tutto il mondo. Sostiene il sindaco Beppe Sala, commentando il premio di Wallpaper: “Milano è la città del design grazie alle sue istituzioni più prestigiose a cominciare dal Politecnico e a eventi mondiali come il Salone del Mobile. E in questi ultimi anni è rinata proprio attraverso i progetti di grandi studi internazionali e di architettura”.

Milano città smart, con 1milione e 400mila abitanti, una solida attenzione all’economia circolare, alle iniziative hi tech e alle start up tecnologiche (il Politecnico ne è efficace incubatore) e con una skyline segnata dalle gru delle nuove costruzioni, da Porta Nuova a Citylife, dove sta venendo su rapidamente il terzo dei grattacieli firmati da archistar, “Il Curvo”, disegnato da Daniel Libeskind, dalla Bicocca al Portello, dalla Maggiolina alla Bovisa, da Porta Vittoria alle aree a sud dello Scalo Ferroviario di Porta Romana, accanto alla sede della Fondazione Prada, luogo cult dell’arte contemporanea, insieme al Pirelli HangarBicocca.

Si progetta e si costruisce anche nelle aree di Human Technopole (l’ex zona dell’Expo, adesso centro di iniziative che riguardano ricerca, formazione, salute e imprese innovative), a Lambrate, a Santa Giulia e nel disagiato Quartiere Adriano. E le gru sono il segno di un crescente dinamismo immobiliare e imprenditoriale, che dal centro si allarga verso le periferie.

“Il Piano Quartieri prevede investimenti per 1,6 miliardi di progetti. E proprio nelle periferie e negli ex scali ferroviari è l’ora di nuove case per tutti”, sostiene Pierfrancesco Maran, assessore all’Urbanistica, responsabile di un Pgt (Piano di governo del territorio) che, a lungo discusso con le categorie produttive, gli abitanti dei quartieri, le istituzioni locali e le persone del mondo dell’università e della cultura, traccia le direttrici della metropoli per i prossimi vent’anni. Vale la pena esserci, in questa città d’Europa, che come stimolo allo sviluppo guarda anche alle Olimpiadi Invernali del 2026, insieme a Cortina.

Milano modello, Milano locomotiva, Milano simbolo dello sviluppo possibile e “sostenibile”, da green economy diffusa e produttiva? Mettersi su un piedistallo non è mai piaciuto, ai milanesi che preferiscono fare piuttosto che chiacchierare. Resta, nella memoria, semmai, l’insegnamento dello Statuto del vescovo Ariberto del 1018: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”. La città rotonda e inclusiva. La città riformista e pragmatica, sincera e non gretta, conflittuale ma non troppo incline ai drammi. La metropoli delle culture che s’incrociano, tra industria e finanza, letteratura e teatro, musica e scienza. Il luogo in cui costruire ricchezza significa anche produrre solidarietà e cultura. Una cultura politecnica e popolare, perché aperta, diffusa, né volgare né sciatta.

Nell’Italia che vive la diffusa preoccupazione di una recessione in arrivo, nonostante la propaganda ottimista del governo, Milano può dunque essere un’indicazione positiva, attiva, di sviluppo e non di “decrescita infelice”. Anche la sua economia, è vero, rallenta, non solo per effetto delle turbolenze internazionali, ma anche a causa della mancanza di fiducia provocata da forse politiche governative che si muovono contro l’impresa, le infrastrutture, la crescita, l’Europa. I consumi frenano, gli investimenti sono più lenti e prudenti. Ma si va avanti, nonostante tutto. L’anima milanese produttiva, dinamica, solidale si manifesta. Con i suoi cantieri, le università, il movimento delle imprese, il buon governo locale. “Exciting renaissance”, appunto.

Milano sta vivendo una “exciting renaissance”, capace di coniugare “its traditional grandeur with a contemporary architectural language”, sostiene Wallpaper, una delle riviste più prestigiose e trendy del panorama internazionale. Dunque merita il premio come “Best City”, battendo Shanghai e Vancouver, secondo una giuria di architetti, designer e personalità della cultura e della moda.

E’ un riconoscimento importante, in linea con gli apprezzamenti che sempre più frequenti arrivano sulla città, dalle vivaci stagioni dell’Expo a oggi. Milano “the place to be”, secondo The New York Times. Milano capoluogo della provincia in cui si vive meglio in Italia, secondo la classifica 2018 de Il Sole24Ore sulla qualità della vita. Milano metropoli europea in cima alle valutazioni internazionali per gli investimenti, l’industria, la cultura, le life sciences, la presenza di multinazionali e di studenti che qui arrivano da tutto il mondo. Sostiene il sindaco Beppe Sala, commentando il premio di Wallpaper: “Milano è la città del design grazie alle sue istituzioni più prestigiose a cominciare dal Politecnico e a eventi mondiali come il Salone del Mobile. E in questi ultimi anni è rinata proprio attraverso i progetti di grandi studi internazionali e di architettura”.

Milano città smart, con 1milione e 400mila abitanti, una solida attenzione all’economia circolare, alle iniziative hi tech e alle start up tecnologiche (il Politecnico ne è efficace incubatore) e con una skyline segnata dalle gru delle nuove costruzioni, da Porta Nuova a Citylife, dove sta venendo su rapidamente il terzo dei grattacieli firmati da archistar, “Il Curvo”, disegnato da Daniel Libeskind, dalla Bicocca al Portello, dalla Maggiolina alla Bovisa, da Porta Vittoria alle aree a sud dello Scalo Ferroviario di Porta Romana, accanto alla sede della Fondazione Prada, luogo cult dell’arte contemporanea, insieme al Pirelli HangarBicocca.

Si progetta e si costruisce anche nelle aree di Human Technopole (l’ex zona dell’Expo, adesso centro di iniziative che riguardano ricerca, formazione, salute e imprese innovative), a Lambrate, a Santa Giulia e nel disagiato Quartiere Adriano. E le gru sono il segno di un crescente dinamismo immobiliare e imprenditoriale, che dal centro si allarga verso le periferie.

“Il Piano Quartieri prevede investimenti per 1,6 miliardi di progetti. E proprio nelle periferie e negli ex scali ferroviari è l’ora di nuove case per tutti”, sostiene Pierfrancesco Maran, assessore all’Urbanistica, responsabile di un Pgt (Piano di governo del territorio) che, a lungo discusso con le categorie produttive, gli abitanti dei quartieri, le istituzioni locali e le persone del mondo dell’università e della cultura, traccia le direttrici della metropoli per i prossimi vent’anni. Vale la pena esserci, in questa città d’Europa, che come stimolo allo sviluppo guarda anche alle Olimpiadi Invernali del 2026, insieme a Cortina.

Milano modello, Milano locomotiva, Milano simbolo dello sviluppo possibile e “sostenibile”, da green economy diffusa e produttiva? Mettersi su un piedistallo non è mai piaciuto, ai milanesi che preferiscono fare piuttosto che chiacchierare. Resta, nella memoria, semmai, l’insegnamento dello Statuto del vescovo Ariberto del 1018: “Chi sa lavorare venga a Milano. E chi viene a Milano è un uomo libero”. La città rotonda e inclusiva. La città riformista e pragmatica, sincera e non gretta, conflittuale ma non troppo incline ai drammi. La metropoli delle culture che s’incrociano, tra industria e finanza, letteratura e teatro, musica e scienza. Il luogo in cui costruire ricchezza significa anche produrre solidarietà e cultura. Una cultura politecnica e popolare, perché aperta, diffusa, né volgare né sciatta.

Nell’Italia che vive la diffusa preoccupazione di una recessione in arrivo, nonostante la propaganda ottimista del governo, Milano può dunque essere un’indicazione positiva, attiva, di sviluppo e non di “decrescita infelice”. Anche la sua economia, è vero, rallenta, non solo per effetto delle turbolenze internazionali, ma anche a causa della mancanza di fiducia provocata da forse politiche governative che si muovono contro l’impresa, le infrastrutture, la crescita, l’Europa. I consumi frenano, gli investimenti sono più lenti e prudenti. Ma si va avanti, nonostante tutto. L’anima milanese produttiva, dinamica, solidale si manifesta. Con i suoi cantieri, le università, il movimento delle imprese, il buon governo locale. “Exciting renaissance”, appunto.

Le previsioni di un anno difficile tra crisi e mediocre legge di bilancio, con alti costi per imprese e consumatori

Un anno difficile, il 2019. Economia internazionale in affanno, per il continuare dei conflitti commerciali e strategici tra Usa e Cina, soprattutto, ma anche tra gli Usa di Trump e la Ue. Insicurezza diffusa, per i focolai di terrorismo che continuano a coinvolgere le nostre città. Gravi disagi sociali, di cui i flussi migratori sono contemporaneamente una conseguenza e una causa di nuove tensioni. E preoccupazioni crescenti sui temi dell’ambiente e del clima: “2019, fermiamo l’Apocalisse”, sintetizza in copertina “L’Espresso”, nell’ultimo numero del 2018, parlando di “riscaldamento globale, dissesti, inquinamento”, tutte questioni di grande impatto economico e sociale su cui “i grandi del mondo ostentano indifferenza”, pur essendo “una sfida decisiva per il futuro”. “L’anno della resa dei conti”, sostiene Maurizio Molinari, direttore de “La Stampa”, in un editoriale (30 dicembre) in cui enumera i nodi di politica ed economia internazionali per le democrazie in Gran Bretagna, Nord America ed Europa continentale “ferite dalle disuguaglianze, teatro della rivolta dei ceti medi e intimorite dal rischio di stagnazione finanziaria”.

Brexit, crisi di Trump sotto i colpi del “Russiagate” e della sua sempre più criticata incapacità di governo equilibrato e lungimirante, difficoltà dei partiti tradizionali nella Germania del tramonto della Merkel, appannamento delle istituzioni Ue e contestazioni dei partiti nazionalisti e sovranisti, dall’Europa centrale e orientale all’Italia, sono tutti nodi d’attualità, che in un modo o nell’altro si scioglieranno nel 2019. Come, non si sa. Ci sono timori di involuzione della democrazia liberale, come l’abbiamo finora conosciuta e apprezzata. Ma anche possibilità positive di riforma. Insomma, “l’Occidente resta il più vivace laboratorio di novità del Pianeta ma è atteso da una spietata resa dei conti con le sue profonde crisi politiche. L’economia ne è profondamente condizionata. In negativo.

“The next recession. How bad will it be?”, titolava in copertina “The Economist” già nell’ottobre 2018. “L’economia globale sta frenando. E non sarà una locomotiva a salvarci”, sostiene Klaus Schwab, economista tedesco, fondatore, cinquant’anni fa, del World Economic Forum di Davos che ogni anno, a fine gennaio, riunisce sulle montagne svizzere i principali esponenti mondiali dell’economia e delle imprese. Dunque? “Le riforme hanno fallito. Il duello è tra chi le accetta e chi le rifiuta per paura. E dobbiamo compiere tutti gli sforzi per dare una migliore alternativa alle persone che cercano rifugio nel populismo”.

Ecco il punto di crisi: si va avanti tra turbolenze e crisi e si intravvede una nuova recessione, mentre tutta l’economia è coinvolta in un gigantesco, radicale processo di trasformazione che mette in discussione equilibri sociali, culture economiche, scelte produttive, consumi. Una crisi congiunturale si inserisce in una metamorfosi strutturale. E il disagio generale è crescente.

Anche in Italia, naturalmente. Con una duplice aggravante: un’economia più fragile e lenta che nel resto dei grandi paesi della Ue (crescita negativa già negli ultimi mesi del 2018, avvertita anche nelle aree più dinamiche del paese, a cominciare da Milano e dalla Lombardia e nei settori trainanti, come l’auto, in calo di vendite) e un governo che, di fronte alla crisi, muove paure e genera aspettative di “risposte facili” ma non sa costruire politiche di lungo respiro. “A corpo sociale caldo, testa di governo fredda”, ha insegnato il Censis di Giuseppe De Rita, come regola di buon governo. Tutto il contrario di quel che succede.

Del disagio italiano s’è fatto buon interprete il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel tradizionale discorso di fine d’anno, la sera del 31 gennaio 2018. “Sicurezza c’è se tutti si sentono rispettati”, ha detto Mattarella. E ha usato una parola carica di valori, “comunità”: “Sentirsi comunità significa essere consapevoli degli elementi che ci uniscono”, rifiutando “l’astio, l’insulto, l’intolleranza che creano ostilità e timore”. La “sicurezza si realizza garantendo i valori positivi della convivenza”. E sicurezza è anche “lavoro e più equa distribuzione delle opportunità”. Un discorso rapido (dodici minuti) ed essenziale. In cui hanno trovato posto pure i valori dell’Europa, della centralità del Parlamento messo in ombra dalla compressione dei tempi per approvare la legge di bilancio, della solidarietà, con una critica esplicita alla “tassa sulla bontà” e cioè alla scelta della legge di Bilancio di tagliare gli sgravi sull’Ires per le organizzazioni del “terzo settore” e le società no profit (provvedimento contestatissimo, da tutte le istituzioni di assistenza, dalle fondazioni benefiche e dalla Chiesa, tanto da costringere il governo a promettere di fare rapidamente marcia indietro). Un’Italia che ricuce, nelle parole di Mattarella, tutt’altro che intollerante e volgare.

Il discorso del presidente è stato un successo anche mediatico. Sui social (oltre tre milioni di visualizzazioni). E in Tv (oltre dieci milioni di italiani davanti agli schermi televisivi). Sono numeri che la dicono lunga sul bisogno diffuso di autorevolezza responsabile e di istituzioni che rassicurino e indichino prospettive reali di buona vita comune, non paura e allarme sociale. Perché sono davvero preoccupati, gli italiani. Sul futuro. E soprattutto sul lavoro e dunque sull’avvenire dei figli e dei nipoti. Un altro segno di bisogno di prospettive e di spirito positivo di comunità.

Lo mostrano con chiarezza anche i dati del sondaggio dell’Ipsos guidato da Nando Pagnoncelli sulle “priorità degli italiani” (Corriere della Sera, 4 gennaio). Per il 75%, cioè tre italiani su quattro, “l’economia va male” e “il lavoro” è la priorità (la percentuale sul lavoro tocca l’82% nel Mezzogiorno). Welfare e assistenza sono priorità per una minoranza, anche se robusta, il 38% (sono i temi su cui il governo ha centrato la legge di Bilancio: reddito di cittadinanza e pensioni). E l’immigrazione si ferma al 37%, è considerata cioè questione essenziale solo da poco più di un italiano su tre. La sicurezza sta in cima ai pensieri di un italiano su quattro, l’ambiente appena dell’8%, meno di un italiano su dieci.

C’è un secondo elemento di fondo, rilevato dall’Ipsos: i pareri sulla crisi e sulle emergenze sono molto più positivi quando riguardano le zone in cui gli intervistati vivono: a casa si sta tutto sommato bene ma si è allarmati per l’Italia in generale (l’indice positivo passa da 70 nel Nord Est a 47 nel Centro Sud). C’è una questione di comunicazione e di percezione, dunque.

In generale, il 39% degli intervistati ritiene che l’Italia stia andando nella direzione sbagliata, il 35% crede invece che si sia imboccata la strada giusta. Guardando ai dati dello scorso anno, i pessimisti (“la direzione sbagliata”) erano il 66%, contro il 20% di ottimisti. Commenta Pagnoncelli: “L’analisi del clima sociale ci offre il ritratto di un Paese in bilico tra speranza e disillusione e conferma la divaricazione profonda tra la dimensione locale e quella nazionale: il legame con il territorio e il rapporto diretto con la realtà quotidiana restituiscono un quadro nel complesso positivo, sebbene disomogeneo. La realtà nazionale, viceversa, è caratterizzata dall’attitudine ad amplificare la portata di alcuni problemi e a svalutare le condizioni di un paese in cui permangono sicuramente diverse criticità, ma rappresenta pur sempre la seconda realtà manifatturiera europea, anche se solo una minoranza ne è a conoscenza”.

Se il lavoro è in cima ai pensieri degli italiani, proprio l’impresa che lo crea dovrebbe essere al primo posto dell’agenda di un buon governo responsabile. Tutto il contrario di quel che è successo con la legge di Bilancio, più o meno rispettosa delle regole e dei vincoli Ue nei saldi contabili (dopo mesi di inutili e costose polemiche con le autorità di Bruxelles) ma fortemente squilibrata su due misure elettorali: il reddito di cittadinanza caro all’assistenzialismo dei 5Stelle e “quota 100” per le pensioni in linea con le scelte dalla Lega contro la “riforma Fornero” (a discapito, però, delle pensioni medie e medio-alte: quelle di milioni di cittadini anziani, cioè). Per il lavoro e le imprese, nulla. Anzi, peggio: più tasse.

Lo ha documentato l’Upb, l’Autorità di controllo sui conti pubblici, nell’audizione del suo presidente Giuseppe Pisauro alla Camera, il 27 dicembre: la pressione fiscale aumenterà, dopo cinque anni, e salirà nel 2019 al 42,4% rispetto al 42% del 2018 e poi ancora al 42,8% nel 2020, sottraendo risorse al circuito produttivo e ai consumi, con effetti dunque “recessivi” sull’economia.

Un conto analogo arriva dall’Ufficio Studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, che stima un saldo netto di 12,9 miliardi di maggiori imposte nel triennio 2019-2021: a fronte di tagli per 6,8 miliardi sulle partite Iva individuali sino a 100mila euro e di 1,8 miliardi per il settore immobiliare, ci saranno 12,4 miliardi di maggiori tasse: 5,6 su banche e assicurazioni (con effetti negativi sulle imprese e le famiglie, per prestiti e mutui), 2,4 miliardi sulle imprese in generale, 1,3 miliardi sulle aziende digitali e 2,1 miliardi sui gruppi del gioco d’azzardo e 1 altro miliardo per provvedimenti vari ai danni di consumatori e imprese no profit. Previsti anche 7,3 miliardi di maggiori introiti da contribuenti che si metteranno in regola con il fisco, con le numerose forme di condono previste.

A parte l’effetto distorsivo dell’ennesimo condono per le imprese abitualmente in regola con le misure fiscali, il conto è facile: il carico della manovra è tutto a danno di imprese produttive e consumatori. L’effetto recessivo è, anche da questo punto di vista, evidente. Aggravato dallo sblocco, sempre nella legge di Bilancio, delle tassi locali: Comuni e Regioni potranno aumentare le aliquote Irap, Imu, Tasi e le addizionali Irpef. “Ci aspettano più tasse locali. E’ la spia più evidente di quanto taglio della pressione fiscale, crescita e lavoro siano priorità sfumate per il governo. Ed è un errore, che gli italiani stanno cogliendo”, commenta Francesco Giavazzi, economista autorevole, in un editoriale sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio. “L’anno dei rincari”, sottolinea Sandro Neri, direttore de “Il Giorno”: “Un fardello” per le imprese “che si sono trascinate nel 2019 come retaggio dell’anno passato l’incertezza”, che frena investimenti e crescita, con conseguenze negative per tutta l’Italia.

Un anno difficile, il 2019. Economia internazionale in affanno, per il continuare dei conflitti commerciali e strategici tra Usa e Cina, soprattutto, ma anche tra gli Usa di Trump e la Ue. Insicurezza diffusa, per i focolai di terrorismo che continuano a coinvolgere le nostre città. Gravi disagi sociali, di cui i flussi migratori sono contemporaneamente una conseguenza e una causa di nuove tensioni. E preoccupazioni crescenti sui temi dell’ambiente e del clima: “2019, fermiamo l’Apocalisse”, sintetizza in copertina “L’Espresso”, nell’ultimo numero del 2018, parlando di “riscaldamento globale, dissesti, inquinamento”, tutte questioni di grande impatto economico e sociale su cui “i grandi del mondo ostentano indifferenza”, pur essendo “una sfida decisiva per il futuro”. “L’anno della resa dei conti”, sostiene Maurizio Molinari, direttore de “La Stampa”, in un editoriale (30 dicembre) in cui enumera i nodi di politica ed economia internazionali per le democrazie in Gran Bretagna, Nord America ed Europa continentale “ferite dalle disuguaglianze, teatro della rivolta dei ceti medi e intimorite dal rischio di stagnazione finanziaria”.

Brexit, crisi di Trump sotto i colpi del “Russiagate” e della sua sempre più criticata incapacità di governo equilibrato e lungimirante, difficoltà dei partiti tradizionali nella Germania del tramonto della Merkel, appannamento delle istituzioni Ue e contestazioni dei partiti nazionalisti e sovranisti, dall’Europa centrale e orientale all’Italia, sono tutti nodi d’attualità, che in un modo o nell’altro si scioglieranno nel 2019. Come, non si sa. Ci sono timori di involuzione della democrazia liberale, come l’abbiamo finora conosciuta e apprezzata. Ma anche possibilità positive di riforma. Insomma, “l’Occidente resta il più vivace laboratorio di novità del Pianeta ma è atteso da una spietata resa dei conti con le sue profonde crisi politiche. L’economia ne è profondamente condizionata. In negativo.

“The next recession. How bad will it be?”, titolava in copertina “The Economist” già nell’ottobre 2018. “L’economia globale sta frenando. E non sarà una locomotiva a salvarci”, sostiene Klaus Schwab, economista tedesco, fondatore, cinquant’anni fa, del World Economic Forum di Davos che ogni anno, a fine gennaio, riunisce sulle montagne svizzere i principali esponenti mondiali dell’economia e delle imprese. Dunque? “Le riforme hanno fallito. Il duello è tra chi le accetta e chi le rifiuta per paura. E dobbiamo compiere tutti gli sforzi per dare una migliore alternativa alle persone che cercano rifugio nel populismo”.

Ecco il punto di crisi: si va avanti tra turbolenze e crisi e si intravvede una nuova recessione, mentre tutta l’economia è coinvolta in un gigantesco, radicale processo di trasformazione che mette in discussione equilibri sociali, culture economiche, scelte produttive, consumi. Una crisi congiunturale si inserisce in una metamorfosi strutturale. E il disagio generale è crescente.

Anche in Italia, naturalmente. Con una duplice aggravante: un’economia più fragile e lenta che nel resto dei grandi paesi della Ue (crescita negativa già negli ultimi mesi del 2018, avvertita anche nelle aree più dinamiche del paese, a cominciare da Milano e dalla Lombardia e nei settori trainanti, come l’auto, in calo di vendite) e un governo che, di fronte alla crisi, muove paure e genera aspettative di “risposte facili” ma non sa costruire politiche di lungo respiro. “A corpo sociale caldo, testa di governo fredda”, ha insegnato il Censis di Giuseppe De Rita, come regola di buon governo. Tutto il contrario di quel che succede.

Del disagio italiano s’è fatto buon interprete il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel tradizionale discorso di fine d’anno, la sera del 31 gennaio 2018. “Sicurezza c’è se tutti si sentono rispettati”, ha detto Mattarella. E ha usato una parola carica di valori, “comunità”: “Sentirsi comunità significa essere consapevoli degli elementi che ci uniscono”, rifiutando “l’astio, l’insulto, l’intolleranza che creano ostilità e timore”. La “sicurezza si realizza garantendo i valori positivi della convivenza”. E sicurezza è anche “lavoro e più equa distribuzione delle opportunità”. Un discorso rapido (dodici minuti) ed essenziale. In cui hanno trovato posto pure i valori dell’Europa, della centralità del Parlamento messo in ombra dalla compressione dei tempi per approvare la legge di bilancio, della solidarietà, con una critica esplicita alla “tassa sulla bontà” e cioè alla scelta della legge di Bilancio di tagliare gli sgravi sull’Ires per le organizzazioni del “terzo settore” e le società no profit (provvedimento contestatissimo, da tutte le istituzioni di assistenza, dalle fondazioni benefiche e dalla Chiesa, tanto da costringere il governo a promettere di fare rapidamente marcia indietro). Un’Italia che ricuce, nelle parole di Mattarella, tutt’altro che intollerante e volgare.

Il discorso del presidente è stato un successo anche mediatico. Sui social (oltre tre milioni di visualizzazioni). E in Tv (oltre dieci milioni di italiani davanti agli schermi televisivi). Sono numeri che la dicono lunga sul bisogno diffuso di autorevolezza responsabile e di istituzioni che rassicurino e indichino prospettive reali di buona vita comune, non paura e allarme sociale. Perché sono davvero preoccupati, gli italiani. Sul futuro. E soprattutto sul lavoro e dunque sull’avvenire dei figli e dei nipoti. Un altro segno di bisogno di prospettive e di spirito positivo di comunità.

Lo mostrano con chiarezza anche i dati del sondaggio dell’Ipsos guidato da Nando Pagnoncelli sulle “priorità degli italiani” (Corriere della Sera, 4 gennaio). Per il 75%, cioè tre italiani su quattro, “l’economia va male” e “il lavoro” è la priorità (la percentuale sul lavoro tocca l’82% nel Mezzogiorno). Welfare e assistenza sono priorità per una minoranza, anche se robusta, il 38% (sono i temi su cui il governo ha centrato la legge di Bilancio: reddito di cittadinanza e pensioni). E l’immigrazione si ferma al 37%, è considerata cioè questione essenziale solo da poco più di un italiano su tre. La sicurezza sta in cima ai pensieri di un italiano su quattro, l’ambiente appena dell’8%, meno di un italiano su dieci.

C’è un secondo elemento di fondo, rilevato dall’Ipsos: i pareri sulla crisi e sulle emergenze sono molto più positivi quando riguardano le zone in cui gli intervistati vivono: a casa si sta tutto sommato bene ma si è allarmati per l’Italia in generale (l’indice positivo passa da 70 nel Nord Est a 47 nel Centro Sud). C’è una questione di comunicazione e di percezione, dunque.

In generale, il 39% degli intervistati ritiene che l’Italia stia andando nella direzione sbagliata, il 35% crede invece che si sia imboccata la strada giusta. Guardando ai dati dello scorso anno, i pessimisti (“la direzione sbagliata”) erano il 66%, contro il 20% di ottimisti. Commenta Pagnoncelli: “L’analisi del clima sociale ci offre il ritratto di un Paese in bilico tra speranza e disillusione e conferma la divaricazione profonda tra la dimensione locale e quella nazionale: il legame con il territorio e il rapporto diretto con la realtà quotidiana restituiscono un quadro nel complesso positivo, sebbene disomogeneo. La realtà nazionale, viceversa, è caratterizzata dall’attitudine ad amplificare la portata di alcuni problemi e a svalutare le condizioni di un paese in cui permangono sicuramente diverse criticità, ma rappresenta pur sempre la seconda realtà manifatturiera europea, anche se solo una minoranza ne è a conoscenza”.

Se il lavoro è in cima ai pensieri degli italiani, proprio l’impresa che lo crea dovrebbe essere al primo posto dell’agenda di un buon governo responsabile. Tutto il contrario di quel che è successo con la legge di Bilancio, più o meno rispettosa delle regole e dei vincoli Ue nei saldi contabili (dopo mesi di inutili e costose polemiche con le autorità di Bruxelles) ma fortemente squilibrata su due misure elettorali: il reddito di cittadinanza caro all’assistenzialismo dei 5Stelle e “quota 100” per le pensioni in linea con le scelte dalla Lega contro la “riforma Fornero” (a discapito, però, delle pensioni medie e medio-alte: quelle di milioni di cittadini anziani, cioè). Per il lavoro e le imprese, nulla. Anzi, peggio: più tasse.

Lo ha documentato l’Upb, l’Autorità di controllo sui conti pubblici, nell’audizione del suo presidente Giuseppe Pisauro alla Camera, il 27 dicembre: la pressione fiscale aumenterà, dopo cinque anni, e salirà nel 2019 al 42,4% rispetto al 42% del 2018 e poi ancora al 42,8% nel 2020, sottraendo risorse al circuito produttivo e ai consumi, con effetti dunque “recessivi” sull’economia.

Un conto analogo arriva dall’Ufficio Studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, che stima un saldo netto di 12,9 miliardi di maggiori imposte nel triennio 2019-2021: a fronte di tagli per 6,8 miliardi sulle partite Iva individuali sino a 100mila euro e di 1,8 miliardi per il settore immobiliare, ci saranno 12,4 miliardi di maggiori tasse: 5,6 su banche e assicurazioni (con effetti negativi sulle imprese e le famiglie, per prestiti e mutui), 2,4 miliardi sulle imprese in generale, 1,3 miliardi sulle aziende digitali e 2,1 miliardi sui gruppi del gioco d’azzardo e 1 altro miliardo per provvedimenti vari ai danni di consumatori e imprese no profit. Previsti anche 7,3 miliardi di maggiori introiti da contribuenti che si metteranno in regola con il fisco, con le numerose forme di condono previste.

A parte l’effetto distorsivo dell’ennesimo condono per le imprese abitualmente in regola con le misure fiscali, il conto è facile: il carico della manovra è tutto a danno di imprese produttive e consumatori. L’effetto recessivo è, anche da questo punto di vista, evidente. Aggravato dallo sblocco, sempre nella legge di Bilancio, delle tassi locali: Comuni e Regioni potranno aumentare le aliquote Irap, Imu, Tasi e le addizionali Irpef. “Ci aspettano più tasse locali. E’ la spia più evidente di quanto taglio della pressione fiscale, crescita e lavoro siano priorità sfumate per il governo. Ed è un errore, che gli italiani stanno cogliendo”, commenta Francesco Giavazzi, economista autorevole, in un editoriale sul “Corriere della Sera” del 4 gennaio. “L’anno dei rincari”, sottolinea Sandro Neri, direttore de “Il Giorno”: “Un fardello” per le imprese “che si sono trascinate nel 2019 come retaggio dell’anno passato l’incertezza”, che frena investimenti e crescita, con conseguenze negative per tutta l’Italia.

Etica e cultura della IV Rivoluzione industriale

Una saggio di Stefano Zamagni mette a fuoco i limiti e i rischi delle nuove tecnologie

 

Quarta rivoluzione industriale e buona cultura del produrre, cioè organizzazione della produzione che sia efficace ed efficiente, ma anche consapevole del ruolo dell’uomo in ogni processo produttivo. Il nodo di temi legato all’innovazione che corre e alle imprese che devono starle dietro, è importante e sempre complesso. “L’impatto economico e la sfida etica delle tecnologie convergenti”, saggio di Stefano Zamagni da poco pubblicato nella collana I Quaderni dell’Economia Civile, serve a capire meglio di cosa si sta parlando.

Scrive l’autore all’inizio della ricerca di volersi occupare del senso e del modo con i quali “la IV Rivoluzione Industriale ‘tocca’ la nostra condizione di vita e incide sull’articolazione delle nostre società”. Zamagni quindi spiega: “È ormai generalmente acquisito che quello attuale è un vero e proprio passaggio d’epoca; non dunque una naturale evoluzione o una semplice magnificazione di tendenze già in atto durante la lunga fase della società industriale”. E non solo, perché ciò che si sta vivendo in questo periodo è anche complicato dal fenomeno della globalizzazione.

Tecniche nuove, dunque, rese ancora più nuove dall’essere globali come mai in passato è accaduto. Ma, dice Zamagni, mentre della “natura globale” di quanto sta accadendo molto si è discusso, delle nuove tecnologie “non altrettanto può dirsi”. Detto in altri termini, secondo Zamagni “non sappiamo ancora come le nuove tecnologie e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo degli anni prossimi”.

E’ un futuro denso d’incognite, quindi, quello che delinea Zamagni che nella ricerca indaga sulle conseguenze della situazione “su tre fronti specifici: quello del lavoro umano, quello della democrazia; quello dell’etica pubblica”.

Fatte queste premesse, l’indagine mette a fuoco prima “Le “res novae” della IV Rivoluzione Industriale” per passare poi ad individuare quale possa essere “Il futuro del lavoro umano nell’età dei robot” e quindi passare ad approfondire le relazioni etiche e sociali di tutto questo (“Il disallineamento tra democrazia e capitalismo nell’era della IV Rivoluzione Industriale” e “Talune implicazioni etiche della IV Rivoluzione Industriale”). Su tutto, forte è l’attenzione al posto trovato dall’uomo nella produzione e di fronte alle nuove tecnologie di relazione.

Lo scrivere di Stefano Zamagni non è facile, ma è certamente denso e importante. Ne emerge un approccio alla produzione che è contemporaneamente etico e tecnico, attento alle leggi dell’economia e a quelle di una cultura d’impresa che è anche cultura civile. Scrive l’autore quasi alla conclusione della sua fatica di ricerca: “Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il ‘dare per avere’ oppure il ‘dare per dovere’”.

L’impatto economico e la sfida etica delle tecnologie convergenti

Stefano Zamagni

I Quaderni dell’Economia Civile, 5, Aiccon, 2018

Una saggio di Stefano Zamagni mette a fuoco i limiti e i rischi delle nuove tecnologie

 

Quarta rivoluzione industriale e buona cultura del produrre, cioè organizzazione della produzione che sia efficace ed efficiente, ma anche consapevole del ruolo dell’uomo in ogni processo produttivo. Il nodo di temi legato all’innovazione che corre e alle imprese che devono starle dietro, è importante e sempre complesso. “L’impatto economico e la sfida etica delle tecnologie convergenti”, saggio di Stefano Zamagni da poco pubblicato nella collana I Quaderni dell’Economia Civile, serve a capire meglio di cosa si sta parlando.

Scrive l’autore all’inizio della ricerca di volersi occupare del senso e del modo con i quali “la IV Rivoluzione Industriale ‘tocca’ la nostra condizione di vita e incide sull’articolazione delle nostre società”. Zamagni quindi spiega: “È ormai generalmente acquisito che quello attuale è un vero e proprio passaggio d’epoca; non dunque una naturale evoluzione o una semplice magnificazione di tendenze già in atto durante la lunga fase della società industriale”. E non solo, perché ciò che si sta vivendo in questo periodo è anche complicato dal fenomeno della globalizzazione.

Tecniche nuove, dunque, rese ancora più nuove dall’essere globali come mai in passato è accaduto. Ma, dice Zamagni, mentre della “natura globale” di quanto sta accadendo molto si è discusso, delle nuove tecnologie “non altrettanto può dirsi”. Detto in altri termini, secondo Zamagni “non sappiamo ancora come le nuove tecnologie e la cultura che le governa modificheranno l’essenza del capitalismo degli anni prossimi”.

E’ un futuro denso d’incognite, quindi, quello che delinea Zamagni che nella ricerca indaga sulle conseguenze della situazione “su tre fronti specifici: quello del lavoro umano, quello della democrazia; quello dell’etica pubblica”.

Fatte queste premesse, l’indagine mette a fuoco prima “Le “res novae” della IV Rivoluzione Industriale” per passare poi ad individuare quale possa essere “Il futuro del lavoro umano nell’età dei robot” e quindi passare ad approfondire le relazioni etiche e sociali di tutto questo (“Il disallineamento tra democrazia e capitalismo nell’era della IV Rivoluzione Industriale” e “Talune implicazioni etiche della IV Rivoluzione Industriale”). Su tutto, forte è l’attenzione al posto trovato dall’uomo nella produzione e di fronte alle nuove tecnologie di relazione.

Lo scrivere di Stefano Zamagni non è facile, ma è certamente denso e importante. Ne emerge un approccio alla produzione che è contemporaneamente etico e tecnico, attento alle leggi dell’economia e a quelle di una cultura d’impresa che è anche cultura civile. Scrive l’autore quasi alla conclusione della sua fatica di ricerca: “Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il ‘dare per avere’ oppure il ‘dare per dovere’”.

L’impatto economico e la sfida etica delle tecnologie convergenti

Stefano Zamagni

I Quaderni dell’Economia Civile, 5, Aiccon, 2018

Aperti al mondo dell’innovazione

L’open innovation è il modello valido per crescere, anche in versione italiana. Un libro spiega come e perchè

Aperti al mondo e alle novità per crescere meglio e in modo più solido. E’ l’indicazione che sempre di più emerge dal sistema delle imprese. Una cultura del produrre che solo in apparenza è facile da applicare, ma che in realtà rappresenta un salto di qualità importante. E ancora una volta, per capire meglio, più che la teoria occorre la pratica. Anche quella raccontata in “Open Innovation Made in Italy. Lo sviluppo dell’innovazione aperta nelle imprese italiane” libro pubblicato recentemente e curato da Giuseppe Iacobelli insieme ad una serie di altri ricercatori.

Il libro cerca di rispondere ad una domanda: le imprese italiane possono adottare il paradigma dell’innovazione aperta nelle proprie strategie di ricerca e sviluppo? Detto in altri termini, i saggi contenuti nel volume si interrogano sulle prospettive dell’adozione del paradigma d’innovazione aperta per affrontare efficacemente le strategie d’impresa e rilanciare la sfida dell’innovazione nel nostro Paese. Un traguardo che però può essere raggiunto solo dotandosi di idonei sistemi organizzativi e cognitivi, risorse economiche e figure dedicate e capaci di gestire con efficienza i nuovi processi, ma anche di un adeguato approccio dal punto di vista imprenditoriale e manageriale.

Insieme delicato, dunque, quello che porta un’impresa ad aprirsi al mondo dell’innovazione in maniera adeguata. Una cassetta degli attrezzi che il libro riempie non tanto con la teoria, ma con cinque casi aziendali reali. Passano sotto gli occhi del lettore le storie di Amadori, ZCube di Zambon, iGuzzini, JCube del Gruppo Maccaferri, F-Lab di Fluid-o-Tech. Accanto ad esse, naturalmente, anche l’approfondimento dei paradigmi di fondo che sostengono l’open innovation anche per quanto riguarda le tendenze in atto a livello internazionale nella collaborazione tra imprenditori, startup, università, ricerca, finanza, istituzioni.

Ciò che emerge, non è solo un serie di “casi studio”, ma anche la possibilità di dare vita ad un “modello italiano” di open innovation nel quale aziende consolidate e startup possono scambiarsi risorse strategiche e generare opportunità per entrambi.

Open Innovation Made in Italy. Lo sviluppo dell’innovazione aperta nelle imprese italiane

a cura di Giuseppe Iacobelli

Franco Angeli, 2018

L’open innovation è il modello valido per crescere, anche in versione italiana. Un libro spiega come e perchè

Aperti al mondo e alle novità per crescere meglio e in modo più solido. E’ l’indicazione che sempre di più emerge dal sistema delle imprese. Una cultura del produrre che solo in apparenza è facile da applicare, ma che in realtà rappresenta un salto di qualità importante. E ancora una volta, per capire meglio, più che la teoria occorre la pratica. Anche quella raccontata in “Open Innovation Made in Italy. Lo sviluppo dell’innovazione aperta nelle imprese italiane” libro pubblicato recentemente e curato da Giuseppe Iacobelli insieme ad una serie di altri ricercatori.

Il libro cerca di rispondere ad una domanda: le imprese italiane possono adottare il paradigma dell’innovazione aperta nelle proprie strategie di ricerca e sviluppo? Detto in altri termini, i saggi contenuti nel volume si interrogano sulle prospettive dell’adozione del paradigma d’innovazione aperta per affrontare efficacemente le strategie d’impresa e rilanciare la sfida dell’innovazione nel nostro Paese. Un traguardo che però può essere raggiunto solo dotandosi di idonei sistemi organizzativi e cognitivi, risorse economiche e figure dedicate e capaci di gestire con efficienza i nuovi processi, ma anche di un adeguato approccio dal punto di vista imprenditoriale e manageriale.

Insieme delicato, dunque, quello che porta un’impresa ad aprirsi al mondo dell’innovazione in maniera adeguata. Una cassetta degli attrezzi che il libro riempie non tanto con la teoria, ma con cinque casi aziendali reali. Passano sotto gli occhi del lettore le storie di Amadori, ZCube di Zambon, iGuzzini, JCube del Gruppo Maccaferri, F-Lab di Fluid-o-Tech. Accanto ad esse, naturalmente, anche l’approfondimento dei paradigmi di fondo che sostengono l’open innovation anche per quanto riguarda le tendenze in atto a livello internazionale nella collaborazione tra imprenditori, startup, università, ricerca, finanza, istituzioni.

Ciò che emerge, non è solo un serie di “casi studio”, ma anche la possibilità di dare vita ad un “modello italiano” di open innovation nel quale aziende consolidate e startup possono scambiarsi risorse strategiche e generare opportunità per entrambi.

Open Innovation Made in Italy. Lo sviluppo dell’innovazione aperta nelle imprese italiane

a cura di Giuseppe Iacobelli

Franco Angeli, 2018

Umberto Eco e Pirelli: cultura di massa e cultura d’impresa

“Fenomenologia di Mike Bongiorno” pubblicata per la prima volta nel 1961 su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”. Dall’archivio della Fondazione Pirelli il nostro tributo al grande pensatore

 

Forse non tutti sanno che la celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Ecoche nel 1963 confluirà nella raccolta Diario minimo – comparve per la prima volta nel 1961 su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” all’interno dell’articolo Verso una civiltà della visione?, parte della più ampia inchiesta Televisione e cultura, uno dei tanti temi di cultura e società che venivano trattati nel magazine pirelliano. Un ritratto del personaggio Mike Bongiorno pubblicato nel momento di massima popolarità del presentatore, all’epoca in cui i telespettatori affollavano i bar per seguire la prima grande trasmissione di culto della tv italiana: “Lascia o raddoppia”. Scriveva Eco a proposito di Bongiorno: ”non provoca complessi di inferiorità, pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perche’ chiunque si trova già al suo livello”. Il conduttore italoamericano come icona assoluta dell’Italia del boom, il ”caso più vistoso di riduzione del ‘superman’ all”everyman’, in grado di uscitare empatia perchè portatore di “un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica”.

Molto si è detto anche del ruolo di Eco nel dibattito sull’evoluzione culturale del fumetto in Italia.  Le riflessioni nel saggio Apocalittici e integrati del 1964 vengono riprese e approfondite dallo stesso Eco  tre anni più tardi per la rivista Pirelli in Meditazioni su di un balloon:Quando pubblicai gli studi di semantica del fumetto su <<Apocalittici e integrati>> i critici più surcigliosi affermarono che non si dovevano affrontare argomenti così frivoli con strumenti culturali comunemente applicabili a Kant.”. A proposito della massificazione del fumetto: “I primi studiosi del fenomeno si riunivano quasi di nascosto.[…] Ora, come è giusto, appaiono in vari istituti universitari tesi sui fumetti, si aprono congressi, si discutono comunicazioni..”. Cita il Corriere dei Piccoli e Topolino, passando per Cocco Bill, Diabolik, Crepax e Walt Disney; i testi sono accompagnati dalle belle litografie di Roy Lichtenstein:

“Eravamo gli amatori dei fumetti. Si lavorava per di più sulla memoria. Pochi  avevano collezioni a casa. Chi le aveva non le mostrava agli altri. O non sapeva di  averle. Le ha ritrovate dopo in certi solai.” […]“Ora “Linus” ha rotto il fronte. Il fumetto è diventato un fatto nazionale.” Non a caso nell’aprile 1965 il primo numero di “Linus”, dopo un breve editoriale, aveva aperto con un’intervista di Eco a Elio Vittorini e Oreste Del Buono. E’ sufficiente leggere la prima domanda di Eco a Vittorini “Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente fri­vola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com’è che hai conosciuto Charlie Brown?”, per capire quanto quest’intervista – insieme alle “Meditazioni” e al saggio di “Apocalittici e integrati” sia un manifesto che eleva le comic strip a forma artistica e letteraria riconosciuta.

 

Non solo televisione e fumetti. Il contributo di Eco sui temi della società e della cultura di massa passa anche per riflessioni pungenti sulle feste comandate, come in Protocollo 00/03 Incartamento luminarie, sempre sulla rivista “Pirelli”, anno 1962. Nell’articolo si ricostruisce un ironico carteggio tra i diavoli delle Malebolge, incaricati di boicottare il Natale: “…le celebrazioni  natalizie, grazie a una certa atmosfera di festevolezza e benevolenza generale che si viene creando in quel periodo, promuovono relazioni di cordialità, sospendono per qualche giorno i contrasti internazionali, portano gli uomini ad assurdi gesti di buon vicinato quali il regalo di oggetti, il doppio salario ai dipendenti, i civili conversari. Proprio per evitare questi pericoli domandavo al tuo predecessore e domando ora a te di preparare un piano modello per la zona di Milano che abbiamo scelto quale campione”.

 

E di nuovo sul Natale, nel 1963, una lettera dedicata al figlio: “E ti insegnerò a giocare guerre molto complesse, in cui la verità non stia mai da una parte sola..”“Ma se per avventura, quando sarai grande, vi saranno ancora le mostruose figure dei tuoi sogni infantili, le streghe, i coboldi, le armate, le bombe, le leve obbligatorie, chissà che tu non abbia assunto una coscienza critica verso le fiabe e che non impari a muoverti criticamente nella realtà.”.

 

Il rapporto di Umberto Eco con Pirelli non si è fermato agli anni della rivista. Ad esempio, intervistato nel 2011 a proposito della mostra Lanima di gomma. Estetica e tecnica al passo con la moda, curata dalla Fondazione Pirelli alla Triennale di Milano (21 giugno-24 luglio 2011), disse: “In questa mostra, completamente immateriale, costruita appunto su immagini, storia e rielaborazione, viene fuori non il ritratto della moda, ma il ritratto dell’immagine della moda. E sta proprio qui l’attualità della rappresentazione “. “… Non ci sono, come abbiamo già detto, oggetti, ma rappresentazioni, per cercare di spostare l’attenzione dall’aspetto materico della moda al livello del sogno. La moda, appunto, stimola e produce sogni, soprattutto adesso”.

“Fenomenologia di Mike Bongiorno” pubblicata per la prima volta nel 1961 su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”. Dall’archivio della Fondazione Pirelli il nostro tributo al grande pensatore

 

Forse non tutti sanno che la celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Ecoche nel 1963 confluirà nella raccolta Diario minimo – comparve per la prima volta nel 1961 su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” all’interno dell’articolo Verso una civiltà della visione?, parte della più ampia inchiesta Televisione e cultura, uno dei tanti temi di cultura e società che venivano trattati nel magazine pirelliano. Un ritratto del personaggio Mike Bongiorno pubblicato nel momento di massima popolarità del presentatore, all’epoca in cui i telespettatori affollavano i bar per seguire la prima grande trasmissione di culto della tv italiana: “Lascia o raddoppia”. Scriveva Eco a proposito di Bongiorno: ”non provoca complessi di inferiorità, pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perche’ chiunque si trova già al suo livello”. Il conduttore italoamericano come icona assoluta dell’Italia del boom, il ”caso più vistoso di riduzione del ‘superman’ all”everyman’, in grado di uscitare empatia perchè portatore di “un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica”.

Molto si è detto anche del ruolo di Eco nel dibattito sull’evoluzione culturale del fumetto in Italia.  Le riflessioni nel saggio Apocalittici e integrati del 1964 vengono riprese e approfondite dallo stesso Eco  tre anni più tardi per la rivista Pirelli in Meditazioni su di un balloon:Quando pubblicai gli studi di semantica del fumetto su <<Apocalittici e integrati>> i critici più surcigliosi affermarono che non si dovevano affrontare argomenti così frivoli con strumenti culturali comunemente applicabili a Kant.”. A proposito della massificazione del fumetto: “I primi studiosi del fenomeno si riunivano quasi di nascosto.[…] Ora, come è giusto, appaiono in vari istituti universitari tesi sui fumetti, si aprono congressi, si discutono comunicazioni..”. Cita il Corriere dei Piccoli e Topolino, passando per Cocco Bill, Diabolik, Crepax e Walt Disney; i testi sono accompagnati dalle belle litografie di Roy Lichtenstein:

“Eravamo gli amatori dei fumetti. Si lavorava per di più sulla memoria. Pochi  avevano collezioni a casa. Chi le aveva non le mostrava agli altri. O non sapeva di  averle. Le ha ritrovate dopo in certi solai.” […]“Ora “Linus” ha rotto il fronte. Il fumetto è diventato un fatto nazionale.” Non a caso nell’aprile 1965 il primo numero di “Linus”, dopo un breve editoriale, aveva aperto con un’intervista di Eco a Elio Vittorini e Oreste Del Buono. E’ sufficiente leggere la prima domanda di Eco a Vittorini “Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente fri­vola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com’è che hai conosciuto Charlie Brown?”, per capire quanto quest’intervista – insieme alle “Meditazioni” e al saggio di “Apocalittici e integrati” sia un manifesto che eleva le comic strip a forma artistica e letteraria riconosciuta.

 

Non solo televisione e fumetti. Il contributo di Eco sui temi della società e della cultura di massa passa anche per riflessioni pungenti sulle feste comandate, come in Protocollo 00/03 Incartamento luminarie, sempre sulla rivista “Pirelli”, anno 1962. Nell’articolo si ricostruisce un ironico carteggio tra i diavoli delle Malebolge, incaricati di boicottare il Natale: “…le celebrazioni  natalizie, grazie a una certa atmosfera di festevolezza e benevolenza generale che si viene creando in quel periodo, promuovono relazioni di cordialità, sospendono per qualche giorno i contrasti internazionali, portano gli uomini ad assurdi gesti di buon vicinato quali il regalo di oggetti, il doppio salario ai dipendenti, i civili conversari. Proprio per evitare questi pericoli domandavo al tuo predecessore e domando ora a te di preparare un piano modello per la zona di Milano che abbiamo scelto quale campione”.

 

E di nuovo sul Natale, nel 1963, una lettera dedicata al figlio: “E ti insegnerò a giocare guerre molto complesse, in cui la verità non stia mai da una parte sola..”“Ma se per avventura, quando sarai grande, vi saranno ancora le mostruose figure dei tuoi sogni infantili, le streghe, i coboldi, le armate, le bombe, le leve obbligatorie, chissà che tu non abbia assunto una coscienza critica verso le fiabe e che non impari a muoverti criticamente nella realtà.”.

 

Il rapporto di Umberto Eco con Pirelli non si è fermato agli anni della rivista. Ad esempio, intervistato nel 2011 a proposito della mostra Lanima di gomma. Estetica e tecnica al passo con la moda, curata dalla Fondazione Pirelli alla Triennale di Milano (21 giugno-24 luglio 2011), disse: “In questa mostra, completamente immateriale, costruita appunto su immagini, storia e rielaborazione, viene fuori non il ritratto della moda, ma il ritratto dell’immagine della moda. E sta proprio qui l’attualità della rappresentazione “. “… Non ci sono, come abbiamo già detto, oggetti, ma rappresentazioni, per cercare di spostare l’attenzione dall’aspetto materico della moda al livello del sogno. La moda, appunto, stimola e produce sogni, soprattutto adesso”.

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La “lezione” giapponese

Una ricerca della Bank of Japan  e del IMF scatta l’istantanea delle gestionali e politiche delle imprese del Sol Levante

 

Produttività come obiettivo finale. Con tutto quello che ne consegue in termini di organizzazione della produzione e di motivazione del lavoro. E’ uno dei principi di base della gestione moderna d’impresa. Cultura del produrre votato forse più a guardare all’interno della fabbrica che all’esterno. Modello che, tuttavia, deve essere anch’esso “gestito” e curato. Anche nelle economia più avanzate e dinamiche. E’ il caso di quella giapponese che recentemente si è interrogata sui motivi del suo rallentamento, comune a quello di altre economie.

Ad approfondire l’argomento ci hanno pensato Koji Nakamura (della Bank of Japan), Sohei Kaihatsu (dell’International Monetary Fund) e Tomoyuki Yagi  (ancora della Bank of Japan) in uno studio pubblicato recentemente su Economic Analysis and Policy.

Productivity improvement and economic growth: Lessons from Japan” è una ricerca che prende le mosse proprio dalla considerazione che la crescita della produttività del lavoro nei principali paesi avanzati ha avuto un rallentamento negli ultimi anni. L’attenzione de tre ricercatori si focalizza naturalmente sul contesto relativo alla recente bassa crescita della produttività del lavoro in Giappone. Vengono quindi individuati due motivi. Prima di tutto, viene spiegato, la tecnologia e le idee accumulate dalla ricerca e dallo sviluppo e le risorse gestionali come capitale e lavoro non vengono utilizzate in modo efficiente – stando all’analisi dei tre autori. In secondo luogo, queste risorse non vengono riassegnate in modo efficiente tra le imprese.

La ricetta indicata da Nakamura, Kaihatsu e Yagi prevede uno sforzo (anche politico), di redistribuzione flessibile delle risorse gestionali come capitale e lavoro. Un obiettivo che secondo i tre può essere raggiunto “modificando i processi lavorativi a livello aziendale in conformità con i cambiamenti nel contesto socioeconomico e l’avvento delle nuove tecnologie, nonché migliorando l’efficienza nei mercati del lavoro e dei capitali”. Traguardo ambizioso, quello posto dai ricercatori della Banca del Giappone e dell’Fondo Monetario Internazionale, tanto che lo stesso viene posto ad un orizzonte di medio-lungo periodo, ma traguardo che tutto sommato è comune a molte altre economie.

Lo studio di Nakamura, Kaihatsu e Yagi è un buon esempio di indagine “locale” che fornisce un’istantanea del percorso – anche culturale oltre che politico e gestionale -, che tutte le economie devono prima o poi intraprendere.

Productivity improvement and economic growth: Lessons from Japan

Koji Nakamura, Sohei Kaihatsu, Tomoyuki Yagi

Economic Analysis and Policy, 2018

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0313592618301759

Una ricerca della Bank of Japan  e del IMF scatta l’istantanea delle gestionali e politiche delle imprese del Sol Levante

 

Produttività come obiettivo finale. Con tutto quello che ne consegue in termini di organizzazione della produzione e di motivazione del lavoro. E’ uno dei principi di base della gestione moderna d’impresa. Cultura del produrre votato forse più a guardare all’interno della fabbrica che all’esterno. Modello che, tuttavia, deve essere anch’esso “gestito” e curato. Anche nelle economia più avanzate e dinamiche. E’ il caso di quella giapponese che recentemente si è interrogata sui motivi del suo rallentamento, comune a quello di altre economie.

Ad approfondire l’argomento ci hanno pensato Koji Nakamura (della Bank of Japan), Sohei Kaihatsu (dell’International Monetary Fund) e Tomoyuki Yagi  (ancora della Bank of Japan) in uno studio pubblicato recentemente su Economic Analysis and Policy.

Productivity improvement and economic growth: Lessons from Japan” è una ricerca che prende le mosse proprio dalla considerazione che la crescita della produttività del lavoro nei principali paesi avanzati ha avuto un rallentamento negli ultimi anni. L’attenzione de tre ricercatori si focalizza naturalmente sul contesto relativo alla recente bassa crescita della produttività del lavoro in Giappone. Vengono quindi individuati due motivi. Prima di tutto, viene spiegato, la tecnologia e le idee accumulate dalla ricerca e dallo sviluppo e le risorse gestionali come capitale e lavoro non vengono utilizzate in modo efficiente – stando all’analisi dei tre autori. In secondo luogo, queste risorse non vengono riassegnate in modo efficiente tra le imprese.

La ricetta indicata da Nakamura, Kaihatsu e Yagi prevede uno sforzo (anche politico), di redistribuzione flessibile delle risorse gestionali come capitale e lavoro. Un obiettivo che secondo i tre può essere raggiunto “modificando i processi lavorativi a livello aziendale in conformità con i cambiamenti nel contesto socioeconomico e l’avvento delle nuove tecnologie, nonché migliorando l’efficienza nei mercati del lavoro e dei capitali”. Traguardo ambizioso, quello posto dai ricercatori della Banca del Giappone e dell’Fondo Monetario Internazionale, tanto che lo stesso viene posto ad un orizzonte di medio-lungo periodo, ma traguardo che tutto sommato è comune a molte altre economie.

Lo studio di Nakamura, Kaihatsu e Yagi è un buon esempio di indagine “locale” che fornisce un’istantanea del percorso – anche culturale oltre che politico e gestionale -, che tutte le economie devono prima o poi intraprendere.

Productivity improvement and economic growth: Lessons from Japan

Koji Nakamura, Sohei Kaihatsu, Tomoyuki Yagi

Economic Analysis and Policy, 2018

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0313592618301759

Buona cultura del bene comune e buona economia

L’ultimo libro di Pierluigi Ciocca racconta i legami fra crisi economica e crisi culturale del Paese

 

Capire meglio per agire meglio. E’ uno dei principi d’azione cardine della buona gestione d’impresa ma anche di un’intera economia. Senza dire della necessità di ogni avveduto manager così come di ogni buon imprenditore, di informarsi per capire e quindi decidere. E’ per questo che serve – e molto – leggere “Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla”, scritto da Pierluigi Ciocca e appena pubblicato. Poco più di duecento pagine di piccolo formato ma di grande approfondimento sulla situazione dell’economia italiana, sul percorso che l’ha portata fin qui e su quello che occorrerebbe compiere per farla uscire dalla crisi che la stringe adesso.

Il libro è una raccolta di scritti “variamente datati e variamente impostati”, che danno conto del percorso di analisi di Ciocca nei confronti della nostra economia. Alla base una considerazione che vale per tutte le pagine del libro: “Vivace in passato, l’economia italiana è ferma da anni. Alla decadenza hanno concorso la finanza pubblica, squilibrata; le infrastrutture, deteriorate; l’ordinamento giuridico, inadeguato; il dinamismo d’impresa, appannato. L’Europa non fa quanto potrebbe. A reagire, a fare fronte, sono chiamate cultura, istituzioni, politica, da ultimo la società civile del paese. Solo così potrà ritrovarsi la via della crescita”. Se questa è la sintesi delineata dall’economista, lo stesso si trova di fronte ad un’Italia dalla bassa produttività e con una disoccupazione alta, un Paese che riesce solo lentamente ad uscire dalle recessioni del 2008-2013 e che soprattutto si nasconde alcuni problemi di fondo: il debito pubblico che innervosisce i mercati finanziari; le infrastrutture che si depauperano; il diritto dell’economia che viene superato; le imprese che non riescono a rispondere all’urgenza di investire, innovare, cogliere le opportunità della rivoluzione digitale.

Ciocca scrive della storia dell’economia italiana con linguaggio piano, comprensibile, non privo di tecnicismi ma sempre attento a farsi comprendere. Per l’autore hanno pesato i limiti della politica economica: l’incompleto risanamento del bilancio; il taglio degli investimenti pubblici; i ritardi nella riscrittura dell’ordinamento; le insufficienti pressioni concorrenziali sulle imprese. Sin dalla svalutazione della lira del 1992 le imprese si sono adagiate sui facili profitti prospettati dal cambio debole, dalla moderazione salariale, dai sussidi statali, dalla scandalosa evasione delle imposte.

Ma quindi che fare? Per Ciocca s’impone una rifondazione dell’economia, che ne arresti il regresso. A partire dall’euro visto come moneta preziosa e irrinunciabile. L’autore indica un cammino in sette mosse. Si tratta di sette linee d’intervento: dal riequilibrio del bilancio a una nuova strategia per il Sud, passando per gli investimenti pubblici, una diversa politica europea, la perequazione distributiva, un nuovo diritto dell’economia, la concorrenza.

Quello che però caratterizza il libro di Ciocca è anche altro. Non c’è solo l’economia nella crisi, perché questa affonda le radici oltre l’economia, nello strato più profondo della cultura, delle istituzioni, della politica del Belpaese. Cultura quindi, abitudini anche, modo d’intendere il bene comune. E’ per questo – soprattutto, forse -, che l’impegno letterario di Ciocca va letto e apprezzato.

Bella la citazione di Carlo Azeglio Ciampi posta all’inizio del libro: “Si va facendo strada in me la convinzione che il fattore economico, pure cruciale, non spieghi per intero la natura della crisi che stiamo ancora attraversando […]. È a fattori di ordine culturale – e se l’aggettivo non spaventa troppo, di natura spirituale – che occorre guardare con lucidità e senso critico”.

Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla

Pierluigi Ciocca

Donzelli, 2018

L’ultimo libro di Pierluigi Ciocca racconta i legami fra crisi economica e crisi culturale del Paese

 

Capire meglio per agire meglio. E’ uno dei principi d’azione cardine della buona gestione d’impresa ma anche di un’intera economia. Senza dire della necessità di ogni avveduto manager così come di ogni buon imprenditore, di informarsi per capire e quindi decidere. E’ per questo che serve – e molto – leggere “Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla”, scritto da Pierluigi Ciocca e appena pubblicato. Poco più di duecento pagine di piccolo formato ma di grande approfondimento sulla situazione dell’economia italiana, sul percorso che l’ha portata fin qui e su quello che occorrerebbe compiere per farla uscire dalla crisi che la stringe adesso.

Il libro è una raccolta di scritti “variamente datati e variamente impostati”, che danno conto del percorso di analisi di Ciocca nei confronti della nostra economia. Alla base una considerazione che vale per tutte le pagine del libro: “Vivace in passato, l’economia italiana è ferma da anni. Alla decadenza hanno concorso la finanza pubblica, squilibrata; le infrastrutture, deteriorate; l’ordinamento giuridico, inadeguato; il dinamismo d’impresa, appannato. L’Europa non fa quanto potrebbe. A reagire, a fare fronte, sono chiamate cultura, istituzioni, politica, da ultimo la società civile del paese. Solo così potrà ritrovarsi la via della crescita”. Se questa è la sintesi delineata dall’economista, lo stesso si trova di fronte ad un’Italia dalla bassa produttività e con una disoccupazione alta, un Paese che riesce solo lentamente ad uscire dalle recessioni del 2008-2013 e che soprattutto si nasconde alcuni problemi di fondo: il debito pubblico che innervosisce i mercati finanziari; le infrastrutture che si depauperano; il diritto dell’economia che viene superato; le imprese che non riescono a rispondere all’urgenza di investire, innovare, cogliere le opportunità della rivoluzione digitale.

Ciocca scrive della storia dell’economia italiana con linguaggio piano, comprensibile, non privo di tecnicismi ma sempre attento a farsi comprendere. Per l’autore hanno pesato i limiti della politica economica: l’incompleto risanamento del bilancio; il taglio degli investimenti pubblici; i ritardi nella riscrittura dell’ordinamento; le insufficienti pressioni concorrenziali sulle imprese. Sin dalla svalutazione della lira del 1992 le imprese si sono adagiate sui facili profitti prospettati dal cambio debole, dalla moderazione salariale, dai sussidi statali, dalla scandalosa evasione delle imposte.

Ma quindi che fare? Per Ciocca s’impone una rifondazione dell’economia, che ne arresti il regresso. A partire dall’euro visto come moneta preziosa e irrinunciabile. L’autore indica un cammino in sette mosse. Si tratta di sette linee d’intervento: dal riequilibrio del bilancio a una nuova strategia per il Sud, passando per gli investimenti pubblici, una diversa politica europea, la perequazione distributiva, un nuovo diritto dell’economia, la concorrenza.

Quello che però caratterizza il libro di Ciocca è anche altro. Non c’è solo l’economia nella crisi, perché questa affonda le radici oltre l’economia, nello strato più profondo della cultura, delle istituzioni, della politica del Belpaese. Cultura quindi, abitudini anche, modo d’intendere il bene comune. E’ per questo – soprattutto, forse -, che l’impegno letterario di Ciocca va letto e apprezzato.

Bella la citazione di Carlo Azeglio Ciampi posta all’inizio del libro: “Si va facendo strada in me la convinzione che il fattore economico, pure cruciale, non spieghi per intero la natura della crisi che stiamo ancora attraversando […]. È a fattori di ordine culturale – e se l’aggettivo non spaventa troppo, di natura spirituale – che occorre guardare con lucidità e senso critico”.

Tornare alla crescita. Perché l’economia italiana è in crisi e cosa fare per rifondarla

Pierluigi Ciocca

Donzelli, 2018

L’Europa di Draghi e di Antonio Megalizzi nel segno dei valori d’integrazione e libertà

È un’abitudine sempre più diffusa, parlare male dei giornalisti. Insultarli, maltrattarli, deriderli. E minacciarli. Sino a cercare di fare chiudere giornali tagliando i contributi pubblici all’editoria (un’idea della componente M5S del governo, senza alcun confronto con editori e giornalisti, senza alcuna ipotesi di riforma organica del settore). Poi arriva l’eco d’un fatto tragico, l’assassinio per mano d’un terrorista d’un giovane giornalista italiano, Antonio Megalizzi. E tutti coloro che hanno a cuore cultura e civiltà sono spinti a riflettere sulle sue idee e le parole dette ogni giorno per il programma Europhonica dai microfoni della radio per cui lavorava a Strasburgo: l’Europa, la democrazia come dialogo, i valori che hanno ispirato e pur tra mille limiti ancora ispirano l’integrazione europea. Gli ideali d’un bravo giornalista, appunto. Tutto l’opposto delle volgarità che da altri media dilagano ogni giorno contro la Ue. Semmai, un esempio dell’attenzione per una convivenza civile perseguita nonostante ogni fatica, per il confronto con altre culture umiliate dai rigurgiti di razzismo, per una democrazia che non si riduca a “spingere un bottone”, a un consenso rancoroso, alla banalità d’un like. E per un’informazione come ricerca di verità e responsabilità.

Una ventata d’intelligenza, il lavoro di Antonio Megalizzi, per evitare “la notte dell’Europa”. Un vuoto, la sua morte. Per cercare di colmarlo, può avere senso la proposta del rettore dell’Università di Trento, sostenuto da altri rettori italiani, di fare vivere Europhonica come network radiofonico studentesco multilingue.

Di Megalizzi sappiamo che aveva una solida, appassionata cultura europea. Aveva letto bene gli scritti dei padri fondatori dell’Europa, a cominciare dal “Manifesto di Ventotene” scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. La lezione di Norberto Bobbio sul rapporto tra democrazia liberale, benessere e costruzione europea. Le cronache delle esperienze dei nove milioni di ragazzi che, in trent’anni di vita del programma “Erasmus” hanno studiato, vissuto, provato direttamente il fascino d’un fitto sistema di relazioni nell’Europa come grande riferimento comune.

Da un giovane giornalista a un banchiere di lunga esperienza. C’è l’eco degli stessi valori di fondo nelle parole che Mario Draghi, presidente della Bce, ha pronunciato pochi giorni fa in una lectio magistralis alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa: il passato e l’attualità dell’Europa, un migliore destino comune da costruire contro la retorica dei sovranisti e a difesa dell’euro, moneta di sviluppo e di più giusti equilibri sociali.

“Quest’Europa – ha detto Draghi, davanti a un pubblico di studenti e professori – fu una risposta eccezionale a un secolo di dittature, di guerra e di miseria”. E l’unione monetaria, “conseguenza necessaria del mercato unico” è diventata “parte integrante del progetto politico di un’Europa unita nella libertà, nella pace, nella democrazia, nella prosperità”. Un’indicazione che vale anche per il futuro, “mentre nel resto del mondo il fascino di ricette e di regimi illiberali si diffonde”.

Ecco il punto. Le libertà responsabili contro “i regimi illiberali”, la cui ombra lambisce la stessa Europa, con la propaganda dei sovranisti, tanta retorica, zero efficacia in termini di quantità e qualità dello sviluppo economico e sociale.

Compie vent’anni, l’euro (nacque, come moneta comune, all’inizio del gennaio 1999, la circolazione effettiva partì nei primi dodici Paesi dell’Unione l’1 gennaio 2002). Ha vissuto tra incertezze e limiti, che Draghi ben conosce e attribuisce a “politiche nazionali” e “incompletezze” dell’unione monetaria stessa, che è stata comunque “un successo”. E’ un fattore di equilibrio. E, nonostante la propaganda nazionalista, proprio l’euro “ha consentito a diversi paesi di recuperare sovranità monetaria, rispetto al regime di parità fisse vigenti nello Sme”, il Sistema monetario europeo, dato che “le decisioni rilevanti di politica monetaria erano allora prese in Germania e oggi sono condivise da tutti i paesi partecipanti”.

Uscire dall’euro, come predica una retorica sovranista a lungo cara al governo giallo-verde, tema forte della campagna elettorale di Lega e M5S anche se poi messo da parte? Un errore. Senza alcuna convenienza economica e sociale.

Draghi è uomo di fatti e dati: dal varo dello Sme la lira era stata svalutata sette volte, dal 1979 al 1992, “eppure la produttività italiana fu inferiore a quella dell’euro a 12 e la crescita del Pil pressappoco la stessa, il tasso di occupazione ristagnò” e l’inflazione cumulata schizzò “a livelli insostenibili”, il 223% contro il 126% dei paesi dell’euro a 12. La lira è stata dunque un fattore di debolezza dell’economia. Quanto alla crescita degli anni Ottanta, considerata oggi positiva da quanti predicano il ritorno alla lira, vale la pena ricordare che “è stata presa in prestito con il debito lasciato sulle spalle delle generazioni future”. Quanto alle passioni per i debiti, ecco un altro monito di Draghi: “Il finanziamento monetario del debito pubblico non ha prodotto benefici nel lungo termine”.

Servono piuttosto riforme strutturali, non spesa pubblica improduttiva.

“Orgoglioso di essere italiano”, s’è detto Mario Draghi, banchiere europeo, parlando con gli studenti della Scuola Sant’Anna. Orgogliosamente italiano ed europeo, si sentiva Antonio Megalizzi. Di questa ricca e complessa identità, vale la pena continuare ad avere consapevolezza e memoria.

È un’abitudine sempre più diffusa, parlare male dei giornalisti. Insultarli, maltrattarli, deriderli. E minacciarli. Sino a cercare di fare chiudere giornali tagliando i contributi pubblici all’editoria (un’idea della componente M5S del governo, senza alcun confronto con editori e giornalisti, senza alcuna ipotesi di riforma organica del settore). Poi arriva l’eco d’un fatto tragico, l’assassinio per mano d’un terrorista d’un giovane giornalista italiano, Antonio Megalizzi. E tutti coloro che hanno a cuore cultura e civiltà sono spinti a riflettere sulle sue idee e le parole dette ogni giorno per il programma Europhonica dai microfoni della radio per cui lavorava a Strasburgo: l’Europa, la democrazia come dialogo, i valori che hanno ispirato e pur tra mille limiti ancora ispirano l’integrazione europea. Gli ideali d’un bravo giornalista, appunto. Tutto l’opposto delle volgarità che da altri media dilagano ogni giorno contro la Ue. Semmai, un esempio dell’attenzione per una convivenza civile perseguita nonostante ogni fatica, per il confronto con altre culture umiliate dai rigurgiti di razzismo, per una democrazia che non si riduca a “spingere un bottone”, a un consenso rancoroso, alla banalità d’un like. E per un’informazione come ricerca di verità e responsabilità.

Una ventata d’intelligenza, il lavoro di Antonio Megalizzi, per evitare “la notte dell’Europa”. Un vuoto, la sua morte. Per cercare di colmarlo, può avere senso la proposta del rettore dell’Università di Trento, sostenuto da altri rettori italiani, di fare vivere Europhonica come network radiofonico studentesco multilingue.

Di Megalizzi sappiamo che aveva una solida, appassionata cultura europea. Aveva letto bene gli scritti dei padri fondatori dell’Europa, a cominciare dal “Manifesto di Ventotene” scritto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. La lezione di Norberto Bobbio sul rapporto tra democrazia liberale, benessere e costruzione europea. Le cronache delle esperienze dei nove milioni di ragazzi che, in trent’anni di vita del programma “Erasmus” hanno studiato, vissuto, provato direttamente il fascino d’un fitto sistema di relazioni nell’Europa come grande riferimento comune.

Da un giovane giornalista a un banchiere di lunga esperienza. C’è l’eco degli stessi valori di fondo nelle parole che Mario Draghi, presidente della Bce, ha pronunciato pochi giorni fa in una lectio magistralis alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa: il passato e l’attualità dell’Europa, un migliore destino comune da costruire contro la retorica dei sovranisti e a difesa dell’euro, moneta di sviluppo e di più giusti equilibri sociali.

“Quest’Europa – ha detto Draghi, davanti a un pubblico di studenti e professori – fu una risposta eccezionale a un secolo di dittature, di guerra e di miseria”. E l’unione monetaria, “conseguenza necessaria del mercato unico” è diventata “parte integrante del progetto politico di un’Europa unita nella libertà, nella pace, nella democrazia, nella prosperità”. Un’indicazione che vale anche per il futuro, “mentre nel resto del mondo il fascino di ricette e di regimi illiberali si diffonde”.

Ecco il punto. Le libertà responsabili contro “i regimi illiberali”, la cui ombra lambisce la stessa Europa, con la propaganda dei sovranisti, tanta retorica, zero efficacia in termini di quantità e qualità dello sviluppo economico e sociale.

Compie vent’anni, l’euro (nacque, come moneta comune, all’inizio del gennaio 1999, la circolazione effettiva partì nei primi dodici Paesi dell’Unione l’1 gennaio 2002). Ha vissuto tra incertezze e limiti, che Draghi ben conosce e attribuisce a “politiche nazionali” e “incompletezze” dell’unione monetaria stessa, che è stata comunque “un successo”. E’ un fattore di equilibrio. E, nonostante la propaganda nazionalista, proprio l’euro “ha consentito a diversi paesi di recuperare sovranità monetaria, rispetto al regime di parità fisse vigenti nello Sme”, il Sistema monetario europeo, dato che “le decisioni rilevanti di politica monetaria erano allora prese in Germania e oggi sono condivise da tutti i paesi partecipanti”.

Uscire dall’euro, come predica una retorica sovranista a lungo cara al governo giallo-verde, tema forte della campagna elettorale di Lega e M5S anche se poi messo da parte? Un errore. Senza alcuna convenienza economica e sociale.

Draghi è uomo di fatti e dati: dal varo dello Sme la lira era stata svalutata sette volte, dal 1979 al 1992, “eppure la produttività italiana fu inferiore a quella dell’euro a 12 e la crescita del Pil pressappoco la stessa, il tasso di occupazione ristagnò” e l’inflazione cumulata schizzò “a livelli insostenibili”, il 223% contro il 126% dei paesi dell’euro a 12. La lira è stata dunque un fattore di debolezza dell’economia. Quanto alla crescita degli anni Ottanta, considerata oggi positiva da quanti predicano il ritorno alla lira, vale la pena ricordare che “è stata presa in prestito con il debito lasciato sulle spalle delle generazioni future”. Quanto alle passioni per i debiti, ecco un altro monito di Draghi: “Il finanziamento monetario del debito pubblico non ha prodotto benefici nel lungo termine”.

Servono piuttosto riforme strutturali, non spesa pubblica improduttiva.

“Orgoglioso di essere italiano”, s’è detto Mario Draghi, banchiere europeo, parlando con gli studenti della Scuola Sant’Anna. Orgogliosamente italiano ed europeo, si sentiva Antonio Megalizzi. Di questa ricca e complessa identità, vale la pena continuare ad avere consapevolezza e memoria.

Un 2018 lungo dieci anni

La Fondazione Pirelli ha festeggiato il suo decimo anniversario: dieci anni di lavoro, tra mostre e pubblicazioni, laboratori per le scuole e visite guidate alla scoperta del territorio. In questi anni sono stati innumerevoli i percorsi espositivi dedicati alla storia di Pirelli, che ne hanno raccontato la duplice identità milanese e multinazionale. Abbiamo immortalato la fabbrica e il lavoro, recuperando gli sguardi dei pionieri dell’arte fotografica e poi coinvolgendo grandi maestri contemporanei. La storia della nostra pubblicità è stata ripercorsa attraverso i suoi slogan immortali e reinterpretata con strumenti digitali e interattivi.

A migliaia di appassionati abbiamo mostrato gli indimenticabili bozzetti pubblicitari originali che hanno contribuito a scrivere la storia del design internazionale. E migliaia sono stati gli studenti che hanno partecipato ai nostri laboratori sulla grafica, il cinema, la fotografia e la robotica. Di anno in anno ci sono venuti a trovare colleghi curiosi di vedere le nostre proposte per un Natale da festeggiare, per celebrare la festa della donna, l’8 marzo, per raccontare usi e costumi legati al cibo e alle pause pranzo, o ancora per approfondire temi rilevanti e attuali, come quello della sostenibilità. Abbiamo aperto le porte della Fondazione anche ai numerosi studiosi alla ricerca di fatti e notizie sulla storia del Novecento e si è sempre più intensificato il rapporto con le università, sia italiane, sia straniere. La valorizzazione del brand e la promozione della nostra cultura d’impresa sono da sempre parte integrante della mission della Fondazione. La rubrica “Storia e storie dal mondo Pirelli”, che ha contribuito a far conoscere il nostro importante patrimonio, vi saluta e vi dà appuntamento al 2019 con nuove storie da raccontare. Auguri!

La Fondazione Pirelli ha festeggiato il suo decimo anniversario: dieci anni di lavoro, tra mostre e pubblicazioni, laboratori per le scuole e visite guidate alla scoperta del territorio. In questi anni sono stati innumerevoli i percorsi espositivi dedicati alla storia di Pirelli, che ne hanno raccontato la duplice identità milanese e multinazionale. Abbiamo immortalato la fabbrica e il lavoro, recuperando gli sguardi dei pionieri dell’arte fotografica e poi coinvolgendo grandi maestri contemporanei. La storia della nostra pubblicità è stata ripercorsa attraverso i suoi slogan immortali e reinterpretata con strumenti digitali e interattivi.

A migliaia di appassionati abbiamo mostrato gli indimenticabili bozzetti pubblicitari originali che hanno contribuito a scrivere la storia del design internazionale. E migliaia sono stati gli studenti che hanno partecipato ai nostri laboratori sulla grafica, il cinema, la fotografia e la robotica. Di anno in anno ci sono venuti a trovare colleghi curiosi di vedere le nostre proposte per un Natale da festeggiare, per celebrare la festa della donna, l’8 marzo, per raccontare usi e costumi legati al cibo e alle pause pranzo, o ancora per approfondire temi rilevanti e attuali, come quello della sostenibilità. Abbiamo aperto le porte della Fondazione anche ai numerosi studiosi alla ricerca di fatti e notizie sulla storia del Novecento e si è sempre più intensificato il rapporto con le università, sia italiane, sia straniere. La valorizzazione del brand e la promozione della nostra cultura d’impresa sono da sempre parte integrante della mission della Fondazione. La rubrica “Storia e storie dal mondo Pirelli”, che ha contribuito a far conoscere il nostro importante patrimonio, vi saluta e vi dà appuntamento al 2019 con nuove storie da raccontare. Auguri!

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Vita d’imprenditore

Dalle motivazioni per le quali viene dedicato i Premio Roma 2018, una bella lezione di cultura d’impresa

Ogni tanto occorre immergersi nella cultura d’impresa vissuta. Non quella descritta nei manuali, ma quella reale – vissuta, appunto -, da singole persone (imprenditori, manager anche semplici operai), che con le loro azioni hanno impersonificato più di altri l’essenza di ciò che poi i libri sintetizzano in cultura del produrre. Dell’intraprendere, anzi. I modi sono due: ascoltare dalla viva voce dei protagonisti l’avventura imprenditoriale che hanno vissuto, oppure apprenderne le gesta attraverso rare buone letture. E’ il caso della “Laudatio a Vito Pertosa” che il Direttore generale di Banca d’Italia, Salvatore Rossi, ha dedicato appunto a Pertosa in occasione del conferimento a questo del Premio Roma.

Quella di Pertosa è la classica avventura imprenditoriale di un uomo del sud che nel sud (a Monopoli), continua a vivere e lavorare, anche se i suoi prodotti e lui stesso, come spiega Rossi, girano ormai il mondo. Passato dalla produzione di  treni per il controllo e la misurazione di binari e linee elettriche aeree, Pertosa adesso si è dedicato a quella di piccoli satelliti e aerei superleggeri; senza aver trascurato di ricomprarsi la sua prima azienda .

Tutto nato dall’attività di Vito e del padre: la fabbricazione di carretti agricoli. Vita d’impresa che sa di avventura, appunto. Che nata e sviluppatasi nel Mezzogiorno, ha ancora di più il sapore di qualcosa di quasi unico. Anche se non è così. Spiega infatti Rossi: “Si argomenta spesso che l’economia meridionale sarebbe prigioniera della sua società e delle sue istituzioni, inadatte a favorire lo sviluppo. Capitale sociale scadente, amministrazione pubblica più inefficiente a parità di risorse, burocrazia più soffocante a parità di norme rallentano o impediscono la marcia delle imprese, ne soffocano lo slancio. Tutto questo è vero in molti casi, ma vi sono anche felici eccezioni. Vi sono imprenditori e imprese che sfidano la gravità”. Pertosa è uno di questi e Salvatore Rossi lo racconto con un tono leggero ma ugualmente attento e profondo. Lo racconta da amico ma da severo economista qual è. Per questo Rossi spiega come per far fare il salto di qualità alle imprese, occorra un favorevole connubio fra doti personali dell’imprenditore e territorio: una sorta di alchimia che abbisogna comunque di più componenti, ma nella quale l’imprenditore è fondamentale.

La Laudatio  in occasione del Premio Roma, oltre che essere racconto di un uomo si trasforma così in una piccola lezione di buona gestione imprenditoriale. Che fa bene a tutti.

Laudatio a Vito Pertosa

Salvatore Rossi,

Banca d’Italia, 6 dicembre 2018

Dalle motivazioni per le quali viene dedicato i Premio Roma 2018, una bella lezione di cultura d’impresa

Ogni tanto occorre immergersi nella cultura d’impresa vissuta. Non quella descritta nei manuali, ma quella reale – vissuta, appunto -, da singole persone (imprenditori, manager anche semplici operai), che con le loro azioni hanno impersonificato più di altri l’essenza di ciò che poi i libri sintetizzano in cultura del produrre. Dell’intraprendere, anzi. I modi sono due: ascoltare dalla viva voce dei protagonisti l’avventura imprenditoriale che hanno vissuto, oppure apprenderne le gesta attraverso rare buone letture. E’ il caso della “Laudatio a Vito Pertosa” che il Direttore generale di Banca d’Italia, Salvatore Rossi, ha dedicato appunto a Pertosa in occasione del conferimento a questo del Premio Roma.

Quella di Pertosa è la classica avventura imprenditoriale di un uomo del sud che nel sud (a Monopoli), continua a vivere e lavorare, anche se i suoi prodotti e lui stesso, come spiega Rossi, girano ormai il mondo. Passato dalla produzione di  treni per il controllo e la misurazione di binari e linee elettriche aeree, Pertosa adesso si è dedicato a quella di piccoli satelliti e aerei superleggeri; senza aver trascurato di ricomprarsi la sua prima azienda .

Tutto nato dall’attività di Vito e del padre: la fabbricazione di carretti agricoli. Vita d’impresa che sa di avventura, appunto. Che nata e sviluppatasi nel Mezzogiorno, ha ancora di più il sapore di qualcosa di quasi unico. Anche se non è così. Spiega infatti Rossi: “Si argomenta spesso che l’economia meridionale sarebbe prigioniera della sua società e delle sue istituzioni, inadatte a favorire lo sviluppo. Capitale sociale scadente, amministrazione pubblica più inefficiente a parità di risorse, burocrazia più soffocante a parità di norme rallentano o impediscono la marcia delle imprese, ne soffocano lo slancio. Tutto questo è vero in molti casi, ma vi sono anche felici eccezioni. Vi sono imprenditori e imprese che sfidano la gravità”. Pertosa è uno di questi e Salvatore Rossi lo racconto con un tono leggero ma ugualmente attento e profondo. Lo racconta da amico ma da severo economista qual è. Per questo Rossi spiega come per far fare il salto di qualità alle imprese, occorra un favorevole connubio fra doti personali dell’imprenditore e territorio: una sorta di alchimia che abbisogna comunque di più componenti, ma nella quale l’imprenditore è fondamentale.

La Laudatio  in occasione del Premio Roma, oltre che essere racconto di un uomo si trasforma così in una piccola lezione di buona gestione imprenditoriale. Che fa bene a tutti.

Laudatio a Vito Pertosa

Salvatore Rossi,

Banca d’Italia, 6 dicembre 2018

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