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Milano sede esemplare del Tribunale Ue dei Brevetti. L’eco dell’innovazione all’apertura dell’Anno Giudiziario  

Milano sede del Tribunale europeo dei brevetti. La candidatura, lanciata tempo fa dall’Ordine degli Avvocati milanesi e subito sostenuta dal sindaco Beppe Sala e dal governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, ha avuto il sostegno ufficiale del Governo, con un impegno esplicito del ministero degli Esteri guidato da Enzo Moavero Milanesi. Un sostegno importante, visto che le decisioni sulla Corte Ue dipendono dall’accordo dei governi dei 26 paesi europei che hanno aderito alla convenzione sulla proprietà intellettuale e sul “brevetto unitario”. Della Corte c’è una sede centrale, a Parigi e due sedi specializzate, a Monaco (sulla meccanica) e a Londra (sulla chimica-farmaceutica): proprio quella su cui punta Milano, dopo la scelta inglese della Brexit. Pronta anche la sede che potrebbe ospitarla: uno spazio attrezzato in via San Barnaba, accanto al Palazzo di Giustizia.

La rivendicazione italiana è autorevole: la nostra è tra le maggiori economie europee e l’Italia è il quarto paese Ue per numero di brevetti depositati. L’arrivo del Tribunale, oltre che stimolare un indotto che vale alcune centinaia di milioni di euro all’anno (congressi, convegni, studi legali, laboratori scientifici, sedi di imprese internazionali per seguire da vicino le pratiche legate ai brevetti) avrebbe un evidente peso tecnico, come nuovo stimolo all’innovazione per imprese, università e società di ricerca ma anche un forte valore simbolico, di riconoscimento del ruolo di Milano come metropoli hi tech attrattiva e competitiva proprio nel mondo delle life sciences e di rilancio delle aspettative di sviluppo internazionale. E sanerebbe, anche se solo in parte, la delusione per la mancata assegnazione alla città della sede dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco: nonostante un dossier brillante e solido, Milano era stata battuta al sorteggio da una  Amsterdam poco preparata, pagando il costo di un mancato sostegno politico e governativo ben guidato. A guardare bene le cose, proprio quello politico, però, potrebbe essere il punto debole della candidatura milanese: l’attuale governo giallo-verde non ha certo risparmiato le occasioni per entrare in aperta polemica soprattutto con la Francia e la Germania, i due maggiori paesi Ue e sconta un certo isolamento nei confronti delle principali istituzioni di Bruxelles.

La speranza diffusa, comunque, adesso è che la partita per il Tribunale dei brevetti venga giocata con intelligenza ed equilibrio, nell’interesse di tutto il sistema Paese.

Di questa partita c’è stata un’eco evidente anche durante la cerimonia di sabato scorso per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Milano. Non solo, naturalmente, nell’intervento del presidente dell’Ordine degli Avvocati Remo Danovi, ma nella stessa relazione del Primo Presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi.

Una relazione, ancora una volta, documentata e centrata sulle questioni essenziali dell’efficienza e dell’efficacia della giustizia e sul rapporto fondamentale tra funzionamento della macchina giudiziaria e sviluppo economico e civile del territorio (un tema caro, nel corso degli ultimi anni, proprio ai rapporti assidui tra Palazzo di Giustizia e Assolombarda, sulle questioni della legalità come asset fondamentale di competitività).

“Milano potrebbe essere la sede ideale della Corte Centrale del Brevetto Unitario”, ha detto la presidente Tavassi, ricordando che la città è già sede di una divisione locale della Corte e che “la Lombardia ha il primato dell’innovazione in Italia e si colloca all’11° posto per investimenti in ricerca e sviluppo, prima tra le Regioni italiane”. Un primato da sottolineare: “Qui vengono registrati il 33% dei brevetti nazionali e si effettua il 27% della ricerca scientifica italiana maggiormente citata a livello globale, a fronte di un peso dell’area, in termini di popolazione, più contenuto (16,5%). La Regione presenta la percentuale più alta di imprese che investono in ricerca e sviluppo (il 49,8%). Così come di startup knowledge intensive, con un tasso di crescita medio alto nel medio periodo (6,9%, insieme al Baden Wurttenberg). In questo contesto Milano sta vivendo un periodo di grande fermento”.

Proprio la giustizia, nelle dinamiche positive di crescita economica, ha un rilevante ruolo di stimolo.

I tempi rapidi di risoluzione delle controversie, la diffusione di strumenti tempestivi ed efficaci di conciliazione e arbitrato (la Camera Arbitrale della Camera di Commercio di Milano è un esempio di efficienza crescente e un punto di riferimento di tutte le Camere Arbitrali italiane), la qualità delle decisioni del Tribunale delle Imprese sono tutti elementi che incidono sull’attrattività di Milano per gli investimenti internazionali e per i progetti di sviluppo delle imprese migliori.

Sono più rapidi che altrove, a Milano, i tempi stessi della giustizia. La relazione della presidente Tavassi cita i dati dell’indagine del ministero della Giustizia sulle performance degli uffici giudiziari sulle cause civili, da cui risulta una durata media dei procedimenti d’appello di 1.061 giorni (due anni e undici mesi, cioè), il doppio del benchmark internazionale, mentre a Milano la durata media è di 545 giorni, un anno e sei mesi, cioè, ancora minore dei 631 giorni della media internazionale. Milano, grande e complicato distretto giudiziario, è dunque un caso esemplare.

I risultati positivi sono stati raggiunti nonostante una grave crisi degli organici, denunciata ancora una volta sia dalla presidente della Corte d’Appello Tavassi che dal Procuratore Generale Roberto D’Alfonso (che ha anche molto insistito sui rischi di una crescente presenza della criminalità mafiosa): 674 magistrati, contro i 773 di Roma e i 693 di Napoli, 2 addetti del personale amministrativo (cancellieri, impiegati, segreterie) per ogni magistrato contro la media nazionale di 3,3 e la presenza di 4 unità per magistrato in alcune sedi giudiziarie (Roma, Napoli, Reggio Calabria, Palermo).

Il commento della presidente Tavassi è durissimo: “E’ legittimo chiedersi quali sono le ragioni di questo costante disinteresse per una sede giudiziaria che ha dimostrato il massimo impegno, che ha raggiunto risultati apprezzabili, che opera su un territorio strategico per l’immagine del Paese e trainante per la sua economia. Vi è forse l’intento di ridurre le performance di Milano e di portarla a livello d’intasamento e di ritardi propri di altre sedi giudiziarie?”.

Il ministero, insomma, “ignora le urgenze di Milano”. La presa di posizione è netta, esplicita. Al ministero della Giustizia l’onere di una risposta adeguata, in termini di scelte, investimenti, attenzione. Conclude la relazione della presidente Tavassi: “Sappiamo che la complessità della giustizia e la durata dei processi costituiscono un significativo svantaggio per il nostro Paese nel contesto internazionale. Il funzionamento della giustizia è infatti uno dei parametri di valutazione primari per misurare il grado di civiltà di un Paese, con ricadute importanti sia per incoraggiare gli investimenti nazionali , sia per attrarre investimenti dall’estero”.

La partita sulla giustizia, dunque, ancora una volta esce dall’ambito dei palazzi giudiziari. Interpella direttamente il mondo delle imprese e del lavoro, l’università, la comunità scientifica, i poteri amministrativi locali. Anche nella relazione giustizia-economia si gioca il futuro di Milano, metropoli dell’innovazione.

Milano sede del Tribunale europeo dei brevetti. La candidatura, lanciata tempo fa dall’Ordine degli Avvocati milanesi e subito sostenuta dal sindaco Beppe Sala e dal governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, ha avuto il sostegno ufficiale del Governo, con un impegno esplicito del ministero degli Esteri guidato da Enzo Moavero Milanesi. Un sostegno importante, visto che le decisioni sulla Corte Ue dipendono dall’accordo dei governi dei 26 paesi europei che hanno aderito alla convenzione sulla proprietà intellettuale e sul “brevetto unitario”. Della Corte c’è una sede centrale, a Parigi e due sedi specializzate, a Monaco (sulla meccanica) e a Londra (sulla chimica-farmaceutica): proprio quella su cui punta Milano, dopo la scelta inglese della Brexit. Pronta anche la sede che potrebbe ospitarla: uno spazio attrezzato in via San Barnaba, accanto al Palazzo di Giustizia.

La rivendicazione italiana è autorevole: la nostra è tra le maggiori economie europee e l’Italia è il quarto paese Ue per numero di brevetti depositati. L’arrivo del Tribunale, oltre che stimolare un indotto che vale alcune centinaia di milioni di euro all’anno (congressi, convegni, studi legali, laboratori scientifici, sedi di imprese internazionali per seguire da vicino le pratiche legate ai brevetti) avrebbe un evidente peso tecnico, come nuovo stimolo all’innovazione per imprese, università e società di ricerca ma anche un forte valore simbolico, di riconoscimento del ruolo di Milano come metropoli hi tech attrattiva e competitiva proprio nel mondo delle life sciences e di rilancio delle aspettative di sviluppo internazionale. E sanerebbe, anche se solo in parte, la delusione per la mancata assegnazione alla città della sede dell’Ema, l’Agenzia europea del farmaco: nonostante un dossier brillante e solido, Milano era stata battuta al sorteggio da una  Amsterdam poco preparata, pagando il costo di un mancato sostegno politico e governativo ben guidato. A guardare bene le cose, proprio quello politico, però, potrebbe essere il punto debole della candidatura milanese: l’attuale governo giallo-verde non ha certo risparmiato le occasioni per entrare in aperta polemica soprattutto con la Francia e la Germania, i due maggiori paesi Ue e sconta un certo isolamento nei confronti delle principali istituzioni di Bruxelles.

La speranza diffusa, comunque, adesso è che la partita per il Tribunale dei brevetti venga giocata con intelligenza ed equilibrio, nell’interesse di tutto il sistema Paese.

Di questa partita c’è stata un’eco evidente anche durante la cerimonia di sabato scorso per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario a Milano. Non solo, naturalmente, nell’intervento del presidente dell’Ordine degli Avvocati Remo Danovi, ma nella stessa relazione del Primo Presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi.

Una relazione, ancora una volta, documentata e centrata sulle questioni essenziali dell’efficienza e dell’efficacia della giustizia e sul rapporto fondamentale tra funzionamento della macchina giudiziaria e sviluppo economico e civile del territorio (un tema caro, nel corso degli ultimi anni, proprio ai rapporti assidui tra Palazzo di Giustizia e Assolombarda, sulle questioni della legalità come asset fondamentale di competitività).

“Milano potrebbe essere la sede ideale della Corte Centrale del Brevetto Unitario”, ha detto la presidente Tavassi, ricordando che la città è già sede di una divisione locale della Corte e che “la Lombardia ha il primato dell’innovazione in Italia e si colloca all’11° posto per investimenti in ricerca e sviluppo, prima tra le Regioni italiane”. Un primato da sottolineare: “Qui vengono registrati il 33% dei brevetti nazionali e si effettua il 27% della ricerca scientifica italiana maggiormente citata a livello globale, a fronte di un peso dell’area, in termini di popolazione, più contenuto (16,5%). La Regione presenta la percentuale più alta di imprese che investono in ricerca e sviluppo (il 49,8%). Così come di startup knowledge intensive, con un tasso di crescita medio alto nel medio periodo (6,9%, insieme al Baden Wurttenberg). In questo contesto Milano sta vivendo un periodo di grande fermento”.

Proprio la giustizia, nelle dinamiche positive di crescita economica, ha un rilevante ruolo di stimolo.

I tempi rapidi di risoluzione delle controversie, la diffusione di strumenti tempestivi ed efficaci di conciliazione e arbitrato (la Camera Arbitrale della Camera di Commercio di Milano è un esempio di efficienza crescente e un punto di riferimento di tutte le Camere Arbitrali italiane), la qualità delle decisioni del Tribunale delle Imprese sono tutti elementi che incidono sull’attrattività di Milano per gli investimenti internazionali e per i progetti di sviluppo delle imprese migliori.

Sono più rapidi che altrove, a Milano, i tempi stessi della giustizia. La relazione della presidente Tavassi cita i dati dell’indagine del ministero della Giustizia sulle performance degli uffici giudiziari sulle cause civili, da cui risulta una durata media dei procedimenti d’appello di 1.061 giorni (due anni e undici mesi, cioè), il doppio del benchmark internazionale, mentre a Milano la durata media è di 545 giorni, un anno e sei mesi, cioè, ancora minore dei 631 giorni della media internazionale. Milano, grande e complicato distretto giudiziario, è dunque un caso esemplare.

I risultati positivi sono stati raggiunti nonostante una grave crisi degli organici, denunciata ancora una volta sia dalla presidente della Corte d’Appello Tavassi che dal Procuratore Generale Roberto D’Alfonso (che ha anche molto insistito sui rischi di una crescente presenza della criminalità mafiosa): 674 magistrati, contro i 773 di Roma e i 693 di Napoli, 2 addetti del personale amministrativo (cancellieri, impiegati, segreterie) per ogni magistrato contro la media nazionale di 3,3 e la presenza di 4 unità per magistrato in alcune sedi giudiziarie (Roma, Napoli, Reggio Calabria, Palermo).

Il commento della presidente Tavassi è durissimo: “E’ legittimo chiedersi quali sono le ragioni di questo costante disinteresse per una sede giudiziaria che ha dimostrato il massimo impegno, che ha raggiunto risultati apprezzabili, che opera su un territorio strategico per l’immagine del Paese e trainante per la sua economia. Vi è forse l’intento di ridurre le performance di Milano e di portarla a livello d’intasamento e di ritardi propri di altre sedi giudiziarie?”.

Il ministero, insomma, “ignora le urgenze di Milano”. La presa di posizione è netta, esplicita. Al ministero della Giustizia l’onere di una risposta adeguata, in termini di scelte, investimenti, attenzione. Conclude la relazione della presidente Tavassi: “Sappiamo che la complessità della giustizia e la durata dei processi costituiscono un significativo svantaggio per il nostro Paese nel contesto internazionale. Il funzionamento della giustizia è infatti uno dei parametri di valutazione primari per misurare il grado di civiltà di un Paese, con ricadute importanti sia per incoraggiare gli investimenti nazionali , sia per attrarre investimenti dall’estero”.

La partita sulla giustizia, dunque, ancora una volta esce dall’ambito dei palazzi giudiziari. Interpella direttamente il mondo delle imprese e del lavoro, l’università, la comunità scientifica, i poteri amministrativi locali. Anche nella relazione giustizia-economia si gioca il futuro di Milano, metropoli dell’innovazione.

Economia e non solo. Che cosa è accaduto?

L’ultimo libro di Fabrizio Saccomanni racconta l’evoluzione economica del mondo degli ultimi anni

Rischi globali. Il concetto è ormai entrato nel linguaggio comune di imprenditori e manager ma anche della gente comune. Occorre però non abusarne e soprattutto capirne il significo vero e le varie articolazioni attraverso le quali può esplicitarsi.

A questo serve leggere l’ultimo libro di Fabrizio Saccomanni – “Crepe nel sistema” -, appena pubblicato e frutto dell’esperienza dell’autore presso Banca d’Italia ma anche come ministro dell’economia e delle finanze e prima ancora in istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca dei regolamenti internazionali, la Banca centrale europea.

Saccomanni inizia il suo ragionamento da una constatazione: “La crisi è stata un vero e proprio terremoto per l’economia mondiale e si è lasciata dietro uno «sciame» di scosse politiche, sociali, economiche e finanziarie tuttora in corso. La struttura della cooperazione internazionale, con le sue istituzioni e le sue regole, è stata seriamente compromessa. Crepe profonde minano la tenuta del sistema della cooperazione internazionale. Ma la crisi non è stata un «flagello di Dio» dovuto alla malasorte. È stata la conseguenza di errori di giudizio e di risposta da parte della autorità responsabili della politica economica e finanziaria e della politica tout court”.

Detto in altre parole, l’eredità della crisi del 2008 si è tradotta in una crescita inadeguata, disoccupazione, disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, crollo degli investimenti pubblici. Le contromisure adottate dai governi sono state nel complesso inefficaci. Si è evitata l’implosione del sistema finanziario, ma si sono sottovalutate sia la natura strutturale della crisi, sia le gravi conseguenze sociali e politiche che essa avrebbe provocato. Si sono date risposte tardive, parziali, non coordinate a livello internazionale, mentre si è aperta la strada al protezionismo commerciale e finanziario, svilendo il ruolo e le funzioni delle istituzioni della cooperazione multilaterale. La conseguenza di tutto questo, per Saccomanni, è sintetizzata nel rischio di veder crollare il castello della cooperazione internazionale e quindi di vedere accentuato il rischio corrispondente di frammentazione del sistema globale dell’economia. Con tutte le conseguenze del caso.

Saccomanni, puntigliosamente ma con linguaggio piano e comprensibile, racconta tutto questo dividendo il libro in due parti ben distinte. “Nella prima – spiega lo stesso autore -, sono analizzate le strategie di gestione delle conseguenze della crisi”; nella seconda “vengono approfonditi alcuni temi specifici”: il ruolo della moneta, quello dell’Unione economica europea, gli aspetti legati alla cosiddetta fintech, la vicenda della regolamentazione finanziaria europea.

Gli argomenti affrontati da Fabrizio Saccomanni non sono facili e spesso vengono resi ancora più difficili (e incomprensibili) da un linguaggio  che fa di tutto per allontanare chi legge dalla comprensione vera di ciò che legge. Saccomanni invece riesce nell’impresa di spiegare passaggi cruciali per tutti noi in modo chiaro, comprensibile ed esatto. Mischiando economia e storia, cronaca ed esperienza personale, l’autore prende per mano il lettore e lo porta a vedere da vicino cosa è accaduto nel mondo negli ultimi anni. Buona lettura per una buona cultura (anche d’impresa).

Crepe nel sistema

Fabrizio Saccomanni

il Mulino, 2018

L’ultimo libro di Fabrizio Saccomanni racconta l’evoluzione economica del mondo degli ultimi anni

Rischi globali. Il concetto è ormai entrato nel linguaggio comune di imprenditori e manager ma anche della gente comune. Occorre però non abusarne e soprattutto capirne il significo vero e le varie articolazioni attraverso le quali può esplicitarsi.

A questo serve leggere l’ultimo libro di Fabrizio Saccomanni – “Crepe nel sistema” -, appena pubblicato e frutto dell’esperienza dell’autore presso Banca d’Italia ma anche come ministro dell’economia e delle finanze e prima ancora in istituzioni come il Fondo monetario internazionale, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca dei regolamenti internazionali, la Banca centrale europea.

Saccomanni inizia il suo ragionamento da una constatazione: “La crisi è stata un vero e proprio terremoto per l’economia mondiale e si è lasciata dietro uno «sciame» di scosse politiche, sociali, economiche e finanziarie tuttora in corso. La struttura della cooperazione internazionale, con le sue istituzioni e le sue regole, è stata seriamente compromessa. Crepe profonde minano la tenuta del sistema della cooperazione internazionale. Ma la crisi non è stata un «flagello di Dio» dovuto alla malasorte. È stata la conseguenza di errori di giudizio e di risposta da parte della autorità responsabili della politica economica e finanziaria e della politica tout court”.

Detto in altre parole, l’eredità della crisi del 2008 si è tradotta in una crescita inadeguata, disoccupazione, disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, crollo degli investimenti pubblici. Le contromisure adottate dai governi sono state nel complesso inefficaci. Si è evitata l’implosione del sistema finanziario, ma si sono sottovalutate sia la natura strutturale della crisi, sia le gravi conseguenze sociali e politiche che essa avrebbe provocato. Si sono date risposte tardive, parziali, non coordinate a livello internazionale, mentre si è aperta la strada al protezionismo commerciale e finanziario, svilendo il ruolo e le funzioni delle istituzioni della cooperazione multilaterale. La conseguenza di tutto questo, per Saccomanni, è sintetizzata nel rischio di veder crollare il castello della cooperazione internazionale e quindi di vedere accentuato il rischio corrispondente di frammentazione del sistema globale dell’economia. Con tutte le conseguenze del caso.

Saccomanni, puntigliosamente ma con linguaggio piano e comprensibile, racconta tutto questo dividendo il libro in due parti ben distinte. “Nella prima – spiega lo stesso autore -, sono analizzate le strategie di gestione delle conseguenze della crisi”; nella seconda “vengono approfonditi alcuni temi specifici”: il ruolo della moneta, quello dell’Unione economica europea, gli aspetti legati alla cosiddetta fintech, la vicenda della regolamentazione finanziaria europea.

Gli argomenti affrontati da Fabrizio Saccomanni non sono facili e spesso vengono resi ancora più difficili (e incomprensibili) da un linguaggio  che fa di tutto per allontanare chi legge dalla comprensione vera di ciò che legge. Saccomanni invece riesce nell’impresa di spiegare passaggi cruciali per tutti noi in modo chiaro, comprensibile ed esatto. Mischiando economia e storia, cronaca ed esperienza personale, l’autore prende per mano il lettore e lo porta a vedere da vicino cosa è accaduto nel mondo negli ultimi anni. Buona lettura per una buona cultura (anche d’impresa).

Crepe nel sistema

Fabrizio Saccomanni

il Mulino, 2018

Credito e sviluppo, binomio delicato

Un intervento del Vicedirettore di Banca d’Italia chiarisce i legami fra finanza ed economia

Credito e sviluppo. Attenzione del primo alle esigenze del secondo. Questione di regole e di comportamenti, e quindi di cultura e di consapevolezza della necessità di un equilibrio che va costruito e preservato. E’ attorno a questi temi che ha ragionato – e scritto -, Fabio Panetta  (Vicedirettore generale della Banca d’Italia),  in un intervento recente.

“Credito e sviluppo: vincoli e opportunità  per l’economia italiana”, è una lucida analisi dei collegamenti reciproci fra due elementi che si influenzano l’uno con l’altro e le cui dinamiche vanno comprese a fondo. Proprio quanto scrive Panetta è strumento utile in questa direzione.

Panetta precisa: il problema di fondo è il potenziale conflitto fra interventi finanziari e processi di sviluppo, fra, in altre parole, sviluppo economico e stabilità finanziaria. Questione delicata, che l’autore esamina prima ripercorrendo le tappe principali della  storia recente, poi approfondendo gli aspetti cruciali delle ultime riforme del credito e, infine, “le misure in grado di ampliare l’offerta di risorse finanziarie alle imprese” e quindi la possibilità di investimento e di crescita.

Le conclusioni di Panetta sono chiare. “Il sistema finanziario deve essere in grado di fornire le risorse per gli investimenti e per l’innovazione, che rappresentano i motori dello sviluppo”, scrive il Vicedirettore della banca centrale italiana che poi aggiunge: “Ancor più che in passato, è necessario un sistema finanziario maggiormente articolato, in cui i mercati e gli operatori non bancari assumano un ruolo crescente. È essenziale che le imprese si rafforzino patrimonialmente e mostrino piena disponibilità ad aprirsi al vaglio esterno e ad accrescere le dimensioni operative”. In questo ambito, un ruolo cruciale può avere l’innovazione tecnologia culla quale sempre Panetta scrive: “Rappresenta un formidabile strumento di progresso economico e sociale. L’adozione delle nuove tecnologie consente agli operatori finanziari e alle imprese di ridurre i costi e di migliorare la qualità dei beni e dei servizi offerti; può favorire l’inclusione sociale e quella finanziaria. Potremo innalzare il percorso di crescita della nostra economia se sapremo cogliere queste opportunità, governandone i rischi. È un impegno che riguarda tutti”. Ed è dall’ultima affermazione che deriva tutto il significato non solo economico ma anche culturale dell’intervento di Panetta, che esplora certamente un tema complesso, ma che riesce a fornire elementi importanti per la comprensione della realtà.

Credito e sviluppo: vincoli e opportunità  per l’economia italiana

Fabio Panetta

Invento per U.C.I.D. – Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti Gruppo Emiliano Romagnolo

Banca d’Italia, 2019

Un intervento del Vicedirettore di Banca d’Italia chiarisce i legami fra finanza ed economia

Credito e sviluppo. Attenzione del primo alle esigenze del secondo. Questione di regole e di comportamenti, e quindi di cultura e di consapevolezza della necessità di un equilibrio che va costruito e preservato. E’ attorno a questi temi che ha ragionato – e scritto -, Fabio Panetta  (Vicedirettore generale della Banca d’Italia),  in un intervento recente.

“Credito e sviluppo: vincoli e opportunità  per l’economia italiana”, è una lucida analisi dei collegamenti reciproci fra due elementi che si influenzano l’uno con l’altro e le cui dinamiche vanno comprese a fondo. Proprio quanto scrive Panetta è strumento utile in questa direzione.

Panetta precisa: il problema di fondo è il potenziale conflitto fra interventi finanziari e processi di sviluppo, fra, in altre parole, sviluppo economico e stabilità finanziaria. Questione delicata, che l’autore esamina prima ripercorrendo le tappe principali della  storia recente, poi approfondendo gli aspetti cruciali delle ultime riforme del credito e, infine, “le misure in grado di ampliare l’offerta di risorse finanziarie alle imprese” e quindi la possibilità di investimento e di crescita.

Le conclusioni di Panetta sono chiare. “Il sistema finanziario deve essere in grado di fornire le risorse per gli investimenti e per l’innovazione, che rappresentano i motori dello sviluppo”, scrive il Vicedirettore della banca centrale italiana che poi aggiunge: “Ancor più che in passato, è necessario un sistema finanziario maggiormente articolato, in cui i mercati e gli operatori non bancari assumano un ruolo crescente. È essenziale che le imprese si rafforzino patrimonialmente e mostrino piena disponibilità ad aprirsi al vaglio esterno e ad accrescere le dimensioni operative”. In questo ambito, un ruolo cruciale può avere l’innovazione tecnologia culla quale sempre Panetta scrive: “Rappresenta un formidabile strumento di progresso economico e sociale. L’adozione delle nuove tecnologie consente agli operatori finanziari e alle imprese di ridurre i costi e di migliorare la qualità dei beni e dei servizi offerti; può favorire l’inclusione sociale e quella finanziaria. Potremo innalzare il percorso di crescita della nostra economia se sapremo cogliere queste opportunità, governandone i rischi. È un impegno che riguarda tutti”. Ed è dall’ultima affermazione che deriva tutto il significato non solo economico ma anche culturale dell’intervento di Panetta, che esplora certamente un tema complesso, ma che riesce a fornire elementi importanti per la comprensione della realtà.

Credito e sviluppo: vincoli e opportunità  per l’economia italiana

Fabio Panetta

Invento per U.C.I.D. – Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti Gruppo Emiliano Romagnolo

Banca d’Italia, 2019

La nascita di un’azienda internazionale

Oggi la Pirelli compie centoquarantasette anni: è il 28 gennaio del 1872 quando Giovanni Battista Pirelli firma l’atto costitutivo della società “in accomandita semplice” G.B. Pirelli & C., a Milano. Eppure la storia dell’azienda ha anche radici internazionali: nel marzo del 1871 il neolaureato ingegner Giovanni Battista, in viaggio nelle valli svizzere, annota nel suo diario alcuni tratti del paese che sta visitando: “Istituzioni e indole del popolo s’accordano a proteggere e far progredire il lavoro. Il fabbricante, il direttore, è attivo, assiduo e amico dell’operajo, questi intelligente, operoso, maneggevole… L’accordo tra il capitale e il lavoro è pienamente ottenuto. L’armonia, l’amore, e l’ajuto reciproco ne è la benefica conseguenza. Nelle istituzioni c’è molto da imparare in quei paesi  ed io auguro al mio che industrialmente gli possa un giorno assomigliare”.

La Confederazione svizzera è una delle tappe – insieme a Germania, Belgio e Francia – del “viaggio di istruzione all’estero” che Giovanni Battista può compiere grazie alla vittoria, come miglior studente del corso di ingegneria industriale al Politecnico di Milano, di una borsa di studio di 3.000 lire indetta dalla nobildonna milanese Teresa Kramer-Berra. Denaro da investire andando a visitare di persona quella Seconda Rivoluzione Industriale che sta sbocciando in alcuni paesi europei, mentre in Italia ancora stenta a decollare. Un anno di tempo, un “Grand Tour” all’estero per imparare a diventare imprenditori moderni e aperti all’innovazione. E la più innovativa tra le imprese pare essere quella del caucciù: pochi anni prima Giovanni Battista ha visto a Genova il relitto di una nave da guerra affondata e miracolosamente riportata in superficie grazie all’utilizzo di tubi “in caucciù” francesi. Dunque, lo studio dell’industria tedesca e francese della gomma come uno degli obiettivi del viaggio di studio: “partii con questa bandiera, ma solo pro-forma, riservandomi di vedere e studiare altro… tutte le industrie mi interessavano egualmente”.

È denso di appunti tecnici il diario di viaggio dell’ingegnere: schizzi di macchinari sconosciuti usati in tessitura, descrizioni minuziose del processo produttivo delle locomotive, layout di stabilimenti all’avanguardia per l’epoca. La visita che si rivelerà risolutrice per il suo futuro di imprenditore avviene il 12 maggio del 1871, quando Giovanni Battista visita la “Fabbrica di oggetti in caoutchouc di Voigt e Winde” a Berlino. Finalmente la gomma! Perché, come aveva scritto qualche settimana prima all’amico Ettore Paladini, “dopo averle fatto la corte in tutti i modi possibili son finalmente riuscito a farmi presentare a quella ritrosa madamigella che è l’industria in caoutchouc. Ciò è successo a Mannheim. Presentazione  – quattro parole – un giro nelle sale, e poi la m’è scappata. Spero di rivederla a Berlino”. E dopo Berlino ecco la fabbrica per articoli in caoutchouc di Gustave Luyckx a Bruxelles e poi quella del sig. Casassa a Charenton in Francia: François Casassa tornerà nella storia della G.B. Pirelli & C. diventandone socio, come un altro francese, Aimée Goulard, primo Direttore tecnico della Pirelli.
Senza passare dall’Inghilterra, il viaggiatore torna a Milano nel settembre del 1871: è il momento di trovare dei soci disposti a realizzare l’idea. “Nel cervello di uno studente romantico il progetto di un’industria nuova”, titolerà più tardi un articolo della rivista “Pirelli” dedicato alla sua impresa.

Oggi la Pirelli compie centoquarantasette anni: è il 28 gennaio del 1872 quando Giovanni Battista Pirelli firma l’atto costitutivo della società “in accomandita semplice” G.B. Pirelli & C., a Milano. Eppure la storia dell’azienda ha anche radici internazionali: nel marzo del 1871 il neolaureato ingegner Giovanni Battista, in viaggio nelle valli svizzere, annota nel suo diario alcuni tratti del paese che sta visitando: “Istituzioni e indole del popolo s’accordano a proteggere e far progredire il lavoro. Il fabbricante, il direttore, è attivo, assiduo e amico dell’operajo, questi intelligente, operoso, maneggevole… L’accordo tra il capitale e il lavoro è pienamente ottenuto. L’armonia, l’amore, e l’ajuto reciproco ne è la benefica conseguenza. Nelle istituzioni c’è molto da imparare in quei paesi  ed io auguro al mio che industrialmente gli possa un giorno assomigliare”.

La Confederazione svizzera è una delle tappe – insieme a Germania, Belgio e Francia – del “viaggio di istruzione all’estero” che Giovanni Battista può compiere grazie alla vittoria, come miglior studente del corso di ingegneria industriale al Politecnico di Milano, di una borsa di studio di 3.000 lire indetta dalla nobildonna milanese Teresa Kramer-Berra. Denaro da investire andando a visitare di persona quella Seconda Rivoluzione Industriale che sta sbocciando in alcuni paesi europei, mentre in Italia ancora stenta a decollare. Un anno di tempo, un “Grand Tour” all’estero per imparare a diventare imprenditori moderni e aperti all’innovazione. E la più innovativa tra le imprese pare essere quella del caucciù: pochi anni prima Giovanni Battista ha visto a Genova il relitto di una nave da guerra affondata e miracolosamente riportata in superficie grazie all’utilizzo di tubi “in caucciù” francesi. Dunque, lo studio dell’industria tedesca e francese della gomma come uno degli obiettivi del viaggio di studio: “partii con questa bandiera, ma solo pro-forma, riservandomi di vedere e studiare altro… tutte le industrie mi interessavano egualmente”.

È denso di appunti tecnici il diario di viaggio dell’ingegnere: schizzi di macchinari sconosciuti usati in tessitura, descrizioni minuziose del processo produttivo delle locomotive, layout di stabilimenti all’avanguardia per l’epoca. La visita che si rivelerà risolutrice per il suo futuro di imprenditore avviene il 12 maggio del 1871, quando Giovanni Battista visita la “Fabbrica di oggetti in caoutchouc di Voigt e Winde” a Berlino. Finalmente la gomma! Perché, come aveva scritto qualche settimana prima all’amico Ettore Paladini, “dopo averle fatto la corte in tutti i modi possibili son finalmente riuscito a farmi presentare a quella ritrosa madamigella che è l’industria in caoutchouc. Ciò è successo a Mannheim. Presentazione  – quattro parole – un giro nelle sale, e poi la m’è scappata. Spero di rivederla a Berlino”. E dopo Berlino ecco la fabbrica per articoli in caoutchouc di Gustave Luyckx a Bruxelles e poi quella del sig. Casassa a Charenton in Francia: François Casassa tornerà nella storia della G.B. Pirelli & C. diventandone socio, come un altro francese, Aimée Goulard, primo Direttore tecnico della Pirelli.
Senza passare dall’Inghilterra, il viaggiatore torna a Milano nel settembre del 1871: è il momento di trovare dei soci disposti a realizzare l’idea. “Nel cervello di uno studente romantico il progetto di un’industria nuova”, titolerà più tardi un articolo della rivista “Pirelli” dedicato alla sua impresa.

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Un libro in azienda

“Il Centro Culturale Pirelli è nato spontaneamente in una mensa aziendale della Ditta, quando alcuni lavoratori si sono resi conto di avere in comune, oltre il lavoro, l’appetito e il tavolo, una gamma di urgenti esigenze spirituali”. Prima tra tutte, la conoscenza: quella che nasce spontanea dalle pagine dei libri. È questo il messaggio contenuto nell’articolo La cultura come il pane, scritto dal direttore del Centro Culturale Pirelli Silvestro Severgnini per la rivista “Pirelli” nel 1951. Già negli anni Venti del Novecento Pirelli mise a disposizione dei suoi lavoratori un reparto di fabbrica del tutto particolare, dove i libri si affiancavano alle macchine. Dove poter leggere, poter condividere, poter “dialogare” con la cultura. “L’importanza della lettura come parte della formazione delle persone è sempre stata nel DNA dell’azienda. Oggi noi abbiamo aperto biblioteche a Settimo Torinese, a Bollate, in Bicocca e siamo collegati con tutto il Sistema delle Biblioteche Milanesi. Questo dà accesso a oltre un milione di materiali fra documenti, video, magazine, giornali e libri. Noi riteniamo che la lettura sia uno spazio importante nella vita delle persone e fa parte di quel rapporto fra Pirelli e la cultura che è sempre stato alla base della società aperta in cui Pirelli si è radicata.” Queste le parole di Marco Tronchetti Provera, Amministratore Delegato di Pirelli e Presidente della Fondazione Pirelli. È la Fondazione Pirelli a gestire oggi il sistema delle biblioteche aziendali, che con il progetto SBM moltiplica l’offerta culturale in un circolo virtuoso con le istituzioni pubbliche. Le biblioteche si confermano anche un punto di incontro e di aggregazione all’interno del luogo di lavoro, un incentivo forte a relazionarsi con il mondo che ci circonda: un libro in azienda è un passaporto verso un’idea di welfare tanto antica quanto sempre attuale. “La cosa bella è che in Pirelli l’innovazione non sia legata soltanto alla parte che sicuramente è fondante, che è l’innovazione tecnologica, ma sia legata anche a un modo nuovo di percepire gli spazi e le modalità di lavoro. Anche questa è innovazione”, dice Davide Sala, Executive Vice President and Chief Human Resources Officer.

“Impresa e cultura non solo convivono, ma si alimentano l’una con l’altra in una maniera che è sempre più positiva.”

“Il Centro Culturale Pirelli è nato spontaneamente in una mensa aziendale della Ditta, quando alcuni lavoratori si sono resi conto di avere in comune, oltre il lavoro, l’appetito e il tavolo, una gamma di urgenti esigenze spirituali”. Prima tra tutte, la conoscenza: quella che nasce spontanea dalle pagine dei libri. È questo il messaggio contenuto nell’articolo La cultura come il pane, scritto dal direttore del Centro Culturale Pirelli Silvestro Severgnini per la rivista “Pirelli” nel 1951. Già negli anni Venti del Novecento Pirelli mise a disposizione dei suoi lavoratori un reparto di fabbrica del tutto particolare, dove i libri si affiancavano alle macchine. Dove poter leggere, poter condividere, poter “dialogare” con la cultura. “L’importanza della lettura come parte della formazione delle persone è sempre stata nel DNA dell’azienda. Oggi noi abbiamo aperto biblioteche a Settimo Torinese, a Bollate, in Bicocca e siamo collegati con tutto il Sistema delle Biblioteche Milanesi. Questo dà accesso a oltre un milione di materiali fra documenti, video, magazine, giornali e libri. Noi riteniamo che la lettura sia uno spazio importante nella vita delle persone e fa parte di quel rapporto fra Pirelli e la cultura che è sempre stato alla base della società aperta in cui Pirelli si è radicata.” Queste le parole di Marco Tronchetti Provera, Amministratore Delegato di Pirelli e Presidente della Fondazione Pirelli. È la Fondazione Pirelli a gestire oggi il sistema delle biblioteche aziendali, che con il progetto SBM moltiplica l’offerta culturale in un circolo virtuoso con le istituzioni pubbliche. Le biblioteche si confermano anche un punto di incontro e di aggregazione all’interno del luogo di lavoro, un incentivo forte a relazionarsi con il mondo che ci circonda: un libro in azienda è un passaporto verso un’idea di welfare tanto antica quanto sempre attuale. “La cosa bella è che in Pirelli l’innovazione non sia legata soltanto alla parte che sicuramente è fondante, che è l’innovazione tecnologica, ma sia legata anche a un modo nuovo di percepire gli spazi e le modalità di lavoro. Anche questa è innovazione”, dice Davide Sala, Executive Vice President and Chief Human Resources Officer.

“Impresa e cultura non solo convivono, ma si alimentano l’una con l’altra in una maniera che è sempre più positiva.”

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Come uscire dalle difficoltà

L’ultimo libro di Ignazio Visco racconta il passato recente dell’Italia e fornisce una prospettiva per il futuro

Avere cognizione affidabile del cammino percorso e di quello che occorre ancora fare, è cosa buona per tutti, anche per le imprese e per chi le governa. E anche pensando non solo ai cammini individuali ma pure a quelli collettivi. L’ultimo libro di Ignazio Visco è un buon aiuto in questa direzione.

Visco studia, in questa sua ultima fatica letteraria, quelli che dal titolo vengono già individuati come “Anni difficili”, quelli “più difficili” – stando all’autore – che il Paese ha attraversato nella nostra storia economica in tempo di pace, anni contrassegnati da una doppia recessione, la prima provocata dalla crisi finanziaria globale e la seconda da quella dei debiti sovrani dell’area dell’euro.

Visco quindi – sulla scorta del suo essere economista e Governatore della banca centrale italiana -, approfondisce le cause di questo lungo periodo critico, soffermandosi sulla pesante eredità lasciata sui conti pubblici, i bilanci delle banche, il mercato del lavoro, la struttura del sistema produttivo, per concentrarsi poi sulle sfide da affrontare per rendere la nostra economia più dinamica e resistente.

Tutto con un occhio non solo alla situazione di “casa nostra”, ma anche e soprattutto a quella “fuori casa nostra”. Il contesto in cui l’analisi viene condotta, infatti, è quello che vede i fenomeni da governare con una scala globale: la crescente integrazione dei mercati, il rapido progresso tecnologico, l’immigrazione, la finanza non possono essere gestiti nei ristretti confini nazionali.

Su tutto quindi un’indicazione importante: non ci può essere sviluppo nell’isolamento.

E da tutto, l’indicazione delle azioni che è possibile intraprendere: la rimozione generale degli ostacoli all’attività di impresa, all’innovazione, alla corretta allocazione delle risorse.

Il libro di Visco ha il gran pregio di parlar chiaro e preciso e soprattutto quello di contenere un germe di positività, che si schiude in particolare nelle ultime pagine con il ragionare dei legami fra conoscenza e sviluppo, fra cultura e progresso (anche economico ma non solo economico). “In un mondo che cambia in modo così imprevedibile, dove la casualità e le non linearità hanno un ruolo cruciale, che però non sono, in buona parte, indipendenti dalle stesse decisioni umane (…), in quali conoscenze è bene investire?”, si chiede Visco che continua: “In Italia vi è certamente bisogno di superare una volta per tutte la barriera che ha a lungo separato la cosiddetta cultura «umanistica», da valorizzare, da quella «tecnico-scientifica», su cui investire. Una barriera che continua a pesare nelle discussioni sulla formazione dei giovani”. Sottolinea quindi Visco: “Accanto alle conoscenze tradizionali oggi occorre coltivare un nuovo insieme di competenze, che servano anche a far fronte a situazioni inedite, come l’esercizio del pensiero critico, la propensione alla risoluzione dei problemi, la capacità di comunicare”.  Cultura tecnica e umanistica insieme, dunque, come giusto insieme per superare anche la crisi economica. Cultura anche critica (Visco cita meravigliosamente Federico Caffè che amava ricordare l’importanza di coltivare il dubbio), ma pur sempre globale e non costretta entro vincoli artificiali. Proprio quella cultura della quale “Anni difficili” di Ignazio Visco è esempio tutto da leggere.

Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia

Ignazio Visco

Il Mulino, 2019

L’ultimo libro di Ignazio Visco racconta il passato recente dell’Italia e fornisce una prospettiva per il futuro

Avere cognizione affidabile del cammino percorso e di quello che occorre ancora fare, è cosa buona per tutti, anche per le imprese e per chi le governa. E anche pensando non solo ai cammini individuali ma pure a quelli collettivi. L’ultimo libro di Ignazio Visco è un buon aiuto in questa direzione.

Visco studia, in questa sua ultima fatica letteraria, quelli che dal titolo vengono già individuati come “Anni difficili”, quelli “più difficili” – stando all’autore – che il Paese ha attraversato nella nostra storia economica in tempo di pace, anni contrassegnati da una doppia recessione, la prima provocata dalla crisi finanziaria globale e la seconda da quella dei debiti sovrani dell’area dell’euro.

Visco quindi – sulla scorta del suo essere economista e Governatore della banca centrale italiana -, approfondisce le cause di questo lungo periodo critico, soffermandosi sulla pesante eredità lasciata sui conti pubblici, i bilanci delle banche, il mercato del lavoro, la struttura del sistema produttivo, per concentrarsi poi sulle sfide da affrontare per rendere la nostra economia più dinamica e resistente.

Tutto con un occhio non solo alla situazione di “casa nostra”, ma anche e soprattutto a quella “fuori casa nostra”. Il contesto in cui l’analisi viene condotta, infatti, è quello che vede i fenomeni da governare con una scala globale: la crescente integrazione dei mercati, il rapido progresso tecnologico, l’immigrazione, la finanza non possono essere gestiti nei ristretti confini nazionali.

Su tutto quindi un’indicazione importante: non ci può essere sviluppo nell’isolamento.

E da tutto, l’indicazione delle azioni che è possibile intraprendere: la rimozione generale degli ostacoli all’attività di impresa, all’innovazione, alla corretta allocazione delle risorse.

Il libro di Visco ha il gran pregio di parlar chiaro e preciso e soprattutto quello di contenere un germe di positività, che si schiude in particolare nelle ultime pagine con il ragionare dei legami fra conoscenza e sviluppo, fra cultura e progresso (anche economico ma non solo economico). “In un mondo che cambia in modo così imprevedibile, dove la casualità e le non linearità hanno un ruolo cruciale, che però non sono, in buona parte, indipendenti dalle stesse decisioni umane (…), in quali conoscenze è bene investire?”, si chiede Visco che continua: “In Italia vi è certamente bisogno di superare una volta per tutte la barriera che ha a lungo separato la cosiddetta cultura «umanistica», da valorizzare, da quella «tecnico-scientifica», su cui investire. Una barriera che continua a pesare nelle discussioni sulla formazione dei giovani”. Sottolinea quindi Visco: “Accanto alle conoscenze tradizionali oggi occorre coltivare un nuovo insieme di competenze, che servano anche a far fronte a situazioni inedite, come l’esercizio del pensiero critico, la propensione alla risoluzione dei problemi, la capacità di comunicare”.  Cultura tecnica e umanistica insieme, dunque, come giusto insieme per superare anche la crisi economica. Cultura anche critica (Visco cita meravigliosamente Federico Caffè che amava ricordare l’importanza di coltivare il dubbio), ma pur sempre globale e non costretta entro vincoli artificiali. Proprio quella cultura della quale “Anni difficili” di Ignazio Visco è esempio tutto da leggere.

Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia

Ignazio Visco

Il Mulino, 2019

Cultura d’impresa inclusiva

Dall’Università di Bologna una ricerca sul management della diversità

 

Buona cultura d’impresa, anche con un’attenzione particolare all’inclusione. Il tema è delicato ma importante. Vale per ogni luogo di produzione e ad ogni livello. Ragionarne è cosa opportuna per tutti. Leggere “Il Disabilty manager e le competenze di tutoring a sostegno dell’inclusione lavorativa” scritto a quattro mani da Valeria Friso e Silvia Scollo (dell’Università di Bologna), può essere un buon approfondimento di un argomento denso di difficoltà ma anche di opportunità

La ricerca, pubblicata recentemente su Rivista Formazione Lavoro Persona, analizza il ruolo e la collocazione all’interno dell’organizzazione aziendale dei disability manager , cioè di quelle figure che hanno il compito di agevolare l’inclusione lavorativa delle persone disabili.

L’analisi inizia però dall’esame dell’apparato legislativo in vigore per poi passare subito al ruolo del disability manager  e quindi alla sua funzione di tutor aziendale per la risoluzione delle situazioni problematiche.

Viene scritto all’inizio del lavoro: “Da sempre legato alla produttività, il mondo del lavoro si può interrogare circa le forme e le modalità per sostenere processi di inclusione. A livello mondiale esiste una corrente di pensiero collocata all’interno del più ampio contesto del Diversity Management, nato negli anni ottanta negli Stati Uniti, che porta il nome di Disability Management. Essa ha l’obiettivo di gestire le diversità presenti nelle organizzazioni sia pubbliche sia private, al fine di sviluppare un ambiente che sia favorevole a tutti i lavoratori”. Traguardo forse complesso da raggiungere ma di fatto alla portata di tutte le organizzazioni della produzione a patto di rivedere “un’impostazione di governance aziendale che non riguarda unicamente il cambiamento di alcuni comportamenti individuali, mediante attività formative dirette all’apprendimento di pratiche o di linguaggi differenti, ma deve interessare la cultura dell’impresa, quale substrato che presidia le linee evolutive della struttura aziendale”.

L’articolo di Friso e Scollo studia quindi la figura del disability manager come quella figura in rado di conciliare disabilità con esigenze di produttività d’impresa, tutto in un contesto che riesca a rispettare entrambe le situazioni.

Questione anche e soprattutto di cultura del produrre e organizzativa che in qualche modo va rivista e rivisitata. E’ proprio su questi aspetti che si soffermano quindi le due autrici, puntando il dito sulla necessità di formare ed informare, di far comprendere i percorsi più opportuni da compiere. Ed è a questo punto che viene alla luce nel ragionamento il ruolo di tutor  aziendale del disability manager, visto come un “progettista di interventi inclusivi e formativi, nonché come facilitatore che va a mediare tra le caratteristiche della persona e le richieste aziendali”.

Dalla ricerca di Valeria Friso e Silvia Scollo emerge un quadro complesso ma anche promettente per quanto riguarda le relazioni all’interno delle organizzazioni della produzione, nel quale, tuttavia, il ruolo di una migliore e più evoluta cultura d’impresa ha una parte determinante.

Il Disabilty manager e le competenze di tutoring a sostegno dell’inclusione lavorativa

Valeria Friso, Silvia Scollo

Rivista Formazione Lavoro Persona, Anno VIII, n. 25.

Dall’Università di Bologna una ricerca sul management della diversità

 

Buona cultura d’impresa, anche con un’attenzione particolare all’inclusione. Il tema è delicato ma importante. Vale per ogni luogo di produzione e ad ogni livello. Ragionarne è cosa opportuna per tutti. Leggere “Il Disabilty manager e le competenze di tutoring a sostegno dell’inclusione lavorativa” scritto a quattro mani da Valeria Friso e Silvia Scollo (dell’Università di Bologna), può essere un buon approfondimento di un argomento denso di difficoltà ma anche di opportunità

La ricerca, pubblicata recentemente su Rivista Formazione Lavoro Persona, analizza il ruolo e la collocazione all’interno dell’organizzazione aziendale dei disability manager , cioè di quelle figure che hanno il compito di agevolare l’inclusione lavorativa delle persone disabili.

L’analisi inizia però dall’esame dell’apparato legislativo in vigore per poi passare subito al ruolo del disability manager  e quindi alla sua funzione di tutor aziendale per la risoluzione delle situazioni problematiche.

Viene scritto all’inizio del lavoro: “Da sempre legato alla produttività, il mondo del lavoro si può interrogare circa le forme e le modalità per sostenere processi di inclusione. A livello mondiale esiste una corrente di pensiero collocata all’interno del più ampio contesto del Diversity Management, nato negli anni ottanta negli Stati Uniti, che porta il nome di Disability Management. Essa ha l’obiettivo di gestire le diversità presenti nelle organizzazioni sia pubbliche sia private, al fine di sviluppare un ambiente che sia favorevole a tutti i lavoratori”. Traguardo forse complesso da raggiungere ma di fatto alla portata di tutte le organizzazioni della produzione a patto di rivedere “un’impostazione di governance aziendale che non riguarda unicamente il cambiamento di alcuni comportamenti individuali, mediante attività formative dirette all’apprendimento di pratiche o di linguaggi differenti, ma deve interessare la cultura dell’impresa, quale substrato che presidia le linee evolutive della struttura aziendale”.

L’articolo di Friso e Scollo studia quindi la figura del disability manager come quella figura in rado di conciliare disabilità con esigenze di produttività d’impresa, tutto in un contesto che riesca a rispettare entrambe le situazioni.

Questione anche e soprattutto di cultura del produrre e organizzativa che in qualche modo va rivista e rivisitata. E’ proprio su questi aspetti che si soffermano quindi le due autrici, puntando il dito sulla necessità di formare ed informare, di far comprendere i percorsi più opportuni da compiere. Ed è a questo punto che viene alla luce nel ragionamento il ruolo di tutor  aziendale del disability manager, visto come un “progettista di interventi inclusivi e formativi, nonché come facilitatore che va a mediare tra le caratteristiche della persona e le richieste aziendali”.

Dalla ricerca di Valeria Friso e Silvia Scollo emerge un quadro complesso ma anche promettente per quanto riguarda le relazioni all’interno delle organizzazioni della produzione, nel quale, tuttavia, il ruolo di una migliore e più evoluta cultura d’impresa ha una parte determinante.

Il Disabilty manager e le competenze di tutoring a sostegno dell’inclusione lavorativa

Valeria Friso, Silvia Scollo

Rivista Formazione Lavoro Persona, Anno VIII, n. 25.

L’Italia in recessione è un “rischio globale”. Allarme Fmi sul governo dell’economia

Stagnazione”, dice il ministro dell’Economia Tria: produzione e Pil immobili, senza crescita. “Recessione”, sostiene la Banca d’Italia, temendo che anche il secondo trimestre del 2018 sia stato a crescita negativa (i dati ufficiali arriveranno il 31 gennaio). C’è differenza tecnica, tra i due fenomeni. Ma non così rilevante. Dal punto di vista dell’andamento dell’economia italiana, tra crescita 0 e crescita -1, un fatto emerge con grande chiarezza agli occhi di imprenditori, operatori economici, cittadini: l’Italia è un paese bloccato, con conseguenze profondamente negative su ricchezza, redditi, lavoro. “L’Italia ha attraversato il 2018 all’insegna del rallentamento”, sostiene il XXIII Rapporto sull’Economia globale del Centro Einaudi, presentato ieri in Assolombarda, a Milano, da Mario Deaglio e per il futuro “il quadro è incerto”, per non dire “un grande mah”.

Le previsioni per il 2019 sono abbastanza allarmanti. Il Fondo Monetario Internazionale, nell’analisi sulle economie mondiali presentata ieri al World Economic Forum a Davos, mette la situazione finanziaria dell’Italia e la Brexit al primo posto tra i principali fattori di rischio globale e insiste “sul costoso intreccio tra rischi sovrani e rischi finanziari” che appunto dall’Italia può contagiare la Ue ma anche altre economie. Una situazione grave. Di fronte alla quale, in totale dissonanza con dati e fatti, il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Luigi Di Maio azzarda la previsione di “un nuovo boom economico” simile per intensità a quello dei primi anni Sessanta (allora l’Italia, in piena industrializzazione di massa, cresceva del 5% all’anno).

Su quali considerazioni siano fondati i giudizi del ministro Di Maio non è purtroppo chiaro. Più espliciti i dati che vengono, sulla base di studi accurati e robuste documentazioni, da autorevoli istituzioni economiche.

Il Fondo Monetario parla, per l’Italia, di una crescita dello 0,6% appena nel 2019, un dato corretto al ribasso rispetto a stime precedenti, nel contesto di una crescita Ue indebolita: 1,6% contro l’1,9% precedente, a causa del rallentamento tedesco (segnato in negativo dalla crisi dell’auto) e delle tensioni sociali francesi. 0,6% prevede anche la Banca d’Italia. 0,7% un panel di economisti sondati ai primi di gennaio da Bloomberg. Altri pensano peggio ancora: 0,3%, stima Oxford Economics, 0,4% aveva già detto in dicembre Goldman Sachs. “Difficile anche un Pil allo 0,5%”, stima un economista autorevole come Guido Tabellini, ex rettore dell’Università Bocconi, su “La Stampa”. Sullo 0,5% concorda anche un altro economista di peso internazionale, Carlo Cottarelli.

E il governo? Era partito da 1,5% nella preparazione della legge di Bilancio, in autunno, poi ha dovuto frenare l’ottimismo costruendo la legge sulll’1%. Fmi e Banca d’Italia hanno quasi dimezzato questa previsione.

Tensioni commerciali internazionali, dietro questo rallentamento dell’economia. Ma anche cause tutte italiane. Investimenti fermi. Cantieri dei lavori pubblici bloccati (la politica del governo 5Stelle-Lega, ostile alle grandi infrastrutture, non aiuta, tutt’altro). Aumento del carico fiscale su imprese e banche, quanto di peggio un governo possa pensare, in una fase di difficoltà dell’economia. Tagli alle risorse per ricerca, innovazione, sviluppo dell’apparato produttivo. Un clima generale di ostilità verso le imprese, mortificandone la capacità di creare lavoro, benessere, sviluppo. E massicci soldi pubblici, appunto nella legge di Bilancio, solo per due provvedimenti assistenziali, da clientele di massa: quota 100 per le pensioni (ma con tagli all’adeguamento delle pensioni medie al costo della vita, colpendo così il faticoso conto familiare di centinaia di migliaia di persone già in pensione) e “reddito di cittadinanza”.

Sullo sfondo, c’è l’incertezza generale alimentata anche da un arrogante e dannoso contenzioso montato a lungo dal governo con la Ue, che ha impressionato negativamente i mercati e fatto impennare lo spread (con effetti sulla solidità delle banche, il costo del denaro, l’andamento di prestiti e mutui). E un forte calo della fiducia delle famiglie e delle imprese.

Ecco il punto: sfiducia diffusa, investimenti fermi, imprese e consumatori in allarme. Il rallentamento dell’economia non fa pensare affatto al boom propagandato dal ministro Di Maio ma alla decrescita, nettamente “infelice” per gli italiani.

Per fortuna, in un clima negativo, c’è una “Italia del fare”, un’opinione pubblica del “Sì” (all’Alta Velocità, alle opere pubbliche, al lavoro, agli investimenti) che scende in piazza (come i 30mila a Torino, la scorsa settimana) e rivendica una diversa prospettiva per la politica economica italiana: non assistenzialismo, ma sviluppo di qualità. E’ l’Italia delle buone imprese, industriali e artigiane innanzitutto, che da Torino a Milano, dal Veneto all’Emilia e al Friuli, non ha voglia di rassegnarsi alla sfiducia, alla paralisi, al “grande mah” sul nostro futuro.

Stagnazione”, dice il ministro dell’Economia Tria: produzione e Pil immobili, senza crescita. “Recessione”, sostiene la Banca d’Italia, temendo che anche il secondo trimestre del 2018 sia stato a crescita negativa (i dati ufficiali arriveranno il 31 gennaio). C’è differenza tecnica, tra i due fenomeni. Ma non così rilevante. Dal punto di vista dell’andamento dell’economia italiana, tra crescita 0 e crescita -1, un fatto emerge con grande chiarezza agli occhi di imprenditori, operatori economici, cittadini: l’Italia è un paese bloccato, con conseguenze profondamente negative su ricchezza, redditi, lavoro. “L’Italia ha attraversato il 2018 all’insegna del rallentamento”, sostiene il XXIII Rapporto sull’Economia globale del Centro Einaudi, presentato ieri in Assolombarda, a Milano, da Mario Deaglio e per il futuro “il quadro è incerto”, per non dire “un grande mah”.

Le previsioni per il 2019 sono abbastanza allarmanti. Il Fondo Monetario Internazionale, nell’analisi sulle economie mondiali presentata ieri al World Economic Forum a Davos, mette la situazione finanziaria dell’Italia e la Brexit al primo posto tra i principali fattori di rischio globale e insiste “sul costoso intreccio tra rischi sovrani e rischi finanziari” che appunto dall’Italia può contagiare la Ue ma anche altre economie. Una situazione grave. Di fronte alla quale, in totale dissonanza con dati e fatti, il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Luigi Di Maio azzarda la previsione di “un nuovo boom economico” simile per intensità a quello dei primi anni Sessanta (allora l’Italia, in piena industrializzazione di massa, cresceva del 5% all’anno).

Su quali considerazioni siano fondati i giudizi del ministro Di Maio non è purtroppo chiaro. Più espliciti i dati che vengono, sulla base di studi accurati e robuste documentazioni, da autorevoli istituzioni economiche.

Il Fondo Monetario parla, per l’Italia, di una crescita dello 0,6% appena nel 2019, un dato corretto al ribasso rispetto a stime precedenti, nel contesto di una crescita Ue indebolita: 1,6% contro l’1,9% precedente, a causa del rallentamento tedesco (segnato in negativo dalla crisi dell’auto) e delle tensioni sociali francesi. 0,6% prevede anche la Banca d’Italia. 0,7% un panel di economisti sondati ai primi di gennaio da Bloomberg. Altri pensano peggio ancora: 0,3%, stima Oxford Economics, 0,4% aveva già detto in dicembre Goldman Sachs. “Difficile anche un Pil allo 0,5%”, stima un economista autorevole come Guido Tabellini, ex rettore dell’Università Bocconi, su “La Stampa”. Sullo 0,5% concorda anche un altro economista di peso internazionale, Carlo Cottarelli.

E il governo? Era partito da 1,5% nella preparazione della legge di Bilancio, in autunno, poi ha dovuto frenare l’ottimismo costruendo la legge sulll’1%. Fmi e Banca d’Italia hanno quasi dimezzato questa previsione.

Tensioni commerciali internazionali, dietro questo rallentamento dell’economia. Ma anche cause tutte italiane. Investimenti fermi. Cantieri dei lavori pubblici bloccati (la politica del governo 5Stelle-Lega, ostile alle grandi infrastrutture, non aiuta, tutt’altro). Aumento del carico fiscale su imprese e banche, quanto di peggio un governo possa pensare, in una fase di difficoltà dell’economia. Tagli alle risorse per ricerca, innovazione, sviluppo dell’apparato produttivo. Un clima generale di ostilità verso le imprese, mortificandone la capacità di creare lavoro, benessere, sviluppo. E massicci soldi pubblici, appunto nella legge di Bilancio, solo per due provvedimenti assistenziali, da clientele di massa: quota 100 per le pensioni (ma con tagli all’adeguamento delle pensioni medie al costo della vita, colpendo così il faticoso conto familiare di centinaia di migliaia di persone già in pensione) e “reddito di cittadinanza”.

Sullo sfondo, c’è l’incertezza generale alimentata anche da un arrogante e dannoso contenzioso montato a lungo dal governo con la Ue, che ha impressionato negativamente i mercati e fatto impennare lo spread (con effetti sulla solidità delle banche, il costo del denaro, l’andamento di prestiti e mutui). E un forte calo della fiducia delle famiglie e delle imprese.

Ecco il punto: sfiducia diffusa, investimenti fermi, imprese e consumatori in allarme. Il rallentamento dell’economia non fa pensare affatto al boom propagandato dal ministro Di Maio ma alla decrescita, nettamente “infelice” per gli italiani.

Per fortuna, in un clima negativo, c’è una “Italia del fare”, un’opinione pubblica del “Sì” (all’Alta Velocità, alle opere pubbliche, al lavoro, agli investimenti) che scende in piazza (come i 30mila a Torino, la scorsa settimana) e rivendica una diversa prospettiva per la politica economica italiana: non assistenzialismo, ma sviluppo di qualità. E’ l’Italia delle buone imprese, industriali e artigiane innanzitutto, che da Torino a Milano, dal Veneto all’Emilia e al Friuli, non ha voglia di rassegnarsi alla sfiducia, alla paralisi, al “grande mah” sul nostro futuro.

Cambiamento e futuro

Un ricerca mette a fuoco le relazioni fra innovazione, cambiamento e prospettive di occupazione delle nuove generazioni

 

Seguire il cambiamento – se si potesse addirittura precederlo -, è uno dei principi cardine della buona impresa. Questione di cultura adeguata, fatta di capacità conciliare novità con esperienza, adattamento con sapienza passata. Sfida per chiunque, il cambiamento è anche un’opportunità se lo si sa cogliere nel modo giusto. E deve esserlo soprattutto per i giovani. Indagare come questo – e il futuro conseguente -, vengano visti proprio dalle nuove generazioni appare essere fondamentale.

Un’analisi approfondita in questa direzione è quella condotta da Luciano Monti (Docente di Politiche dell’Unione Europea Università LUISS e condirettore scientifico della Fondazione Bruno Visentini), e Roberto Cerroni (Responsabile Ufficio Ricerca e Progettazione della Fondazione Bruno Visentini). Il frutto della ricerca è condensato in “La percezione del futuro dei giovani tra nuove professioni e vocazioni territoriali” pubblicato da poco in “Amministrazione in cammino” del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche Vittorio Bachelet.

Il ragionamento di Monti e Cerroni inizia dalla constatazione che “fino a quando il cambiamento della digitalizzazione sarà graduale, i mercati riusciranno parzialmente a rispondere. Non appena diventerà troppo veloce, sarà caos e si rischierà di creare un esercito di vincitori e vinti. La rivoluzione in atto sta trasformando non solo la nostra economia, i modelli di business e i processi produttivi, ma anche la qualità e quantità dell’occupazione, le competenze e la formazione del capitale umano, le relazioni industriali e gli stessi schemi tradizionali dei rapporti di lavoro”.

L’indagine quindi sintetizza prima il dibattito internazionale attorno al tema dell’innovazione e del cambiamento in relazione agli aspetti umani; poi affronta il tema della governance dell’innovazione vista come ruolo della politica economica per la “gestione” del cambiamento e l’adattamento delle risorse umane. Una particolare attenzione, poi, viene posta alle mansioni e competenze nuove richieste a chi lavora sull’onda dell’innovazione. La ricerca quindi si chiude con l’approfondimento dell’approccio dei giovani al tema. “A prescindere dalla professione specifica che svolgeranno in futuro – viene precisato -, le nuove generazioni dovranno disporre di una maggiore propensione alla curiosità, allo spirito d’iniziativa e alla cultura d’impresa”.

La percezione del futuro dei giovani tra nuove professioni e vocazioni territoriali

a cura di Luciano Monti, Roberto Cerroni

“Amministrazione in cammino”, novembre 2018

Un ricerca mette a fuoco le relazioni fra innovazione, cambiamento e prospettive di occupazione delle nuove generazioni

 

Seguire il cambiamento – se si potesse addirittura precederlo -, è uno dei principi cardine della buona impresa. Questione di cultura adeguata, fatta di capacità conciliare novità con esperienza, adattamento con sapienza passata. Sfida per chiunque, il cambiamento è anche un’opportunità se lo si sa cogliere nel modo giusto. E deve esserlo soprattutto per i giovani. Indagare come questo – e il futuro conseguente -, vengano visti proprio dalle nuove generazioni appare essere fondamentale.

Un’analisi approfondita in questa direzione è quella condotta da Luciano Monti (Docente di Politiche dell’Unione Europea Università LUISS e condirettore scientifico della Fondazione Bruno Visentini), e Roberto Cerroni (Responsabile Ufficio Ricerca e Progettazione della Fondazione Bruno Visentini). Il frutto della ricerca è condensato in “La percezione del futuro dei giovani tra nuove professioni e vocazioni territoriali” pubblicato da poco in “Amministrazione in cammino” del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche Vittorio Bachelet.

Il ragionamento di Monti e Cerroni inizia dalla constatazione che “fino a quando il cambiamento della digitalizzazione sarà graduale, i mercati riusciranno parzialmente a rispondere. Non appena diventerà troppo veloce, sarà caos e si rischierà di creare un esercito di vincitori e vinti. La rivoluzione in atto sta trasformando non solo la nostra economia, i modelli di business e i processi produttivi, ma anche la qualità e quantità dell’occupazione, le competenze e la formazione del capitale umano, le relazioni industriali e gli stessi schemi tradizionali dei rapporti di lavoro”.

L’indagine quindi sintetizza prima il dibattito internazionale attorno al tema dell’innovazione e del cambiamento in relazione agli aspetti umani; poi affronta il tema della governance dell’innovazione vista come ruolo della politica economica per la “gestione” del cambiamento e l’adattamento delle risorse umane. Una particolare attenzione, poi, viene posta alle mansioni e competenze nuove richieste a chi lavora sull’onda dell’innovazione. La ricerca quindi si chiude con l’approfondimento dell’approccio dei giovani al tema. “A prescindere dalla professione specifica che svolgeranno in futuro – viene precisato -, le nuove generazioni dovranno disporre di una maggiore propensione alla curiosità, allo spirito d’iniziativa e alla cultura d’impresa”.

La percezione del futuro dei giovani tra nuove professioni e vocazioni territoriali

a cura di Luciano Monti, Roberto Cerroni

“Amministrazione in cammino”, novembre 2018

L’innovazione davanti a tutto

Un libro racconta opportunità e rischi delle ultime frontiere del digitale

 

L’innovazione corre più veloce delle imprese e di tutti noi. Questione di ritmo e di tecnica, ma anche di cultura (non solo d’impresa). Occorre allora attrezzarsi non per tentare di superare l’innovazione (che altrimenti non sarebbe più tale), ma almeno per provare a non stare troppo dietro ad essa. Conoscenza e raziocinio, strumenti per capire meglio e usare meglio l’innovazione, devono quindi essere il bagaglio di ogni cittadino così come di ogni buon imprenditore. Leggere “L’innovazione non chiede permesso. Costruire il domani digitale” scritto da Luca Tomassini, può essere un buon passo in avanti in queste direzione.

La constatazione alla base del libro – circa 300 pagine -, è che il ritmo di crescita dell’innovazione degli ultimi cinquant’anni supera quello della storia dell’umanità, così come il volume delle informazioni e dei dati di cui oggi disponiamo. Detto in altri termini, ogni progresso anticipa il tempo in cui si manifesta, ogni grande innovazione segue lo stesso schema. E’ questo schema che Tomassini prova a raccontare e spiegare.
Partendo dall’osservazione di come l’innovazione preceda le codifiche legali, procedurali e politiche e di come siano cambiati e stiano cambiando gli scenari: dall’intelligenza artificiale, al mondo del lavoro fino ai giovani come leva per il futuro che l’autore vede come un algoritmo, un saggio sull’universo on-line e off-line che viviamo e su quello che ci aspetta dietro l’angolo.

Chi legge il libro, dunque, inizia dall’affrontare un’idea semplice ma che spesso si dimentica – “al futuro non si sfugge” -, per poi passare ad approfondire temi come la cittadinanza digitale, l’intelligenza artificiale, i big data, la privacy, i cambiamenti del lavoro e della vita quotidiana sottoposta al ritmo incessante dell’innovazione che non dà tregua.

Quanto scritto da Tomassini (con una lunga esperienza nei settori che racconta), costituisce una sorta di summa  dello stato dell’arte dell’innovazione oggi e un quadro sull’orizzonte di domani che di questa ne mette in luce le potenzialità così come le possibili minacce. Un libro da leggere per conoscere e quindi iniziare a capire.

L’innovazione non chiede permesso. Costruire il domani digitale

Luca Tomassini

Franco Angeli, 2018

Un libro racconta opportunità e rischi delle ultime frontiere del digitale

 

L’innovazione corre più veloce delle imprese e di tutti noi. Questione di ritmo e di tecnica, ma anche di cultura (non solo d’impresa). Occorre allora attrezzarsi non per tentare di superare l’innovazione (che altrimenti non sarebbe più tale), ma almeno per provare a non stare troppo dietro ad essa. Conoscenza e raziocinio, strumenti per capire meglio e usare meglio l’innovazione, devono quindi essere il bagaglio di ogni cittadino così come di ogni buon imprenditore. Leggere “L’innovazione non chiede permesso. Costruire il domani digitale” scritto da Luca Tomassini, può essere un buon passo in avanti in queste direzione.

La constatazione alla base del libro – circa 300 pagine -, è che il ritmo di crescita dell’innovazione degli ultimi cinquant’anni supera quello della storia dell’umanità, così come il volume delle informazioni e dei dati di cui oggi disponiamo. Detto in altri termini, ogni progresso anticipa il tempo in cui si manifesta, ogni grande innovazione segue lo stesso schema. E’ questo schema che Tomassini prova a raccontare e spiegare.
Partendo dall’osservazione di come l’innovazione preceda le codifiche legali, procedurali e politiche e di come siano cambiati e stiano cambiando gli scenari: dall’intelligenza artificiale, al mondo del lavoro fino ai giovani come leva per il futuro che l’autore vede come un algoritmo, un saggio sull’universo on-line e off-line che viviamo e su quello che ci aspetta dietro l’angolo.

Chi legge il libro, dunque, inizia dall’affrontare un’idea semplice ma che spesso si dimentica – “al futuro non si sfugge” -, per poi passare ad approfondire temi come la cittadinanza digitale, l’intelligenza artificiale, i big data, la privacy, i cambiamenti del lavoro e della vita quotidiana sottoposta al ritmo incessante dell’innovazione che non dà tregua.

Quanto scritto da Tomassini (con una lunga esperienza nei settori che racconta), costituisce una sorta di summa  dello stato dell’arte dell’innovazione oggi e un quadro sull’orizzonte di domani che di questa ne mette in luce le potenzialità così come le possibili minacce. Un libro da leggere per conoscere e quindi iniziare a capire.

L’innovazione non chiede permesso. Costruire il domani digitale

Luca Tomassini

Franco Angeli, 2018

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