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Rapporto GreenItaly di Symbola: i primati dell’Italia e i vantaggi per le imprese più sostenibili e innovative

Essere imprese green conviene, oltre che, naturalmente, fare bene all’ambiente e alle comunità in cui l’impresa è inserita. Conviene perché stimola l’innovazione, migliora il lavoro, apre mercati di consumatori esigenti e sensibili, rafforza insomma la competitività. E proprio la Lombardia, la Lombardia motore industriale europeo, è la regione italiana più incline alla green economy, più “sostenibile”. Sono considerazioni che emergono con chiarezza dal nuovo Rapporto GreenItaly 2018 di Fondazione Symbola e UnionCamere, il nono della serie, presentato la scorsa settimana a Milano in Assolombarda. E contribuiscono a rafforzare un clima di crescente attenzione verso la sostanza dei temi legati al rapporto tra sostenibilità e competitività, tutela e valorizzazione dell’ambiente e rafforzamento dei meccanismi di sviluppo economico. Con una caratteristica particolare: nel contesto europeo, l’Italia, come sistema Paese (energia, rifiuti, etc.) ha posizioni di eccellenza per la eco-sostenibilità, nonostante i tanti e talvolta clamorosi casi di incuria ambientale e sociale. In tempi difficili, di fragile economia e di cupe tensioni sociali, i dati positivi sulla green economy lasciano intravvedere orizzonti positivi, speranze. Vedremo tra poco i dati a conferma.

In Polonia, proprio in questi giorni, sino al 14 dicembre, è in corso la Conferenza mondiale dell’Onu sul clima (Cop24), con 30mila delegati da tutto il mondo impegnati in un confronto molto difficile sulle scelte da fare per evitare d’aggravare gli allarmanti fenomeni di inquinamento in corso e i devastanti cambiamenti climatici. L’ostilità degli Usa di Trump alla riconferma degli accordi di Parigi sugli “obiettivi di sostenibilità” rende il contento delle relazioni internazionali particolarmente carico di tensioni. E, accordi internazionali a parte, cresce per fortuna l’attenzione sociale ed economica sui temi ambientali. E proprio il mondo delle imprese europee può giocare un ruolo non solo di stimolo culturale, ma anche di indicazione esemplare di comportamenti virtuosi.

L’Enea (l’agenzia nazionale per l’efficenza energetica) ha presentato, la scorsa settimana, i risultati della “Piattaforma italiana per l’economia circolare”, con il coinvolgimento di 60 stakeholders tra imprese,  istituzioni, organizzazioni della società civile. Confindustria, negli stessi giorni, ha illustrato un “Libro bianco per uno sviluppo efficiente delle fonti energetiche rinnovabili” (in collaborazione con EY e Rse). Fioriscono sempre più frequenti dibattiti e iniziative sul tema. E nel mondo delle imprese più dinamiche, superati i vecchi schemi della CSR (la Corporate social responsibility), si ragiona appunto in termini di “sostenibilità”, sia ambientale che sociale (in parecchi gruppi il tradizionale “bilancio sociale” diventa parte integrante del Bilancio aziendale vero e proprio). Il “cambio di paradigma” imposto dalla Grande Crisi in nome di un’economia più equilibrata (ne abbiamo parlato più volte, da tempo, in questo blog) diventa radicale modifica dei meccanismi di produzione, distribuzione, consumo, investe tutti gli aspetti dell’innovazione, si lega alle analisi e alle scelte sulla smart city (e dunque sugli smart citizens) e su tutti gli aspetti della sharing economy e dei “beni comuni”.

È questo, appunto, il retroterra culturale del Rapporto GreenItaly, di cui vale la pena ricordare alcuni dati chiave. Sono 345mila le imprese italiane dell’industria e dei servizi (un quarto del totale) che dal 2014 al 2017 e con previsioni per il 2018, hanno investito in prodotti e in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di CO2. A questa green economy si devono quasi 3 milioni di green jobs (occupati che applicano competenze “verdi”), il 13% dell’occupazione complessiva nazionale. E il numero tende a salire. Unioncamere prevede una domanda di green jobs per il 2018 di 474mila contratti, tra ingegneri e tecnici energetici, agricoltori biologici, esperti di “acquisti verdi”, tecnici meccatronici o installatori di impianti termici a basso impatto. E soprattutto nell’industria manifatturiera i posti di lavoro “verdi” sono particolarmente numerosi: la competitività nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati internazionali chiede qualità di prodotti e produzioni, ma anche sostenibilità. E la “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, sicura, efficiente, a basso impatto ambientale e alta inclusione sociale (anche di questo abbiamo spesso parlato) è il luogo cardine della capacità industriale italiana di crescere e farsi apprezzare nel mondo.

La Lombardia è in primo piano, con 61.650 imprese che hanno investito, o investiranno entro l’anno, in tecnologie green. Con 123.380 contratti green stipulati dalle imprese per il 2018, più di un quarto del totale nazionale, Milano, Brescia, Bergamo, Monza e la Brianza sono le punte d’eccellenza d’una regione al vertice anche della graduatoria regionale per numero di contratti stipulati o programmati entro l’anno.

Più “verde”, maggiore competitività. Il Rapporto Symbola spiega infatti che le imprese di questa GreenItaly hanno un dinamismo sui mercati esteri nettamente superiore al resto del sistema produttivo italiano: con specifico riferimento alle imprese manifatturiere (da 5 a 499 addetti), quelle che hanno segnalato un aumento dell’export nel 2017 sono il 34% fra chi ha investito nel green contro il 27% relativo al caso di quelle che non hanno investito: un vantaggio competitivo che si conferma anche per le previsioni al 2018 (32% contro 26%).

Queste imprese – insiste il Rapporto Symbola – innovano più delle altre: il 79% ha sviluppato attività di innovazione, contro il 43% delle non investitrici (quasi il doppio). Innovazione che guarda anche a Industria 4.0: mentre tra le imprese investitrici nel green il 26% ha già adottato o sta portando avanti progetti hi tech, tra quelle non investitrici nella sostenibilità ambientale tale quota si ferma all’11%. Sospinto da export e innovazione, il fatturato ne trae robusti benefici: un aumento del fatturato nel 2017 ha coinvolto il 32% delle imprese investitrici nel green (sempre con riferimento al manifatturiero tra 5 e 499 addetti), contro il 24% di quelle non investitrici. Anche nelle previsioni per il 2018 tale divario si conferma (27% contro 22%).

Queste imprese, incluse le PMI (anche se il loro contributo è probabilmente sottostimato a causa della difficoltà di tracciare gli investimenti green nelle aziende meno strutturate) hanno spinto l’intero sistema produttivo nazionale verso una leadership europea nelle performance ambientali. Una leadership che fa il paio con i nostri primati internazionali nella competitività. Eurostat dice, infatti, che l’Italia con 307 kg di materia prima per ogni milione di euro prodotto dalle imprese fa molto meglio della media Ue (455 kg), collocandosi terza nella graduatoria a ventotto paesi, dietro solamente al Regno Unito (236 kg) e al Lussemburgo (283 kg), e davanti a Francia (326 kg), Spagna (360 kg) e Germania (408 kg).
Dalla materia prima all’energia, dove si registra una dinamica analoga: siamo secondi tra i big player europei, dietro al Regno Unito. Dalle 17,3 tonnellate di petrolio equivalente per milione di euro del 2008 siamo passati a 14,2: la Gran Bretagna ne consuma 10,6; la Francia 14,9; la Spagna 15,7; la Germania 17,0. Piazzarsi secondi dopo la Gran Bretagna vale più di un “semplice” secondo posto: quella di Londra, infatti, è un’economia in cui finanza e servizi giocano un ruolo molto importante, mentre la nostra è più legata a produzioni manifatturiere.
L’Italia fa molto bene anche nella riduzione di rifiuti. Con 43,2 tonnellate per ogni milione di euro prodotto (1,7 tonnellate in meno del 2008) siamo i più efficienti tra le cinque grandi economia europee, di nuovo molto meglio della Germania (67,6 tonnellate per milione di euro prodotto) e della media comunitaria (89,3 tonnellate).
Il Rapporto Symbola conferma inoltre che abbiamo primati anche nella riduzione delle emissioni in atmosfera: terzi tra le cinque grandi economie comunitarie (104,2 tonnellate CO2 per milione di euro prodotto): dietro alla Francia (85,5 tonnellate, in questo caso favorita dal nucleare) e al Regno Unito (93,4 tonnellate) ma davanti Spagna e Germania.
E a questi dati, che restituiscono le performance complessive del sistema nazionale, se ne aggiungo altri, che mostrano come l’Italia abbia risultati d’eccellenza in tema di sostenibilità in numerosi ambiti.
Vantiamo primati nella bioeconomia e nella chimica verde. Siamo (secondo il “Rapporto Bio-based industry Join Undertaking”) il primo Paese in Europa per fatturato pro-capite nel settore dello sviluppo dei prodotti basati su processi biologici, come le bioplastiche. Italia come paese in prima linea nella sostenibilità, insomma. Un buon ritratto, per un Paese il cui raconto, troppo spesso, soprattutto sui social media, è dominato dai toni del disastro.

Commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola: “Questi risultati non rappresentano da soli la soluzione ai mali antichi del Paese: non solo il debito pubblico, ma le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia inefficace e spesso soffocante. Sono però il ritratto di un’Italia che ha il coraggio della sfida, che non ha paura del futuro, un’Italia competitiva e innovativa, per molti versi un’Italia nuova, su cui fare leva per combattere anche quei mali. GreenItaly, dunque, partendo da questa Italia che ce la fa e che è già in campo, indica una ricetta, quella della green economy, e delle energie cui attingere per accompagnare il Paese verso un futuro desiderabile, più giusto e più sostenibile, un futuro, come abbiamo visto, fatto anche di competitività e di un nuovo autorevole ruolo del Paese nello scenario globale”.

Essere imprese green conviene, oltre che, naturalmente, fare bene all’ambiente e alle comunità in cui l’impresa è inserita. Conviene perché stimola l’innovazione, migliora il lavoro, apre mercati di consumatori esigenti e sensibili, rafforza insomma la competitività. E proprio la Lombardia, la Lombardia motore industriale europeo, è la regione italiana più incline alla green economy, più “sostenibile”. Sono considerazioni che emergono con chiarezza dal nuovo Rapporto GreenItaly 2018 di Fondazione Symbola e UnionCamere, il nono della serie, presentato la scorsa settimana a Milano in Assolombarda. E contribuiscono a rafforzare un clima di crescente attenzione verso la sostanza dei temi legati al rapporto tra sostenibilità e competitività, tutela e valorizzazione dell’ambiente e rafforzamento dei meccanismi di sviluppo economico. Con una caratteristica particolare: nel contesto europeo, l’Italia, come sistema Paese (energia, rifiuti, etc.) ha posizioni di eccellenza per la eco-sostenibilità, nonostante i tanti e talvolta clamorosi casi di incuria ambientale e sociale. In tempi difficili, di fragile economia e di cupe tensioni sociali, i dati positivi sulla green economy lasciano intravvedere orizzonti positivi, speranze. Vedremo tra poco i dati a conferma.

In Polonia, proprio in questi giorni, sino al 14 dicembre, è in corso la Conferenza mondiale dell’Onu sul clima (Cop24), con 30mila delegati da tutto il mondo impegnati in un confronto molto difficile sulle scelte da fare per evitare d’aggravare gli allarmanti fenomeni di inquinamento in corso e i devastanti cambiamenti climatici. L’ostilità degli Usa di Trump alla riconferma degli accordi di Parigi sugli “obiettivi di sostenibilità” rende il contento delle relazioni internazionali particolarmente carico di tensioni. E, accordi internazionali a parte, cresce per fortuna l’attenzione sociale ed economica sui temi ambientali. E proprio il mondo delle imprese europee può giocare un ruolo non solo di stimolo culturale, ma anche di indicazione esemplare di comportamenti virtuosi.

L’Enea (l’agenzia nazionale per l’efficenza energetica) ha presentato, la scorsa settimana, i risultati della “Piattaforma italiana per l’economia circolare”, con il coinvolgimento di 60 stakeholders tra imprese,  istituzioni, organizzazioni della società civile. Confindustria, negli stessi giorni, ha illustrato un “Libro bianco per uno sviluppo efficiente delle fonti energetiche rinnovabili” (in collaborazione con EY e Rse). Fioriscono sempre più frequenti dibattiti e iniziative sul tema. E nel mondo delle imprese più dinamiche, superati i vecchi schemi della CSR (la Corporate social responsibility), si ragiona appunto in termini di “sostenibilità”, sia ambientale che sociale (in parecchi gruppi il tradizionale “bilancio sociale” diventa parte integrante del Bilancio aziendale vero e proprio). Il “cambio di paradigma” imposto dalla Grande Crisi in nome di un’economia più equilibrata (ne abbiamo parlato più volte, da tempo, in questo blog) diventa radicale modifica dei meccanismi di produzione, distribuzione, consumo, investe tutti gli aspetti dell’innovazione, si lega alle analisi e alle scelte sulla smart city (e dunque sugli smart citizens) e su tutti gli aspetti della sharing economy e dei “beni comuni”.

È questo, appunto, il retroterra culturale del Rapporto GreenItaly, di cui vale la pena ricordare alcuni dati chiave. Sono 345mila le imprese italiane dell’industria e dei servizi (un quarto del totale) che dal 2014 al 2017 e con previsioni per il 2018, hanno investito in prodotti e in tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni di CO2. A questa green economy si devono quasi 3 milioni di green jobs (occupati che applicano competenze “verdi”), il 13% dell’occupazione complessiva nazionale. E il numero tende a salire. Unioncamere prevede una domanda di green jobs per il 2018 di 474mila contratti, tra ingegneri e tecnici energetici, agricoltori biologici, esperti di “acquisti verdi”, tecnici meccatronici o installatori di impianti termici a basso impatto. E soprattutto nell’industria manifatturiera i posti di lavoro “verdi” sono particolarmente numerosi: la competitività nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati internazionali chiede qualità di prodotti e produzioni, ma anche sostenibilità. E la “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, sicura, efficiente, a basso impatto ambientale e alta inclusione sociale (anche di questo abbiamo spesso parlato) è il luogo cardine della capacità industriale italiana di crescere e farsi apprezzare nel mondo.

La Lombardia è in primo piano, con 61.650 imprese che hanno investito, o investiranno entro l’anno, in tecnologie green. Con 123.380 contratti green stipulati dalle imprese per il 2018, più di un quarto del totale nazionale, Milano, Brescia, Bergamo, Monza e la Brianza sono le punte d’eccellenza d’una regione al vertice anche della graduatoria regionale per numero di contratti stipulati o programmati entro l’anno.

Più “verde”, maggiore competitività. Il Rapporto Symbola spiega infatti che le imprese di questa GreenItaly hanno un dinamismo sui mercati esteri nettamente superiore al resto del sistema produttivo italiano: con specifico riferimento alle imprese manifatturiere (da 5 a 499 addetti), quelle che hanno segnalato un aumento dell’export nel 2017 sono il 34% fra chi ha investito nel green contro il 27% relativo al caso di quelle che non hanno investito: un vantaggio competitivo che si conferma anche per le previsioni al 2018 (32% contro 26%).

Queste imprese – insiste il Rapporto Symbola – innovano più delle altre: il 79% ha sviluppato attività di innovazione, contro il 43% delle non investitrici (quasi il doppio). Innovazione che guarda anche a Industria 4.0: mentre tra le imprese investitrici nel green il 26% ha già adottato o sta portando avanti progetti hi tech, tra quelle non investitrici nella sostenibilità ambientale tale quota si ferma all’11%. Sospinto da export e innovazione, il fatturato ne trae robusti benefici: un aumento del fatturato nel 2017 ha coinvolto il 32% delle imprese investitrici nel green (sempre con riferimento al manifatturiero tra 5 e 499 addetti), contro il 24% di quelle non investitrici. Anche nelle previsioni per il 2018 tale divario si conferma (27% contro 22%).

Queste imprese, incluse le PMI (anche se il loro contributo è probabilmente sottostimato a causa della difficoltà di tracciare gli investimenti green nelle aziende meno strutturate) hanno spinto l’intero sistema produttivo nazionale verso una leadership europea nelle performance ambientali. Una leadership che fa il paio con i nostri primati internazionali nella competitività. Eurostat dice, infatti, che l’Italia con 307 kg di materia prima per ogni milione di euro prodotto dalle imprese fa molto meglio della media Ue (455 kg), collocandosi terza nella graduatoria a ventotto paesi, dietro solamente al Regno Unito (236 kg) e al Lussemburgo (283 kg), e davanti a Francia (326 kg), Spagna (360 kg) e Germania (408 kg).
Dalla materia prima all’energia, dove si registra una dinamica analoga: siamo secondi tra i big player europei, dietro al Regno Unito. Dalle 17,3 tonnellate di petrolio equivalente per milione di euro del 2008 siamo passati a 14,2: la Gran Bretagna ne consuma 10,6; la Francia 14,9; la Spagna 15,7; la Germania 17,0. Piazzarsi secondi dopo la Gran Bretagna vale più di un “semplice” secondo posto: quella di Londra, infatti, è un’economia in cui finanza e servizi giocano un ruolo molto importante, mentre la nostra è più legata a produzioni manifatturiere.
L’Italia fa molto bene anche nella riduzione di rifiuti. Con 43,2 tonnellate per ogni milione di euro prodotto (1,7 tonnellate in meno del 2008) siamo i più efficienti tra le cinque grandi economia europee, di nuovo molto meglio della Germania (67,6 tonnellate per milione di euro prodotto) e della media comunitaria (89,3 tonnellate).
Il Rapporto Symbola conferma inoltre che abbiamo primati anche nella riduzione delle emissioni in atmosfera: terzi tra le cinque grandi economie comunitarie (104,2 tonnellate CO2 per milione di euro prodotto): dietro alla Francia (85,5 tonnellate, in questo caso favorita dal nucleare) e al Regno Unito (93,4 tonnellate) ma davanti Spagna e Germania.
E a questi dati, che restituiscono le performance complessive del sistema nazionale, se ne aggiungo altri, che mostrano come l’Italia abbia risultati d’eccellenza in tema di sostenibilità in numerosi ambiti.
Vantiamo primati nella bioeconomia e nella chimica verde. Siamo (secondo il “Rapporto Bio-based industry Join Undertaking”) il primo Paese in Europa per fatturato pro-capite nel settore dello sviluppo dei prodotti basati su processi biologici, come le bioplastiche. Italia come paese in prima linea nella sostenibilità, insomma. Un buon ritratto, per un Paese il cui raconto, troppo spesso, soprattutto sui social media, è dominato dai toni del disastro.

Commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola: “Questi risultati non rappresentano da soli la soluzione ai mali antichi del Paese: non solo il debito pubblico, ma le diseguaglianze sociali, l’economia in nero, quella criminale, il ritardo del Sud, una burocrazia inefficace e spesso soffocante. Sono però il ritratto di un’Italia che ha il coraggio della sfida, che non ha paura del futuro, un’Italia competitiva e innovativa, per molti versi un’Italia nuova, su cui fare leva per combattere anche quei mali. GreenItaly, dunque, partendo da questa Italia che ce la fa e che è già in campo, indica una ricetta, quella della green economy, e delle energie cui attingere per accompagnare il Paese verso un futuro desiderabile, più giusto e più sostenibile, un futuro, come abbiamo visto, fatto anche di competitività e di un nuovo autorevole ruolo del Paese nello scenario globale”.

Cultura d’impresa operaia

In un libro le ultime vicende della Melegatti diventano una esempio vissuto di attaccamento ai valori del lavoro e della produzione

 

La cultura d’impresa si fa in molti modi. Perché in fin dei conti alla base c’è sempre e solo una cosa: l’amore per ciò che sono il lavoro e i suoi risultati. Condizione non rara, ma anzi diffusa in molte situazioni d’impresa. Anche quando questa, per vicende varie, fallisce o rischia di fallire. Il racconto di queste storie è, allora, importante da cogliere.

Per questo vale molto il tempo speso nel leggere “Lievito madre. Storia della fabbrica salvata dagli operai”, scritto da Silvino Gonzato e da poco pubblicato.

Il libro racconta la storia recente della Melegatti di San Giovanni Lupatoto vicino a Verona. La fabbrica – con il nuovo nome “Melegatti 1894” -, ha riaperto da poche settimane dopo un travagliato periodo di sofferenze in cerca di un compratore. Ed ha riaperto anche per la tenacia di tre operai – Davide Stupazzoni, Matteo Peraro e Michele Isolan -, che ogni giorno, per tutti i mesi nei quali la produzione è rimasta ferma, hanno alimentato la massa di lievito che vive dal 1894 e cioè da quando il pasticcere Domenico Melegatti l’ha creata nella sua bottega di corso Porta Borsari a Verona. Sono loro, insieme ai nuovi proprietari (Roberto e Giacomo Spezzapria), a rendere viva la cultura d’impresa in questa vicenda.

Il libro ne racconta ansie e coraggio, notti insonni e giorni all’addiaccio a presidiare lo stabilimento, sogni e realtà. Nel testo (poco più di un centinaio di pagine), ci sono le storie dei tre operai, poi dei due nuovi acquirenti e attorno tutte quelle del resto della fabbrica che sembra coagularsi a protezione del lievito che ogni giorno viene curato. Quasi materializzazione del nucleo vero della fabbrica.

La scrittura di Gonzato, che la trattativa l’ha seguita passo passo, è appassionata ma da vero cronista. Sembra di stare lì, leggendo. Con tutte le angosce del caso, e le contrapposizioni fra due diverse visioni d’impresa. Ciò che ne emerge, appunto, è da un lato un “caso studio” di cultura d’impresa; dall’altro una vicenda umana densa di voglia di vita e di lavoro. Tutto da leggere.

Lievito madre. Storia della fabbrica salvata dagli operai

Silvino Gonzato

Neri Pozza, 2018

In un libro le ultime vicende della Melegatti diventano una esempio vissuto di attaccamento ai valori del lavoro e della produzione

 

La cultura d’impresa si fa in molti modi. Perché in fin dei conti alla base c’è sempre e solo una cosa: l’amore per ciò che sono il lavoro e i suoi risultati. Condizione non rara, ma anzi diffusa in molte situazioni d’impresa. Anche quando questa, per vicende varie, fallisce o rischia di fallire. Il racconto di queste storie è, allora, importante da cogliere.

Per questo vale molto il tempo speso nel leggere “Lievito madre. Storia della fabbrica salvata dagli operai”, scritto da Silvino Gonzato e da poco pubblicato.

Il libro racconta la storia recente della Melegatti di San Giovanni Lupatoto vicino a Verona. La fabbrica – con il nuovo nome “Melegatti 1894” -, ha riaperto da poche settimane dopo un travagliato periodo di sofferenze in cerca di un compratore. Ed ha riaperto anche per la tenacia di tre operai – Davide Stupazzoni, Matteo Peraro e Michele Isolan -, che ogni giorno, per tutti i mesi nei quali la produzione è rimasta ferma, hanno alimentato la massa di lievito che vive dal 1894 e cioè da quando il pasticcere Domenico Melegatti l’ha creata nella sua bottega di corso Porta Borsari a Verona. Sono loro, insieme ai nuovi proprietari (Roberto e Giacomo Spezzapria), a rendere viva la cultura d’impresa in questa vicenda.

Il libro ne racconta ansie e coraggio, notti insonni e giorni all’addiaccio a presidiare lo stabilimento, sogni e realtà. Nel testo (poco più di un centinaio di pagine), ci sono le storie dei tre operai, poi dei due nuovi acquirenti e attorno tutte quelle del resto della fabbrica che sembra coagularsi a protezione del lievito che ogni giorno viene curato. Quasi materializzazione del nucleo vero della fabbrica.

La scrittura di Gonzato, che la trattativa l’ha seguita passo passo, è appassionata ma da vero cronista. Sembra di stare lì, leggendo. Con tutte le angosce del caso, e le contrapposizioni fra due diverse visioni d’impresa. Ciò che ne emerge, appunto, è da un lato un “caso studio” di cultura d’impresa; dall’altro una vicenda umana densa di voglia di vita e di lavoro. Tutto da leggere.

Lievito madre. Storia della fabbrica salvata dagli operai

Silvino Gonzato

Neri Pozza, 2018

Fotografare “la P maiuscola”

Non è la prima volta che il fotografo scozzese Albert Watson, autore di The Cal 2019, collabora con Pirelli. Prima di immortalare le modelle Laetitia Casta e Gigi Hadid per le pagine cult del famoso Calendario svelate oggi al pubblico di tutto il mondo, il maestro di Edimburgo aveva già realizzato degli scatti iconici e geniali per una campagna pubblicitaria Pirelli. Succedeva nel 1996 e il soggetto ritratto era l’esplosivo “figlio del vento” Carl Lewis. Molti ricorderanno la famosissima foto di Annie Leibowitz – anche lei autrice di alcune edizioni del Calendario – in cui il velocista americano si preparava allo scatto calzando un paio di scarpette rosse con tacco vertiginoso, dando vita così al celebre claim “La potenza è nulla senza controllo”. Era il 1994 e Lewis conquistava il ruolo di testimonial “globale” del Gruppo Pirelli: di lì ad un paio d’anni avrebbe passato il testimone alla primatista olimpica Marie-José Pérec, che nella pubblicità diretta dal regista Gerard de Thame reinterpreta se stessa come mito della forza e della bellezza. Carl Lewis diventa invece  – negli scatti di Watson – una sorta di “belva feroce” pronta a divorare la strada con i suoi denti d’acciaio o ad azzannare la preda con unghie aguzze e affilate. Una metafora che associa le caratteristiche del prodotto al testimonial: il “divoratore di strade” è lo sportivissimo pneumatico moto Pirelli Diablo, mentre l’aggressivo rapace rappresenta l’off-road MT80 RS. Due anni dopo sarà un altro atleta a “reinterpretare” se stesso in una celebre campagna pubblicitaria: il calciatore dell’Inter Ronaldo, rappresentato come il Cristo  Redentore di Rio de Janeiro dal fotografo inglese Ken Griffiths nel 1998, icona di una pubblicità “controversa e inaspettata” in linea con la nuova filosofia del Gruppo nella gestione della propria immagine a inizio anni Novanta. E i fotografi ne diventano i primi interpreti. D’altra parte la fotografia è protagonista assoluta delle pubblicità Pirelli già a partire dagli anni Sessanta, quando un “gigante” della fotocamera come Ugo Mulas associa al Cinturato e al Sempione immagini di ragazze pensose, perse nella lettura di un libro o allegre e sorridenti dal finestrino della loro Fiat Cinquecento. Con l’automobile nel ruolo di modella si cimenta invece nei primi anni Settanta il fotografo svizzero Gaston Jung: suoi gli scatti alla Lamborghini Miura, supercar gialla ancora oggi considerata una delle automobili più belle della storia. Quasi una “parentesi”  quella che il fotografo bergamasco Pepi Merisio dedica ai pneumatici per le moto fuoristrada nel 1976: lui che per la rivista Pirelli firma angoli di case di montagna e valli della campagna lombarda, per Pirelli Motovelo si concede uno sguardo divertito ai centauri in sella, alle prese con fango e ciottoli. Nella pubblicazione realizzata poi dall’Agenzia Centro, gli scatti di Merisio sono “commentati” da onomatopee tipo fumetto: mmmmmrrrrr….ffffrrruuummmm…. Dagli uffici milanesi della Centro – agenzia pubblicitaria del gruppo Pirelli attiva tra gli anni Sessanta e Ottanta – transitano così decine e decine di fotografi, ognuno portando un pezzetto della propria creatività per costruire il mosaico di una “cultura dell’immagine” che ha fatto storia e che è ripercorribile oggi nel volume La Pubblicità con la P maiuscola curato dalla Fondazione Pirelli. Un titolo che si ispira ad un’altra foto iconica, scattata dall’inglese Adrian Hamilton nel 1978: una “P lunga” costruita da 140 automobili e fotografata dall’alto di un elicottero su una pista d’aeroporto. Un modo per dire “Pneumatici con la P maiuscola”. Ma l’invito ultimo è quello di andare a pagina 105 di quel libro. Lì il fotografo è nascosto sotto il logo della “Centro”, e neppure conosciamo il nome della ragazza che nel 1980 sorride dalla pagina del Financial Times e oggi è una gigantografia nel nuovo percorso espositivo della Fondazione: lo slogan recita che “Pirelli è giovane”.

Non è la prima volta che il fotografo scozzese Albert Watson, autore di The Cal 2019, collabora con Pirelli. Prima di immortalare le modelle Laetitia Casta e Gigi Hadid per le pagine cult del famoso Calendario svelate oggi al pubblico di tutto il mondo, il maestro di Edimburgo aveva già realizzato degli scatti iconici e geniali per una campagna pubblicitaria Pirelli. Succedeva nel 1996 e il soggetto ritratto era l’esplosivo “figlio del vento” Carl Lewis. Molti ricorderanno la famosissima foto di Annie Leibowitz – anche lei autrice di alcune edizioni del Calendario – in cui il velocista americano si preparava allo scatto calzando un paio di scarpette rosse con tacco vertiginoso, dando vita così al celebre claim “La potenza è nulla senza controllo”. Era il 1994 e Lewis conquistava il ruolo di testimonial “globale” del Gruppo Pirelli: di lì ad un paio d’anni avrebbe passato il testimone alla primatista olimpica Marie-José Pérec, che nella pubblicità diretta dal regista Gerard de Thame reinterpreta se stessa come mito della forza e della bellezza. Carl Lewis diventa invece  – negli scatti di Watson – una sorta di “belva feroce” pronta a divorare la strada con i suoi denti d’acciaio o ad azzannare la preda con unghie aguzze e affilate. Una metafora che associa le caratteristiche del prodotto al testimonial: il “divoratore di strade” è lo sportivissimo pneumatico moto Pirelli Diablo, mentre l’aggressivo rapace rappresenta l’off-road MT80 RS. Due anni dopo sarà un altro atleta a “reinterpretare” se stesso in una celebre campagna pubblicitaria: il calciatore dell’Inter Ronaldo, rappresentato come il Cristo  Redentore di Rio de Janeiro dal fotografo inglese Ken Griffiths nel 1998, icona di una pubblicità “controversa e inaspettata” in linea con la nuova filosofia del Gruppo nella gestione della propria immagine a inizio anni Novanta. E i fotografi ne diventano i primi interpreti. D’altra parte la fotografia è protagonista assoluta delle pubblicità Pirelli già a partire dagli anni Sessanta, quando un “gigante” della fotocamera come Ugo Mulas associa al Cinturato e al Sempione immagini di ragazze pensose, perse nella lettura di un libro o allegre e sorridenti dal finestrino della loro Fiat Cinquecento. Con l’automobile nel ruolo di modella si cimenta invece nei primi anni Settanta il fotografo svizzero Gaston Jung: suoi gli scatti alla Lamborghini Miura, supercar gialla ancora oggi considerata una delle automobili più belle della storia. Quasi una “parentesi”  quella che il fotografo bergamasco Pepi Merisio dedica ai pneumatici per le moto fuoristrada nel 1976: lui che per la rivista Pirelli firma angoli di case di montagna e valli della campagna lombarda, per Pirelli Motovelo si concede uno sguardo divertito ai centauri in sella, alle prese con fango e ciottoli. Nella pubblicazione realizzata poi dall’Agenzia Centro, gli scatti di Merisio sono “commentati” da onomatopee tipo fumetto: mmmmmrrrrr….ffffrrruuummmm…. Dagli uffici milanesi della Centro – agenzia pubblicitaria del gruppo Pirelli attiva tra gli anni Sessanta e Ottanta – transitano così decine e decine di fotografi, ognuno portando un pezzetto della propria creatività per costruire il mosaico di una “cultura dell’immagine” che ha fatto storia e che è ripercorribile oggi nel volume La Pubblicità con la P maiuscola curato dalla Fondazione Pirelli. Un titolo che si ispira ad un’altra foto iconica, scattata dall’inglese Adrian Hamilton nel 1978: una “P lunga” costruita da 140 automobili e fotografata dall’alto di un elicottero su una pista d’aeroporto. Un modo per dire “Pneumatici con la P maiuscola”. Ma l’invito ultimo è quello di andare a pagina 105 di quel libro. Lì il fotografo è nascosto sotto il logo della “Centro”, e neppure conosciamo il nome della ragazza che nel 1980 sorride dalla pagina del Financial Times e oggi è una gigantografia nel nuovo percorso espositivo della Fondazione: lo slogan recita che “Pirelli è giovane”.

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Imprese d’uomini e donne

L’employer branding come ultime frontiera per dare vita ad un’organizzazione della produzione “viva” e dinamica

 

Le imprese sono uomini e donne che lavorano uniti per raggiungere un determinato obiettivo. Certo, c’è il profitto, ma non solo. Occorre molto di più per creare un’impresa. Serve, per esempio, una comunità d’intenti che si crea non solo dal punto dio vista economico. E’ quanto viene poi sintetizzato – nelle situazioni migliori – sotto il termine “gestione” delle risorse umane. Aspetto delicato delle organizzazioni della produzione, la gestione delle risorse umane va affrontata con attenzione. E a questo serve leggere “Employer branding: strategie per la gestione delle risorse umane”, tesi scritta da Silvia Montalbano nell’ambito della Scuola delle Scienze umane e del Patrimonio culturale dell’Università degli Studi di Palermo.

L’impostazione della ricerca si capisce subito dall’introduzione. “Le imprese – viene infatti spiegato -, per conquistare il mercato necessitano di un gruppo di dipendenti, di un ‘esercito’, che incorpori l’identità aziendale, che si faccia promotore dei valori dell’azienda e che sia in grado di intervenire in caso di turbolenza ambientale per salvaguardare l’azienda di cui fanno parte e perseguire la mission aziendale”. L’autrice poi prosegue spiegando: “Le caratteristiche di questi ‘soldati’ quindi devono essere: competenze tecniche qualificate, voglia di impegnarsi nel lavoro, spiccata attitudine nel problem solving e soprattutto capacità di condividere e sostenere l’identità aziendale”. E non basta, perché se da un lato occorre vi sia un “senso d’impresa” da parte dei dipendenti, dall’altra occorre anche che “l’azienda, attraverso un attento lavoro” riesca a comunicare con i propri dipendenti, conoscerne i bisogni e le attese e interpretarli “nella giusta maniera trovando una soluzione adeguata”. Insomma per Silvia Montalbano “bisogna fare in modo che il dipendente non si senta mero esecutore di un compito ma una risorsa necessaria all’azienda, così facendo non sarà attratto da altre offerte di lavoro e da altri employer”.

Per fare tutto questo, vinee individuata quindi la tecnica dell’employer branding definita come “strategia di marketing finalizzata a creare un immagine aziendale coerente con l’identità dell’impresa” come luogo di lavoro, in sintonia con il target di riferimento e ben distinta da quella dei competitors, attraverso la quale attrarre e fidelizzare le persone di talento”.

E’ proprio attorno a questa idea che si sviluppo il lavoro di Montalbano che, dopo aver approfondito la definizione stessa di employer branding, passa ad esaminarne tutti i possibili risvolti e sviluppi.

Employer branding: strategie per la gestione delle risorse umane

Silvia Montalbano

Tesi, Scuola delle Scienze umane e del Patrimonio culturale. Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Società Dipartimento di Culture e Società, Università degli Studi di Palermo, 2018

L’employer branding come ultime frontiera per dare vita ad un’organizzazione della produzione “viva” e dinamica

 

Le imprese sono uomini e donne che lavorano uniti per raggiungere un determinato obiettivo. Certo, c’è il profitto, ma non solo. Occorre molto di più per creare un’impresa. Serve, per esempio, una comunità d’intenti che si crea non solo dal punto dio vista economico. E’ quanto viene poi sintetizzato – nelle situazioni migliori – sotto il termine “gestione” delle risorse umane. Aspetto delicato delle organizzazioni della produzione, la gestione delle risorse umane va affrontata con attenzione. E a questo serve leggere “Employer branding: strategie per la gestione delle risorse umane”, tesi scritta da Silvia Montalbano nell’ambito della Scuola delle Scienze umane e del Patrimonio culturale dell’Università degli Studi di Palermo.

L’impostazione della ricerca si capisce subito dall’introduzione. “Le imprese – viene infatti spiegato -, per conquistare il mercato necessitano di un gruppo di dipendenti, di un ‘esercito’, che incorpori l’identità aziendale, che si faccia promotore dei valori dell’azienda e che sia in grado di intervenire in caso di turbolenza ambientale per salvaguardare l’azienda di cui fanno parte e perseguire la mission aziendale”. L’autrice poi prosegue spiegando: “Le caratteristiche di questi ‘soldati’ quindi devono essere: competenze tecniche qualificate, voglia di impegnarsi nel lavoro, spiccata attitudine nel problem solving e soprattutto capacità di condividere e sostenere l’identità aziendale”. E non basta, perché se da un lato occorre vi sia un “senso d’impresa” da parte dei dipendenti, dall’altra occorre anche che “l’azienda, attraverso un attento lavoro” riesca a comunicare con i propri dipendenti, conoscerne i bisogni e le attese e interpretarli “nella giusta maniera trovando una soluzione adeguata”. Insomma per Silvia Montalbano “bisogna fare in modo che il dipendente non si senta mero esecutore di un compito ma una risorsa necessaria all’azienda, così facendo non sarà attratto da altre offerte di lavoro e da altri employer”.

Per fare tutto questo, vinee individuata quindi la tecnica dell’employer branding definita come “strategia di marketing finalizzata a creare un immagine aziendale coerente con l’identità dell’impresa” come luogo di lavoro, in sintonia con il target di riferimento e ben distinta da quella dei competitors, attraverso la quale attrarre e fidelizzare le persone di talento”.

E’ proprio attorno a questa idea che si sviluppo il lavoro di Montalbano che, dopo aver approfondito la definizione stessa di employer branding, passa ad esaminarne tutti i possibili risvolti e sviluppi.

Employer branding: strategie per la gestione delle risorse umane

Silvia Montalbano

Tesi, Scuola delle Scienze umane e del Patrimonio culturale. Scienze della Comunicazione Pubblica, d’Impresa e Società Dipartimento di Culture e Società, Università degli Studi di Palermo, 2018

Il “signor Spread” resta alto, il “generale Pil” cade e le imprese protestano contro la decrescita  

“Il signor Spread” su cui facevano ironia Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due uomini forti del governo Conte, sta facendo sentire i suoi effetti, rendendo più care le rate di mutuo delle famiglie italiane e i costi degli anticipi fatture e dei servizi bancari per piccoli imprenditori, commercianti, artigiani, il “popolo” che lavora e produce, insomma. E soprattutto tra i ministri della Lega più sensibili ai temi dell’economia si fa strada un’altra preoccupazione, quella del “generale Pil”: se non ce l’hai alleato, non c’è consenso popolare che duri.

Ecco il punto: mentre “il signor Spread” è in piena attività, dalle parti di “quota 300”, pericolosamente vicina ai livelli d’allarme e di crisi, “il generale Pil” è immobile, anzi retrocede: s’intravvedono rischi di recessione. Dare forma umanoide agli indicatori economici aiuta a capire meglio cosa sta succedendo nel mondo della produzione, del lavoro e dei consumi. E costringe, anche controvoglia, chi governa a non abbandonarsi al gioco perverso dei “fattoidi” (con tutto il seguito di “storytelling”, “narrazioni” e “fake news” delle peggior propaganda, come l’esultanza grillina perché “abbiamo sconfitto la povertà”) e a guardare invece in faccia ai fatti. E quei fatti dicono che dopo quattordici mesi di crescita, nel terzo trimestre del 2018 il Pil fa segnare un -0,1%. E le stime fanno ritenere che probabilmente anche il quarto trimestre sarà piatto o negativo.

Consumi fermi, investimenti in caduta, risparmio prudente sui conti correnti, opere pubbliche bloccate, capitali esteri in clamorosa ritirata dai nostri titoli pubblici (l’ultima asta è andata male, quella di dicembre è stata cancellata), Borsa in difficoltà, occupazione in discesa (il “decreto dignità” caro a Di Maio ha cancellato migliaia di posti di lavoro a tempo e fatto crescere il “nero”), disoccupazione giovanile in aumento. “Pil, l’Italia arretra. Torna a crescere la disoccupazione”, titola seccamente “IlSole24Ore” (1 dicembre), notando anche come freni anche la produzione industriale.

L’ombra che si allunga sulla maggioranza Lega-M5S è quella di diventare “il governo del meno”, precipitando dalle illusioni della ripresa al reale pericolo della recessione. “La manovra con la sua ampia agenda di riforme evita il rischio di una terza recessione”, si augurano concordi Salvini e Di Maio. Buone intenzioni. I dati veri, nei prossimi mesi, diranno quanto ci sia di propaganda e quanto di realtà. La preoccupazione resta.

Il quadro internazionale non aiuta: il commercio internazionale è rallentato dai conflitti Usa-Cina e dalle tensioni nazionaliste (l’ultimo G20 a Buenos Aires non ha migliorato la situazione) e per un paese come l’Italia, il cui dinamismo economico è molto legato all’export, i tempi diventano duri. Sarebbe necessaria una forte spinta verso una Ue attiva, con investimenti e reazioni forti che tengano aperti i mercati globali. Ma il governo italiano ha costruito la sua identità sullo scontro con Bruxelles, la propaganda sovranista, l’elogio del protezionismo. E dunque anche da questo punto di vista la nostra economia arranca.

Si spiega così anche un altro indicatore negativo: la caduta degli indici di fiducia delle imprese e delle famiglie. Bassa fiducia, scarsi consumi, investimenti cancellati o rinviati. La crescita del Pil dell’1,5% nel 2019 promessa dal governo per cercare di fare quadrare sulla carta i conti di una gigantesca spesa pubblica a debito per misure assistenziali (reddito di cittadinanza e pensioni) si rivela un’illusione. Si crescerà molto meno dell’1% e i conti del deficit e del debito pubblico saranno disastrosi. Ecco perché la Ue è molto preoccupata e insiste per una riduzione della spesa a debito. E perché famiglie e imprese manifestano un’allarmante sfiducia nel futuro.

Sarebbe necessaria una “discesa dal tram dei desideri”, consiglia saggiamente al governo Dario Di Vico, dalla prima pagina del “Corriere della Sera” (1 dicembre), dicendo agli italiani la verità sui conti e la crisi. Ma a palazzo Chigi non sembra ci sentano.

Le imprese, in allarme crescente, si muovono. Lunedì, a Torino, Confindustria ha dato appuntamento a tutto il suo largo gruppo dirigente, territori e categorie comprese: tremila persone riunite per dire che la politica economica del governo va drasticamente cambiata, meno assistenzialismo e più investimenti per produttività, competitività, innovazione, lavoro (compreso il taglio delle tasse a chi investe e lavora). E sempre lunedì, a Monza, in uno dei territori più produttivi di tutta Italia, gli industriali si sono incontrati per discutere una ricerca sulle prime 800 imprese della Brianza, 48 miliardi di fatturato (pari a tre punti del Pil nazionale), attività in crescita anche all’estero ma evidente preoccupazione per il rallentamento dell’economia e un diffuso clima governativo anti-imprese e ostile alle essenziali infrastrutture. Il 13, a Milano, appuntamento di tutti gli artigiani del Nord. Poi, un altro incontro a Verona. Il “partito del Pil” non è affatto rassegnato a subire.

Ecco “il partito degli affari”, polemizzano soprattutto i grillini. E Di Maio insiste nel chiamare “prenditori” gli imprenditori italiani, come fossero avidi speculatori sui fondi pubblici. “Ci vuole rispetto per chi investe, innova, lavora e produce”, ribatte il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Il fossato tra l’incultura del sussidio pubblico caro a Di Maio e la cultura dell’intraprendere s’allarga. E tutto ciò fa male all’Italia.

La sintesi sta nell’ironia di Marco Bonometti, industriale metalmeccanico bresciano, presidente di Confindustria Lombardia, che denuncia la solitudine dell’imprenditore ed evoca il Titanic: “Siamo come delle vedette sulla tolda della nave mentre tutti sono in sala ristorante a godersi la cena”.

“Il signor Spread” su cui facevano ironia Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due uomini forti del governo Conte, sta facendo sentire i suoi effetti, rendendo più care le rate di mutuo delle famiglie italiane e i costi degli anticipi fatture e dei servizi bancari per piccoli imprenditori, commercianti, artigiani, il “popolo” che lavora e produce, insomma. E soprattutto tra i ministri della Lega più sensibili ai temi dell’economia si fa strada un’altra preoccupazione, quella del “generale Pil”: se non ce l’hai alleato, non c’è consenso popolare che duri.

Ecco il punto: mentre “il signor Spread” è in piena attività, dalle parti di “quota 300”, pericolosamente vicina ai livelli d’allarme e di crisi, “il generale Pil” è immobile, anzi retrocede: s’intravvedono rischi di recessione. Dare forma umanoide agli indicatori economici aiuta a capire meglio cosa sta succedendo nel mondo della produzione, del lavoro e dei consumi. E costringe, anche controvoglia, chi governa a non abbandonarsi al gioco perverso dei “fattoidi” (con tutto il seguito di “storytelling”, “narrazioni” e “fake news” delle peggior propaganda, come l’esultanza grillina perché “abbiamo sconfitto la povertà”) e a guardare invece in faccia ai fatti. E quei fatti dicono che dopo quattordici mesi di crescita, nel terzo trimestre del 2018 il Pil fa segnare un -0,1%. E le stime fanno ritenere che probabilmente anche il quarto trimestre sarà piatto o negativo.

Consumi fermi, investimenti in caduta, risparmio prudente sui conti correnti, opere pubbliche bloccate, capitali esteri in clamorosa ritirata dai nostri titoli pubblici (l’ultima asta è andata male, quella di dicembre è stata cancellata), Borsa in difficoltà, occupazione in discesa (il “decreto dignità” caro a Di Maio ha cancellato migliaia di posti di lavoro a tempo e fatto crescere il “nero”), disoccupazione giovanile in aumento. “Pil, l’Italia arretra. Torna a crescere la disoccupazione”, titola seccamente “IlSole24Ore” (1 dicembre), notando anche come freni anche la produzione industriale.

L’ombra che si allunga sulla maggioranza Lega-M5S è quella di diventare “il governo del meno”, precipitando dalle illusioni della ripresa al reale pericolo della recessione. “La manovra con la sua ampia agenda di riforme evita il rischio di una terza recessione”, si augurano concordi Salvini e Di Maio. Buone intenzioni. I dati veri, nei prossimi mesi, diranno quanto ci sia di propaganda e quanto di realtà. La preoccupazione resta.

Il quadro internazionale non aiuta: il commercio internazionale è rallentato dai conflitti Usa-Cina e dalle tensioni nazionaliste (l’ultimo G20 a Buenos Aires non ha migliorato la situazione) e per un paese come l’Italia, il cui dinamismo economico è molto legato all’export, i tempi diventano duri. Sarebbe necessaria una forte spinta verso una Ue attiva, con investimenti e reazioni forti che tengano aperti i mercati globali. Ma il governo italiano ha costruito la sua identità sullo scontro con Bruxelles, la propaganda sovranista, l’elogio del protezionismo. E dunque anche da questo punto di vista la nostra economia arranca.

Si spiega così anche un altro indicatore negativo: la caduta degli indici di fiducia delle imprese e delle famiglie. Bassa fiducia, scarsi consumi, investimenti cancellati o rinviati. La crescita del Pil dell’1,5% nel 2019 promessa dal governo per cercare di fare quadrare sulla carta i conti di una gigantesca spesa pubblica a debito per misure assistenziali (reddito di cittadinanza e pensioni) si rivela un’illusione. Si crescerà molto meno dell’1% e i conti del deficit e del debito pubblico saranno disastrosi. Ecco perché la Ue è molto preoccupata e insiste per una riduzione della spesa a debito. E perché famiglie e imprese manifestano un’allarmante sfiducia nel futuro.

Sarebbe necessaria una “discesa dal tram dei desideri”, consiglia saggiamente al governo Dario Di Vico, dalla prima pagina del “Corriere della Sera” (1 dicembre), dicendo agli italiani la verità sui conti e la crisi. Ma a palazzo Chigi non sembra ci sentano.

Le imprese, in allarme crescente, si muovono. Lunedì, a Torino, Confindustria ha dato appuntamento a tutto il suo largo gruppo dirigente, territori e categorie comprese: tremila persone riunite per dire che la politica economica del governo va drasticamente cambiata, meno assistenzialismo e più investimenti per produttività, competitività, innovazione, lavoro (compreso il taglio delle tasse a chi investe e lavora). E sempre lunedì, a Monza, in uno dei territori più produttivi di tutta Italia, gli industriali si sono incontrati per discutere una ricerca sulle prime 800 imprese della Brianza, 48 miliardi di fatturato (pari a tre punti del Pil nazionale), attività in crescita anche all’estero ma evidente preoccupazione per il rallentamento dell’economia e un diffuso clima governativo anti-imprese e ostile alle essenziali infrastrutture. Il 13, a Milano, appuntamento di tutti gli artigiani del Nord. Poi, un altro incontro a Verona. Il “partito del Pil” non è affatto rassegnato a subire.

Ecco “il partito degli affari”, polemizzano soprattutto i grillini. E Di Maio insiste nel chiamare “prenditori” gli imprenditori italiani, come fossero avidi speculatori sui fondi pubblici. “Ci vuole rispetto per chi investe, innova, lavora e produce”, ribatte il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia. Il fossato tra l’incultura del sussidio pubblico caro a Di Maio e la cultura dell’intraprendere s’allarga. E tutto ciò fa male all’Italia.

La sintesi sta nell’ironia di Marco Bonometti, industriale metalmeccanico bresciano, presidente di Confindustria Lombardia, che denuncia la solitudine dell’imprenditore ed evoca il Titanic: “Siamo come delle vedette sulla tolda della nave mentre tutti sono in sala ristorante a godersi la cena”.

Pirelli, comunicare senza confini

La comunicazione visiva di un’azienda è un aspetto fondamentale nel “racconto” della sua internazionalità. Il volume Una musa tra le ruote, curato dalla Fondazione Pirelli per le edizioni Corraini nel 2015, è un lungo percorso alla scoperta di quanto sia stata “internazionale” la comunicazione di Pirelli fin dall’inizio della sua storia, nel 1872.

Poco si sa della biografia di Stanley Charles Roowy: forse di origine belga, forse francese, sicuramente d’oltralpe. E’ lui che nel 1914 disegna per i pneumatici Pirelli quell’automobile rossa – rombante e futurista – che diventerà presto una delle icone della pubblicità del primo Novecento: il gioco di combinazioni grafiche tra la P lunga di “Pneus” e la P lunga di Pirelli ha già varcato le frontiere, andando a sollecitare/stimolare la creatività di molti artisti internazionali. Ma già l’anno precedente – 1913 – un autore ignoto ha disegnato un’altra pubblicità iconica, questa volta dedicata ai Pirelli Tyres per il mercato inglese: è la volpe che, dalla copertina della rivista Land & Water, “si fa beffe” della muta di cani che la insegue perchè dotata di un velocissimo pneumatico italiano. Il poster gigante – oltre tre metri d’altezza – di quella campagna è oggi esposto presso i locali della nostra Fondazione, nell’area dell’Archivio Storico dedicata alla comunicazione pubblicitaria dell’azienda. E forse tutta la dimensione “globale” di quei lontani anni d’anteguerra può essere ben riassunta in un piccolo bozzetto, di artista anonimo e databile attorno al 1912-15, conservato sempre nel nostro l’Archivio: il soggetto è ancora una volta un “pneu Pirelli” alla francese, guardato con curiosità e ammirazione da una serie di figurine umane in rappresentanza di tutte le etnie del mondo fino ad allora conosciuto. Ma sarà il secondo Dopoguerra, quando comincerà a soffiare forte il vento dell’europeismo, a vedere una vera e propria corsa di tutti i più grandi designer internazionali per cimentarsi con l’immagine pubblicitaria Pirelli: dall’incontro di tante esperienze e culture diverse nasce un mix irripetibile di creatività. Il primo a transitare per la Direzione Propaganda del Gruppo a Milano è probabilmente lo svizzero Max Huber, in Italia già dagli anni Quaranta per collaborare con lo Studio Boggeri prima e con Albe Steiner poi: è lui a firmare, a metà degli anni Cinquanta, la copertina di un pieghevole sui pneumatici scooter utilizzando il tema grafico della traccia lasciata dal disegno battistrada.

C’è invece ancora un segno “classico” nel soggetto “Sicurezza nella velocità” che Pavel Engelmann, cecoslovacco emigrato negli Stati Uniti, disegna tra il 1952 e il 1954 per i pneumatici Pirelli da competizione, seguendone l’evoluzione da Stella Bianca a Stelvio: il colore predominante è lo stesso rosso che il futurista Roowy ha usato già quarant’anni prima. Ed è Engelmann ad aprire le porte della Pirelli al giovane olandese Bob Noorda, sicuramente uno dei più prolifici e innovativi designer dell’epoca. Sono innumerevoli le opere realizzate dall’artista di Amsterdam per l’azienda milanese: non si può non ricordare i suoi pneumatici Inverno a forma di abete o cristalli di neve, o il primo collage per il Rolle, o i tentativi di dare vita artistica ai cavi energia in gommaprene. Agguerrita anche la pattuglia di creativi francesi: da Jeanne Michot che assumerà il cognome del marito Franco Grignani per firmare i bozzetti pubblicitari per gli impermeabili, a Raymond Savignac con il suo omino inscritto nello Stelvio come l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, ad André François che dall’occhiello della P lunga ricava un parabrezza d’automobile. Keniota di nascita l’inglese Alan Fletcher: con l’agenzia Fletcher/Forbes/Gill e poi con la Pentagram lascerà un segno indelebile nella storia del design del Novecento. Per Pirelli crea gioielli grafici come “Più chilometri” della pubblicità per il pneumatico Stelvio Nylon o “Sicurezza in curva” per il Cinturato. Non potevamo chiudere questa rassegna sui grandi designer internazionali che hanno collaborato con Pirelli senza citare Lora Lamm: svizzera, anche lei arrivata alla Propaganda Pirelli seguendo le tracce di Boggeri e di Huber. La sua ragazza sullo scooter del 1959 resta ancora oggi una meraviglia di freschezza e gioia di vivere.

La comunicazione visiva di un’azienda è un aspetto fondamentale nel “racconto” della sua internazionalità. Il volume Una musa tra le ruote, curato dalla Fondazione Pirelli per le edizioni Corraini nel 2015, è un lungo percorso alla scoperta di quanto sia stata “internazionale” la comunicazione di Pirelli fin dall’inizio della sua storia, nel 1872.

Poco si sa della biografia di Stanley Charles Roowy: forse di origine belga, forse francese, sicuramente d’oltralpe. E’ lui che nel 1914 disegna per i pneumatici Pirelli quell’automobile rossa – rombante e futurista – che diventerà presto una delle icone della pubblicità del primo Novecento: il gioco di combinazioni grafiche tra la P lunga di “Pneus” e la P lunga di Pirelli ha già varcato le frontiere, andando a sollecitare/stimolare la creatività di molti artisti internazionali. Ma già l’anno precedente – 1913 – un autore ignoto ha disegnato un’altra pubblicità iconica, questa volta dedicata ai Pirelli Tyres per il mercato inglese: è la volpe che, dalla copertina della rivista Land & Water, “si fa beffe” della muta di cani che la insegue perchè dotata di un velocissimo pneumatico italiano. Il poster gigante – oltre tre metri d’altezza – di quella campagna è oggi esposto presso i locali della nostra Fondazione, nell’area dell’Archivio Storico dedicata alla comunicazione pubblicitaria dell’azienda. E forse tutta la dimensione “globale” di quei lontani anni d’anteguerra può essere ben riassunta in un piccolo bozzetto, di artista anonimo e databile attorno al 1912-15, conservato sempre nel nostro l’Archivio: il soggetto è ancora una volta un “pneu Pirelli” alla francese, guardato con curiosità e ammirazione da una serie di figurine umane in rappresentanza di tutte le etnie del mondo fino ad allora conosciuto. Ma sarà il secondo Dopoguerra, quando comincerà a soffiare forte il vento dell’europeismo, a vedere una vera e propria corsa di tutti i più grandi designer internazionali per cimentarsi con l’immagine pubblicitaria Pirelli: dall’incontro di tante esperienze e culture diverse nasce un mix irripetibile di creatività. Il primo a transitare per la Direzione Propaganda del Gruppo a Milano è probabilmente lo svizzero Max Huber, in Italia già dagli anni Quaranta per collaborare con lo Studio Boggeri prima e con Albe Steiner poi: è lui a firmare, a metà degli anni Cinquanta, la copertina di un pieghevole sui pneumatici scooter utilizzando il tema grafico della traccia lasciata dal disegno battistrada.

C’è invece ancora un segno “classico” nel soggetto “Sicurezza nella velocità” che Pavel Engelmann, cecoslovacco emigrato negli Stati Uniti, disegna tra il 1952 e il 1954 per i pneumatici Pirelli da competizione, seguendone l’evoluzione da Stella Bianca a Stelvio: il colore predominante è lo stesso rosso che il futurista Roowy ha usato già quarant’anni prima. Ed è Engelmann ad aprire le porte della Pirelli al giovane olandese Bob Noorda, sicuramente uno dei più prolifici e innovativi designer dell’epoca. Sono innumerevoli le opere realizzate dall’artista di Amsterdam per l’azienda milanese: non si può non ricordare i suoi pneumatici Inverno a forma di abete o cristalli di neve, o il primo collage per il Rolle, o i tentativi di dare vita artistica ai cavi energia in gommaprene. Agguerrita anche la pattuglia di creativi francesi: da Jeanne Michot che assumerà il cognome del marito Franco Grignani per firmare i bozzetti pubblicitari per gli impermeabili, a Raymond Savignac con il suo omino inscritto nello Stelvio come l’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, ad André François che dall’occhiello della P lunga ricava un parabrezza d’automobile. Keniota di nascita l’inglese Alan Fletcher: con l’agenzia Fletcher/Forbes/Gill e poi con la Pentagram lascerà un segno indelebile nella storia del design del Novecento. Per Pirelli crea gioielli grafici come “Più chilometri” della pubblicità per il pneumatico Stelvio Nylon o “Sicurezza in curva” per il Cinturato. Non potevamo chiudere questa rassegna sui grandi designer internazionali che hanno collaborato con Pirelli senza citare Lora Lamm: svizzera, anche lei arrivata alla Propaganda Pirelli seguendo le tracce di Boggeri e di Huber. La sua ragazza sullo scooter del 1959 resta ancora oggi una meraviglia di freschezza e gioia di vivere.

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A “lezione di internazionalità” nell’Archivio Storico Pirelli

È la voglia di scoprire le innovazioni delle aziende che operano oltre i confini italiani che spinge Giovanni Battista Pirelli a intraprendere un viaggio di studi fondamentale per la nascita della prima industria italiana per la produzione della gomma. Siamo nel 1870 quando il giovane studente del Politecnico di Milano inizia a esplorare l’Europa industriale del suo tempo. È infatti all’estero che Pirelli prende la decisione di dedicarsi a quest’impresa, percorrendo una sorta di “Grand Tour” tra le fabbriche più avanzate e i laboratori di ricerca di Francia, Svizzera, Germania. Solamente trent’anni dopo l’apertura della prima fabbrica di Milano, nel 1872, l’azienda Pirelli è già una delle prime multinazionali italiane con l’inaugurazione nel 1902 dello stabilimento di Villanueva y Geltrù, in Spagna. Questo è un anno decisivo che segnerà l’inizio del rapporto tra Pirelli e i paesi esteri. Nel 1913 l’azienda è in Inghilterra a Southampton, nel 1917 in Argentina, nel 1929 in Brasile. Un percorso intrapreso più di 100 anni fa che ha portato oggi Pirelli a essere tra i principali produttori mondiali di pneumatici operando in 12 paesi differenti con 18 stabilimenti.

I successi dell’azienda vengono già celebrati nel 1922, quando in occasione dei primi 50 anni di attività vengono esposte una serie di illustrazioni per il Museo Storico delle Industrie Pirelli. Tra i vari manifesti è il Cartello delle Organizzazioni Pirelli a illustrarci le numerose sedi commerciali estere e le piantagioni di gomma della ditta sparse in tutto il mondo. Ed è proprio il disegno celebrativo di un albero che fotografa l’espansione di Pirelli nella prima metà del Novecento – a introdurre il percorso didattico “A lezione di internazionalità in archivio” pensato per gli studenti delle scuole secondarie di I e II grado con lo scopo di far conoscere la storia e l’attualità dell’azienda e indirizzare i ragazzi verso l’acquisizione di un approccio di apertura verso le altre culture. Attraverso i documenti d’archivio gli studenti hanno la possibilità di diventare “ricercatori per un giorno”, confrontandosi con le diverse tipologie di materiali: dal documento che testimonia la quotazione di Pirelli, prima azienda italiana, alla borsa di New York nel 1922  alle fotografie delle più recenti fabbriche in Indonesia, Messico e Cina, passando per gli house organ pubblicati nei diversi paesi del mondo e le campagne pubblicitarie globali, per capire come Pirelli da quasi 150 anni lavori per essere un marchio internazionale. Il linguaggio pubblicitario è capace di parlare tutte le lingue del mondo, e ancor più lo fa, la parola universale Cinturato, prodotto di punta di Pirelli già a partire dagli anni Cinquanta, raccontato ad esempio nelle campagne realizzate da Pino Tovaglia nel 1968. O ancora nella pubblicità “International travellers travel Cinturato” del 1971 dove al disegno del Cinturato sono affiancate le targhe automobilistiche d’Europa in un viaggio ideale dall’Olanda alla Grecia, dall’Austria alla Spagna.

Durante il percorso i ragazzi, grazie alla visita alla mostra La pubblicità con la P maiuscola allestita negli spazi della Fondazione Pirelli, possono confrontarsi in particolare con il mondo della comunicazione visiva e della grafica internazionale del quarantennio tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta caratterizzato da uno stile sempre più “globale”. Di questi anni sono le pubblicità dell’Agenzia Centro “Pirelli industria mondiale”, dove il logotipo “Pirelli” è moltiplicato innumerevoli volte a comporre una sfera capace di richiamare il mondo e evocare il carattere di internazionalità dell’azienda. In particolare negli anni Novanta, con l’agenzia Young & Rubicam, Pirelli coinvolge per le sue campagne pubblicitarie testimonial conosciuti a livello mondiale come Carl Lewis, Sharon Stone e il calciatore Ronaldo. La pubblicità diventa anche una possibile chiave di lettura per guardare i grandi cambiamenti sociali, economici e tecnologici che hanno interessato il nostro mondo e il nostro modo di vivere. Mostrare ai ragazzi questo sguardo originale sul mondo che cambia è un modo per fornire loro nuovi strumenti per interpretare la realtà che li circonda.

È la voglia di scoprire le innovazioni delle aziende che operano oltre i confini italiani che spinge Giovanni Battista Pirelli a intraprendere un viaggio di studi fondamentale per la nascita della prima industria italiana per la produzione della gomma. Siamo nel 1870 quando il giovane studente del Politecnico di Milano inizia a esplorare l’Europa industriale del suo tempo. È infatti all’estero che Pirelli prende la decisione di dedicarsi a quest’impresa, percorrendo una sorta di “Grand Tour” tra le fabbriche più avanzate e i laboratori di ricerca di Francia, Svizzera, Germania. Solamente trent’anni dopo l’apertura della prima fabbrica di Milano, nel 1872, l’azienda Pirelli è già una delle prime multinazionali italiane con l’inaugurazione nel 1902 dello stabilimento di Villanueva y Geltrù, in Spagna. Questo è un anno decisivo che segnerà l’inizio del rapporto tra Pirelli e i paesi esteri. Nel 1913 l’azienda è in Inghilterra a Southampton, nel 1917 in Argentina, nel 1929 in Brasile. Un percorso intrapreso più di 100 anni fa che ha portato oggi Pirelli a essere tra i principali produttori mondiali di pneumatici operando in 12 paesi differenti con 18 stabilimenti.

I successi dell’azienda vengono già celebrati nel 1922, quando in occasione dei primi 50 anni di attività vengono esposte una serie di illustrazioni per il Museo Storico delle Industrie Pirelli. Tra i vari manifesti è il Cartello delle Organizzazioni Pirelli a illustrarci le numerose sedi commerciali estere e le piantagioni di gomma della ditta sparse in tutto il mondo. Ed è proprio il disegno celebrativo di un albero che fotografa l’espansione di Pirelli nella prima metà del Novecento – a introdurre il percorso didattico “A lezione di internazionalità in archivio” pensato per gli studenti delle scuole secondarie di I e II grado con lo scopo di far conoscere la storia e l’attualità dell’azienda e indirizzare i ragazzi verso l’acquisizione di un approccio di apertura verso le altre culture. Attraverso i documenti d’archivio gli studenti hanno la possibilità di diventare “ricercatori per un giorno”, confrontandosi con le diverse tipologie di materiali: dal documento che testimonia la quotazione di Pirelli, prima azienda italiana, alla borsa di New York nel 1922  alle fotografie delle più recenti fabbriche in Indonesia, Messico e Cina, passando per gli house organ pubblicati nei diversi paesi del mondo e le campagne pubblicitarie globali, per capire come Pirelli da quasi 150 anni lavori per essere un marchio internazionale. Il linguaggio pubblicitario è capace di parlare tutte le lingue del mondo, e ancor più lo fa, la parola universale Cinturato, prodotto di punta di Pirelli già a partire dagli anni Cinquanta, raccontato ad esempio nelle campagne realizzate da Pino Tovaglia nel 1968. O ancora nella pubblicità “International travellers travel Cinturato” del 1971 dove al disegno del Cinturato sono affiancate le targhe automobilistiche d’Europa in un viaggio ideale dall’Olanda alla Grecia, dall’Austria alla Spagna.

Durante il percorso i ragazzi, grazie alla visita alla mostra La pubblicità con la P maiuscola allestita negli spazi della Fondazione Pirelli, possono confrontarsi in particolare con il mondo della comunicazione visiva e della grafica internazionale del quarantennio tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta caratterizzato da uno stile sempre più “globale”. Di questi anni sono le pubblicità dell’Agenzia Centro “Pirelli industria mondiale”, dove il logotipo “Pirelli” è moltiplicato innumerevoli volte a comporre una sfera capace di richiamare il mondo e evocare il carattere di internazionalità dell’azienda. In particolare negli anni Novanta, con l’agenzia Young & Rubicam, Pirelli coinvolge per le sue campagne pubblicitarie testimonial conosciuti a livello mondiale come Carl Lewis, Sharon Stone e il calciatore Ronaldo. La pubblicità diventa anche una possibile chiave di lettura per guardare i grandi cambiamenti sociali, economici e tecnologici che hanno interessato il nostro mondo e il nostro modo di vivere. Mostrare ai ragazzi questo sguardo originale sul mondo che cambia è un modo per fornire loro nuovi strumenti per interpretare la realtà che li circonda.

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La cultura della produzione intangibile

Pubblicata in Italia una valida analisi della new economy

 

Fabbriche intangibili. Produzione reale eppure virtuale. Una cultura d’impresa che, a tratti, pare non conservare nulla del passato. Eppure cultura che rimane del produrre, anche se si basi completamente diverse rispetto a prima. A guardare una certa parte del panorama produttivo ed economico, parrebbe essere questa la conclusione: dalla prevalente produzione di beni tangibili, si è passati a quella di beni intangibili. Processo non compiuto, certo, ma sicuramente in corso, anche tumultuosamente in certi comparti. Processo comunque da comprendere.

Leggere “Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile” di Jonathan Haskel (Professore di Economia presso l’Imperial College di Londra) e di Stian Westlake (Senior fellow di Nesta, la fondazione nazionale britannica che si occupa di innovazione), è allora cosa da fare, e con attenzione. Il libro è stato appena pubblicato in Italia e parte da una constatazione: all’inizio del ventunesimo secolo una rivoluzione silenziosa ha condotto per la prima volta le economie a investire di più in asset intangibili (design, branding, ricerca e sviluppo e software) che in quelli tangibili (come macchinari, edifici e computer). E non solo, perché, praticamente per tutti i tipi d’impresa, la capacità di maneggiare strumenti intangibili di produzione è diventata determinante per la stessa sopravvivenza delle attività produttive.

È da qui che i due autori partono per un’esplorazione che non è solo della cosiddetta new economy ma soprattutto di alcuni dei grandi cambiamenti economici dello scorso decennio. Un viaggio utile anche per capire meglio il presente e il futuro che aspetta le imprese.

Il libro non è sempre di facile lettura, ma ha il gran pregio di essere ordinato con chiarezza a partire dalla definizione di economia intangibile della quale vengono poi delineate le modalità di misurazione e le differenze negli investimenti. Haskel e Westlake passano quindi ad affrontare le conseguenze dell’economia degli intangibili: le differenze che si determinano nelle organizzazioni della produzione, l’aumento delle diseguaglianze, le sfide finanziarie, la necessità di nuove competenze, le politiche pubbliche necessarie.

Il libro si conclude presentando tre possibili scenari futuri e delineando in che modo manager, investitori e decisori politici possano sfruttare le peculiarità di questa epoca per far crescere le aziende, gli investimenti commerciali e le economie nazionali.

Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile

Jonathan Haskel, Stian Westlake

Franco Angeli, 2018

Pubblicata in Italia una valida analisi della new economy

 

Fabbriche intangibili. Produzione reale eppure virtuale. Una cultura d’impresa che, a tratti, pare non conservare nulla del passato. Eppure cultura che rimane del produrre, anche se si basi completamente diverse rispetto a prima. A guardare una certa parte del panorama produttivo ed economico, parrebbe essere questa la conclusione: dalla prevalente produzione di beni tangibili, si è passati a quella di beni intangibili. Processo non compiuto, certo, ma sicuramente in corso, anche tumultuosamente in certi comparti. Processo comunque da comprendere.

Leggere “Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile” di Jonathan Haskel (Professore di Economia presso l’Imperial College di Londra) e di Stian Westlake (Senior fellow di Nesta, la fondazione nazionale britannica che si occupa di innovazione), è allora cosa da fare, e con attenzione. Il libro è stato appena pubblicato in Italia e parte da una constatazione: all’inizio del ventunesimo secolo una rivoluzione silenziosa ha condotto per la prima volta le economie a investire di più in asset intangibili (design, branding, ricerca e sviluppo e software) che in quelli tangibili (come macchinari, edifici e computer). E non solo, perché, praticamente per tutti i tipi d’impresa, la capacità di maneggiare strumenti intangibili di produzione è diventata determinante per la stessa sopravvivenza delle attività produttive.

È da qui che i due autori partono per un’esplorazione che non è solo della cosiddetta new economy ma soprattutto di alcuni dei grandi cambiamenti economici dello scorso decennio. Un viaggio utile anche per capire meglio il presente e il futuro che aspetta le imprese.

Il libro non è sempre di facile lettura, ma ha il gran pregio di essere ordinato con chiarezza a partire dalla definizione di economia intangibile della quale vengono poi delineate le modalità di misurazione e le differenze negli investimenti. Haskel e Westlake passano quindi ad affrontare le conseguenze dell’economia degli intangibili: le differenze che si determinano nelle organizzazioni della produzione, l’aumento delle diseguaglianze, le sfide finanziarie, la necessità di nuove competenze, le politiche pubbliche necessarie.

Il libro si conclude presentando tre possibili scenari futuri e delineando in che modo manager, investitori e decisori politici possano sfruttare le peculiarità di questa epoca per far crescere le aziende, gli investimenti commerciali e le economie nazionali.

Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile

Jonathan Haskel, Stian Westlake

Franco Angeli, 2018

Le imprese scendono in piazza per protesta contro le manovre del governo. E l’euro riscuote più successo

Le imprese scendono in piazza. Quelle piccole, soprattutto. L’appuntamento è per il 13 dicembre, a Milano. Dove i dirigenti di Confartigianato hanno convocato i loro iscritti di Veneto, Lombardia, Emilia e delle altre regioni del Nord per una manifestazione di protesta contro i provvedimenti del Governo previsti nella legge di Bilancio: pochi sostegni alle imprese che innovano, scarsi investimenti in infrastrutture e grandi opere, finanziamenti per pensioni e redditi di cittadinanza di sapore assistenziale e di basso impatto sulla ripresa economica. “Protestiamo perché non vogliamo mollare il treno della crescita dopo tanti sacrifici fatti in questi anni”, commenta Giorgio Merletti, presidente della Confartigianato di Varese. Come lui, tanti. A cominciare da Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Veneto, che nei giorni scorsi aveva già mobilitato i suoi 60mila iscritti.

Altre iniziative imprenditoriali sono in calendario. Confindustria ha convocato il suo Consiglio Generale, allargato a una platea di imprenditori impegnati nelle strutture dell’organizzazione, per il 3 dicembre a Torino, per protestare contro il blocco dei cantieri di opere pubbliche. E il 14, a Verona, hanno deciso di incontrarsi tutte le forze produttive per una manifestazione a favore dell’Alta Velocità e di altre infrastrutture giudicate “essenziali”, come la pedemontana del Veneto. “Così il partito del Pil fa il terzo incomodo tra la Lega e i 5Stelle”, commenta Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” (26 novembre), registrando l’imbarazzo di Matteo Salvini, leader della Lega e vicepresidente del Consiglio, diviso tra le spinte del tradizionale elettorato leghista (produttivista, imprenditoriale, legato all’Europa), un nazionalismo che tra gli industriali non trova consensi e un’alleanza con i “grillini” considerati come “fumo negli occhi” da chi rivendica infrastrutture, investimenti e innovazione per lo sviluppo economico e sociale.

Da cosa nasce tanto disagio tra gli imprenditori, piccoli innanzitutto ma anche medi e grandi? Dalla consapevolezza che l’economia italiana s’è fermata e che le previsioni, per i prossimi mesi, sono negative e comunque ben diverse da quelle ottimistiche diffuse dal governo per cercare di giustificare una manovra che promette sussidi e pensioni per una ventina di miliardi e sfora tutti i vincoli Ue. Carlo Robiglio, presidente della Piccola Industria di Confindustria, dà voce alle preoccupazioni di tutti: “Si rischia una Caporetto”, una disfatta dell’economia, dichiara a “Il Sole24Ore” (25 novembre). E spiega: “L’incertezza frena gli investimenti”, dunque da parte del governo è indispensabile avere “più dialogo” con le imprese. Un dialogo finora mancato. Con gravi danni economici.

Il “decreto dignità” voluto dal ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Di Maio sta facendo sentire i suoi effetti negativi, con un crollo delle opportunità di impiego e le conseguenze difficoltà per le imprese (“Nel 2017 assumevo 15 persone al mese, ora neanche una”, taglia corto Marco Bonometti,  industria d’eccellenza nell’automotive a Brescia,  presidente di Confindustria Lombardia). E la crescita dello spread, sempre legata all’inattendibilità della manovra di governo e alle polemiche con l’Europa, aggrava il quadro: denaro più caro per mutui e prestiti alle imprese, credito ridotto. Come si fa, dicono le imprese, a reagire ai rischi di una nuova recessione?

C’è appunto un malumore crescente, nel “partito del Pil”, nell’Italia produttiva. Le cronache recenti ne sono evidente testimonianza. L’assemblea di Assolombarda, il 18 ottobre scorso, con la relazione del presidente Carlo Bonomi, molto applaudita nei passaggi polemici verso un governo ostile alle imprese, alle infrastrutture, alla scienza, alla Ue. E le successive assemblee delle Confindustrie di Brescia, Lecco, Sondrio, Varese. Le oltre 30mila persone in piazza a Torino per dire “Sì Tav” e protestare contro i blocchi alle opere pubbliche. Le tensioni a Genova, contro le lentezze per la ricostruzione del Ponte Morandi e gli ostacoli alle opere pubbliche che possono riconnettere la Liguria ai grandi flussi economici europei e al dinamismo imprenditoriale del Nord Ovest. La presa di posizione, a Firenze, di Leonardo Bassilichi, presidente della Camera di Commercio, che interpreta i sentimenti delle imprese locali e, sul “Corriere della Sera” di domenica 25 novembre, intima ai partiti di maggioranza: “Basta tatticismi, il partito del Pil chiede sviluppo”.

Come reagire? La protesta, sino alla mobilitazione di piazza di cui abbiamo detto. E la proposta. Investimenti, chiede Confindustria. Sostegni fiscali alle imprese che innovano ed esportano (il governo invece, li ha drasticamente tagliati). Nessun protezionismo. E appoggio, invece, alle riforme e al rilancio dell’Europa, valorizzandone ruoli e risorse.

Trova, in questo quadro, crescenti consensi la proposta lanciata da Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli, su “Il Sole24Ore” del 16 novembre scorso (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) per un grande “Piano Marshall” della Ue sulle infrastrutture. “Giovani e conoscenza per ritrovare il sogno europeo”, sostiene, sempre su “Il Sole24Ore”, Gianfelice Rocca, presidente della Techint e dell’Humanitas. E ancora: “Grandi investimenti in infrastrutture sono una premessa necessaria per ripartire, perché quello che serve è un’Europa dei ‘ponti’ e non dei ‘muri’”. E Carlo Pesenti, consigliere delegato di Italmobiliare, famiglia storica del buon capitalismo italiano, concorda e aggiunge un’altra considerazione: “Europa ed euro restano elementi irrinunciabili” ma la Ue deve saper rispondere rapidamente anche all’emergere di gravi disagi sociali che minano la fiducia nelle istituzioni europee e dunque preparare “un grande progetto di welfare moderno e sostenibile che possa rispondere ai bisogni delle categorie più vulnerabili. Un piano per chi studia, assistendo il giovane nel suo percorso, per le madri che vogliono lavorare, per coloro che perdono l’impiego e devono essere formati e ricollocati, per gli anziani: l’Europa, oggi percepita come ‘vecchia’ e burocratica, per ripartire deve prendersi cura delle persone”.

Europa hi tech e solidale, dunque. “Occorre investire sulle reti, colmando il ritardo europeo”, commenta Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa San Paolo; “Gli europeisti veri sono convinti che vada rilanciato il processo d’integrazione”, sostiene Albero Bombassei, presidente Brembo. E sull’Europa come spazio cardine di competitività insistono Marco Bonometti, Omr, industria automotive, Giuseppe Pasini, acciaio, presidente degli industriali di Brescia, Alessandro Spada, impiantistica, vicepresidente di Assolombarda e un autorevole economista come Giorgio Barba Navaretti: “Europa casa comune con regole e progetti”.

Al diffuso disagio sociale, ai rischi d’impoverimento che toccano larga parte del ceto medio (non solo in Italia, ma in parecchie aree dell’Europa) si può rispondere risvegliando i fantasmi del nazionalismo, rispolverando l’intervento pubblico in economia (Alitalia, reti telefoniche) e promettendo nuovo e vecchio assistenzialismo (pensioni, redditi di cittadinanza, contributi a settori e categorie). Oppure impegnandosi per rimettere il moto l’economia, sulla stessa strada virtuosa già percorsa dalle imprese tra il 2015 e il 2017: ricerca, innovazione, investimenti. Il governo segue una cattiva strada. Le imprese si fanno giustamente sentire. E pretendono di essere ascoltate: creano lavoro, ricchezza, cambiamenti di qualità della vita, inclusione sociale, sono un motore prezioso per il futuro dell’Italia.

L’Europa sta al centro dell’attenzione delle imprese. Non perché sia esente da critiche. Tutt’altro. Ma perché riforme e rilancio sono condizioni indispensabili di sviluppo.

La maggioranza degli italiani, d’altronde, pur critica con Bruxelles, mostra di apprezzare l’euro. E non vuole correre avventure (come quelle sull’uscita dalla moneta unica su cui chiacchierano con irresponsabile disinvoltura e scarsa comprensione dei rischi parecchi esponenti della maggioranza Lega-5Stelle e dello stesso governo). L’euro, infatti, è apprezzato dal 57% degli italiani, conferma Eurobarometro, l’autorevole istituto statistico di Bruxelles. Ed è un consenso crescente: il 12% in più dell’anno precedente. Anche questa è una indicazione politica molto precisa: l’euro è oramai una realtà consolidata, i cittadini italiani ne percepiscono i vantaggio, le polemiche del governo con la Eu in uno scontro esasperato non fanno l’interesse né dei cittadini in generale né soprattutto di quella parte che lavora e produce. E vorrebbe continuare a farlo, senza dover scendere in piazza contro chi rovina l’economia.

Le imprese scendono in piazza. Quelle piccole, soprattutto. L’appuntamento è per il 13 dicembre, a Milano. Dove i dirigenti di Confartigianato hanno convocato i loro iscritti di Veneto, Lombardia, Emilia e delle altre regioni del Nord per una manifestazione di protesta contro i provvedimenti del Governo previsti nella legge di Bilancio: pochi sostegni alle imprese che innovano, scarsi investimenti in infrastrutture e grandi opere, finanziamenti per pensioni e redditi di cittadinanza di sapore assistenziale e di basso impatto sulla ripresa economica. “Protestiamo perché non vogliamo mollare il treno della crescita dopo tanti sacrifici fatti in questi anni”, commenta Giorgio Merletti, presidente della Confartigianato di Varese. Come lui, tanti. A cominciare da Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Veneto, che nei giorni scorsi aveva già mobilitato i suoi 60mila iscritti.

Altre iniziative imprenditoriali sono in calendario. Confindustria ha convocato il suo Consiglio Generale, allargato a una platea di imprenditori impegnati nelle strutture dell’organizzazione, per il 3 dicembre a Torino, per protestare contro il blocco dei cantieri di opere pubbliche. E il 14, a Verona, hanno deciso di incontrarsi tutte le forze produttive per una manifestazione a favore dell’Alta Velocità e di altre infrastrutture giudicate “essenziali”, come la pedemontana del Veneto. “Così il partito del Pil fa il terzo incomodo tra la Lega e i 5Stelle”, commenta Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” (26 novembre), registrando l’imbarazzo di Matteo Salvini, leader della Lega e vicepresidente del Consiglio, diviso tra le spinte del tradizionale elettorato leghista (produttivista, imprenditoriale, legato all’Europa), un nazionalismo che tra gli industriali non trova consensi e un’alleanza con i “grillini” considerati come “fumo negli occhi” da chi rivendica infrastrutture, investimenti e innovazione per lo sviluppo economico e sociale.

Da cosa nasce tanto disagio tra gli imprenditori, piccoli innanzitutto ma anche medi e grandi? Dalla consapevolezza che l’economia italiana s’è fermata e che le previsioni, per i prossimi mesi, sono negative e comunque ben diverse da quelle ottimistiche diffuse dal governo per cercare di giustificare una manovra che promette sussidi e pensioni per una ventina di miliardi e sfora tutti i vincoli Ue. Carlo Robiglio, presidente della Piccola Industria di Confindustria, dà voce alle preoccupazioni di tutti: “Si rischia una Caporetto”, una disfatta dell’economia, dichiara a “Il Sole24Ore” (25 novembre). E spiega: “L’incertezza frena gli investimenti”, dunque da parte del governo è indispensabile avere “più dialogo” con le imprese. Un dialogo finora mancato. Con gravi danni economici.

Il “decreto dignità” voluto dal ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Di Maio sta facendo sentire i suoi effetti negativi, con un crollo delle opportunità di impiego e le conseguenze difficoltà per le imprese (“Nel 2017 assumevo 15 persone al mese, ora neanche una”, taglia corto Marco Bonometti,  industria d’eccellenza nell’automotive a Brescia,  presidente di Confindustria Lombardia). E la crescita dello spread, sempre legata all’inattendibilità della manovra di governo e alle polemiche con l’Europa, aggrava il quadro: denaro più caro per mutui e prestiti alle imprese, credito ridotto. Come si fa, dicono le imprese, a reagire ai rischi di una nuova recessione?

C’è appunto un malumore crescente, nel “partito del Pil”, nell’Italia produttiva. Le cronache recenti ne sono evidente testimonianza. L’assemblea di Assolombarda, il 18 ottobre scorso, con la relazione del presidente Carlo Bonomi, molto applaudita nei passaggi polemici verso un governo ostile alle imprese, alle infrastrutture, alla scienza, alla Ue. E le successive assemblee delle Confindustrie di Brescia, Lecco, Sondrio, Varese. Le oltre 30mila persone in piazza a Torino per dire “Sì Tav” e protestare contro i blocchi alle opere pubbliche. Le tensioni a Genova, contro le lentezze per la ricostruzione del Ponte Morandi e gli ostacoli alle opere pubbliche che possono riconnettere la Liguria ai grandi flussi economici europei e al dinamismo imprenditoriale del Nord Ovest. La presa di posizione, a Firenze, di Leonardo Bassilichi, presidente della Camera di Commercio, che interpreta i sentimenti delle imprese locali e, sul “Corriere della Sera” di domenica 25 novembre, intima ai partiti di maggioranza: “Basta tatticismi, il partito del Pil chiede sviluppo”.

Come reagire? La protesta, sino alla mobilitazione di piazza di cui abbiamo detto. E la proposta. Investimenti, chiede Confindustria. Sostegni fiscali alle imprese che innovano ed esportano (il governo invece, li ha drasticamente tagliati). Nessun protezionismo. E appoggio, invece, alle riforme e al rilancio dell’Europa, valorizzandone ruoli e risorse.

Trova, in questo quadro, crescenti consensi la proposta lanciata da Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli, su “Il Sole24Ore” del 16 novembre scorso (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) per un grande “Piano Marshall” della Ue sulle infrastrutture. “Giovani e conoscenza per ritrovare il sogno europeo”, sostiene, sempre su “Il Sole24Ore”, Gianfelice Rocca, presidente della Techint e dell’Humanitas. E ancora: “Grandi investimenti in infrastrutture sono una premessa necessaria per ripartire, perché quello che serve è un’Europa dei ‘ponti’ e non dei ‘muri’”. E Carlo Pesenti, consigliere delegato di Italmobiliare, famiglia storica del buon capitalismo italiano, concorda e aggiunge un’altra considerazione: “Europa ed euro restano elementi irrinunciabili” ma la Ue deve saper rispondere rapidamente anche all’emergere di gravi disagi sociali che minano la fiducia nelle istituzioni europee e dunque preparare “un grande progetto di welfare moderno e sostenibile che possa rispondere ai bisogni delle categorie più vulnerabili. Un piano per chi studia, assistendo il giovane nel suo percorso, per le madri che vogliono lavorare, per coloro che perdono l’impiego e devono essere formati e ricollocati, per gli anziani: l’Europa, oggi percepita come ‘vecchia’ e burocratica, per ripartire deve prendersi cura delle persone”.

Europa hi tech e solidale, dunque. “Occorre investire sulle reti, colmando il ritardo europeo”, commenta Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa San Paolo; “Gli europeisti veri sono convinti che vada rilanciato il processo d’integrazione”, sostiene Albero Bombassei, presidente Brembo. E sull’Europa come spazio cardine di competitività insistono Marco Bonometti, Omr, industria automotive, Giuseppe Pasini, acciaio, presidente degli industriali di Brescia, Alessandro Spada, impiantistica, vicepresidente di Assolombarda e un autorevole economista come Giorgio Barba Navaretti: “Europa casa comune con regole e progetti”.

Al diffuso disagio sociale, ai rischi d’impoverimento che toccano larga parte del ceto medio (non solo in Italia, ma in parecchie aree dell’Europa) si può rispondere risvegliando i fantasmi del nazionalismo, rispolverando l’intervento pubblico in economia (Alitalia, reti telefoniche) e promettendo nuovo e vecchio assistenzialismo (pensioni, redditi di cittadinanza, contributi a settori e categorie). Oppure impegnandosi per rimettere il moto l’economia, sulla stessa strada virtuosa già percorsa dalle imprese tra il 2015 e il 2017: ricerca, innovazione, investimenti. Il governo segue una cattiva strada. Le imprese si fanno giustamente sentire. E pretendono di essere ascoltate: creano lavoro, ricchezza, cambiamenti di qualità della vita, inclusione sociale, sono un motore prezioso per il futuro dell’Italia.

L’Europa sta al centro dell’attenzione delle imprese. Non perché sia esente da critiche. Tutt’altro. Ma perché riforme e rilancio sono condizioni indispensabili di sviluppo.

La maggioranza degli italiani, d’altronde, pur critica con Bruxelles, mostra di apprezzare l’euro. E non vuole correre avventure (come quelle sull’uscita dalla moneta unica su cui chiacchierano con irresponsabile disinvoltura e scarsa comprensione dei rischi parecchi esponenti della maggioranza Lega-5Stelle e dello stesso governo). L’euro, infatti, è apprezzato dal 57% degli italiani, conferma Eurobarometro, l’autorevole istituto statistico di Bruxelles. Ed è un consenso crescente: il 12% in più dell’anno precedente. Anche questa è una indicazione politica molto precisa: l’euro è oramai una realtà consolidata, i cittadini italiani ne percepiscono i vantaggio, le polemiche del governo con la Eu in uno scontro esasperato non fanno l’interesse né dei cittadini in generale né soprattutto di quella parte che lavora e produce. E vorrebbe continuare a farlo, senza dover scendere in piazza contro chi rovina l’economia.

Pirelli Collezione, pneumatici attraverso il tempo

La linea Pirelli Collezione nasce per offrire al mercato delle vetture d’epoca pneumatici che rispondano perfettamente ai criteri filologici a cui si attengono i collezionisti più attenti e appassionati: un settore, questo delle automobili “vintage”, che oggi ha raggiunto numeri davvero interessanti a livello internazionale. La partecipazione di Pirelli alla FIVA-Fédération Internationale des Véhicules Anciens in qualità di global partner non fa che sottolineare il senso di un approccio basato su solide radici storiche.

La filosofia di Pirelli Collezione è semplice quanto potente: realizzare pneumatici del tutto uguali ai loro “predecessori” – e dunque coerenti con il veicolo cui sono destinati – ma in grado di garantire qualità di materiali e sicurezza di strutture che solo le moderne tecnologie possono offrire. E non si tratta solamente di riprodurre un disegno battistrada o un lettering “d’epoca”: i prodotti di Pirelli Collezione presentano anche soluzioni costruttive – per esempio, la carcassa a tele incrociate dello storico Stella Bianca – realizzate da appositi macchinari ridisegnati a partire dal know how del tempo.  Una “filosofia” che trova nell’Archivio Storico del Gruppo, custodito presso la Fondazione Pirelli a Milano, un imponente patrimonio di dati a cui attingere per poter studiare e progettare sempre nuove misure e nuovi modelli per la linea “Collezione”. E’ partendo dai documenti storici, infatti, che Pirelli Collezione può oggi offrire ai collezionisti prodotti come Stella Bianca e Stelvio, degli anni Cinquanta, o come i Cinturato CA67, CN72, CN36 e CN12 che hanno segnato l’automobilismo degli anni Sessanta. Fino alle linee più recenti ma già considerate “storiche” come i super-ribassati P7 e P5 – voluto da Jaguar – o il P Zero Rosso di inizio anni Duemila specifico per Porsche.

Nell’Archivio Storico del Gruppo sono dunque conservate decine di migliaia di specifiche di prova generate dallo Sviluppo Tecnico Pneumatici lungo tutto il Novecento. E non solo: un’area consistente – e come le altre a disposizione del pubblico per la consultazione – riguarda anche i disegni dei macchinari che all’epoca costruivano e testavano tali pneumatici. Alle specifiche di prova e ai disegni dei macchinari si associano altrettante schede tecniche relative alle dimensioni dello stampo per la vulcanizzazione, al disegno del battistrada, alle scritte originali – misure, tipo di pneumatico, logo dell’azienda – impresse sul fianco: uno sguardo globale e completo sulla tecnologia degli ultimi ottant’anni.  A partire dai primi anni Trenta, infatti, questi documenti accompagnano passo dopo passo lo sviluppo e l’evoluzione di tutti i pneumatici Pirelli: dalle grandi “famiglie” come Stella Bianca e Cinturato, alle versioni “Corsa” da competizione, dalle sperimentazioni sui tessuti “Cord” ai primi studi sull’utilizzo della gomma sintetica.

Questo complesso di  documentazione permette di ricostruire quelli che nel tempo sono stati i rapporti di collaborazione tra Pirelli e le case automobilistiche, dallo sviluppo iniziale del prototipo fino al modello finale destinato al mercato. Incrociando queste informazioni tecniche con i listini prezzi, l’ampia produzione pubblicitaria e gli oltre trecento disegni originali ad aerografo a loro volta conservati in Archivio Storico, è facile capire come sia possibile riprodurre pneumatici Pirelli d’epoca assolutamente “corretti” dal punto di vista storico e filologico, pur garantendo ovviamente gli standard di sicurezza che la moderna tecnologia offre.

Così è stato – per esempio – per il rifacimento della gommatura per la Lamborghini Miura, tutt’ora considerata una tra le vetture più belle nella lunga storia dell’automobile. Proprio la Lamborghini Miura fu tra le prime auto ad adottare nel 1967 il CinturatoHigh Speed” per raggiungere la fatidica velocità di 240 kmh. Oggi è disponibile nella gamma Pirelli Collezione in quanto risultato finale di un lungo processo di studio partito dalle prime misure Cinturato CN72,  destinato a vetture a vocazione sportiva, poi evolutosi nel CN73 – il primo “ribassato” a sezione allargata – per arrivare alle misure posteriori Serie 60 del CN12 introdotte nel 1971 per equipaggiare la Miura P400.

Un altro esempio di come la documentazione conservata in Archivio Storico sia stata di supporto per lo sviluppo delle linee Collezione è il progetto di ri-edizione del Pirelli Stella Bianca, destinato nel 1950 aequipaggiare l’Alfa Romeo 1900 con pneumatici cosiddetti “convenzionali”, cioé dotati di carcassa a tele incrociate (il Cinturato radiale ancora non c’era). In questo caso si sono potute ripercorrere le “tappe di avvicinamento” alla gommatura definitiva ricostruendo la storia della sperimentazione su diversi disegni battistrada delle coperture “Aerflex” a bassa pressione e sui relativi disegni dello stampo di vulcanizzazione, per poi procedere al confronto con i listini prezzi dell’epoca oltre che con le pagine pubblicitarie della rivista “Pirelli” che nel 1950 garantivano che tutte le Alfa Romeo 1900 fossero equipaggiate di serie con pneumatici Pirelli.

Oggi un collezionista che abbia nel suo preziosissimo parco auto un’Alfa Romeo 1900 sa che Pirelli Collezione ha per lui lo stesso pneumatico che quella vettura montava settant’anni fa…

La linea Pirelli Collezione nasce per offrire al mercato delle vetture d’epoca pneumatici che rispondano perfettamente ai criteri filologici a cui si attengono i collezionisti più attenti e appassionati: un settore, questo delle automobili “vintage”, che oggi ha raggiunto numeri davvero interessanti a livello internazionale. La partecipazione di Pirelli alla FIVA-Fédération Internationale des Véhicules Anciens in qualità di global partner non fa che sottolineare il senso di un approccio basato su solide radici storiche.

La filosofia di Pirelli Collezione è semplice quanto potente: realizzare pneumatici del tutto uguali ai loro “predecessori” – e dunque coerenti con il veicolo cui sono destinati – ma in grado di garantire qualità di materiali e sicurezza di strutture che solo le moderne tecnologie possono offrire. E non si tratta solamente di riprodurre un disegno battistrada o un lettering “d’epoca”: i prodotti di Pirelli Collezione presentano anche soluzioni costruttive – per esempio, la carcassa a tele incrociate dello storico Stella Bianca – realizzate da appositi macchinari ridisegnati a partire dal know how del tempo.  Una “filosofia” che trova nell’Archivio Storico del Gruppo, custodito presso la Fondazione Pirelli a Milano, un imponente patrimonio di dati a cui attingere per poter studiare e progettare sempre nuove misure e nuovi modelli per la linea “Collezione”. E’ partendo dai documenti storici, infatti, che Pirelli Collezione può oggi offrire ai collezionisti prodotti come Stella Bianca e Stelvio, degli anni Cinquanta, o come i Cinturato CA67, CN72, CN36 e CN12 che hanno segnato l’automobilismo degli anni Sessanta. Fino alle linee più recenti ma già considerate “storiche” come i super-ribassati P7 e P5 – voluto da Jaguar – o il P Zero Rosso di inizio anni Duemila specifico per Porsche.

Nell’Archivio Storico del Gruppo sono dunque conservate decine di migliaia di specifiche di prova generate dallo Sviluppo Tecnico Pneumatici lungo tutto il Novecento. E non solo: un’area consistente – e come le altre a disposizione del pubblico per la consultazione – riguarda anche i disegni dei macchinari che all’epoca costruivano e testavano tali pneumatici. Alle specifiche di prova e ai disegni dei macchinari si associano altrettante schede tecniche relative alle dimensioni dello stampo per la vulcanizzazione, al disegno del battistrada, alle scritte originali – misure, tipo di pneumatico, logo dell’azienda – impresse sul fianco: uno sguardo globale e completo sulla tecnologia degli ultimi ottant’anni.  A partire dai primi anni Trenta, infatti, questi documenti accompagnano passo dopo passo lo sviluppo e l’evoluzione di tutti i pneumatici Pirelli: dalle grandi “famiglie” come Stella Bianca e Cinturato, alle versioni “Corsa” da competizione, dalle sperimentazioni sui tessuti “Cord” ai primi studi sull’utilizzo della gomma sintetica.

Questo complesso di  documentazione permette di ricostruire quelli che nel tempo sono stati i rapporti di collaborazione tra Pirelli e le case automobilistiche, dallo sviluppo iniziale del prototipo fino al modello finale destinato al mercato. Incrociando queste informazioni tecniche con i listini prezzi, l’ampia produzione pubblicitaria e gli oltre trecento disegni originali ad aerografo a loro volta conservati in Archivio Storico, è facile capire come sia possibile riprodurre pneumatici Pirelli d’epoca assolutamente “corretti” dal punto di vista storico e filologico, pur garantendo ovviamente gli standard di sicurezza che la moderna tecnologia offre.

Così è stato – per esempio – per il rifacimento della gommatura per la Lamborghini Miura, tutt’ora considerata una tra le vetture più belle nella lunga storia dell’automobile. Proprio la Lamborghini Miura fu tra le prime auto ad adottare nel 1967 il CinturatoHigh Speed” per raggiungere la fatidica velocità di 240 kmh. Oggi è disponibile nella gamma Pirelli Collezione in quanto risultato finale di un lungo processo di studio partito dalle prime misure Cinturato CN72,  destinato a vetture a vocazione sportiva, poi evolutosi nel CN73 – il primo “ribassato” a sezione allargata – per arrivare alle misure posteriori Serie 60 del CN12 introdotte nel 1971 per equipaggiare la Miura P400.

Un altro esempio di come la documentazione conservata in Archivio Storico sia stata di supporto per lo sviluppo delle linee Collezione è il progetto di ri-edizione del Pirelli Stella Bianca, destinato nel 1950 aequipaggiare l’Alfa Romeo 1900 con pneumatici cosiddetti “convenzionali”, cioé dotati di carcassa a tele incrociate (il Cinturato radiale ancora non c’era). In questo caso si sono potute ripercorrere le “tappe di avvicinamento” alla gommatura definitiva ricostruendo la storia della sperimentazione su diversi disegni battistrada delle coperture “Aerflex” a bassa pressione e sui relativi disegni dello stampo di vulcanizzazione, per poi procedere al confronto con i listini prezzi dell’epoca oltre che con le pagine pubblicitarie della rivista “Pirelli” che nel 1950 garantivano che tutte le Alfa Romeo 1900 fossero equipaggiate di serie con pneumatici Pirelli.

Oggi un collezionista che abbia nel suo preziosissimo parco auto un’Alfa Romeo 1900 sa che Pirelli Collezione ha per lui lo stesso pneumatico che quella vettura montava settant’anni fa…

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