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Intangibilità d’impresa

In un libro il racconto degli aspetti immateriali del produrre e dei loro risvolti di mercato

Ogni impresa è anche qualcosa che non si vede ma che c’è. Qualcosa di intangibile, che nel tempo è stato definito come spirito imprenditoriale, capacità del “capo” di dare l’impronta giusta, organizzazione perfetta del tutto e anche – naturalmente -, cultura d’impresa che distingue appunto ogni azienda dalle altre. A ben vedere, l’intangibilità dell’impresa è esistita sempre, descritta magari un modi sintetici ma comunque presente in chi l’impresa l’ha conosciuta per davvero.

Adesso, tuttavia, questi aspetti assumono più importanza di prima, soprattutto nei rapporti con il mercato. Ed è quindi bello – oltre che utile -, leggere “Vendere l’immateriale. Intangible Marketing, Marketing Sensoriale, Marketing Narrativo” di Annamaria Milesi. Un libro che riesce, in poco meno di 200 pagine, a dare il senso degli aspetti immateriali del produrre collegandoli alle azioni necessarie di promozione e marketing aziendale.

Milesi – che ha maturato esperienze manageriali con ruoli di direttore marketing e direttore generale in aziende italiane e internazionali, nell’ambito del turismo, dei servizi alle imprese e delle fiere -, parte da una constatazione: le imprese sembrano concentrate soprattutto sul proprio capitale fisico e produttivo. Giusta verità che nasconde quanto invece le imprese dovrebbero fare: spostare lo sguardo verso quel patrimonio di cui spesso non sanno molto. Milesi lo definisce “Capitale Immateriale”. Che è come dire cultura del produrre che spesso inconsapevolmente è cresciuta e maturata in uffici e officine con gli anni e con il contributo dì più persone che hanno dato vita non solo a prodotti ma a qualcosa di diverso e di più.

Per Milesi, quindi, ripartire dal Capitale Immateriale (costituito da Fattori Immateriali) è il percorso da intraprendere. Il libro racconta questo cammino che passa da molti esempi d’impresa oltre che da un sistematizzazione di una materia ancora tutta da costruire e precisare. Milesi illustra così l’utilizzo di suoni, odori, profumi, colori, sapori, nella costruzione di innovative architetture olfattive e identità sensoriali di spazi, prodotti, aziende, territori, brand del retail contemporaneo; ma racconta anche di aziende come Starbucks, Technogym, Esselunga, Illy e di prodotti che hanno a che fare con l’alimentazione, lo svago, il commercio, i servizi. Si delinea una modalità di relazione nuova fra impresa e mercato. Si afferma in un certo modo la supremazia di emozioni e narrazioni nel nuovo paradigma della relazione con il consumatore.

Ricco di suggestioni (magari non tutte condivisibili ma comunque apprezzabili e da conoscere), il libro di Milesi racconta come il consumatore non sia comunque un personaggio da prendere in giro ma che, anzi, abbia alzato l’asticella delle sue aspettative; e parla di un mercato ispirato a ciò che viene indicato come “Umanizzazione della tecnologia”.

Milesi scrive con tono leggero e assolutamente leggibile. Dopo aver fissato i concetti di base, vengono quindi spiegate le tappe per arrivare a delineare ciò che è intangibile nell’impresa e quindi gli strumenti da usare. Chiudono il volume alcune storie di imprese che hanno fatto dell’intangibilità uno dei loro cavalli di battaglia.

 

Vendere l’immateriale. Intangible Marketing, Marketing Sensoriale, Marketing Narrativo

Annamaria Milesi

Guerini Next, 2017

In un libro il racconto degli aspetti immateriali del produrre e dei loro risvolti di mercato

Ogni impresa è anche qualcosa che non si vede ma che c’è. Qualcosa di intangibile, che nel tempo è stato definito come spirito imprenditoriale, capacità del “capo” di dare l’impronta giusta, organizzazione perfetta del tutto e anche – naturalmente -, cultura d’impresa che distingue appunto ogni azienda dalle altre. A ben vedere, l’intangibilità dell’impresa è esistita sempre, descritta magari un modi sintetici ma comunque presente in chi l’impresa l’ha conosciuta per davvero.

Adesso, tuttavia, questi aspetti assumono più importanza di prima, soprattutto nei rapporti con il mercato. Ed è quindi bello – oltre che utile -, leggere “Vendere l’immateriale. Intangible Marketing, Marketing Sensoriale, Marketing Narrativo” di Annamaria Milesi. Un libro che riesce, in poco meno di 200 pagine, a dare il senso degli aspetti immateriali del produrre collegandoli alle azioni necessarie di promozione e marketing aziendale.

Milesi – che ha maturato esperienze manageriali con ruoli di direttore marketing e direttore generale in aziende italiane e internazionali, nell’ambito del turismo, dei servizi alle imprese e delle fiere -, parte da una constatazione: le imprese sembrano concentrate soprattutto sul proprio capitale fisico e produttivo. Giusta verità che nasconde quanto invece le imprese dovrebbero fare: spostare lo sguardo verso quel patrimonio di cui spesso non sanno molto. Milesi lo definisce “Capitale Immateriale”. Che è come dire cultura del produrre che spesso inconsapevolmente è cresciuta e maturata in uffici e officine con gli anni e con il contributo dì più persone che hanno dato vita non solo a prodotti ma a qualcosa di diverso e di più.

Per Milesi, quindi, ripartire dal Capitale Immateriale (costituito da Fattori Immateriali) è il percorso da intraprendere. Il libro racconta questo cammino che passa da molti esempi d’impresa oltre che da un sistematizzazione di una materia ancora tutta da costruire e precisare. Milesi illustra così l’utilizzo di suoni, odori, profumi, colori, sapori, nella costruzione di innovative architetture olfattive e identità sensoriali di spazi, prodotti, aziende, territori, brand del retail contemporaneo; ma racconta anche di aziende come Starbucks, Technogym, Esselunga, Illy e di prodotti che hanno a che fare con l’alimentazione, lo svago, il commercio, i servizi. Si delinea una modalità di relazione nuova fra impresa e mercato. Si afferma in un certo modo la supremazia di emozioni e narrazioni nel nuovo paradigma della relazione con il consumatore.

Ricco di suggestioni (magari non tutte condivisibili ma comunque apprezzabili e da conoscere), il libro di Milesi racconta come il consumatore non sia comunque un personaggio da prendere in giro ma che, anzi, abbia alzato l’asticella delle sue aspettative; e parla di un mercato ispirato a ciò che viene indicato come “Umanizzazione della tecnologia”.

Milesi scrive con tono leggero e assolutamente leggibile. Dopo aver fissato i concetti di base, vengono quindi spiegate le tappe per arrivare a delineare ciò che è intangibile nell’impresa e quindi gli strumenti da usare. Chiudono il volume alcune storie di imprese che hanno fatto dell’intangibilità uno dei loro cavalli di battaglia.

 

Vendere l’immateriale. Intangible Marketing, Marketing Sensoriale, Marketing Narrativo

Annamaria Milesi

Guerini Next, 2017

Milano attrattiva: la sfida per l’Agenzia del farmaco tra scienza, salute, imprese e qualità della vita

Milano attrattiva. E innovativa. Milano metropoli delle imprese (un terzo delle “aziende eccellenti” selezionate dalla Sda Bocconi per risultati rilevanti in termini economici, sociali e ambientali stanno in Lombardia / IlSole24Ore, 30 giugno). E dell’accoglienza, dell’inclusione sociale. Milano città della cultura (musica, teatro, arte contemporanea, editoria, università). E della qualità della vita (resta “the place to be”, secondo la lusinghiera definizione di “The New York Times”). Industria. Scienza. E salute.

“Milano ha ottime carte per ospitare l’Ema, l’Agenzia europea per il farmaco”, sostiene appunto Sergio Dompé, presidente del gruppo farmaceutico che porta il suo nome, 250 milioni di fatturato, orizzonti internazionali per le attività di ricerca specialistica e alcuni premi Nobel tra i collaboratori. Quali carte? “Il know how sulla salute è uno dei driver fondamentali della ricerca scientifica, in grado di assicurare benessere, sviluppo e posti di lavoro qualificati in Europa. L’Italia vanta un Servizio Sanitario Nazionale a costi sostenibili, che ha proprio nell’area milanese alcune delle sue eccellenze. Su sei delle cosiddette ‘terapie avanzate’ riconosciute al mondo, tre e cioè genica, cellulare e rigenerativa, sono brevetti italiani. Se colleghiamo questa condizione con l’università, il polo farmaceutico e la ricerca scientifica anche internazionale, non si può negare che Milano offra fondamenta solide e già strutturate per ospitare il massimo ente europeo che ha vigilanza sui farmaci. Senza dimenticare lo Human Technopole che sorgerà sull’area ex Expo e riunirà competenze, laboratori e imprese d’alto livello proprio nelle life sciences” (Il Sole24Ore, 2 luglio).

Partita aperta, quella dell’Ema, che lascerà Londra dopo la Brexit e che parecchie altre città europee, da Barcellona a Copenaghen, da Vienna/Bratislava ad Amsterdam si dichiarano  pronte ad ospitare. “Sfida che si può vincere”, sostiene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda (Il Sole24Ore, 30 giugno) insistendo sul lavoro comune da fare tra governo (ne ha appena approfondito i temi con Enzo Moavero Milanesi, consigliere del premier Gentiloni per il dossier Ema), amministrazioni locali (il sindaco di Milano Beppe Sala e il governatore della Regione Lombardia Roberto Maroni si muovono in buona sintonia), associazioni delle imprese (Confindustria e Assolombarda sono pronte per fare tutto il lavoro di lobbying necessario) e mondo della ricerca, della cultura e della salute.

C’è già una sede possibile, il Pirellone, lo storico grattacielo simbolo di Milano, in pieno centro. E tutto un grande attivismo per discutere di opportunità, relazioni, convenienze, vantaggi per Milano, l’Italia, la stessa Europa: l’Ema ha circa 900 addetti e movimenta un flusso di circa 100mila visitatori all’anno, animando una rete fitta di attività, incontri, ricerche, in uno dei settori di maggior valore scientifico ed economico.

La partita dell’Ema ha una forte rilevanza politica: la sua soluzione dipende da un’intrecciata serie di valutazioni a Bruxelles, per tenere conto dei diversi equilibri tra i paesi Ue (l’Italia ha già parecchie partite aperte, dai conti pubblici alle banche e alle politiche dell’immigrazione) e delle alleanze di interessi e strategie. Ma ha naturalmente anche una rilevanza scientifica ed economica: l’Ema ha senso che stia nel cuore di comunità attive sui versanti della scienza, della ricerca, delle nuove tecnologie, animate dalle reti di rapporti tra mondo pubblico e mondo privato. E risente delle capacità dei sistemi regolatori, nel confronto tra Stati nazionali e Ue. Londra, negli anni, ha garantito accettabili equilibri tra tutti questi fattori. La nuova sede dovrà saper continuare su una strada analoga.

L’attrattività di Milano è molto forte. Come punta avanzata dell’intero sistema Paese. Buone imprese, ricerca d’avanguardia, specializzazione nelle life sciences, sistema scolastico e universitario di livello europeo ne sono le carte. Cui si aggiungono la qualità della vita. E un funzionale sistema di trasporti e collegamenti tutto sommato efficienti, in una metropoli che anche geograficamente sta nel cuore dell’Europa, tra aree continentali e spazi mediterranei.

L’Expo nel 2015 è stato un successo, grazie al gioco di squadra di attori istituzionali, politici, imprenditoriali, culturali. La speranza è che con la partita dell’Ema si faccia un buon bis.

Milano attrattiva. E innovativa. Milano metropoli delle imprese (un terzo delle “aziende eccellenti” selezionate dalla Sda Bocconi per risultati rilevanti in termini economici, sociali e ambientali stanno in Lombardia / IlSole24Ore, 30 giugno). E dell’accoglienza, dell’inclusione sociale. Milano città della cultura (musica, teatro, arte contemporanea, editoria, università). E della qualità della vita (resta “the place to be”, secondo la lusinghiera definizione di “The New York Times”). Industria. Scienza. E salute.

“Milano ha ottime carte per ospitare l’Ema, l’Agenzia europea per il farmaco”, sostiene appunto Sergio Dompé, presidente del gruppo farmaceutico che porta il suo nome, 250 milioni di fatturato, orizzonti internazionali per le attività di ricerca specialistica e alcuni premi Nobel tra i collaboratori. Quali carte? “Il know how sulla salute è uno dei driver fondamentali della ricerca scientifica, in grado di assicurare benessere, sviluppo e posti di lavoro qualificati in Europa. L’Italia vanta un Servizio Sanitario Nazionale a costi sostenibili, che ha proprio nell’area milanese alcune delle sue eccellenze. Su sei delle cosiddette ‘terapie avanzate’ riconosciute al mondo, tre e cioè genica, cellulare e rigenerativa, sono brevetti italiani. Se colleghiamo questa condizione con l’università, il polo farmaceutico e la ricerca scientifica anche internazionale, non si può negare che Milano offra fondamenta solide e già strutturate per ospitare il massimo ente europeo che ha vigilanza sui farmaci. Senza dimenticare lo Human Technopole che sorgerà sull’area ex Expo e riunirà competenze, laboratori e imprese d’alto livello proprio nelle life sciences” (Il Sole24Ore, 2 luglio).

Partita aperta, quella dell’Ema, che lascerà Londra dopo la Brexit e che parecchie altre città europee, da Barcellona a Copenaghen, da Vienna/Bratislava ad Amsterdam si dichiarano  pronte ad ospitare. “Sfida che si può vincere”, sostiene Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda (Il Sole24Ore, 30 giugno) insistendo sul lavoro comune da fare tra governo (ne ha appena approfondito i temi con Enzo Moavero Milanesi, consigliere del premier Gentiloni per il dossier Ema), amministrazioni locali (il sindaco di Milano Beppe Sala e il governatore della Regione Lombardia Roberto Maroni si muovono in buona sintonia), associazioni delle imprese (Confindustria e Assolombarda sono pronte per fare tutto il lavoro di lobbying necessario) e mondo della ricerca, della cultura e della salute.

C’è già una sede possibile, il Pirellone, lo storico grattacielo simbolo di Milano, in pieno centro. E tutto un grande attivismo per discutere di opportunità, relazioni, convenienze, vantaggi per Milano, l’Italia, la stessa Europa: l’Ema ha circa 900 addetti e movimenta un flusso di circa 100mila visitatori all’anno, animando una rete fitta di attività, incontri, ricerche, in uno dei settori di maggior valore scientifico ed economico.

La partita dell’Ema ha una forte rilevanza politica: la sua soluzione dipende da un’intrecciata serie di valutazioni a Bruxelles, per tenere conto dei diversi equilibri tra i paesi Ue (l’Italia ha già parecchie partite aperte, dai conti pubblici alle banche e alle politiche dell’immigrazione) e delle alleanze di interessi e strategie. Ma ha naturalmente anche una rilevanza scientifica ed economica: l’Ema ha senso che stia nel cuore di comunità attive sui versanti della scienza, della ricerca, delle nuove tecnologie, animate dalle reti di rapporti tra mondo pubblico e mondo privato. E risente delle capacità dei sistemi regolatori, nel confronto tra Stati nazionali e Ue. Londra, negli anni, ha garantito accettabili equilibri tra tutti questi fattori. La nuova sede dovrà saper continuare su una strada analoga.

L’attrattività di Milano è molto forte. Come punta avanzata dell’intero sistema Paese. Buone imprese, ricerca d’avanguardia, specializzazione nelle life sciences, sistema scolastico e universitario di livello europeo ne sono le carte. Cui si aggiungono la qualità della vita. E un funzionale sistema di trasporti e collegamenti tutto sommato efficienti, in una metropoli che anche geograficamente sta nel cuore dell’Europa, tra aree continentali e spazi mediterranei.

L’Expo nel 2015 è stato un successo, grazie al gioco di squadra di attori istituzionali, politici, imprenditoriali, culturali. La speranza è che con la partita dell’Ema si faccia un buon bis.

La lezione di Cook, Apple, ai laureati del Mit e l’anima filosofica necessaria alle tecnologie

“Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze”. Parla Tim Cook, Ceo e cioè “numero uno” della Apple, gigante della tecnologia. Sono i giorni caldi della metà di giugno. A Cambridge, nell’area metropolitana di Boston. Per la cerimonia di congedo ai laureandi del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Nel suo discorso ai ragazzi proprio Cook, un ingegnere che ha studiato da manager ed è stato chiamato vent’anni fa da Steve Jobs ai vertici della Apple, insiste non tanto sullo straordinario progresso delle tecnologie, quanto soprattutto sulle responsabilità morali e civili che quel progresso comporta. Una riflessione densa di etica e cultura, oltre che di valori d’impresa (l’ha pubblicata in Italia il Corriere della Sera, il 18 giugno). Sulle “nuove idee grandi che possono cambiare il mondo”.

Benvenuta, infatti, tecnologia (anche nelle tracce dei temi per gli esami di maturità: futuro tecnologico e inquietudini da affrontare). Benvenuti, i robot che modificano radicalmente processi produttivi e prodotti e, connessi alle reti lungo cui si muovono i ”big data”, sono protagonisti della rivoluzione “digital” che sta trasformando industria e servizi. Benvenuti anche se vissuti come strumenti che tagliano posti di lavoro tradizionali. Perché proprio i progetti e i processi “hi tech” e “digital” migliorano qualità e produttività del lavoro, rafforzano conoscenze e competenze, potenziano la sicurezza (maggiori tecnologie, minori infortuni). Pur se aprono questioni culturali e politiche inedite, pongono sfide e creano allarme sociale.

E’ vero, parecchie lavorazioni e altrettante professionalità spariscono dall’orizzonte. Ma nuove se ne creano. E la sfida semmai è quella di governare in modo socialmente equilibrato la transizione, evitando che le nuove tecnologie aggravino gli squilibri professionali, retributivi e sociali. Questione politica. E culturale. Di governo della società. Di valori. Di nuove regole. Di più efficace costruzione di un innovativo “welfare state” (non il reddito di cittadinanza, ma la preparazione ad affrontare le evoluzioni del mercato del lavoro). Oltre che naturalmente di “governance” delle imprese (servono maggiore e migliore formazione, più spazio e responsabilità alle nuove idee).

Non siamo affatto di fronte, dunque, a una sorta di neo-illuminismo tecnologico. Tutt’altro. Semmai, ci si misura con l’approfondimento critico della dialettica tra vantaggi tecnologici e rischi, problemi e opportunità. Temi aperti sulla comprensione e sulla gestione delle nuove competenze, con responsabilità e senso del limite. Questioni filosofiche e antropologiche, appunto.

E’ proprio questa la sostanza della riflessione di Cook al Mit. Partendo da uno slogan che ha segnato la storia di Apple (“Think different”) e dall’ispirazione di Steve Jobs di “dare la possibilità ai folli – agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso – di fare al meglio il loro lavoro”. Il pensiero imprenditoriale, d’altronde (ne abbiamo parlato più volte, in questo blog) è un pensiero creativo, spesso un pensiero eretico. Da mantenere vivo nel tempo. E da intrecciare a un’altra essenziale dimensione d’impresa: la produttività, la serialità dei processi, la qualità standard dei prodotti. Innovare. Fare profitti. Investire. Creare lavoro. Reggere competitività in tempi di sempre più rapidi e intensi cambiamenti. E’ una sintesi difficile. Fragile. Mutevole. Ma indispensabile. Come ogni buon imprenditore e manager capace sanno bene.

Insiste Cook: “Al Mit avete imparato che la scienza e la tecnologia hanno il potere di migliorare il mondo. Grazie alle scoperte fatte proprio qui miliardi di persone stanno conducendo una vita più sana, produttiva e appagante. E se mai riuscissimo a risolvere anche uno solo dei grandi problemi del mondo, dal cancro ai cambiamenti climatici, alla diseguaglianza educativa, sarà grazie alla tecnologia”.

Retorica hi tech? No. Aggiunge Cook: “La tecnologia da sola non basta. E talvolta può essere parte del problema”. Cita l’importanza delle posizioni di Papa Francesco (“l’incontro più incredibile della mia vita”) sulle responsabilità di governare il cambiamento, dare un’anima all’economia e costruire migliori equilibri sociali. Sottolinea gli aspetti negativi delle tecnologie stesse (“le minacce alla sicurezza e alla privacy, le notizie false e i social media che diventano antisociali”). E conferma che l’uso delle potenzialità positive della tecnologia “spetta a noi. Spetta ai nostri valori e al nostro impegno verso i nostri familiari, i vicini di casa, le nostre comunità, spetta al nostro amore per la bellezza e alla convinzione che le nostre fedi sono interconnesse, al nostro senso civico e alla nostra bontà d’animo”.

E’ un discorso americano. Noi ne avvertiamo la consonanza con le parole di grandi imprenditori italiani, da Adriano Olivetti ai Pirelli, sino ai medi e piccoli imprenditori che ancora oggi animano territori e comunità in cui l’impresa cresce sui valori, sulla qualità, sulla “morale del tornio”, sulla “fabbrica bella” perché sostenibile, ambientalmente e socialmente.

Sono riflessioni utili, quelle di Cook. Che si nutrono anche degli insegnamenti della cosiddetta “filosofia pratica” che da tempo prende piede nella Silicon Valley e ragiona sul valore delle persone, la leadership, i limiti del successo, la responsabilità, su “cos’è che conta davvero oltre il successo materiale?”. “Socrate lavora alla Apple”, titola “La Lettura” del “Corriere della Sera” (18 giugno), su un’intervista a Andrew James Taggart, filosofo all’Università del Wisconsin, teorico della “filosofia pratica” e consulente di imprenditori e artisti. Socrate per la sua capacità di fare domande scomode ed estranee al buon senso comune: “E’ sbagliato sostenere che gli esperti di tecnologia stiano guidando la rivoluzione industriale. Sarebbe invece più appropriato dire che l’innovazione e l’imprenditoria hanno bisogno di individui con un background nelle scienze umane e sociali per generare idee e raccontare storie riguardo a ciò che per il momento non esiste ma potrebbe esistere in futuro. La filosofia dà due contributi essenziali: fare domande che altri non ipotizzerebbero nemmeno; investigare questioni basilari con lo scopo di mostrare che è possibile immaginare alternative alla nostra realtà concreta. La filosofia, come l’arte, ricorre ai posteri dell’immaginazione nella prospettiva della creazione”.

“Think different”, appunto. Regola filosofica. E cardine d’impresa innovativa.

“Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze”. Parla Tim Cook, Ceo e cioè “numero uno” della Apple, gigante della tecnologia. Sono i giorni caldi della metà di giugno. A Cambridge, nell’area metropolitana di Boston. Per la cerimonia di congedo ai laureandi del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Nel suo discorso ai ragazzi proprio Cook, un ingegnere che ha studiato da manager ed è stato chiamato vent’anni fa da Steve Jobs ai vertici della Apple, insiste non tanto sullo straordinario progresso delle tecnologie, quanto soprattutto sulle responsabilità morali e civili che quel progresso comporta. Una riflessione densa di etica e cultura, oltre che di valori d’impresa (l’ha pubblicata in Italia il Corriere della Sera, il 18 giugno). Sulle “nuove idee grandi che possono cambiare il mondo”.

Benvenuta, infatti, tecnologia (anche nelle tracce dei temi per gli esami di maturità: futuro tecnologico e inquietudini da affrontare). Benvenuti, i robot che modificano radicalmente processi produttivi e prodotti e, connessi alle reti lungo cui si muovono i ”big data”, sono protagonisti della rivoluzione “digital” che sta trasformando industria e servizi. Benvenuti anche se vissuti come strumenti che tagliano posti di lavoro tradizionali. Perché proprio i progetti e i processi “hi tech” e “digital” migliorano qualità e produttività del lavoro, rafforzano conoscenze e competenze, potenziano la sicurezza (maggiori tecnologie, minori infortuni). Pur se aprono questioni culturali e politiche inedite, pongono sfide e creano allarme sociale.

E’ vero, parecchie lavorazioni e altrettante professionalità spariscono dall’orizzonte. Ma nuove se ne creano. E la sfida semmai è quella di governare in modo socialmente equilibrato la transizione, evitando che le nuove tecnologie aggravino gli squilibri professionali, retributivi e sociali. Questione politica. E culturale. Di governo della società. Di valori. Di nuove regole. Di più efficace costruzione di un innovativo “welfare state” (non il reddito di cittadinanza, ma la preparazione ad affrontare le evoluzioni del mercato del lavoro). Oltre che naturalmente di “governance” delle imprese (servono maggiore e migliore formazione, più spazio e responsabilità alle nuove idee).

Non siamo affatto di fronte, dunque, a una sorta di neo-illuminismo tecnologico. Tutt’altro. Semmai, ci si misura con l’approfondimento critico della dialettica tra vantaggi tecnologici e rischi, problemi e opportunità. Temi aperti sulla comprensione e sulla gestione delle nuove competenze, con responsabilità e senso del limite. Questioni filosofiche e antropologiche, appunto.

E’ proprio questa la sostanza della riflessione di Cook al Mit. Partendo da uno slogan che ha segnato la storia di Apple (“Think different”) e dall’ispirazione di Steve Jobs di “dare la possibilità ai folli – agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso – di fare al meglio il loro lavoro”. Il pensiero imprenditoriale, d’altronde (ne abbiamo parlato più volte, in questo blog) è un pensiero creativo, spesso un pensiero eretico. Da mantenere vivo nel tempo. E da intrecciare a un’altra essenziale dimensione d’impresa: la produttività, la serialità dei processi, la qualità standard dei prodotti. Innovare. Fare profitti. Investire. Creare lavoro. Reggere competitività in tempi di sempre più rapidi e intensi cambiamenti. E’ una sintesi difficile. Fragile. Mutevole. Ma indispensabile. Come ogni buon imprenditore e manager capace sanno bene.

Insiste Cook: “Al Mit avete imparato che la scienza e la tecnologia hanno il potere di migliorare il mondo. Grazie alle scoperte fatte proprio qui miliardi di persone stanno conducendo una vita più sana, produttiva e appagante. E se mai riuscissimo a risolvere anche uno solo dei grandi problemi del mondo, dal cancro ai cambiamenti climatici, alla diseguaglianza educativa, sarà grazie alla tecnologia”.

Retorica hi tech? No. Aggiunge Cook: “La tecnologia da sola non basta. E talvolta può essere parte del problema”. Cita l’importanza delle posizioni di Papa Francesco (“l’incontro più incredibile della mia vita”) sulle responsabilità di governare il cambiamento, dare un’anima all’economia e costruire migliori equilibri sociali. Sottolinea gli aspetti negativi delle tecnologie stesse (“le minacce alla sicurezza e alla privacy, le notizie false e i social media che diventano antisociali”). E conferma che l’uso delle potenzialità positive della tecnologia “spetta a noi. Spetta ai nostri valori e al nostro impegno verso i nostri familiari, i vicini di casa, le nostre comunità, spetta al nostro amore per la bellezza e alla convinzione che le nostre fedi sono interconnesse, al nostro senso civico e alla nostra bontà d’animo”.

E’ un discorso americano. Noi ne avvertiamo la consonanza con le parole di grandi imprenditori italiani, da Adriano Olivetti ai Pirelli, sino ai medi e piccoli imprenditori che ancora oggi animano territori e comunità in cui l’impresa cresce sui valori, sulla qualità, sulla “morale del tornio”, sulla “fabbrica bella” perché sostenibile, ambientalmente e socialmente.

Sono riflessioni utili, quelle di Cook. Che si nutrono anche degli insegnamenti della cosiddetta “filosofia pratica” che da tempo prende piede nella Silicon Valley e ragiona sul valore delle persone, la leadership, i limiti del successo, la responsabilità, su “cos’è che conta davvero oltre il successo materiale?”. “Socrate lavora alla Apple”, titola “La Lettura” del “Corriere della Sera” (18 giugno), su un’intervista a Andrew James Taggart, filosofo all’Università del Wisconsin, teorico della “filosofia pratica” e consulente di imprenditori e artisti. Socrate per la sua capacità di fare domande scomode ed estranee al buon senso comune: “E’ sbagliato sostenere che gli esperti di tecnologia stiano guidando la rivoluzione industriale. Sarebbe invece più appropriato dire che l’innovazione e l’imprenditoria hanno bisogno di individui con un background nelle scienze umane e sociali per generare idee e raccontare storie riguardo a ciò che per il momento non esiste ma potrebbe esistere in futuro. La filosofia dà due contributi essenziali: fare domande che altri non ipotizzerebbero nemmeno; investigare questioni basilari con lo scopo di mostrare che è possibile immaginare alternative alla nostra realtà concreta. La filosofia, come l’arte, ricorre ai posteri dell’immaginazione nella prospettiva della creazione”.

“Think different”, appunto. Regola filosofica. E cardine d’impresa innovativa.

Racconto vissuto dal di dentro di un’impresa particolare

Condensati in un libro ricordi e documenti di sessant’anni di una banca

 

L’impresa è fatta da uomini e donne. Certo, ci sono macchine e attrezzature, tecnologie e procedure. Ma queste non sono nulla senza la presenza di chi ha le capacità di farle funzionare. Raccontare davvero la vita delle imprese, equivale a raccontare quella delle persone che hanno contribuito a farle funzionare. Perché a ben vedere la cultura d’impresa non è delle macchine, ma delle menti che le comandano. Vale per le fabbriche, ma vale anche per le banche.

“Il San Paolo di Torino, 1946-2006. Storia narrata da chi in gran parte l’ha vissuta” è un esempio interessante di racconto di un’impresa – banca in questo caso -, fatto da chi ha speso buona parte della propria vita all’interno dei suoi uffici. Libro coraggioso. A partire dal titolo che dice tutto sul taglio del testo: storia narrata da chi in gran parte l’ha vissuta. Non storia di numeri, quindi, ma di uomini.

Il libro, curato dalla Associazione Studi Storici del San Paolo, racconta le vicende di una delle maggiori istituzioni bancarie italiane a partire dal secondo dopoguerra fino alla fusione con Banca Intesa, che nel 2007 ha dato vita al Gruppo odierno, primo in Italia e uno dei principali in Europa. Nelle pagine (circa 300), non si parla, come si è detto di numeri e basta, ma viene offerta una testimonianza dei valori sociali, culturali, etici e di solidarietà dell’Istituto, la cui vicenda (dalla fusione con l’IMI, a quella con Intesa) si intreccia con la storia di Torino, dell’Italia e oltre, considerata l’influenza che il San Paolo ha avuto sulle vicende nazionali e internazionali.

Certo, si parte dall’analisi di una grande quantità di documenti (bilanci, circolari, articoli di giornale), ma a questi si aggiunge il racconto di quelli che si chiamano  “sanpaolini”, cioè della gente che nelle stanze della banca ha lavorato.

Viene così  documentato il profondo senso di appartenenza all’Istituto. Il libro diventa una sorta di racconto corale di vite, che si fa ancora più forte con le numerose fotografie e riproduzioni di documenti d’epoca ospitati nelle pagine. Tradizione d’impresa che si manifesta in parole e immagini.

E’ insomma l’attenzione ai conti ma anche alle persone quella che emerge dalle pagine di questo libro che va letto con attenzione e apprezzato per quello che è: il risultato di tante esperienze di lavoro che delineano la cultura di un’impresa importante. Bello anche il risvolto solidale stabilito dagli autori e dall’editore: il ricavato della vendita sarà devoluto alla Fondazione FARO onlus di Torino, che assiste gratuitamente a casa e in ospedale le persone colpite da grave malattia e le loro famiglie e che sostiene la ricerca medico-scientifica.

Il San Paolo di Torino, 1946-2006. Storia narrata da chi in gran parte l’ha vissuta

AA.VV.

Associazione Studi Storici del Sanpaolo

2017

Condensati in un libro ricordi e documenti di sessant’anni di una banca

 

L’impresa è fatta da uomini e donne. Certo, ci sono macchine e attrezzature, tecnologie e procedure. Ma queste non sono nulla senza la presenza di chi ha le capacità di farle funzionare. Raccontare davvero la vita delle imprese, equivale a raccontare quella delle persone che hanno contribuito a farle funzionare. Perché a ben vedere la cultura d’impresa non è delle macchine, ma delle menti che le comandano. Vale per le fabbriche, ma vale anche per le banche.

“Il San Paolo di Torino, 1946-2006. Storia narrata da chi in gran parte l’ha vissuta” è un esempio interessante di racconto di un’impresa – banca in questo caso -, fatto da chi ha speso buona parte della propria vita all’interno dei suoi uffici. Libro coraggioso. A partire dal titolo che dice tutto sul taglio del testo: storia narrata da chi in gran parte l’ha vissuta. Non storia di numeri, quindi, ma di uomini.

Il libro, curato dalla Associazione Studi Storici del San Paolo, racconta le vicende di una delle maggiori istituzioni bancarie italiane a partire dal secondo dopoguerra fino alla fusione con Banca Intesa, che nel 2007 ha dato vita al Gruppo odierno, primo in Italia e uno dei principali in Europa. Nelle pagine (circa 300), non si parla, come si è detto di numeri e basta, ma viene offerta una testimonianza dei valori sociali, culturali, etici e di solidarietà dell’Istituto, la cui vicenda (dalla fusione con l’IMI, a quella con Intesa) si intreccia con la storia di Torino, dell’Italia e oltre, considerata l’influenza che il San Paolo ha avuto sulle vicende nazionali e internazionali.

Certo, si parte dall’analisi di una grande quantità di documenti (bilanci, circolari, articoli di giornale), ma a questi si aggiunge il racconto di quelli che si chiamano  “sanpaolini”, cioè della gente che nelle stanze della banca ha lavorato.

Viene così  documentato il profondo senso di appartenenza all’Istituto. Il libro diventa una sorta di racconto corale di vite, che si fa ancora più forte con le numerose fotografie e riproduzioni di documenti d’epoca ospitati nelle pagine. Tradizione d’impresa che si manifesta in parole e immagini.

E’ insomma l’attenzione ai conti ma anche alle persone quella che emerge dalle pagine di questo libro che va letto con attenzione e apprezzato per quello che è: il risultato di tante esperienze di lavoro che delineano la cultura di un’impresa importante. Bello anche il risvolto solidale stabilito dagli autori e dall’editore: il ricavato della vendita sarà devoluto alla Fondazione FARO onlus di Torino, che assiste gratuitamente a casa e in ospedale le persone colpite da grave malattia e le loro famiglie e che sostiene la ricerca medico-scientifica.

Il San Paolo di Torino, 1946-2006. Storia narrata da chi in gran parte l’ha vissuta

AA.VV.

Associazione Studi Storici del Sanpaolo

2017

Collaborare per crescere

La sintesi dei risultati del progetto #WELCO sulle pratiche di welfare collaborativo apre nuovi scenari anche per la cultura d’impresa

L’impresa cresce meglio in un territorio che condivide principi sociali comuni. E’ la coesione di un sistema fatto di imprenditoria, lavoro, socialità ad essere spesso la formula vincente per riagguantare crescita e sviluppo. Occorrono però esempi da seguire, storie da cui trarre ispirazione. “Il Welfare collaborativo. Ricerche e pratiche di aiuto condiviso” curato da Sergio Pasquinelli per l’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS), è un buon esempio di lettura da fare per capire meglio i legami fra territorio e welfare.

La ricerca parte dal progetto #WELCO sulle pratiche di welfare collaborativo in Lombardia. Si tratta di un insieme di esperienze che implicano interazione, scambio, sostegno reciproco tra individui e organizzazioni. La logica sottesa all’indagine è quella della connessione, dell’inclusione e della prevenzione delle fragilità sociali. Un ambito nel quale anche le imprese possono fare la loro parte.

Il progetto è stato promosso da IRS – in collaborazione con ARS, Associazione per la Ricerca Sociale – e realizzato in con soggetti del terzo settore, con le parti sociali lombarde e il Comune di Milano. Gli ambiti di attività presi in considerazione sono: la famiglia, la mobilità, le piattaforme digitali, gli hub territoriali. Di ogni ambito vengono raccontati la storia, l’evoluzione, le prospettive di attività.

Le conclusioni dell’indagine individuano prima di tutto cinque parole chiave: fiducia, prossimità, appartenenza, affinità e leadership. Parole che, a ben vedere, possono essere ritrovate anche in ogni buona cultura d’impresa. Su ognuna di esse il curatore si “esercita” in un’analisi puntuale dei legami con la realtà. E’ così, per esempio, individuato il concetto di “fiducia conveniente”, cioè compatibile con i reali mezzi del territorio e dei soggetti coinvolti. Si passa poi al confronto fra welfare  collaborativo e sharing economy ragionando quindi sui pro e contro e sulle confusioni che uno sguardo superficiale può ingenerare. E, proprio il welfare collaborativo  viene quindi ben rappresentato attraverso una grafico che mette insieme le condizioni del territorio e delle persone con gli interessi delle stesse.

Il lavoro curato da Pasquinelli non è sempre di facilissima lettura, ma è uno strumento utile  per arrivare ad approfondire di più aspetti nuovi del territorio – sospesi fra economia e socialità -, nei quali imprese e lavoratori possono giocare una partita nuova e avvincente.

Il Welfare collaborativo. Ricerche e pratiche di aiuto condiviso

a cura di Sergio Pasquinelli

Istituto per la Ricerca Sociale, 2017

La sintesi dei risultati del progetto #WELCO sulle pratiche di welfare collaborativo apre nuovi scenari anche per la cultura d’impresa

L’impresa cresce meglio in un territorio che condivide principi sociali comuni. E’ la coesione di un sistema fatto di imprenditoria, lavoro, socialità ad essere spesso la formula vincente per riagguantare crescita e sviluppo. Occorrono però esempi da seguire, storie da cui trarre ispirazione. “Il Welfare collaborativo. Ricerche e pratiche di aiuto condiviso” curato da Sergio Pasquinelli per l’Istituto per la Ricerca Sociale (IRS), è un buon esempio di lettura da fare per capire meglio i legami fra territorio e welfare.

La ricerca parte dal progetto #WELCO sulle pratiche di welfare collaborativo in Lombardia. Si tratta di un insieme di esperienze che implicano interazione, scambio, sostegno reciproco tra individui e organizzazioni. La logica sottesa all’indagine è quella della connessione, dell’inclusione e della prevenzione delle fragilità sociali. Un ambito nel quale anche le imprese possono fare la loro parte.

Il progetto è stato promosso da IRS – in collaborazione con ARS, Associazione per la Ricerca Sociale – e realizzato in con soggetti del terzo settore, con le parti sociali lombarde e il Comune di Milano. Gli ambiti di attività presi in considerazione sono: la famiglia, la mobilità, le piattaforme digitali, gli hub territoriali. Di ogni ambito vengono raccontati la storia, l’evoluzione, le prospettive di attività.

Le conclusioni dell’indagine individuano prima di tutto cinque parole chiave: fiducia, prossimità, appartenenza, affinità e leadership. Parole che, a ben vedere, possono essere ritrovate anche in ogni buona cultura d’impresa. Su ognuna di esse il curatore si “esercita” in un’analisi puntuale dei legami con la realtà. E’ così, per esempio, individuato il concetto di “fiducia conveniente”, cioè compatibile con i reali mezzi del territorio e dei soggetti coinvolti. Si passa poi al confronto fra welfare  collaborativo e sharing economy ragionando quindi sui pro e contro e sulle confusioni che uno sguardo superficiale può ingenerare. E, proprio il welfare collaborativo  viene quindi ben rappresentato attraverso una grafico che mette insieme le condizioni del territorio e delle persone con gli interessi delle stesse.

Il lavoro curato da Pasquinelli non è sempre di facilissima lettura, ma è uno strumento utile  per arrivare ad approfondire di più aspetti nuovi del territorio – sospesi fra economia e socialità -, nei quali imprese e lavoratori possono giocare una partita nuova e avvincente.

Il Welfare collaborativo. Ricerche e pratiche di aiuto condiviso

a cura di Sergio Pasquinelli

Istituto per la Ricerca Sociale, 2017

La Pubblicità con la P maiuscola

Il volume racconta la storia della pubblicità Pirelli dagli anni Settanta ai nostri giorni, con i materiali conservati dall’Archivio Storico del gruppo: migliaia di stampati pubblicitari, decine di caroselli e spot televisivi. Negli anni Settanta e Ottanta la pubblicità è realizzata dalla Centro del gruppo Pirelli, interessante esempio di “house agency” italiana, che “traghetta” la comunicazione Pirelli dalla tradizione del graphic design – con grandi nomi quali Pino Tovaglia, Salvatore Gregorietti, Francois Robert – alle strategie marketing oriented. Negli anni Novanta entrano in scena le agenzie internazionali (Young & Rubicam e Armando Testa) per campagne globali con “testimonial” del cinema e dello sport (Sharon Stone, Carl Lewis, Ronaldo). L’immagine di Lewis in tacchi a spillo, fotografato da Annie Leibovitz, e lo slogan “Power is Nothing without Control” del 1994 rimangono una pietra miliare nella storia della pubblicità.

Il volume, seguito di “Una Musa tra le ruote: un secolo di arte al servizio del prodotto”, dà conto dell’evoluzione di strategie, tecniche e linguaggi della pubblicità, nel passaggio dalla tecnologia analogica a quella digitale. Pirelli ne è protagonista, come dimostrano sia la realizzazione di una P lunga formata da 140 auto riprese a 85 metri di altezza – una straordinaria impresa dell’era pre-digitale – sia uno dei primi esperimenti di pubblicità realizzata interamente in digitale con lo spot “Pirellibility” (1981).

Dopo i testi introduttivi di Antonio Calabrò, Paola Dubini, Carlo Vinti, Michele Galluzzo e Giancarlo Rocco di Torrepadula, le campagne pubblicitarie sono presentate con 800 immagini (esecutivi di stampa, stampati, fotografie, fotogrammi video), suddivise in sezioni: comunicazione istituzionale del Gruppo Pirelli, comunicazione di “pubblica utilità” e le vere e proprie pubblicità di prodotto.

Al libro sono collegati un sito web, all’indirizzo advbook.fondazionepirelli.org, e una web-app accessibile tramite QR code, per la visione delle tante pubblicità audiovisive (dai Caroselli dei primi anni Settanta agli effetti speciali degli spot con Carl Lewis e Ronaldo degli anni Novanta, fino allo spot “Wild”, con la partecipazione di nomi “hollywoodiani”), oltre a materiali pubblicitari aggiuntivi (esecutivi di stampa e stampati),  alla descrizione degli interventi di restauro e a molti altri contenuti “speciali”.

“La Pubblicità con la P maiuscola” sarà a breve anche in versione e-book. Realizzata pure la versione e-book di “Una musa tra le ruote”.

Scheda del libro La Pubblicità con la P maiuscola

Il volume racconta la storia della pubblicità Pirelli dagli anni Settanta ai nostri giorni, con i materiali conservati dall’Archivio Storico del gruppo: migliaia di stampati pubblicitari, decine di caroselli e spot televisivi. Negli anni Settanta e Ottanta la pubblicità è realizzata dalla Centro del gruppo Pirelli, interessante esempio di “house agency” italiana, che “traghetta” la comunicazione Pirelli dalla tradizione del graphic design – con grandi nomi quali Pino Tovaglia, Salvatore Gregorietti, Francois Robert – alle strategie marketing oriented. Negli anni Novanta entrano in scena le agenzie internazionali (Young & Rubicam e Armando Testa) per campagne globali con “testimonial” del cinema e dello sport (Sharon Stone, Carl Lewis, Ronaldo). L’immagine di Lewis in tacchi a spillo, fotografato da Annie Leibovitz, e lo slogan “Power is Nothing without Control” del 1994 rimangono una pietra miliare nella storia della pubblicità.

Il volume, seguito di “Una Musa tra le ruote: un secolo di arte al servizio del prodotto”, dà conto dell’evoluzione di strategie, tecniche e linguaggi della pubblicità, nel passaggio dalla tecnologia analogica a quella digitale. Pirelli ne è protagonista, come dimostrano sia la realizzazione di una P lunga formata da 140 auto riprese a 85 metri di altezza – una straordinaria impresa dell’era pre-digitale – sia uno dei primi esperimenti di pubblicità realizzata interamente in digitale con lo spot “Pirellibility” (1981).

Dopo i testi introduttivi di Antonio Calabrò, Paola Dubini, Carlo Vinti, Michele Galluzzo e Giancarlo Rocco di Torrepadula, le campagne pubblicitarie sono presentate con 800 immagini (esecutivi di stampa, stampati, fotografie, fotogrammi video), suddivise in sezioni: comunicazione istituzionale del Gruppo Pirelli, comunicazione di “pubblica utilità” e le vere e proprie pubblicità di prodotto.

Al libro sono collegati un sito web, all’indirizzo advbook.fondazionepirelli.org, e una web-app accessibile tramite QR code, per la visione delle tante pubblicità audiovisive (dai Caroselli dei primi anni Settanta agli effetti speciali degli spot con Carl Lewis e Ronaldo degli anni Novanta, fino allo spot “Wild”, con la partecipazione di nomi “hollywoodiani”), oltre a materiali pubblicitari aggiuntivi (esecutivi di stampa e stampati),  alla descrizione degli interventi di restauro e a molti altri contenuti “speciali”.

“La Pubblicità con la P maiuscola” sarà a breve anche in versione e-book. Realizzata pure la versione e-book di “Una musa tra le ruote”.

Scheda del libro La Pubblicità con la P maiuscola

“La Pubblicità con la P maiuscola” il nuovo libro a cura della Fondazione Pirelli

 “La Pubblicità con la P maiuscola: la comunicazione visiva Pirelli tra design d’autore e campagne globali anni Settanta- Duemila” il nuovo libro a cura della Fondazione Pirelli ed edito da Corraini Edizioni

La comunicazione Pirelli è da sempre sinonimo di qualità, innovazione, sperimentazione. Dalle pubblicità “d’artista” di primo Novecento alle creazioni dei protagonisti del graphic design italiano e internazionale negli anni Cinquanta e Sessanta, dalla rivista “Pirelli” all’agenzia Centro – esempio unico nel suo genere di house agency pubblicitaria a servizio completo – fino alle campagne globali degli anni Novanta, per oltre 140 anni la comunicazione Pirelli ha segnato la storia della pubblicità e della cultura. L’archivio storico aziendale, conservato dalla Fondazione Pirelli, racchiude le testimonianze di uno straordinario patrimonio di comunicazione visiva: centinaia di bozzetti e disegni originali, migliaia di esecutivi di stampa e stampati, centinaia di video su pellicola e su nastro. Un patrimonio che la Fondazione Pirelli tutela e mette a disposizione tramite attività di restauro, digitalizzazione e catalogazione. E che valorizza attraverso diverse iniziative.

Nel 2015 viene pubblicato Una Musa tra le ruote, dedicato ai primi 100 anni della comunicazione pubblicitaria Pirelli: un libro importante, che per la prima volta espone i risultati di una ricerca sistematica sulla pubblicità Pirelli dai primi del Novecento agli anni Sessanta, presentando il catalogo completo delle opere originali presenti in archivio relativamente a quegli anni. A due anni di distanza esce in libreria – e in versione e-book – La Pubblicità con la P maiuscola, dedicato ai decenni successivi (Settanta-Duemila). Un arco cronologico meno ampio ma non per questo meno interessante. La mole dei materiali d’archivio giunti sino a noi è notevolmente superiore. Il fondo archivistico dell’agenzia Centro (agenzia pubblicitaria interna al Gruppo Pirelli, attiva tra il 1960 e il 1988) è rappresentanto da migliaia di layout ed esecutivi di stampa, realizzati per pubblicizzare i prodotti Pirelli: pneumatici, cavi e la miriade di articoli facenti parte del settore “prodotti diversificati” (scarpe, orologi, materassi, cinghie, tubi, per citarne solo alcuni) realizzati anche da marchi consociati, quali Solari, Superga, Sapsa. La stagione della pubblicità “autoriale”, firmata da oltre 200 autori (tanti ne sono stati individuati tra 1910 e fine anni Sessanta) cede il passo alla stagione delle agenzie pubblicitarie, la già citata Centro e poi le grandi agenzie internazionali come Young & Rubicam e Armando Testa. Sullo sfondo, cambiamenti storici epocali, che investono anche il mondo della comunicazione e della pubblicità: l’affermarsi delle teorie del marketing, l’avvento del digitale, l’utilizzo di “testimonial”. Pirelli è all’avanguardia.

Negli anni Settanta sperimenta strategie pubblicitarie inedite, che pongono al centro il consumatore, rendendolo protagonista della campagna pubblicitaria stessa (come nella campagna “Ti cerco, ti filmo, ti premio”, del 1974, in cui l’automobilista diventa protagonista di Carosello; o nelle campagne Pirelli MotoVelo caratterizzate da un tono giovanile, linguaggio tratto dai fumetti, gadget e concorsi per coinvolgere il proprio pubblico di riferimento). Del 1978 è una campagna che si potrebbe definire un’impresa epica dell’era pre digitale: 140 automobili per realizzare la P di Pirelli, fotografata da Adrian Hamilton da un’altezza di 85 metri. Negli anni Ottanta Pirelli sperimenta le prime produzioni grafiche realizzate al computer, a partire da “Pirellibilty”, spot tv realizzato dai Cucumber Studio per la Pirelli inglese, salutato dalle riviste di grafica dell’epoca come una delle prime pubblicità video realizzate interamente in digitale; negli anni Novanta, la svolta globale della pubblicità Pirelli, affidata ora a un unico messaggio per tutti i mercati internazionali e all’immagine di testimonial del mondo del cinema e dello sport: nel 1993, Sharon Stone, reduce dal successo di Basic Instinct; nel 1994, sotto l’headline dirompente “La potenza è nulla senza controllo”, vede la luce la campagna con Carl Lewis in tacchi a spillo, un successo mondiale destinato a entrare nella storia della pubblicità; negli anni seguenti sono altri campioni dello sport a prestare la propria immagine per la publicità Pirelli: la velocista Marie-José Pérec e il calciatore Ronaldo. Il volume dà conto anche del crescente ricorso alla pubblicità audiovisiva negli anni analizzati. Dai caroselli dei primi anni Settanta, all’esplosione delle pubblicità televisive negli anni Ottanta – numerosissime nei tanti Paesi in cui Pirelli è presente –  fino agli spot tv degli anni Novanta, con il trionfo degli effetti speciali di post produzione: Carl Lewis si arrampica sulla Statua della Libertà, Marie-José Pérec corre sulla lava, Ronaldo è in bilico sul Corcovado, nella posa del Cristo Redentore. Per permettere al lettore di fruire delle pubblicità audiovisive – nonchè di molti contenuti extra – il volume è accompagnato da una app e da un sito, accessibili tramite QR code o digitando l’indirizzo advbook.fondazionepirelli.org. Dopo alcuni saggi iniziali dedicati al contesto storico (Antonio Calabrò) al contesto pubblicitario internazionale (Paola Dubini), all’evoluzione di tecniche, linguaggi e strategie della comunicazione Pirelli (Carlo Vinti e Michele Galluzzo) e alla corporate image (Giancarlo Rocco di Torrepadula), le campagne pubblicitarie sono presentate attraverso 800 immagini (tra esecutivi di stampa, stampati, fotografie e fotogrammi video), suddivise tra campagne istituzionali, di pubblicità sociale (un settore nel quale pure la Pirelli è all’avanguardia, con campagne realizzate dall’agenzia Centro per promuovere la ricerca sul cancro o la mobilità sostenibile) e di pubblicità per il prodotto. Una testimonianza di un periodo storico finora poco esplorato, nel quale la pubblicità Pirelli si conferma una Pubblicità con la P maiuscola.

 “La Pubblicità con la P maiuscola: la comunicazione visiva Pirelli tra design d’autore e campagne globali anni Settanta- Duemila” il nuovo libro a cura della Fondazione Pirelli ed edito da Corraini Edizioni

La comunicazione Pirelli è da sempre sinonimo di qualità, innovazione, sperimentazione. Dalle pubblicità “d’artista” di primo Novecento alle creazioni dei protagonisti del graphic design italiano e internazionale negli anni Cinquanta e Sessanta, dalla rivista “Pirelli” all’agenzia Centro – esempio unico nel suo genere di house agency pubblicitaria a servizio completo – fino alle campagne globali degli anni Novanta, per oltre 140 anni la comunicazione Pirelli ha segnato la storia della pubblicità e della cultura. L’archivio storico aziendale, conservato dalla Fondazione Pirelli, racchiude le testimonianze di uno straordinario patrimonio di comunicazione visiva: centinaia di bozzetti e disegni originali, migliaia di esecutivi di stampa e stampati, centinaia di video su pellicola e su nastro. Un patrimonio che la Fondazione Pirelli tutela e mette a disposizione tramite attività di restauro, digitalizzazione e catalogazione. E che valorizza attraverso diverse iniziative.

Nel 2015 viene pubblicato Una Musa tra le ruote, dedicato ai primi 100 anni della comunicazione pubblicitaria Pirelli: un libro importante, che per la prima volta espone i risultati di una ricerca sistematica sulla pubblicità Pirelli dai primi del Novecento agli anni Sessanta, presentando il catalogo completo delle opere originali presenti in archivio relativamente a quegli anni. A due anni di distanza esce in libreria – e in versione e-book – La Pubblicità con la P maiuscola, dedicato ai decenni successivi (Settanta-Duemila). Un arco cronologico meno ampio ma non per questo meno interessante. La mole dei materiali d’archivio giunti sino a noi è notevolmente superiore. Il fondo archivistico dell’agenzia Centro (agenzia pubblicitaria interna al Gruppo Pirelli, attiva tra il 1960 e il 1988) è rappresentanto da migliaia di layout ed esecutivi di stampa, realizzati per pubblicizzare i prodotti Pirelli: pneumatici, cavi e la miriade di articoli facenti parte del settore “prodotti diversificati” (scarpe, orologi, materassi, cinghie, tubi, per citarne solo alcuni) realizzati anche da marchi consociati, quali Solari, Superga, Sapsa. La stagione della pubblicità “autoriale”, firmata da oltre 200 autori (tanti ne sono stati individuati tra 1910 e fine anni Sessanta) cede il passo alla stagione delle agenzie pubblicitarie, la già citata Centro e poi le grandi agenzie internazionali come Young & Rubicam e Armando Testa. Sullo sfondo, cambiamenti storici epocali, che investono anche il mondo della comunicazione e della pubblicità: l’affermarsi delle teorie del marketing, l’avvento del digitale, l’utilizzo di “testimonial”. Pirelli è all’avanguardia.

Negli anni Settanta sperimenta strategie pubblicitarie inedite, che pongono al centro il consumatore, rendendolo protagonista della campagna pubblicitaria stessa (come nella campagna “Ti cerco, ti filmo, ti premio”, del 1974, in cui l’automobilista diventa protagonista di Carosello; o nelle campagne Pirelli MotoVelo caratterizzate da un tono giovanile, linguaggio tratto dai fumetti, gadget e concorsi per coinvolgere il proprio pubblico di riferimento). Del 1978 è una campagna che si potrebbe definire un’impresa epica dell’era pre digitale: 140 automobili per realizzare la P di Pirelli, fotografata da Adrian Hamilton da un’altezza di 85 metri. Negli anni Ottanta Pirelli sperimenta le prime produzioni grafiche realizzate al computer, a partire da “Pirellibilty”, spot tv realizzato dai Cucumber Studio per la Pirelli inglese, salutato dalle riviste di grafica dell’epoca come una delle prime pubblicità video realizzate interamente in digitale; negli anni Novanta, la svolta globale della pubblicità Pirelli, affidata ora a un unico messaggio per tutti i mercati internazionali e all’immagine di testimonial del mondo del cinema e dello sport: nel 1993, Sharon Stone, reduce dal successo di Basic Instinct; nel 1994, sotto l’headline dirompente “La potenza è nulla senza controllo”, vede la luce la campagna con Carl Lewis in tacchi a spillo, un successo mondiale destinato a entrare nella storia della pubblicità; negli anni seguenti sono altri campioni dello sport a prestare la propria immagine per la publicità Pirelli: la velocista Marie-José Pérec e il calciatore Ronaldo. Il volume dà conto anche del crescente ricorso alla pubblicità audiovisiva negli anni analizzati. Dai caroselli dei primi anni Settanta, all’esplosione delle pubblicità televisive negli anni Ottanta – numerosissime nei tanti Paesi in cui Pirelli è presente –  fino agli spot tv degli anni Novanta, con il trionfo degli effetti speciali di post produzione: Carl Lewis si arrampica sulla Statua della Libertà, Marie-José Pérec corre sulla lava, Ronaldo è in bilico sul Corcovado, nella posa del Cristo Redentore. Per permettere al lettore di fruire delle pubblicità audiovisive – nonchè di molti contenuti extra – il volume è accompagnato da una app e da un sito, accessibili tramite QR code o digitando l’indirizzo advbook.fondazionepirelli.org. Dopo alcuni saggi iniziali dedicati al contesto storico (Antonio Calabrò) al contesto pubblicitario internazionale (Paola Dubini), all’evoluzione di tecniche, linguaggi e strategie della comunicazione Pirelli (Carlo Vinti e Michele Galluzzo) e alla corporate image (Giancarlo Rocco di Torrepadula), le campagne pubblicitarie sono presentate attraverso 800 immagini (tra esecutivi di stampa, stampati, fotografie e fotogrammi video), suddivise tra campagne istituzionali, di pubblicità sociale (un settore nel quale pure la Pirelli è all’avanguardia, con campagne realizzate dall’agenzia Centro per promuovere la ricerca sul cancro o la mobilità sostenibile) e di pubblicità per il prodotto. Una testimonianza di un periodo storico finora poco esplorato, nel quale la pubblicità Pirelli si conferma una Pubblicità con la P maiuscola.

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Milano capitale logistica tra Mediterraneo e Ue nel cuore di “Industria 4.0” e servizi hi tech

Milano, hub nazionale della logistica, grande interporto europeo per le merci. Con 1.500 imprese della logistica, 15mila società di autotrasporto, un giro d’affari da 20 miliardi. Un quarto dei servizi logistici nazionali. E un aeroporto, il Cargo City di Malpensa, in dinamica crescita (la Sea presieduta da Pietro Modiano sta investendo parecchio) e destinato a essere, nell’arco di pochi anni, l’aeroporto merci per l’intero Nord Italia, in concorrenza con Francoforte, Zurigo, Parigi e Amsterdam. Milano, dunque, cuore di scambi che hanno al centro la parte più innovativa della manifattura italiana, le imprese della nostra Industria 4.0 e una rete di servizi che reggono il passo della competizione internazionale. E’ uno scenario dinamico. Che riguarda il Nord Ovest delle eccellenze industriali della “grande Milano” (multinazionali, imprese leader delle “life sciences” e della chimica specializzata, centri di ricerca e università di livello internazionale). Ma anche le regioni d’avanguardia dell’automotive, che dal Piemonte post-Fiat alla “motor valley” dell’Emilia stanno ridisegnando un panorama industriale fatto di reti d’impresa , supply chain d’alta qualità, tecnologie di valore internazionale (ne parla Aldo Bonomi, “Il Sole24Ore”, 18 giugno) e in cui “la competitività di una singola azienda si lega con la competitività del territorio”, per usare l’efficace sintesi di Andrea Pontremoli, leader della Dallara, eccellenza automobilistica.

La “regione logistica milanese” è descritta da un’accurata indagine della Liuc, l’Università di Castellanza presentata durante l’assemblea dell’Alsea, l’Associazione lombarda spedizionieri e autotrasportatori (“Il Sole24Ore, 15 giugno). E ha confini ampi, da Novara a ovest a Varese, Como e Bergamo verso nord ed est, a Pavia e Piacenza a sud. Somiglia alla “città infinita” teorizzata da Bonomi. E mostra ancora una volta come la geografia economica, secondo mappe che si vanno rapidamente ridisegnando, coincida solo in parte con la geografia istituzionale della tradizionali regioni e province.

Milano metropoli resta, comunque, anche in questo caso centrale. E conferma il valore d’un ruolo che bisogna insistere a costruire: quello d’una “Milano mediterranea” che ha ben salde le radici al centro dell’Europa e fa da punto di riferimento di un’area che, tra conflitti e confronti, sta cercando di definire una nuova centralità. Proprio la Milano “della straordinaria cultura ambrosiana” fatta d’intraprendenza, imprenditorialità, senso dell’accoglienza e solidarietà, “con un contributo essenziale al meglio della storia italiana ed europea”, per usare le parole di Carlo Bonomi, nuovo presidente di Assolombarda, alla recente assemblea dell’associazione (12 giugno).

Proprio al Mediterraneo e all’Europa continentale guarda la ricerca della Liuc, spiegando che la “Milano hub delle merci” deve potenziare i collegamenti con i porti liguri (Genova, Savona, La Spezia) e toscani (Livorno) e insistere sull’efficienza dei grandi valichi alpini (il Sempione, il Gottardo) per ferrovie e strade, lungo il “corridoio” Genova-Rotterdam e quello Scandinavia-Mediterraneo che passa dal Brennero.

E’ una sfida impegnativa. Per le infrastrutture di Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia (responsabilità di governo nazionale e delle stesse regioni interessate, al di là degli interessi particolari locali e dell’inutile logica del blocco “nimby” delle grandi opere pubbliche: “not in my backyard”, “non nel mio giardino”). Ma anche per le aree del Mezzogiorno: sta agli amministratori e agli imprenditori di  quelle regioni e delle loro grandi città impegnarsi per potenziare i collegamenti con Milano, marittimi e aerei, perché proprio da Milano passa la via europea (altro che Ponte sullo Stretto: vanno fatti grandi investimenti nei porti siciliani di Palermo e Catania e in quelli di Gioia Tauro, da sottrarre alla devastante influenza della ‘ndrangheta, di Salerno e di Napoli). In questo disegno, ecco anche il ruolo per Genova: porta del mare sul Mediterraneo per e da una delle aree geo-economiche centrali per tutta l’Europa. Una responsabilità da cogliere rapidamente, pena il ritrovarsi tagliata fuori dai più dinamici meccanismi di sviluppo europei.

E’ una partita strategica essenziale, quella che si gioca in quest’area del Nord Ovest che ha Milano come baricentro. Perché è interna al ridisegno delle relazioni internazionali dopo la crisi aperta dalla presidenza Trump e dalla Brexit e dopo le nuove mosse della Cina sulla “nuova via della seta”, “One Belt, One Road” (ne scrive con lucidità Maurizio Molinari su “La Stampa”, 18 giugno) che guarda al potenziamento degli scambi internazionali con l’Europa e l’Africa (investimenti, acquisizioni, interventi per le grandi infrastrutture).

Ma è anche una partita economica che riguarda proprio il destino delle nostre imprese migliori. La competitività si gioca su innovazione e servizi, oltre che sulla qualità dei prodotti. E le reti di scambio di merci e servizi, conoscenza e formazione ne sono parte essenziale. “Milano hub logistico” e “Milano mediterranea”, dove si incrociano industria e finanza, creatività e servizi, un “unicum” in tutto il panorama europeo, ne devono diventare sempre più elemento centrale.

Milano, hub nazionale della logistica, grande interporto europeo per le merci. Con 1.500 imprese della logistica, 15mila società di autotrasporto, un giro d’affari da 20 miliardi. Un quarto dei servizi logistici nazionali. E un aeroporto, il Cargo City di Malpensa, in dinamica crescita (la Sea presieduta da Pietro Modiano sta investendo parecchio) e destinato a essere, nell’arco di pochi anni, l’aeroporto merci per l’intero Nord Italia, in concorrenza con Francoforte, Zurigo, Parigi e Amsterdam. Milano, dunque, cuore di scambi che hanno al centro la parte più innovativa della manifattura italiana, le imprese della nostra Industria 4.0 e una rete di servizi che reggono il passo della competizione internazionale. E’ uno scenario dinamico. Che riguarda il Nord Ovest delle eccellenze industriali della “grande Milano” (multinazionali, imprese leader delle “life sciences” e della chimica specializzata, centri di ricerca e università di livello internazionale). Ma anche le regioni d’avanguardia dell’automotive, che dal Piemonte post-Fiat alla “motor valley” dell’Emilia stanno ridisegnando un panorama industriale fatto di reti d’impresa , supply chain d’alta qualità, tecnologie di valore internazionale (ne parla Aldo Bonomi, “Il Sole24Ore”, 18 giugno) e in cui “la competitività di una singola azienda si lega con la competitività del territorio”, per usare l’efficace sintesi di Andrea Pontremoli, leader della Dallara, eccellenza automobilistica.

La “regione logistica milanese” è descritta da un’accurata indagine della Liuc, l’Università di Castellanza presentata durante l’assemblea dell’Alsea, l’Associazione lombarda spedizionieri e autotrasportatori (“Il Sole24Ore, 15 giugno). E ha confini ampi, da Novara a ovest a Varese, Como e Bergamo verso nord ed est, a Pavia e Piacenza a sud. Somiglia alla “città infinita” teorizzata da Bonomi. E mostra ancora una volta come la geografia economica, secondo mappe che si vanno rapidamente ridisegnando, coincida solo in parte con la geografia istituzionale della tradizionali regioni e province.

Milano metropoli resta, comunque, anche in questo caso centrale. E conferma il valore d’un ruolo che bisogna insistere a costruire: quello d’una “Milano mediterranea” che ha ben salde le radici al centro dell’Europa e fa da punto di riferimento di un’area che, tra conflitti e confronti, sta cercando di definire una nuova centralità. Proprio la Milano “della straordinaria cultura ambrosiana” fatta d’intraprendenza, imprenditorialità, senso dell’accoglienza e solidarietà, “con un contributo essenziale al meglio della storia italiana ed europea”, per usare le parole di Carlo Bonomi, nuovo presidente di Assolombarda, alla recente assemblea dell’associazione (12 giugno).

Proprio al Mediterraneo e all’Europa continentale guarda la ricerca della Liuc, spiegando che la “Milano hub delle merci” deve potenziare i collegamenti con i porti liguri (Genova, Savona, La Spezia) e toscani (Livorno) e insistere sull’efficienza dei grandi valichi alpini (il Sempione, il Gottardo) per ferrovie e strade, lungo il “corridoio” Genova-Rotterdam e quello Scandinavia-Mediterraneo che passa dal Brennero.

E’ una sfida impegnativa. Per le infrastrutture di Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia (responsabilità di governo nazionale e delle stesse regioni interessate, al di là degli interessi particolari locali e dell’inutile logica del blocco “nimby” delle grandi opere pubbliche: “not in my backyard”, “non nel mio giardino”). Ma anche per le aree del Mezzogiorno: sta agli amministratori e agli imprenditori di  quelle regioni e delle loro grandi città impegnarsi per potenziare i collegamenti con Milano, marittimi e aerei, perché proprio da Milano passa la via europea (altro che Ponte sullo Stretto: vanno fatti grandi investimenti nei porti siciliani di Palermo e Catania e in quelli di Gioia Tauro, da sottrarre alla devastante influenza della ‘ndrangheta, di Salerno e di Napoli). In questo disegno, ecco anche il ruolo per Genova: porta del mare sul Mediterraneo per e da una delle aree geo-economiche centrali per tutta l’Europa. Una responsabilità da cogliere rapidamente, pena il ritrovarsi tagliata fuori dai più dinamici meccanismi di sviluppo europei.

E’ una partita strategica essenziale, quella che si gioca in quest’area del Nord Ovest che ha Milano come baricentro. Perché è interna al ridisegno delle relazioni internazionali dopo la crisi aperta dalla presidenza Trump e dalla Brexit e dopo le nuove mosse della Cina sulla “nuova via della seta”, “One Belt, One Road” (ne scrive con lucidità Maurizio Molinari su “La Stampa”, 18 giugno) che guarda al potenziamento degli scambi internazionali con l’Europa e l’Africa (investimenti, acquisizioni, interventi per le grandi infrastrutture).

Ma è anche una partita economica che riguarda proprio il destino delle nostre imprese migliori. La competitività si gioca su innovazione e servizi, oltre che sulla qualità dei prodotti. E le reti di scambio di merci e servizi, conoscenza e formazione ne sono parte essenziale. “Milano hub logistico” e “Milano mediterranea”, dove si incrociano industria e finanza, creatività e servizi, un “unicum” in tutto il panorama europeo, ne devono diventare sempre più elemento centrale.

Responsabilità Sociale d’Impresa complessa e variegata

Uno studio dell’Università La Sapienza di Roma mette a fuoco i diversi approcci a questo aspetto dell’agire d’impresa

La Responsabilità Sociale d’Impresa è cosa seria e complessa. Soprattutto non è un affare di moda. E’ ben altro. Occorre quindi guardare ad essa seguendo un metodo adatto a comprendere. E’ ciò che hanno fatto Maria Luisa Farnese, Chiara Piersanti, Francesco Avallone (dell’Università La Sapienza di Roma) con il loro “Responsabilità sociale d’impresa. Indagine sui valori dichiarati da imprese italiane e internazionali”.

La ricerca – apparsa su Sviluppo e Organizzazione -, inizia con una rassegna sul concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa per poi passare ai “modelli” di responsabilità sociale e quindi all’approfondimento dei codici etici e delle “carte dei valori” aziendali.

E’ proprio a partire dalla analisi dei diversi codici etici che si dipana quindi la parte empirica del lavoro. Nell’articolo sono infatti presentati i risultati di un’indagine esplorativa condotta su 79 imprese (italiane di medie e grandi dimensioni e internazionali) che ha l’obiettivo di rilevare dai codici le concezioni e i comportamenti d’impresa sotto l’aspetto della Responsabilità Sociale. Sono quindi individuati tre tipi (cluster) diversi di impresa. Il primo viene caratterizzato dall’intento di promuovere “qualità e sviluppo”, il secondo dal “rispetto delle regole di convivenza” e il terzo dall’obiettivo di “contenere i comportamenti irresponsabili”. Per meglio visualizzare i risultati, i tre autori pongono ogni impresa studiata attraverso il suo codice etico, in una mappa fattoriale nelle quale la concentrazione delle imprese nelle diverse tipologie appare chiaramente.

“I risultati emersi – spiegano gli autori -, indicano che le imprese, a partire da modelli comunicativi formalmente simili, attribuiscono differenti significati al concetto e utilizzano differenti pratiche organizzative per la gestione della Responsabilità Sociale d’Impresa”. Ma conta forse di più un altro aspetto colto dall’indagine: la ricchezza dei contenuti attraverso i quali la Responsabilità Sociale si esplicita. E’ il segno dell’importanza che le imprese attribuiscono a questo aspetto del loro agire, ma anche della diversità con la quale ogni impresa percepisce il suo ruolo di attore nel contesto socio-economico e nella relazione con i propri stakeholder.

Il lavoro di Farnese, Piersanti e Avallone è da leggere e magari rileggere.

Responsabilità sociale d’impresa. Indagine sui valori dichiarati da imprese italiane e internazionali

Maria Luisa Farnese, Chiara Piersanti, Francesco Avallone

Sviluppo e Organizzazione, 232, 22–36.

Uno studio dell’Università La Sapienza di Roma mette a fuoco i diversi approcci a questo aspetto dell’agire d’impresa

La Responsabilità Sociale d’Impresa è cosa seria e complessa. Soprattutto non è un affare di moda. E’ ben altro. Occorre quindi guardare ad essa seguendo un metodo adatto a comprendere. E’ ciò che hanno fatto Maria Luisa Farnese, Chiara Piersanti, Francesco Avallone (dell’Università La Sapienza di Roma) con il loro “Responsabilità sociale d’impresa. Indagine sui valori dichiarati da imprese italiane e internazionali”.

La ricerca – apparsa su Sviluppo e Organizzazione -, inizia con una rassegna sul concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa per poi passare ai “modelli” di responsabilità sociale e quindi all’approfondimento dei codici etici e delle “carte dei valori” aziendali.

E’ proprio a partire dalla analisi dei diversi codici etici che si dipana quindi la parte empirica del lavoro. Nell’articolo sono infatti presentati i risultati di un’indagine esplorativa condotta su 79 imprese (italiane di medie e grandi dimensioni e internazionali) che ha l’obiettivo di rilevare dai codici le concezioni e i comportamenti d’impresa sotto l’aspetto della Responsabilità Sociale. Sono quindi individuati tre tipi (cluster) diversi di impresa. Il primo viene caratterizzato dall’intento di promuovere “qualità e sviluppo”, il secondo dal “rispetto delle regole di convivenza” e il terzo dall’obiettivo di “contenere i comportamenti irresponsabili”. Per meglio visualizzare i risultati, i tre autori pongono ogni impresa studiata attraverso il suo codice etico, in una mappa fattoriale nelle quale la concentrazione delle imprese nelle diverse tipologie appare chiaramente.

“I risultati emersi – spiegano gli autori -, indicano che le imprese, a partire da modelli comunicativi formalmente simili, attribuiscono differenti significati al concetto e utilizzano differenti pratiche organizzative per la gestione della Responsabilità Sociale d’Impresa”. Ma conta forse di più un altro aspetto colto dall’indagine: la ricchezza dei contenuti attraverso i quali la Responsabilità Sociale si esplicita. E’ il segno dell’importanza che le imprese attribuiscono a questo aspetto del loro agire, ma anche della diversità con la quale ogni impresa percepisce il suo ruolo di attore nel contesto socio-economico e nella relazione con i propri stakeholder.

Il lavoro di Farnese, Piersanti e Avallone è da leggere e magari rileggere.

Responsabilità sociale d’impresa. Indagine sui valori dichiarati da imprese italiane e internazionali

Maria Luisa Farnese, Chiara Piersanti, Francesco Avallone

Sviluppo e Organizzazione, 232, 22–36.

La cultura dell’impresa connessa

Un libro appena stampato chiarisce molti aspetti di Industria 4.0 e fornisce gli strumenti giusti per capire di più

L’impresa moderna non si costruisce dall’oggi al domani. Essa è prima idea, poi progetto, poi realizzazione di donne, uomini e tecnologie. Ed è in quest’ultimo aspetto – il connubio fra tecnologie e mente umana -, che sta forse il vero segreto d’impresa. Anche oggi, con Industria 4.0 ambito e traguardo assunto come guida per le aziende che davvero vogliano trovare un posto importante nel sistema produttivo moderno. Argomento in evoluzione e appassionante, Industria 4.0 va però compresa, non sposata ciecamente. E nemmeno assunta come soluzione per tutti i mali industriali del momento.

Luca Beltrametti, Nino Guarnacci, Nicola Intini e Corrado La Forgia hanno scritto un libro utile proprio per comprendere e sapersi muovere bene. “La fabbrica connessa:la manifattura italiana (attra)verso industria 4.0” appena pubblicato è scritto da mani esperte del tema. I quattro autori (manager  e ricercatori), sono componenti del gruppo di lavoro Federmeccanica che ha condotto la ricerca sullo stato dell’Industria 4.0 in Italia pubblicata a fine 2016, ma soprattutto hanno delineato  nel libro un percorso basato sulla loro esperienza per definire uno scenario a medio termine che possa accompagnare le piccole e medie imprese italiane nella transizione tecnologica. Perché il “problema” sembra essere proprio lì, nelle PMI che costituiscono il vero cuore dell’industria e della cultura d’impresa nazionali. Oltre l’80% del tessuto manifatturiero italiano – viene spiegato -,  è composto da piccole e medie imprese. Queste realtà vanno guidate in un percorso graduale verso Industria 4.0. Il libro propone proprio questo: una “strada italiana” alla quarta rivoluzione industriale. Partendo quindi dalla negazione dell’obbligo di fare tutto presto e bene.

Gradualità, quindi, è la parola d’ordine adottata nel libro. E non potrebbe che essere così. In fin dei conti Industria 4.0 implica un cambio di cultura d’impresa che non può avvenire in breve tempo.

Il libro – poco più di duecento pagine scritte in un linguaggio piano e semplice -, parte da un breve riassunto del passato per arrivare subito alle tecnologie abilitanti e alla cosiddetta “fabbrica connessa”, vengono quindi prese in considerazione le logiche economiche  e organizzative di Industria 4.0 per poi ragionare sul ruolo della rivoluzione che Industria 4.0 comunque implica. Successivamente, dopo aver toccato le relazioni con la politica industriale, il libro si chiude con dieci tesi sul tema utili per fissare le tappe del e percorso.

Belli e importanti sono gli ultimi due capisaldi: Industria 4.0 non risolve tutti i problemi, Industria 4.0 pone problemi nuovi.  E’ la sintesi della sfida che aspetta il sistema industriale di fronte al nuovo: guardare sempre avanti, superando sempre nuovi ostacoli.

Leggere il lavoro di Beltrametti, Guarnacci, Intini e La Forgia è cosa buona per intraprendere un’operazione di questo genere.

 

La fabbrica connessa:la manifattura italiana (attra)verso industria 4.0

Luca Beltrametti, Nino Guarnacci, Nicola Intini, Corrado La Forgia.

Guerini e Associati, 2017

Un libro appena stampato chiarisce molti aspetti di Industria 4.0 e fornisce gli strumenti giusti per capire di più

L’impresa moderna non si costruisce dall’oggi al domani. Essa è prima idea, poi progetto, poi realizzazione di donne, uomini e tecnologie. Ed è in quest’ultimo aspetto – il connubio fra tecnologie e mente umana -, che sta forse il vero segreto d’impresa. Anche oggi, con Industria 4.0 ambito e traguardo assunto come guida per le aziende che davvero vogliano trovare un posto importante nel sistema produttivo moderno. Argomento in evoluzione e appassionante, Industria 4.0 va però compresa, non sposata ciecamente. E nemmeno assunta come soluzione per tutti i mali industriali del momento.

Luca Beltrametti, Nino Guarnacci, Nicola Intini e Corrado La Forgia hanno scritto un libro utile proprio per comprendere e sapersi muovere bene. “La fabbrica connessa:la manifattura italiana (attra)verso industria 4.0” appena pubblicato è scritto da mani esperte del tema. I quattro autori (manager  e ricercatori), sono componenti del gruppo di lavoro Federmeccanica che ha condotto la ricerca sullo stato dell’Industria 4.0 in Italia pubblicata a fine 2016, ma soprattutto hanno delineato  nel libro un percorso basato sulla loro esperienza per definire uno scenario a medio termine che possa accompagnare le piccole e medie imprese italiane nella transizione tecnologica. Perché il “problema” sembra essere proprio lì, nelle PMI che costituiscono il vero cuore dell’industria e della cultura d’impresa nazionali. Oltre l’80% del tessuto manifatturiero italiano – viene spiegato -,  è composto da piccole e medie imprese. Queste realtà vanno guidate in un percorso graduale verso Industria 4.0. Il libro propone proprio questo: una “strada italiana” alla quarta rivoluzione industriale. Partendo quindi dalla negazione dell’obbligo di fare tutto presto e bene.

Gradualità, quindi, è la parola d’ordine adottata nel libro. E non potrebbe che essere così. In fin dei conti Industria 4.0 implica un cambio di cultura d’impresa che non può avvenire in breve tempo.

Il libro – poco più di duecento pagine scritte in un linguaggio piano e semplice -, parte da un breve riassunto del passato per arrivare subito alle tecnologie abilitanti e alla cosiddetta “fabbrica connessa”, vengono quindi prese in considerazione le logiche economiche  e organizzative di Industria 4.0 per poi ragionare sul ruolo della rivoluzione che Industria 4.0 comunque implica. Successivamente, dopo aver toccato le relazioni con la politica industriale, il libro si chiude con dieci tesi sul tema utili per fissare le tappe del e percorso.

Belli e importanti sono gli ultimi due capisaldi: Industria 4.0 non risolve tutti i problemi, Industria 4.0 pone problemi nuovi.  E’ la sintesi della sfida che aspetta il sistema industriale di fronte al nuovo: guardare sempre avanti, superando sempre nuovi ostacoli.

Leggere il lavoro di Beltrametti, Guarnacci, Intini e La Forgia è cosa buona per intraprendere un’operazione di questo genere.

 

La fabbrica connessa:la manifattura italiana (attra)verso industria 4.0

Luca Beltrametti, Nino Guarnacci, Nicola Intini, Corrado La Forgia.

Guerini e Associati, 2017

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