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Fondazione Pirelli Educational: un anno di laboratori
e visite guidate per le scuole

Il progamma Educational per l’anno scolastico 2016-2017 è stato denso di novità e ha raccolto l’entusiasmo di molti bambini e ragazzi. Da settembre a giugno infatti oltre 3000 studenti di 120 classi provenienti dalla Lombardia e da altre regioni italiane hanno visitato l’Archivio Storico Pirelli e partecipato ai laboratori creativi e formativi.

Tra i quasi 40 percorsi proposti, i più richiesti sono stati quelli dedicati ai temi della sostenibilità, che ha incluso la visita alla mostra in corso in Fondazione Pirelli, la cultura sostenibile, della grafica pubblicitaria e della sicurezza stradale. Bambini e ragazzi hanno messo in gioco tutta la loro creatività e capacità progettuale nel realizzare plastici di stabilimenti produttivi del futuro, bozzetti di pubblicità, brevi filmati in stop motion e ancora fumetti e progetti per nuovi battistrada degli pneumatici, mettendo così in pratica quanto imparato durante la parte teorica dei percorsi.

Diverse classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado hanno avuto l’occasione di visitare i laboratori chimici e il dipartimento di Ricerca e Sviluppo di Pirelli dove i ragazzi hanno potuto vedere l’organizzazione di un moderno laboratorio scientifico e, passo dopo passo, le fasi di realizzazione dei prototopi dei nuovi pneumatici e i numerosi test a cui gli stessi pneumatici sono sottoposti prima di poter procedere con la produzione in serie. I ragazzi hanno scoperto così, affascinati, che un pneumatico non è solo tondo e nero ma che le sue componenti, miscelate in maniera diversa con un sapiente lavoro artigianale, danno vita a prodotti con caratteristiche e prestazioni differenti. Fondazione Pirelli ha inoltre accompagnato i ragazzi più grandi all’interno di luoghi solitamente chiusi al pubblico: il Polo Industriale di Settimo Torinese,  lo stabilimento tecnologicamente più avanzato di Pirelli con la “Spina” di servizi progettata dall’architetto Renzo Piano, e ancora l’impianto di produzione robotizzata Next MIRS di Milano Bicocca. Un modo unico e concreto per avvicinare anche i più giovani al mondo della fabbrica e del lavoro.

Da segnalare inoltre il successo del corso di formazione e aggiornamento per docenti Cinema & Storia organizzato in collaborazione con Fondazione Isec e Fondazione Cineteca Italiana, dedicato quest’anno al tema della World History: oltre l’Eurocentrismo”. Il corso, riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ha visto la partecipazione di 120 professori delle scuole primarie e secondarie e di circa 180 ragazzi che hanno assistito alle due proiezioni rivolte agli studenti.

L’estate sta per iniziare ma i nostri progetti non si fermano qui!

Vi aspettiamo a settembre per la presentazione dei nuovi programmi per l’anno scolastico 2017-2018.

Il progamma Educational per l’anno scolastico 2016-2017 è stato denso di novità e ha raccolto l’entusiasmo di molti bambini e ragazzi. Da settembre a giugno infatti oltre 3000 studenti di 120 classi provenienti dalla Lombardia e da altre regioni italiane hanno visitato l’Archivio Storico Pirelli e partecipato ai laboratori creativi e formativi.

Tra i quasi 40 percorsi proposti, i più richiesti sono stati quelli dedicati ai temi della sostenibilità, che ha incluso la visita alla mostra in corso in Fondazione Pirelli, la cultura sostenibile, della grafica pubblicitaria e della sicurezza stradale. Bambini e ragazzi hanno messo in gioco tutta la loro creatività e capacità progettuale nel realizzare plastici di stabilimenti produttivi del futuro, bozzetti di pubblicità, brevi filmati in stop motion e ancora fumetti e progetti per nuovi battistrada degli pneumatici, mettendo così in pratica quanto imparato durante la parte teorica dei percorsi.

Diverse classi delle scuole secondarie di primo e secondo grado hanno avuto l’occasione di visitare i laboratori chimici e il dipartimento di Ricerca e Sviluppo di Pirelli dove i ragazzi hanno potuto vedere l’organizzazione di un moderno laboratorio scientifico e, passo dopo passo, le fasi di realizzazione dei prototopi dei nuovi pneumatici e i numerosi test a cui gli stessi pneumatici sono sottoposti prima di poter procedere con la produzione in serie. I ragazzi hanno scoperto così, affascinati, che un pneumatico non è solo tondo e nero ma che le sue componenti, miscelate in maniera diversa con un sapiente lavoro artigianale, danno vita a prodotti con caratteristiche e prestazioni differenti. Fondazione Pirelli ha inoltre accompagnato i ragazzi più grandi all’interno di luoghi solitamente chiusi al pubblico: il Polo Industriale di Settimo Torinese,  lo stabilimento tecnologicamente più avanzato di Pirelli con la “Spina” di servizi progettata dall’architetto Renzo Piano, e ancora l’impianto di produzione robotizzata Next MIRS di Milano Bicocca. Un modo unico e concreto per avvicinare anche i più giovani al mondo della fabbrica e del lavoro.

Da segnalare inoltre il successo del corso di formazione e aggiornamento per docenti Cinema & Storia organizzato in collaborazione con Fondazione Isec e Fondazione Cineteca Italiana, dedicato quest’anno al tema della World History: oltre l’Eurocentrismo”. Il corso, riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ha visto la partecipazione di 120 professori delle scuole primarie e secondarie e di circa 180 ragazzi che hanno assistito alle due proiezioni rivolte agli studenti.

L’estate sta per iniziare ma i nostri progetti non si fermano qui!

Vi aspettiamo a settembre per la presentazione dei nuovi programmi per l’anno scolastico 2017-2018.

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Il 10 giugno del 1907, al via la Pechino-Parigi

Tutto ebbe inizio il 31 gennaio 1907 con un annuncio sul quotidiano francese “Le Matin”:”:

«Quello che dobbiamo dimostrare oggi è che dal momento che l’uomo ha l’automobile, egli può fare qualunque cosa ed andare dovunque. C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?»

Qualcuno evidentemente accettò la sfida, perchè il 10 giugno 1907 alle ore 8 partì la gara la più prestigiosa dell’epoca, la Pechino – Parigi, diciassettemila chilometri da percorrere su strade spesso sconnesse, difficili, impervie. A capeggiare il team italiano il principe Scipione Borghese, che richiese subito pneumatici Pirelli per la sua potente Itala. Li ottenne. Al suo fianco, il giornalista del “Corriere della Sera” Luigi Barzini e il meccanico Ettore Guizzardi. La loro vittoria due mesi dopo con l’arrivo a Parigi entrerà nella leggenda. E così i pneumatici Pirelli, che tanto contribuirono al successo dell’impresa diventarono subito celebri in tutto il mondo.

Nel diario di viaggio “La metà del mondo vista da un’automobile da Pechino a Parigi in 60 giorni” Luigi Barzini ricorderà così quella prima entusiasmante giornata di gara:

«…È l’ora. I conducenti e i meccanici raggiungono le loro vetture. I motori rombano, e dai tubi di scarico si spandono dense nubi di fumo. La voce della folla si leva. Molti ufficiali che sono venuti a cavallo saltano in sella. Cento macchine fotografiche oscillano sulle teste in cerca della mira. Noi italiani corriamo a issarci di nuovo sull’Itala che palpita e sussulta quasi impaziente di prendere la fuga […]. Le automobili sono ferme si aspetta il segnale […] Una elegante signora, M.me Boissonnas, moglie del primo segretario della Legazione francese, assume con grazia l’incarico di starter.

Essa solleva la bandiera.

Segue un istante di silenzio nella moltitudine, durante il quale non si ode che la voce dei motori. Il fumo a tratti ci circonda e ci isola.

La bandiera si abbassa.

Scoppia un fragore di petardi e di mortari. Ci muoviamo in mezzo a questo rumore di battaglia. Partiamo. Siamo partiti.

[…] E sulla strada, mantenuta sgombra dai soldati cinesi, fra due ali di popolo muto, non rimangono che le cinque automobili, inseguentesi attraverso la Capitale dell’Impero Celeste ad una velocità che non vi fu mai vista, e che forse non si vedrà mai più.»

Tutto ebbe inizio il 31 gennaio 1907 con un annuncio sul quotidiano francese “Le Matin”:”:

«Quello che dobbiamo dimostrare oggi è che dal momento che l’uomo ha l’automobile, egli può fare qualunque cosa ed andare dovunque. C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?»

Qualcuno evidentemente accettò la sfida, perchè il 10 giugno 1907 alle ore 8 partì la gara la più prestigiosa dell’epoca, la Pechino – Parigi, diciassettemila chilometri da percorrere su strade spesso sconnesse, difficili, impervie. A capeggiare il team italiano il principe Scipione Borghese, che richiese subito pneumatici Pirelli per la sua potente Itala. Li ottenne. Al suo fianco, il giornalista del “Corriere della Sera” Luigi Barzini e il meccanico Ettore Guizzardi. La loro vittoria due mesi dopo con l’arrivo a Parigi entrerà nella leggenda. E così i pneumatici Pirelli, che tanto contribuirono al successo dell’impresa diventarono subito celebri in tutto il mondo.

Nel diario di viaggio “La metà del mondo vista da un’automobile da Pechino a Parigi in 60 giorni” Luigi Barzini ricorderà così quella prima entusiasmante giornata di gara:

«…È l’ora. I conducenti e i meccanici raggiungono le loro vetture. I motori rombano, e dai tubi di scarico si spandono dense nubi di fumo. La voce della folla si leva. Molti ufficiali che sono venuti a cavallo saltano in sella. Cento macchine fotografiche oscillano sulle teste in cerca della mira. Noi italiani corriamo a issarci di nuovo sull’Itala che palpita e sussulta quasi impaziente di prendere la fuga […]. Le automobili sono ferme si aspetta il segnale […] Una elegante signora, M.me Boissonnas, moglie del primo segretario della Legazione francese, assume con grazia l’incarico di starter.

Essa solleva la bandiera.

Segue un istante di silenzio nella moltitudine, durante il quale non si ode che la voce dei motori. Il fumo a tratti ci circonda e ci isola.

La bandiera si abbassa.

Scoppia un fragore di petardi e di mortari. Ci muoviamo in mezzo a questo rumore di battaglia. Partiamo. Siamo partiti.

[…] E sulla strada, mantenuta sgombra dai soldati cinesi, fra due ali di popolo muto, non rimangono che le cinque automobili, inseguentesi attraverso la Capitale dell’Impero Celeste ad una velocità che non vi fu mai vista, e che forse non si vedrà mai più.»

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Raccontare la cultura della marca

Una ricerca interpreta il tema della comunicazione e del racconto d’impresa con gli strumenti dell’analisi del significato

Il racconto del produrre fa parte dell’impresa. Narrazione di uomini e di cose, il raccontare come sono nati un’organizzazione della produzione oppure un prodotto, è non solo espressione culturale ma anche – di fatto ormai -, più di uno strumento di promozione commerciale oltre che espressione dell’immagine che l’impresa vuole dare.

E’ anche su questa base che Elia Bozzato ha costruito il proprio lavoro di ricerca. In particolare mettendo l’uno in fila all’altro gli aspetti della tecnica narrativa con quelli della produzione e della marca industriale. Spiega Bozzato nelle prime righe del suo lavoro: “Da un certo momento in poi non è più stato possibile generare fidelizzazione con il solo pubblicizzare quello che si produceva, ma è divenuto necessario dover comunicare la propria identità e i propri valori come gruppo, come singolo o come corporation, e raccontarsi”. E’ da qui che è nato il moderno raccontarsi d’impresa. In varie forme e scansioni. Che Bozzato analizza nella sue ultime evoluzioni sintetizzate nel concetto di brand storytelling cioè del racconto della marca vista come elemento identitario dell’impresa, sintesi, centro, “succo” del particolare suo modo di intendere la produzione e quindi della sua cultura del produrre.

Bozzato quindi inizia con un approfondimento del brand storytelling per passare poi alle influenze derivanti dall’attuale contesto fatto di organizzazione sociale e nuovi strumenti di comunicazione, per arrivare quindi alla analisi della narrazione e alla sua interpretazione con gli strumenti della semiotica.

Spiega l’autore prima di affrontare gli schemi semiotici utilizzabili per interpretare il brand storytelling: “Oggi, il mondo di marca non si costruisce più soltanto su un logo e sull’immagine coordinata, o su una storia raccontata nei 30 secondi di uno spot, o sui banner stampati; esso emerge da un insieme intrinseco e corale di vari elementi, caratterizzati da diversi formati e composti da diversi messaggi coordinati, veicolati su differenti canali. Universi transmediali tutto intorno a noi, le narrazioni ci sono ancora, solo che è più difficile distinguerle, ci parlano con un efficacia e un coinvolgimento sempre più forte e con delle tecnologie sempre più stupefacenti e pervasive”. Fascinosa tecnologia della comunicazione, dunque, ma anche forte mutamento dell’immagine d’impresa, fanno parte di un insieme complesso fatto di narrazione, comunicazione, marketing, prodotto e impresa che Bozzato cerca di interpretare riuscendo a fornire strumenti utili per tutti.

Il lavoro che scaturisce da tutto questo, non è sempre di facile lettura ma vale la fatica di arrivare fino in fondo.

Storytelling Storyshowing. Analisi sperimentale della comunicazione di marca attraverso l’occhio semiotico

Elia Bozzato

Politecnico di Milano Scuola di Design Design della Comunicazione

Una ricerca interpreta il tema della comunicazione e del racconto d’impresa con gli strumenti dell’analisi del significato

Il racconto del produrre fa parte dell’impresa. Narrazione di uomini e di cose, il raccontare come sono nati un’organizzazione della produzione oppure un prodotto, è non solo espressione culturale ma anche – di fatto ormai -, più di uno strumento di promozione commerciale oltre che espressione dell’immagine che l’impresa vuole dare.

E’ anche su questa base che Elia Bozzato ha costruito il proprio lavoro di ricerca. In particolare mettendo l’uno in fila all’altro gli aspetti della tecnica narrativa con quelli della produzione e della marca industriale. Spiega Bozzato nelle prime righe del suo lavoro: “Da un certo momento in poi non è più stato possibile generare fidelizzazione con il solo pubblicizzare quello che si produceva, ma è divenuto necessario dover comunicare la propria identità e i propri valori come gruppo, come singolo o come corporation, e raccontarsi”. E’ da qui che è nato il moderno raccontarsi d’impresa. In varie forme e scansioni. Che Bozzato analizza nella sue ultime evoluzioni sintetizzate nel concetto di brand storytelling cioè del racconto della marca vista come elemento identitario dell’impresa, sintesi, centro, “succo” del particolare suo modo di intendere la produzione e quindi della sua cultura del produrre.

Bozzato quindi inizia con un approfondimento del brand storytelling per passare poi alle influenze derivanti dall’attuale contesto fatto di organizzazione sociale e nuovi strumenti di comunicazione, per arrivare quindi alla analisi della narrazione e alla sua interpretazione con gli strumenti della semiotica.

Spiega l’autore prima di affrontare gli schemi semiotici utilizzabili per interpretare il brand storytelling: “Oggi, il mondo di marca non si costruisce più soltanto su un logo e sull’immagine coordinata, o su una storia raccontata nei 30 secondi di uno spot, o sui banner stampati; esso emerge da un insieme intrinseco e corale di vari elementi, caratterizzati da diversi formati e composti da diversi messaggi coordinati, veicolati su differenti canali. Universi transmediali tutto intorno a noi, le narrazioni ci sono ancora, solo che è più difficile distinguerle, ci parlano con un efficacia e un coinvolgimento sempre più forte e con delle tecnologie sempre più stupefacenti e pervasive”. Fascinosa tecnologia della comunicazione, dunque, ma anche forte mutamento dell’immagine d’impresa, fanno parte di un insieme complesso fatto di narrazione, comunicazione, marketing, prodotto e impresa che Bozzato cerca di interpretare riuscendo a fornire strumenti utili per tutti.

Il lavoro che scaturisce da tutto questo, non è sempre di facile lettura ma vale la fatica di arrivare fino in fondo.

Storytelling Storyshowing. Analisi sperimentale della comunicazione di marca attraverso l’occhio semiotico

Elia Bozzato

Politecnico di Milano Scuola di Design Design della Comunicazione

Cultura d’impresa manageriale

Un libro racconta il percorso che porta i manager  a diventare imprenditori. La teoria e le esperienze di vita di chi ha fatto questa strada

Si può diventare imprenditori percorrendo strade diverse. Individuarne i percorsi è interessante ma anche importante per comprendere come un sistema economico può uscire da una crisi, evolversi, crescere. Più in generale, il percorso che porta all’imprenditorialità è comunque un’esperienza che va raccontata, magari perché è possibile trarne spunto per altri percorsi simili.

E’ per tutto questo insieme di motivi che è utile leggere “Da manager a imprenditore. Come le startup dei cinquantenni possono far ripartire la nostra economia” scritto a quattro mani da Gian Franco Goeta (che da oltre 20 anni lavora come executive coach, professione di cui è stato precursore in Italia) e Leopoldo Ferré (con una trentennale esperienza nell’accompagnare persone, team e organizzazioni a innovarsi, trasformarsi e migliorare).

I due autori partono in effetti non tanto dall’analisi di singoli casi aziendali ma da uno sguardo d’insieme. Per riprendere la crescita – è la tesi -, l’Italia ha bisogno di generare nei prossimi anni 3 milioni di posti di lavoro. Solo così potrà dare una prospettiva ai suoi giovani e mantenere attivi gli over 55, che entro il 2030 saranno alcuni milioni in più. È immaginabile che le imprese esistenti possano offrire occupazione incrementale in proporzione adeguata, quando negli ultimi decenni hanno drasticamente ridotto i loro ranghi? O che la crescita occupazionale possa essere garantita dal tradizionale deus ex machina, lo Stato, visto il debito accumulato? La risposta è no. Secondo gli autori, appunto, il problema può essere risolto solo dal moltiplicarsi di nuove iniziative imprenditoriali. Anche e forse soprattutto di chi prima era manager.

Il libro quindi si concentra su questa nuova classe imprenditoriale, portatrice di esperienze e competenze importanti e molto diversa dalle precedenti.

Partendo dalle proprie esperienze, i due autori si pongono l’obiettivo di aiutare a fare in modo che il passaggio da manager a imprenditori “non sia un salto nel vuoto, ma un percorso sistematico che rafforzi la consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti, aumenti le probabilità di successo, costruisca un business sostenibile nel tempo, stimoli ad accrescere le competenze richieste, aiuti a trovare i partner giusti, a muoversi verso i clienti e così via”.

La narrazione inizia con l’immagine suggestiva di un passaggio “dall’imprenditorialità elitaria all’imprenditorialità di massa” per poi guardare i fattori di successo emergenti, il percorso preliminare del neoimprenditore e infine il  modello e il piano di business che è bene adottare. Si passa poi ai racconti di diversi manager  che sono diventati imprenditori per finire con una carrellata di “analisi di esperti” sul fenomeno.

Il libro di Goeta e Ferré è da leggere con attenzione e senso vigile. Uno strumento per comprendere una realtà molto diversa dal passato.

Da manager a imprenditore. Come le start-up dei cinquantenni possono far ripartire la nostra economia

Gian Franco Goeta, Leopoldo Ferré

Franco Angeli, 2017

Un libro racconta il percorso che porta i manager  a diventare imprenditori. La teoria e le esperienze di vita di chi ha fatto questa strada

Si può diventare imprenditori percorrendo strade diverse. Individuarne i percorsi è interessante ma anche importante per comprendere come un sistema economico può uscire da una crisi, evolversi, crescere. Più in generale, il percorso che porta all’imprenditorialità è comunque un’esperienza che va raccontata, magari perché è possibile trarne spunto per altri percorsi simili.

E’ per tutto questo insieme di motivi che è utile leggere “Da manager a imprenditore. Come le startup dei cinquantenni possono far ripartire la nostra economia” scritto a quattro mani da Gian Franco Goeta (che da oltre 20 anni lavora come executive coach, professione di cui è stato precursore in Italia) e Leopoldo Ferré (con una trentennale esperienza nell’accompagnare persone, team e organizzazioni a innovarsi, trasformarsi e migliorare).

I due autori partono in effetti non tanto dall’analisi di singoli casi aziendali ma da uno sguardo d’insieme. Per riprendere la crescita – è la tesi -, l’Italia ha bisogno di generare nei prossimi anni 3 milioni di posti di lavoro. Solo così potrà dare una prospettiva ai suoi giovani e mantenere attivi gli over 55, che entro il 2030 saranno alcuni milioni in più. È immaginabile che le imprese esistenti possano offrire occupazione incrementale in proporzione adeguata, quando negli ultimi decenni hanno drasticamente ridotto i loro ranghi? O che la crescita occupazionale possa essere garantita dal tradizionale deus ex machina, lo Stato, visto il debito accumulato? La risposta è no. Secondo gli autori, appunto, il problema può essere risolto solo dal moltiplicarsi di nuove iniziative imprenditoriali. Anche e forse soprattutto di chi prima era manager.

Il libro quindi si concentra su questa nuova classe imprenditoriale, portatrice di esperienze e competenze importanti e molto diversa dalle precedenti.

Partendo dalle proprie esperienze, i due autori si pongono l’obiettivo di aiutare a fare in modo che il passaggio da manager a imprenditori “non sia un salto nel vuoto, ma un percorso sistematico che rafforzi la consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti, aumenti le probabilità di successo, costruisca un business sostenibile nel tempo, stimoli ad accrescere le competenze richieste, aiuti a trovare i partner giusti, a muoversi verso i clienti e così via”.

La narrazione inizia con l’immagine suggestiva di un passaggio “dall’imprenditorialità elitaria all’imprenditorialità di massa” per poi guardare i fattori di successo emergenti, il percorso preliminare del neoimprenditore e infine il  modello e il piano di business che è bene adottare. Si passa poi ai racconti di diversi manager  che sono diventati imprenditori per finire con una carrellata di “analisi di esperti” sul fenomeno.

Il libro di Goeta e Ferré è da leggere con attenzione e senso vigile. Uno strumento per comprendere una realtà molto diversa dal passato.

Da manager a imprenditore. Come le start-up dei cinquantenni possono far ripartire la nostra economia

Gian Franco Goeta, Leopoldo Ferré

Franco Angeli, 2017

Quale differenza tra imprenditori e speculatori? Le sfide di Papa Francesco e la rilettura di Zola

Economia per fare soldi, “scienza triste” tutta costruita sulla dinamica dei “profitti”, sempre e a ogni costo. Ed economia, invece, come motore dell’attività, della creatività, dello sviluppo. Il denaro. E l’impresa, luogo che crea ricchezza, certo, ma anche lavoro e, in molti casi, coesione sociale. Economia d’impresa, insomma, come comunità, secondo la lezione, tutta italiana, dei suoi migliori imprenditori, dall’Olivetti di Camillo e Adriano alla Pirelli. La discussione economica gira da tempo attorno a queste diverse concezioni. Non antinomie, anche se spesso vissute come tali. Ma polarità animate da spirito e da valori diversi. Su cui riscoprire e costruire originali convergenze.

L’ultima sfida viene da un recente discorso di Papa Francesco, che ha fatto molto dibattere economisti, personalità della cultura, imprenditori. Economia, appunto. Ed etica. Dimensioni dell’attività umana in profonda relazione.

Parlando a Genova, a Cornigliano (27 maggio), davanti ai padiglioni d’una acciaieria oramai in gran parte non più attiva, Papa Bergoglio è stato molto netto: “Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù chiama mercenario. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli creano alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per il suo profitto”. Sono parole forti. Ma non improvvise né inusuali.

Nella sua “Evangelii gaudium” (la prima esortazione apostolica del pontificato, nel novembre 2013), il Papa aveva già indicato quattro figure negative della globalizzazione economica: la negazione dell’umano attraverso l’affermazione dell’idolo del denaro; il consumismo sfrenato che riduce l’essere e la sua relazione sociale alla figura di produttore e consumatore; l’economia dell’esclusione che riduce la figura umana a una funzione, scartabile quando non necessaria; l’ideologia dell’assoluta autonomia dei mercati. “Ribadire quei temi e riprendere l’etica del lavoro significa per Papa Francesco tentare una risposta a questi mali”, ha commentato Gianfranco Brunelli (Il Sole24Ore 28 maggio).

Il Papa è uomo di sofisticata cultura e di solida esperienza sociale, vissuta anche in territori di controverso andamento economico. Sa cogliere le sfide economiche e morali dei tempi difficili che tutti viviamo. E infatti, alla denuncia contro “lo speculatore” accompagna riflessioni acute sulla responsabilità dell’imprenditore, consapevole che “non c’è buona economia senza buoni imprenditori”. Cita Luigi Einaudi, pensatore liberale, banchiere e politico di gran livello: “Milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante ciò che si fa per ostacolarli. Costituiscono una molla di progresso potente. Ci sono imprenditori che investono ingenti capitali ottenendo utili più modesti di quelli che potrebbero ottenere con la speculazione”. E insiste sulla “dignità del lavoro ben fatto”. Cita l’articolo 1 della Costituzione italiana (il fondamento della Repubblica appunto sul lavoro). E ribadisce che “la dignità del lavoro viene prima del reddito” (insistenza d’attualità, contro le ipotesi del reddito minimo garantito a prescindere dal lavoro). Temi sociali e morali, dunque. Su cui, proprio in tempi di crisi e radicali modifiche degli assetti economici e sociali, vale la pena fermarsi a riflettere. Studiare. Cercare risposte politiche e culturali non banali né facili.

Leggere, aiuta. I classici della letteratura. E le riflessioni contemporanei dei buoni economisti. Uno scrittore come Émile Zola, per esempio. “Il denaro, il letame da cui nasceva l’umanità di domani”. E “avvelenatore e distruttore, fermento di ogni vegetazione sociale”. Sono le ultime pagine de “Il denaro” di Zola, appunto, appena ripubblicato da Sellerio: un poderoso romanzo di 125 anni fa che ha una straordinaria forza d’attualità. Perché il suo protagonista, Aristide Saccard, speculatore finanziario, è un abile e cinico avventuriero ma anche un visionario imprenditore. E le tensioni per l’accumulazione di ricchezza si legano, ieri come oggi, a una controversa ma potente passione di costruire mondi nuovi. Anime torbide. E occhi avidi di futuro. Quel denaro è catena. E motore. Zola ne sa mettere appunto in scena tutte le ambivalenze, descrivendo con grande realismo gli ambienti finanziari della Parigi del Secondo Impero, seconda metà dell’Ottocento, sotto il dominio di Napoleone III, “il piccolo”. Affari, speculazioni, argent, denaro appunto. Da accumulare e consumare, con vitalismo esagerato. L’idea di Saccard è di creare una Banque Universelle. E di lanciarsi nel finanziamento delle ferrovie collegate all’appena costruito Canale di Suez. L’odore dei soldi attira partners spregiudicati. E anima un mondo che ruota attorno a Palazzo Brogniart, la Borsa parigina, affollato da banchieri, parlamentari corrotti, giornalisti di pochi scrupoli, donne ambiziose in cerca d’amanti ricchi, rivoluzionari da salotto. Tutto un giro che si ritroverà, con caratteristiche analoghe, nella Wall Street d’un secolo dopo e in altre città in cui il “fare soldi per mezzo di soldi” corromperà mercati e anime. Finanza rapace. Nel racconto di una vera e propria giungla morale, Zola è maestro. E come i veri scrittori, si rivela assolutamente contemporaneo.

Rileggere Zola è dunque utile in tempi di crescente riflessione critica sugli assetti economici, sui rapporti di potere tra finanza e politica, sulle ideologie ma anche sulle regole e sulle pratiche dell’economia di mercato. C’è un’abbondante letteratura sul tema. Tra cui segnalare “Ripensare il capitalismo”, un’antologia di saggi curata per Laterza da Mariana Mazzucato (insegna all’University College di Londra) e da Michael Jacobs, economista, consulente dell’ex primo ministro inglese Gordon Brown. L’idea di fondo è che “un sistema economico più innovativo, sostenibile e inclusivo è possibile, ma richiede cambiamenti radicali nella nostra maniera di interpretare il capitalismo e di concepire le politiche pubbliche”. Il mercato e le culture della competizione pretendono regole chiare, trasparenza nei rapporti economici, più giusti equilibri sociali. Un’etica degli affari. Buone leggi. E migliori rapporti tra “democrazia e capitalismo” (ne scrivono efficacemente Joseph Stiglitz, economista premio Nobel e Colin Crouch, il sofisticato analista critico della “post democrazia”). Un ruolo cardine ce l’ha l’innovazione. Che chiede investimenti pubblici forti in ricerca e formazione del capitale umano, ma anche un’idea lunga del tempo, più ambiziosa e generosa delle passioni “short terms” della speculazione finanziaria e meno schiava della “dittatura” dei profitti immediati.

Innovazione, persone, tempo. Impresa. Lavoro. Rieccoci ai temi di partenza. Temi non “economicistici”. Ma, appunto, sociali. E morali.

Economia per fare soldi, “scienza triste” tutta costruita sulla dinamica dei “profitti”, sempre e a ogni costo. Ed economia, invece, come motore dell’attività, della creatività, dello sviluppo. Il denaro. E l’impresa, luogo che crea ricchezza, certo, ma anche lavoro e, in molti casi, coesione sociale. Economia d’impresa, insomma, come comunità, secondo la lezione, tutta italiana, dei suoi migliori imprenditori, dall’Olivetti di Camillo e Adriano alla Pirelli. La discussione economica gira da tempo attorno a queste diverse concezioni. Non antinomie, anche se spesso vissute come tali. Ma polarità animate da spirito e da valori diversi. Su cui riscoprire e costruire originali convergenze.

L’ultima sfida viene da un recente discorso di Papa Francesco, che ha fatto molto dibattere economisti, personalità della cultura, imprenditori. Economia, appunto. Ed etica. Dimensioni dell’attività umana in profonda relazione.

Parlando a Genova, a Cornigliano (27 maggio), davanti ai padiglioni d’una acciaieria oramai in gran parte non più attiva, Papa Bergoglio è stato molto netto: “Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. Lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù chiama mercenario. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli creano alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per il suo profitto”. Sono parole forti. Ma non improvvise né inusuali.

Nella sua “Evangelii gaudium” (la prima esortazione apostolica del pontificato, nel novembre 2013), il Papa aveva già indicato quattro figure negative della globalizzazione economica: la negazione dell’umano attraverso l’affermazione dell’idolo del denaro; il consumismo sfrenato che riduce l’essere e la sua relazione sociale alla figura di produttore e consumatore; l’economia dell’esclusione che riduce la figura umana a una funzione, scartabile quando non necessaria; l’ideologia dell’assoluta autonomia dei mercati. “Ribadire quei temi e riprendere l’etica del lavoro significa per Papa Francesco tentare una risposta a questi mali”, ha commentato Gianfranco Brunelli (Il Sole24Ore 28 maggio).

Il Papa è uomo di sofisticata cultura e di solida esperienza sociale, vissuta anche in territori di controverso andamento economico. Sa cogliere le sfide economiche e morali dei tempi difficili che tutti viviamo. E infatti, alla denuncia contro “lo speculatore” accompagna riflessioni acute sulla responsabilità dell’imprenditore, consapevole che “non c’è buona economia senza buoni imprenditori”. Cita Luigi Einaudi, pensatore liberale, banchiere e politico di gran livello: “Milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante ciò che si fa per ostacolarli. Costituiscono una molla di progresso potente. Ci sono imprenditori che investono ingenti capitali ottenendo utili più modesti di quelli che potrebbero ottenere con la speculazione”. E insiste sulla “dignità del lavoro ben fatto”. Cita l’articolo 1 della Costituzione italiana (il fondamento della Repubblica appunto sul lavoro). E ribadisce che “la dignità del lavoro viene prima del reddito” (insistenza d’attualità, contro le ipotesi del reddito minimo garantito a prescindere dal lavoro). Temi sociali e morali, dunque. Su cui, proprio in tempi di crisi e radicali modifiche degli assetti economici e sociali, vale la pena fermarsi a riflettere. Studiare. Cercare risposte politiche e culturali non banali né facili.

Leggere, aiuta. I classici della letteratura. E le riflessioni contemporanei dei buoni economisti. Uno scrittore come Émile Zola, per esempio. “Il denaro, il letame da cui nasceva l’umanità di domani”. E “avvelenatore e distruttore, fermento di ogni vegetazione sociale”. Sono le ultime pagine de “Il denaro” di Zola, appunto, appena ripubblicato da Sellerio: un poderoso romanzo di 125 anni fa che ha una straordinaria forza d’attualità. Perché il suo protagonista, Aristide Saccard, speculatore finanziario, è un abile e cinico avventuriero ma anche un visionario imprenditore. E le tensioni per l’accumulazione di ricchezza si legano, ieri come oggi, a una controversa ma potente passione di costruire mondi nuovi. Anime torbide. E occhi avidi di futuro. Quel denaro è catena. E motore. Zola ne sa mettere appunto in scena tutte le ambivalenze, descrivendo con grande realismo gli ambienti finanziari della Parigi del Secondo Impero, seconda metà dell’Ottocento, sotto il dominio di Napoleone III, “il piccolo”. Affari, speculazioni, argent, denaro appunto. Da accumulare e consumare, con vitalismo esagerato. L’idea di Saccard è di creare una Banque Universelle. E di lanciarsi nel finanziamento delle ferrovie collegate all’appena costruito Canale di Suez. L’odore dei soldi attira partners spregiudicati. E anima un mondo che ruota attorno a Palazzo Brogniart, la Borsa parigina, affollato da banchieri, parlamentari corrotti, giornalisti di pochi scrupoli, donne ambiziose in cerca d’amanti ricchi, rivoluzionari da salotto. Tutto un giro che si ritroverà, con caratteristiche analoghe, nella Wall Street d’un secolo dopo e in altre città in cui il “fare soldi per mezzo di soldi” corromperà mercati e anime. Finanza rapace. Nel racconto di una vera e propria giungla morale, Zola è maestro. E come i veri scrittori, si rivela assolutamente contemporaneo.

Rileggere Zola è dunque utile in tempi di crescente riflessione critica sugli assetti economici, sui rapporti di potere tra finanza e politica, sulle ideologie ma anche sulle regole e sulle pratiche dell’economia di mercato. C’è un’abbondante letteratura sul tema. Tra cui segnalare “Ripensare il capitalismo”, un’antologia di saggi curata per Laterza da Mariana Mazzucato (insegna all’University College di Londra) e da Michael Jacobs, economista, consulente dell’ex primo ministro inglese Gordon Brown. L’idea di fondo è che “un sistema economico più innovativo, sostenibile e inclusivo è possibile, ma richiede cambiamenti radicali nella nostra maniera di interpretare il capitalismo e di concepire le politiche pubbliche”. Il mercato e le culture della competizione pretendono regole chiare, trasparenza nei rapporti economici, più giusti equilibri sociali. Un’etica degli affari. Buone leggi. E migliori rapporti tra “democrazia e capitalismo” (ne scrivono efficacemente Joseph Stiglitz, economista premio Nobel e Colin Crouch, il sofisticato analista critico della “post democrazia”). Un ruolo cardine ce l’ha l’innovazione. Che chiede investimenti pubblici forti in ricerca e formazione del capitale umano, ma anche un’idea lunga del tempo, più ambiziosa e generosa delle passioni “short terms” della speculazione finanziaria e meno schiava della “dittatura” dei profitti immediati.

Innovazione, persone, tempo. Impresa. Lavoro. Rieccoci ai temi di partenza. Temi non “economicistici”. Ma, appunto, sociali. E morali.

Il ritorno di MiTo. Tutta la musica secondo natura

Milano e Torino di nuovo in armonia. Settanta concerti in ogni città. Allo stabilimento Pirelli di Settimo la musica sarà quella della fabbrica

A tutta classica. E “MiTo” porta Beethoven in piazza

Nuova cultura del territorio fra impresa, ambiente e società

Una ricerca pubblicata da EWT. Eco Web Town fornisce un esempio interessante  di lettura “globale” di un’area complessa

Impresa e territorio sono una cosa sola. Luoghi della produzione e luoghi del consumo, di fatto, sono componenti di un tutt’uno che non può essere scisso nelle sue parti senza incorrere in approssimazioni spesso fuorvianti.

Per questo i tentativi di leggere la realtà vista nella sua interezza sono sempre importanti e utili. E’ il caso di “Scenari di recupero e manutenzione per il paesaggio produttivo”  studio scritto a più mani che cerca di coniugare l’urbanistica con la pianificazione territoriale e la conservazione del paesaggio in un’area complessa come quella di Torre Annunziata nella quale convivono elementi di grande criticità sociale e paesaggistica con altri di forte insediamento produttivo come l’industria della pasta.

L’indagine deriva dall’esperienza di ricerca del Laboratorio Riuso Riqualificazione e Manutenzione (LRRM) nell’ambito del progetto “La difesa del paesaggio tra conservazione e trasformazione. Economia e bellezza per uno sviluppo sostenibile” ed è stata condotta Paolo F. Biancamano, Donatella Diano e Maria R. Pinto del Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli “Federico II”. Il tema è di quelli classici: il riequilibrio delle relazioni tra spazio fisico, comunità insediata ed economie.

La ricerca quindi prende in considerazione prima gli aspetti teorici del tema territorio-paesaggio, per poi passare alla comprensione del caso specifico di Torre Annunziata del quale vengono studiati gli aspetti ambientali, quelli relativi all’innovazione tecnologica, quelli concernenti la popolazione e le pressioni sociali derivanti, i temi dell’economia e della produzione. Tutto per arrivare ad una analisi complessiva della “vulnerabilità” dell’area di Torre Annunziata.

Scrivono alla fine gli autori: “La sfida prioritaria affrontata dalla ricerca è stata quella di delineare scenari di recupero e manutenzione per antichi contesti produttivi che superino l’orizzonte dello sviluppo legato alla sola crescita economica. L’obiettivo è promuovere un riequilibrio dei sistemi insediativi, basato sulla consapevolezza di valorizzare risorse che, nel passato, hanno coniugato utilità e bellezza”. Cultura del territorio rinnovata, dunque, accanto al recupero di una cultura d’impresa e della tecnologia che possono aiutarsi a vicenda, puntando anche ad una rinascita sociale che sia d’esempio per altre aree.

Il lavoro di Biancamano,Diano e Pinto non è sempre facile da leggere (anche se contiene schemi e immagini molto utili alla comprensione del testo), ma è certamente un buon strumento di comprensione di una particolare realtà.

Scenari di recupero e manutenzione per il paesaggio produttivo

Paolo Franco Biancamano, Donatella Diano, Maria Rita Pinto

EWT. Eco Web Town

Edizioni SUT – Sustainable Urban Transformation, Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara

13, 2017

Una ricerca pubblicata da EWT. Eco Web Town fornisce un esempio interessante  di lettura “globale” di un’area complessa

Impresa e territorio sono una cosa sola. Luoghi della produzione e luoghi del consumo, di fatto, sono componenti di un tutt’uno che non può essere scisso nelle sue parti senza incorrere in approssimazioni spesso fuorvianti.

Per questo i tentativi di leggere la realtà vista nella sua interezza sono sempre importanti e utili. E’ il caso di “Scenari di recupero e manutenzione per il paesaggio produttivo”  studio scritto a più mani che cerca di coniugare l’urbanistica con la pianificazione territoriale e la conservazione del paesaggio in un’area complessa come quella di Torre Annunziata nella quale convivono elementi di grande criticità sociale e paesaggistica con altri di forte insediamento produttivo come l’industria della pasta.

L’indagine deriva dall’esperienza di ricerca del Laboratorio Riuso Riqualificazione e Manutenzione (LRRM) nell’ambito del progetto “La difesa del paesaggio tra conservazione e trasformazione. Economia e bellezza per uno sviluppo sostenibile” ed è stata condotta Paolo F. Biancamano, Donatella Diano e Maria R. Pinto del Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli “Federico II”. Il tema è di quelli classici: il riequilibrio delle relazioni tra spazio fisico, comunità insediata ed economie.

La ricerca quindi prende in considerazione prima gli aspetti teorici del tema territorio-paesaggio, per poi passare alla comprensione del caso specifico di Torre Annunziata del quale vengono studiati gli aspetti ambientali, quelli relativi all’innovazione tecnologica, quelli concernenti la popolazione e le pressioni sociali derivanti, i temi dell’economia e della produzione. Tutto per arrivare ad una analisi complessiva della “vulnerabilità” dell’area di Torre Annunziata.

Scrivono alla fine gli autori: “La sfida prioritaria affrontata dalla ricerca è stata quella di delineare scenari di recupero e manutenzione per antichi contesti produttivi che superino l’orizzonte dello sviluppo legato alla sola crescita economica. L’obiettivo è promuovere un riequilibrio dei sistemi insediativi, basato sulla consapevolezza di valorizzare risorse che, nel passato, hanno coniugato utilità e bellezza”. Cultura del territorio rinnovata, dunque, accanto al recupero di una cultura d’impresa e della tecnologia che possono aiutarsi a vicenda, puntando anche ad una rinascita sociale che sia d’esempio per altre aree.

Il lavoro di Biancamano,Diano e Pinto non è sempre facile da leggere (anche se contiene schemi e immagini molto utili alla comprensione del testo), ma è certamente un buon strumento di comprensione di una particolare realtà.

Scenari di recupero e manutenzione per il paesaggio produttivo

Paolo Franco Biancamano, Donatella Diano, Maria Rita Pinto

EWT. Eco Web Town

Edizioni SUT – Sustainable Urban Transformation, Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara

13, 2017

Dalla fabbrica alla marca

Come i prodotti e i brand vivono da soli e possono condizionare la vita dell’impresa

 

I prodotti spesso hanno vita propria, le marche (i brand), ancora di più. Anzi, nella storia dell’industria è accaduto molte volte che la fabbrica stessa, l’impresa, il luogo di produzione siano rimasti noti nelle mente dei consumatori non per l’eccellenza dell’organizzazione oppure per il nome dell’imprenditore che ha ideato il tutto, ma per l’immagine e la natura del prodotto al quale hanno dato “vita”. Tanto che attorno al concetto di marca si è costruito un mondo – di studi e di pratica -, che va esplorato e compreso.

E’ quanto fanno Bernard Cova (Full Professor alla Kedge Business School di Marsiglia e Visiting Professor presso l’Università Bocconi di Milano), Gregorio Fuschillo (Assistant Professor alla Kedge Business School di Marsiglia) insieme a Stefano Pace  (Associate Professor sempre alla Kedge Business School di Marsiglia). Il loro “Le marche siamo noi. Navigare nella cultura del consumo” è una bella lettura per comprendere quanto prodotti e brand possono staccarsi dalle loro origine per, appunto, vivere di vita propria.

L’assunto di partenza dei tre studiosi è semplice: occorre considerare i brand come entità sociali, creati dalle imprese e fatti vivere dai consumatori nella società. In questo modo sarà possibile comprendere meglio il nuovo rapporto fra imprese e mercato.

Per dimostrare questa tesi, i tre hanno articolato il libro in tre parti.

Nella prima viene mostrato come l’azione dei consumatori trasformi marche e oggetti di consumo in risorse culturali, sociali e identitarie. La seconda parte racconta le marche come strumenti di mediazione fra persone. Tanto da arrivare a poter dire come le vite dei consumatori diventino “brandizzate” non, come in passato, per la ricerca di uno status, ma perché il brand è un ponte per stabilire legami sociali. Gli autori fanno capire questo  concetto con casi di “vita sociale di marca” come quelli di Alfa Romeo, Apple, Barilla, Decathlon, Ducati, Google, Lego, Nutella, La Scala, Star Trek, Tough Mudder. Ma non basta, perché la marca usata come strumento per creare rapporti sociali, arriva anche a definire pratiche sociali nuove come i brand verb, brand days, brand surfeits, brand volunteers.
Ma la storia non finisce qui. Perché anche la marca, il brand  corre dei rischi che vengono affrontati nella terza parte del volume. Ai tempi del web e della digitalizzazione, così come di un’economia sempre più veloce, è ormai palese la forza del consumatore capace di generare e diffondere significati che possono diventare dirompenti, dirottando il senso della marca, inserendola in tensioni più ampie e determinando una brand crisis. Situazione anche improvvise, alle quali le imprese devono stare molto attente.

Il volume di Cova, Fuschillo e Pace è interessante da leggere, e pone ragionamenti che ogni manager, cosi come ogni imprenditore, dovrebbe fare.
Le marche siamo noi. Navigare nella cultura del consumo

Bernard Cova, Gregorio Fuschillo, Stefano Pace

Franco Angeli, 2017

Come i prodotti e i brand vivono da soli e possono condizionare la vita dell’impresa

 

I prodotti spesso hanno vita propria, le marche (i brand), ancora di più. Anzi, nella storia dell’industria è accaduto molte volte che la fabbrica stessa, l’impresa, il luogo di produzione siano rimasti noti nelle mente dei consumatori non per l’eccellenza dell’organizzazione oppure per il nome dell’imprenditore che ha ideato il tutto, ma per l’immagine e la natura del prodotto al quale hanno dato “vita”. Tanto che attorno al concetto di marca si è costruito un mondo – di studi e di pratica -, che va esplorato e compreso.

E’ quanto fanno Bernard Cova (Full Professor alla Kedge Business School di Marsiglia e Visiting Professor presso l’Università Bocconi di Milano), Gregorio Fuschillo (Assistant Professor alla Kedge Business School di Marsiglia) insieme a Stefano Pace  (Associate Professor sempre alla Kedge Business School di Marsiglia). Il loro “Le marche siamo noi. Navigare nella cultura del consumo” è una bella lettura per comprendere quanto prodotti e brand possono staccarsi dalle loro origine per, appunto, vivere di vita propria.

L’assunto di partenza dei tre studiosi è semplice: occorre considerare i brand come entità sociali, creati dalle imprese e fatti vivere dai consumatori nella società. In questo modo sarà possibile comprendere meglio il nuovo rapporto fra imprese e mercato.

Per dimostrare questa tesi, i tre hanno articolato il libro in tre parti.

Nella prima viene mostrato come l’azione dei consumatori trasformi marche e oggetti di consumo in risorse culturali, sociali e identitarie. La seconda parte racconta le marche come strumenti di mediazione fra persone. Tanto da arrivare a poter dire come le vite dei consumatori diventino “brandizzate” non, come in passato, per la ricerca di uno status, ma perché il brand è un ponte per stabilire legami sociali. Gli autori fanno capire questo  concetto con casi di “vita sociale di marca” come quelli di Alfa Romeo, Apple, Barilla, Decathlon, Ducati, Google, Lego, Nutella, La Scala, Star Trek, Tough Mudder. Ma non basta, perché la marca usata come strumento per creare rapporti sociali, arriva anche a definire pratiche sociali nuove come i brand verb, brand days, brand surfeits, brand volunteers.
Ma la storia non finisce qui. Perché anche la marca, il brand  corre dei rischi che vengono affrontati nella terza parte del volume. Ai tempi del web e della digitalizzazione, così come di un’economia sempre più veloce, è ormai palese la forza del consumatore capace di generare e diffondere significati che possono diventare dirompenti, dirottando il senso della marca, inserendola in tensioni più ampie e determinando una brand crisis. Situazione anche improvvise, alle quali le imprese devono stare molto attente.

Il volume di Cova, Fuschillo e Pace è interessante da leggere, e pone ragionamenti che ogni manager, cosi come ogni imprenditore, dovrebbe fare.
Le marche siamo noi. Navigare nella cultura del consumo

Bernard Cova, Gregorio Fuschillo, Stefano Pace

Franco Angeli, 2017

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?