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Cultura d’impresa in viaggio

Un libro racconta la storia di un’icona del Bel Paese e del dopoguerra – gli autogrill – facendone un esempio di bella idea imprenditoriale realizzata

L’idea alla base di tutto. E poi il coraggio e la capacità di renderla impresa. A ben vedere è questo il succo vero dell’essere imprenditore ma anche manager a tutto tondo. Ed è questo il contenuto di molte storie d’impresa. Come quella dell’area di ristoro Numero 1, a Novara sull’autostrada Torino-Milano, che Mario Pavesi costruì pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e che divenne un’icona della ripresa economica oltre che di un nuovo modo di pensare il viaggio, l’approccio al cliente, la modalità stessa di vendita di una serie corposa di prodotti. Tutto, adesso, è stato raccontato in “Novara: la prima area di ristoro autostradale”, scritto da Giuseppe Romano (giornalista e attento osservatore dei nuovi strumenti di comunicazione) e appena pubblicato.

Alla base di questa storia d’impresa c’è naturalmente un’idea semplice: in autostrada era importante rendere un servizio non soltanto all’automobile, ma anzitutto all’automobilista. E’ da qui che, appunto, nel ’47 Mario Pavesi (il padre dei “Pavesini”), progetta di costruire un luogo di ristoro sul bordo dell’autostrada Torino-Milano. Primo esempio di ciò che oltreoceano era già cosa diffusa. Quei punti di ristoro sarebbero diventati in breve tempo una parte importante non soltanto del panorama, ma soprattutto della cultura nazionale: insieme alla televisione e ai supermercati, i viaggi e le soste hanno contribuito in maniera consistente a educare il gusto e le abitudini degli italiani.
Il libro racconta il percorso d’impresa effettuato per arrivare  dal ’47 ad oggi. Soprattutto però, racconta la qualità e la profonda cultura produttiva che hanno caratterizzato questo cammino. Di mezzo, infatti, anche grandi nomi dell’architettura del dopoguerra oltre alla cura del dettaglio, dell’immagine, della presentazione di un prodotto. Come l’architetto Angelo Bianchetti, che progettò e successivamente ampliò la struttura di Novara. Che oggi è passata di mano finendo al Gruppo Cremonini ma che soprattutto ha accompagnato la crescita italiana cambiando man mano che cambiavano i  frequentatori.

Attenzione al prodotto dunque, ma anche al mercato e a chi lo popola, accortezza del dettaglio, finezza dell’immagine. Tutto è raccontato nel libro di Romano che ad un certo punto descrive l’imprenditore (Pavesi in questo caso) come uno “che legge oggi il giornale di domani”.  Immagine che vale per molti altri che hanno fatto ricca la storia industriale nazionale.

Novara: la prima area di ristoro autostradale

Giuseppe Romano

Franco Angeli, 2017

Un libro racconta la storia di un’icona del Bel Paese e del dopoguerra – gli autogrill – facendone un esempio di bella idea imprenditoriale realizzata

L’idea alla base di tutto. E poi il coraggio e la capacità di renderla impresa. A ben vedere è questo il succo vero dell’essere imprenditore ma anche manager a tutto tondo. Ed è questo il contenuto di molte storie d’impresa. Come quella dell’area di ristoro Numero 1, a Novara sull’autostrada Torino-Milano, che Mario Pavesi costruì pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e che divenne un’icona della ripresa economica oltre che di un nuovo modo di pensare il viaggio, l’approccio al cliente, la modalità stessa di vendita di una serie corposa di prodotti. Tutto, adesso, è stato raccontato in “Novara: la prima area di ristoro autostradale”, scritto da Giuseppe Romano (giornalista e attento osservatore dei nuovi strumenti di comunicazione) e appena pubblicato.

Alla base di questa storia d’impresa c’è naturalmente un’idea semplice: in autostrada era importante rendere un servizio non soltanto all’automobile, ma anzitutto all’automobilista. E’ da qui che, appunto, nel ’47 Mario Pavesi (il padre dei “Pavesini”), progetta di costruire un luogo di ristoro sul bordo dell’autostrada Torino-Milano. Primo esempio di ciò che oltreoceano era già cosa diffusa. Quei punti di ristoro sarebbero diventati in breve tempo una parte importante non soltanto del panorama, ma soprattutto della cultura nazionale: insieme alla televisione e ai supermercati, i viaggi e le soste hanno contribuito in maniera consistente a educare il gusto e le abitudini degli italiani.
Il libro racconta il percorso d’impresa effettuato per arrivare  dal ’47 ad oggi. Soprattutto però, racconta la qualità e la profonda cultura produttiva che hanno caratterizzato questo cammino. Di mezzo, infatti, anche grandi nomi dell’architettura del dopoguerra oltre alla cura del dettaglio, dell’immagine, della presentazione di un prodotto. Come l’architetto Angelo Bianchetti, che progettò e successivamente ampliò la struttura di Novara. Che oggi è passata di mano finendo al Gruppo Cremonini ma che soprattutto ha accompagnato la crescita italiana cambiando man mano che cambiavano i  frequentatori.

Attenzione al prodotto dunque, ma anche al mercato e a chi lo popola, accortezza del dettaglio, finezza dell’immagine. Tutto è raccontato nel libro di Romano che ad un certo punto descrive l’imprenditore (Pavesi in questo caso) come uno “che legge oggi il giornale di domani”.  Immagine che vale per molti altri che hanno fatto ricca la storia industriale nazionale.

Novara: la prima area di ristoro autostradale

Giuseppe Romano

Franco Angeli, 2017

“La Fabbrica tra i ciliegi”. I suoni della fabbrica per Festival MITO SettembreMusica

La musica torna in fabbrica con la nuova edizione del Festival MITO SettembreMusica, quest’anno dal 3 al 21 settembre, consolidando il sodalizio ormai decennale di Pirelli avviato nel 2007 e che si inserisce nel solco delle relazioni tra il mondo delle imprese e quello della cultura, da sempre promosso da Pirelli attraverso la valorizzazione di iniziative in ambito artistico, culturale e di formazione.

Il tema, che quest’anno è dedicato alla Natura, viene declinato nella rielaborazione dei suoni della fabbrica digitale, quella del Polo industriale Pirelli di Settimo Torinese, attraverso la realizzazione dell’opera Il Canto della Fabbrica, composizione commissionata dalla Fondazione Pirelli al compositore e violista Francesco Fiore e appositamente pensata per il violino del maestro Salvatore Accardo accompagnato dall’Orchestra da Camera Italiana del maestro e  con il violino di Laura Gorna, a eseguirne le prime assolute nell’ambito del Festival MIT con i due concerti, a Milano e a Torino,dal titolo “La Fabbrica tra i ciliegi”.

Due gli appuntamenti: il primo a Milano il 7 settembre presso il modificare Il Teatro Studio Melato  il secondo l’8 settembre  all’interno della fabbrica Pirelli di Settimo Torinese. Si conferma così il legame tra i luoghi del lavoro e quelli della musica, esperienza già avvenuta in passato, come una delle espressioni di quell’umanesimo industriale che storicamente contraddistingue Pirelli.

La collaborazione con il Festival ha infatti inizio nel 2007. Con l’edizione 2010 del Festival, la musica entra in fabbrica: il vecchio stabilimento di Settimo Torinese ospita “I Fiati di Torino”, dall’Orchestra Sinfonica della RAI torinese, per una performance sulle note di Mozart, Bach e Beethoven, Berio e Gabrieli, Saglietti e Stravinskij davanti a una platea di oltre quattrocento persone.

Dopo il successo di questa edizione, nel 2011 musicisti tornano in fabbrica: questa volta l’orchestra “I Pomeriggi Musicali”, diretta dal maestro Luca Pfaff, nei rinnovati spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Il programma prevede l’esecuzione di brani di  Darius Milhaud,  suite dal balletto “Le boeuf sur le toit”, Artur Honegger,  “Pastoral d’été”, Manuel De Falla, suite dal balletto “El Amor Brujo”, Igor  Stravinskij, “Suite per piccola orchestra n° 1 e n° 2 “.

Nel settembre 2014 è invece l’Orchestra Filarmonica di Torino a esibirsi negli spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. I musicisti diretti da Micha Hamel eseguono la “Sinfonia n.1 in Do maggiore op. 21” e la “Sinfonia n.7 in La maggiore op. 92” di Ludwig van Beethoven, applauditi da mille persone. Anche per “La Settima a Settimo” tra il pubblico, come sempre, moltissimi dipendenti Pirelli.

Ancora nel 2016 Pirelli ospita all’interno delll’Auditorium dell’edificio HeadQuarters – costruito attorno alla storica torre di raffreddamento dello stabilimento di Milano Bicocca – “I figli di Beethoven”: i musicisti dell’ “Altus Trio” eseguono  il “Trio in Mi bemolle maggiore op. 70 n. 2” di Ludwig van Beethoven e il “Trio in fa maggiore op. 80” di Robert Schumann.

Per l’edizione di quest’anno la fabbrica torna protagonista non solo come quinta scenica ma anche come motivo ispiratore del nuovo brano musicale.

La musica torna in fabbrica con la nuova edizione del Festival MITO SettembreMusica, quest’anno dal 3 al 21 settembre, consolidando il sodalizio ormai decennale di Pirelli avviato nel 2007 e che si inserisce nel solco delle relazioni tra il mondo delle imprese e quello della cultura, da sempre promosso da Pirelli attraverso la valorizzazione di iniziative in ambito artistico, culturale e di formazione.

Il tema, che quest’anno è dedicato alla Natura, viene declinato nella rielaborazione dei suoni della fabbrica digitale, quella del Polo industriale Pirelli di Settimo Torinese, attraverso la realizzazione dell’opera Il Canto della Fabbrica, composizione commissionata dalla Fondazione Pirelli al compositore e violista Francesco Fiore e appositamente pensata per il violino del maestro Salvatore Accardo accompagnato dall’Orchestra da Camera Italiana del maestro e  con il violino di Laura Gorna, a eseguirne le prime assolute nell’ambito del Festival MIT con i due concerti, a Milano e a Torino,dal titolo “La Fabbrica tra i ciliegi”.

Due gli appuntamenti: il primo a Milano il 7 settembre presso il modificare Il Teatro Studio Melato  il secondo l’8 settembre  all’interno della fabbrica Pirelli di Settimo Torinese. Si conferma così il legame tra i luoghi del lavoro e quelli della musica, esperienza già avvenuta in passato, come una delle espressioni di quell’umanesimo industriale che storicamente contraddistingue Pirelli.

La collaborazione con il Festival ha infatti inizio nel 2007. Con l’edizione 2010 del Festival, la musica entra in fabbrica: il vecchio stabilimento di Settimo Torinese ospita “I Fiati di Torino”, dall’Orchestra Sinfonica della RAI torinese, per una performance sulle note di Mozart, Bach e Beethoven, Berio e Gabrieli, Saglietti e Stravinskij davanti a una platea di oltre quattrocento persone.

Dopo il successo di questa edizione, nel 2011 musicisti tornano in fabbrica: questa volta l’orchestra “I Pomeriggi Musicali”, diretta dal maestro Luca Pfaff, nei rinnovati spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. Il programma prevede l’esecuzione di brani di  Darius Milhaud,  suite dal balletto “Le boeuf sur le toit”, Artur Honegger,  “Pastoral d’été”, Manuel De Falla, suite dal balletto “El Amor Brujo”, Igor  Stravinskij, “Suite per piccola orchestra n° 1 e n° 2 “.

Nel settembre 2014 è invece l’Orchestra Filarmonica di Torino a esibirsi negli spazi del Polo Industriale di Settimo Torinese. I musicisti diretti da Micha Hamel eseguono la “Sinfonia n.1 in Do maggiore op. 21” e la “Sinfonia n.7 in La maggiore op. 92” di Ludwig van Beethoven, applauditi da mille persone. Anche per “La Settima a Settimo” tra il pubblico, come sempre, moltissimi dipendenti Pirelli.

Ancora nel 2016 Pirelli ospita all’interno delll’Auditorium dell’edificio HeadQuarters – costruito attorno alla storica torre di raffreddamento dello stabilimento di Milano Bicocca – “I figli di Beethoven”: i musicisti dell’ “Altus Trio” eseguono  il “Trio in Mi bemolle maggiore op. 70 n. 2” di Ludwig van Beethoven e il “Trio in fa maggiore op. 80” di Robert Schumann.

Per l’edizione di quest’anno la fabbrica torna protagonista non solo come quinta scenica ma anche come motivo ispiratore del nuovo brano musicale.

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A 25 anni dalle stragi di Falcone e Borsellino i libri per ricordare che gli affari mafiosi sono un tumore

Ricorrenze. 1992, anno difficile per l’Italia, tra morti per mano di mafia, inizio dello scandalo di “tangentopoli” e, in estate e autunno, gravissima crisi finanziaria che travolge la lira. 25 anni fa, appunto, le stragi in cui morirono i magistrati di punta dell’antimafia, Giovanni Falcone (il 23 maggio) e Paolo Borsellino (il 19 luglio), con le persone delle loro scorte. E oggi, per ricordare, c’è tutta un’intesa attività, tra buoni libri (ne parleremo tra poco) e spettacoli teatrali, iniziative pubbliche e film, ma anche fiction Tv sui difficili anni Ottanta della “guerra di mafia”, come quelle in calendario Rai, su Piersanti Mattarella, presidente della Regione, “un democristiano galantuomo”, assassinato il 6 gennaio 1980 dalla mafia che detestava il suo impegno per “il buon governo”; e su Rocco Chinnici, Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, il creatore del “pool antimafia”, ucciso da un’autobomba del luglio 1983, “Palermo come Beirut”, titolò con terrore e sgomento il quotidiano “L’Ora”. Stanno in quegli anni Ottanta, le radici delle stragi del ‘92. Una ferita da non dimenticare, nella storia d’Italia.

Ricordare, dunque. E fare conoscere bene alle nuove generazioni quei fatti. Eventi. E retroscena. Senza retorica. Conservare la memoria è indispensabile per tenere insieme una comunità, tra istituzioni democratiche e società civile. Ma anche per capire l’attualità. Cronache recenti hanno svelato l’ombra di Matteo Messina Denaro, boss di Cosa Nostra assassino, purtroppo ancora latitante, dietro gli affari dei suoi complici di riciclaggio, perfino nel giro degli appalti legati alla Fiera di Milano. E altri reportage, ben documentati sulla base di indagini di magistratura e forze di polizia, ci dicono che la ‘ndrangheta va sempre più prepotentemente all’assalto, da Milano a Torino, dalla Liguria all’Emilia e al Veneto, di imprese e attività economiche di vario tipo (“Corriere della Sera”, 15 e 16 luglio, sulla conquista mafiosa calabrese di farmacie e grandi posteggi, sin nel centro di Milano), mentre i giovani dell’ultima generazione delle famiglie criminali hanno imparato a usare gli strumenti finanziari più sofisticati per riciclare i miliardi dei traffici illeciti, a cominciare da quelli della droga (“La Stampa”, con articoli, commenti e inchieste, dal 1° luglio in poi). Storia e cronaca, dunque. Mai sottovalutare la potenza eversiva della mafia.

I buoni libri aiutano. Da leggere e fare leggere, come tessuto di coscienza civile. Ma anche di responsabile cultura d’impresa: non ci sono né competitività né sviluppo, senza legalità.

Che libri?  Per esempio, “”Storie di Sangue, Amici e Fantasmi – Ricordi di mafia” di Piero Grasso, Feltrinelli, con prefazione di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica (l’attuale presidente del Senato, magistrato, fu giudice “a latere” del maxiprocesso di Palermo, cominciato nel 1986 e concluso con le severe condanne ai boss e ai killer di Cosa Nostra, confermate dalla Cassazione proprio nel 1992).

Ancora un buon esempio: ”L’agenda ritrovata”, ovvero “Sette racconti per Paolo Borsellino”, una raccolta curata per Feltrinelli da Marco Balzano e Gianni Biondillo, con pagine di Helena Janeczek, Carlo Lucarelli, Vanni Santoni, Alessandro Leogrande, Diego De Silva, Gioacchino Criaco ed Evelina Santangelo. Opere dense di fantasia e richiami di realtà, con un particolare comune: in tutte c’è un’agenda rossa, come quella scomparsa sulla scena dell’attentato di via D’Amelio e in cui Borsellino annotava incontri, intuizioni, tracce investigative, appunti per le indagini. In scena, una giovane magistrato di Como che trova tracce di mafia al Nord e si prepara a raccontarle a Borsellino, un anziano investigatore dei carabinieri che arriva al redde rationem della sua vita sulle montagne della vecchia Africo in Calabria, una ragazza in cerca di ricordi a Castellammare del Golfo, e altro ancora. Tutti alle prese con un diffuso bisogno di etica, legalità, giustizia. Sino all’immaginario colpo di scena finale: “Il ritrovamento dell’agenda rossa metaforicamente è il recupero di una forma di dignità, d’un senso delle cose che finalmente si disvela, di una consapevolezza che un altro mondo, un’altra vita sono più che mai possibili”. Se la memoria vince, la mafia perde. Anche se è altissimo, il prezzo pagato da chi ha difeso la legge e lo Stato, sino a rimetterci la vita.

Lo testimonia Giovanni Bianconi in “L’assedio – Troppi nemici per Giovanni Falcone”, Einaudi. Libro bellissimo, severo, intessuto di fatti e testimonianze. Sono gli ultimi anni del giudice, dopo il successo del maxiprocesso. In tanti lo boicottano, lo ostacolano, lo calunniano, bloccano il suo percorso all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo. E’ un vero e proprio “accerchiamento del magistrato, stretto tra mafiosi, avversari inerni al mondo della magistratura e una classe politica nel migliore dei casi irresponsabile”. Fino al suo isolamento, che “lo trasforma nel bersaglio perfetto per i corleonesi di Totò Riina”.

Intanto la mafia s’è espansa. Cosa Nostra è in difficoltà, dopo i processi e gli arresti dei boss, ma la ‘ndrangheta, come abbiamo visto, si rafforza nelle regioni ricche. Lo dicono le indagini giudiziarie. Lo ricostruisce con competenza Nando dalla Chiesa in “Passaggio al Nord – la colonizzazione mafiosa”, Edizioni Gruppo Abele (di dalla Chiesa vale la pena leggere anche “Una strage semplice”, Melampo, sulla guerra di mafia, dagli anni Ottanta alle stragi del ‘92). Mafia, affari e delitti, riciclaggio di denaro ricavato dai traffici di droga, investimenti. Un tumore, appunto, che rischia di devastare pubblica amministrazione ed economia, anche con l’alto livello di corruzione diffusa. Ma l’opinione pubblica è spesso troppo disattenta, la società civile permeata e più volte complice. La ‘ndrangheta festeggia. E cresce. Va contrastata. Non solo da magistratura e polizia. Ma dai cittadini, dalle persone di cultura, dai politici responsabili, dagli imprenditori e dagli altri attori sociali (lo sottolinea Nicola Gratteri, abile e competente magistrato, nelle pagine di “L’inganno della mafia”, scritto con Antonio Nicaso per Rai-Eri). L’attività antimafia di Assolombarda ne è testimonianza, in difesa delle buone imprese e del mercato. Impegno civile, appunto. Di cui la memoria è parte essenziale.

Un calendario di date da non dimenticare, dal 1950 a oggi, è compitato con cura da Piero Melati, ottimo giornalista, in “Giorni di mafia”, Laterza. Politica, affari, criminalità, per ricostruire “la nostra storia repubblicana anche attraverso le chiavi dei fatti di mafia, perché molti dei nodi irrisolti dell’attualità italiana trovano lì la loro radice”. E’ storia di democrazia, la nostra: confronti e conflitti politici, sociali e culturali composti, pure negli anni più duri, nella cornice del rispetto delle regole costituzionali e istituzionali. Ma è anche storia criminale. La fatica è raccontarne l’intreccio, con competenza ed equilibrio. Melati lo fa bene, partendo dal 1950, la morte del bandito Salvatore Giuliano, in un finto conflitto a fuoco con i carabinieri. Era “separatista”, Giuliano, affascinato dall’idea della Sicilia indipendente. Legato a mafiosi e baroni del latifondo. Protetto da uomini delle istituzioni. Giocato in chiave anticomunista e poi, diventato scomodo dopo la fine del separatismo, abbandonato, tradito. E ucciso. Restano ombre, su quella morte. Così come sulla strage che l’aveva visto protagonista, a Portella delle Ginestre, contro braccianti e contadini in lotta per la riforma agraria (per saperne di più, si può leggere “La vera storia del bandito Giuliano”, scritta del 1959 da uno dei migliori reporter italiani, Tommaso Besozzi, firma di punta de “L’Europeo” e ripubblicata di recente da Milieu, con acuta prefazione di Ferruccio de Bortoli).

Nel libro di Melati si va avanti con altri fatti: gli omicidi dei sindacalisti, la bomba dei “corleonesi” contro il quotidiano “L’Ora” per stroncarne la prima grande inchiesta sulla mafia, la clamorosa pubblicazione de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia (scrittore civile di grande levatura , voce critica sui mali siciliani e nazionali), l’autobomba di Ciaculli nel giugno ‘63 (sette vittime tra uomini delle forze dell’ordine) e la nascita, per reazione, della prima Commissione Parlamentare Antimafia. E poi via via verso tempi recenti: “il Caravaggio rubato”, “la strage di viale Lazio”, “Liggio e il golpe Borghese”, la guerra di mafia con i mille morti tra il 1981 e il 1985, il successo del maxiprocesso, “i pentiti”, le uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino, gli arresti dei boss più sanguinari (Riina, Provenzano), le reazioni antimafia politiche e sociali. Sino a oggi. Mafia ancora attiva. Da conoscere. E non trascurare.

Ricorrenze. 1992, anno difficile per l’Italia, tra morti per mano di mafia, inizio dello scandalo di “tangentopoli” e, in estate e autunno, gravissima crisi finanziaria che travolge la lira. 25 anni fa, appunto, le stragi in cui morirono i magistrati di punta dell’antimafia, Giovanni Falcone (il 23 maggio) e Paolo Borsellino (il 19 luglio), con le persone delle loro scorte. E oggi, per ricordare, c’è tutta un’intesa attività, tra buoni libri (ne parleremo tra poco) e spettacoli teatrali, iniziative pubbliche e film, ma anche fiction Tv sui difficili anni Ottanta della “guerra di mafia”, come quelle in calendario Rai, su Piersanti Mattarella, presidente della Regione, “un democristiano galantuomo”, assassinato il 6 gennaio 1980 dalla mafia che detestava il suo impegno per “il buon governo”; e su Rocco Chinnici, Consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, il creatore del “pool antimafia”, ucciso da un’autobomba del luglio 1983, “Palermo come Beirut”, titolò con terrore e sgomento il quotidiano “L’Ora”. Stanno in quegli anni Ottanta, le radici delle stragi del ‘92. Una ferita da non dimenticare, nella storia d’Italia.

Ricordare, dunque. E fare conoscere bene alle nuove generazioni quei fatti. Eventi. E retroscena. Senza retorica. Conservare la memoria è indispensabile per tenere insieme una comunità, tra istituzioni democratiche e società civile. Ma anche per capire l’attualità. Cronache recenti hanno svelato l’ombra di Matteo Messina Denaro, boss di Cosa Nostra assassino, purtroppo ancora latitante, dietro gli affari dei suoi complici di riciclaggio, perfino nel giro degli appalti legati alla Fiera di Milano. E altri reportage, ben documentati sulla base di indagini di magistratura e forze di polizia, ci dicono che la ‘ndrangheta va sempre più prepotentemente all’assalto, da Milano a Torino, dalla Liguria all’Emilia e al Veneto, di imprese e attività economiche di vario tipo (“Corriere della Sera”, 15 e 16 luglio, sulla conquista mafiosa calabrese di farmacie e grandi posteggi, sin nel centro di Milano), mentre i giovani dell’ultima generazione delle famiglie criminali hanno imparato a usare gli strumenti finanziari più sofisticati per riciclare i miliardi dei traffici illeciti, a cominciare da quelli della droga (“La Stampa”, con articoli, commenti e inchieste, dal 1° luglio in poi). Storia e cronaca, dunque. Mai sottovalutare la potenza eversiva della mafia.

I buoni libri aiutano. Da leggere e fare leggere, come tessuto di coscienza civile. Ma anche di responsabile cultura d’impresa: non ci sono né competitività né sviluppo, senza legalità.

Che libri?  Per esempio, “”Storie di Sangue, Amici e Fantasmi – Ricordi di mafia” di Piero Grasso, Feltrinelli, con prefazione di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica (l’attuale presidente del Senato, magistrato, fu giudice “a latere” del maxiprocesso di Palermo, cominciato nel 1986 e concluso con le severe condanne ai boss e ai killer di Cosa Nostra, confermate dalla Cassazione proprio nel 1992).

Ancora un buon esempio: ”L’agenda ritrovata”, ovvero “Sette racconti per Paolo Borsellino”, una raccolta curata per Feltrinelli da Marco Balzano e Gianni Biondillo, con pagine di Helena Janeczek, Carlo Lucarelli, Vanni Santoni, Alessandro Leogrande, Diego De Silva, Gioacchino Criaco ed Evelina Santangelo. Opere dense di fantasia e richiami di realtà, con un particolare comune: in tutte c’è un’agenda rossa, come quella scomparsa sulla scena dell’attentato di via D’Amelio e in cui Borsellino annotava incontri, intuizioni, tracce investigative, appunti per le indagini. In scena, una giovane magistrato di Como che trova tracce di mafia al Nord e si prepara a raccontarle a Borsellino, un anziano investigatore dei carabinieri che arriva al redde rationem della sua vita sulle montagne della vecchia Africo in Calabria, una ragazza in cerca di ricordi a Castellammare del Golfo, e altro ancora. Tutti alle prese con un diffuso bisogno di etica, legalità, giustizia. Sino all’immaginario colpo di scena finale: “Il ritrovamento dell’agenda rossa metaforicamente è il recupero di una forma di dignità, d’un senso delle cose che finalmente si disvela, di una consapevolezza che un altro mondo, un’altra vita sono più che mai possibili”. Se la memoria vince, la mafia perde. Anche se è altissimo, il prezzo pagato da chi ha difeso la legge e lo Stato, sino a rimetterci la vita.

Lo testimonia Giovanni Bianconi in “L’assedio – Troppi nemici per Giovanni Falcone”, Einaudi. Libro bellissimo, severo, intessuto di fatti e testimonianze. Sono gli ultimi anni del giudice, dopo il successo del maxiprocesso. In tanti lo boicottano, lo ostacolano, lo calunniano, bloccano il suo percorso all’interno del Palazzo di Giustizia di Palermo. E’ un vero e proprio “accerchiamento del magistrato, stretto tra mafiosi, avversari inerni al mondo della magistratura e una classe politica nel migliore dei casi irresponsabile”. Fino al suo isolamento, che “lo trasforma nel bersaglio perfetto per i corleonesi di Totò Riina”.

Intanto la mafia s’è espansa. Cosa Nostra è in difficoltà, dopo i processi e gli arresti dei boss, ma la ‘ndrangheta, come abbiamo visto, si rafforza nelle regioni ricche. Lo dicono le indagini giudiziarie. Lo ricostruisce con competenza Nando dalla Chiesa in “Passaggio al Nord – la colonizzazione mafiosa”, Edizioni Gruppo Abele (di dalla Chiesa vale la pena leggere anche “Una strage semplice”, Melampo, sulla guerra di mafia, dagli anni Ottanta alle stragi del ‘92). Mafia, affari e delitti, riciclaggio di denaro ricavato dai traffici di droga, investimenti. Un tumore, appunto, che rischia di devastare pubblica amministrazione ed economia, anche con l’alto livello di corruzione diffusa. Ma l’opinione pubblica è spesso troppo disattenta, la società civile permeata e più volte complice. La ‘ndrangheta festeggia. E cresce. Va contrastata. Non solo da magistratura e polizia. Ma dai cittadini, dalle persone di cultura, dai politici responsabili, dagli imprenditori e dagli altri attori sociali (lo sottolinea Nicola Gratteri, abile e competente magistrato, nelle pagine di “L’inganno della mafia”, scritto con Antonio Nicaso per Rai-Eri). L’attività antimafia di Assolombarda ne è testimonianza, in difesa delle buone imprese e del mercato. Impegno civile, appunto. Di cui la memoria è parte essenziale.

Un calendario di date da non dimenticare, dal 1950 a oggi, è compitato con cura da Piero Melati, ottimo giornalista, in “Giorni di mafia”, Laterza. Politica, affari, criminalità, per ricostruire “la nostra storia repubblicana anche attraverso le chiavi dei fatti di mafia, perché molti dei nodi irrisolti dell’attualità italiana trovano lì la loro radice”. E’ storia di democrazia, la nostra: confronti e conflitti politici, sociali e culturali composti, pure negli anni più duri, nella cornice del rispetto delle regole costituzionali e istituzionali. Ma è anche storia criminale. La fatica è raccontarne l’intreccio, con competenza ed equilibrio. Melati lo fa bene, partendo dal 1950, la morte del bandito Salvatore Giuliano, in un finto conflitto a fuoco con i carabinieri. Era “separatista”, Giuliano, affascinato dall’idea della Sicilia indipendente. Legato a mafiosi e baroni del latifondo. Protetto da uomini delle istituzioni. Giocato in chiave anticomunista e poi, diventato scomodo dopo la fine del separatismo, abbandonato, tradito. E ucciso. Restano ombre, su quella morte. Così come sulla strage che l’aveva visto protagonista, a Portella delle Ginestre, contro braccianti e contadini in lotta per la riforma agraria (per saperne di più, si può leggere “La vera storia del bandito Giuliano”, scritta del 1959 da uno dei migliori reporter italiani, Tommaso Besozzi, firma di punta de “L’Europeo” e ripubblicata di recente da Milieu, con acuta prefazione di Ferruccio de Bortoli).

Nel libro di Melati si va avanti con altri fatti: gli omicidi dei sindacalisti, la bomba dei “corleonesi” contro il quotidiano “L’Ora” per stroncarne la prima grande inchiesta sulla mafia, la clamorosa pubblicazione de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia (scrittore civile di grande levatura , voce critica sui mali siciliani e nazionali), l’autobomba di Ciaculli nel giugno ‘63 (sette vittime tra uomini delle forze dell’ordine) e la nascita, per reazione, della prima Commissione Parlamentare Antimafia. E poi via via verso tempi recenti: “il Caravaggio rubato”, “la strage di viale Lazio”, “Liggio e il golpe Borghese”, la guerra di mafia con i mille morti tra il 1981 e il 1985, il successo del maxiprocesso, “i pentiti”, le uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino, gli arresti dei boss più sanguinari (Riina, Provenzano), le reazioni antimafia politiche e sociali. Sino a oggi. Mafia ancora attiva. Da conoscere. E non trascurare.

L’impresa che conosce

Quattro saggi riuniti in un unico volume ragionano sui collegamenti fra conoscenza, innovazione e sviluppo

L’impresa è fatta di conoscenza. Certo, c’è l’idea iniziale, il guizzo d’ingegno. Ma poi l’idea va coltivata, fatta crescere, accudita, messa in collegamento con altre. Conoscere è l’elemento cruciale per ogni buon imprenditore e manager. Occorre però comprendere anche attraverso quale percorso arrivare ad una condizione di questo genere. E’ utile a questo proposito leggere “Innovazione e internazionalizzazione. La conoscenza come motore di sviluppo”, appena pubblicato e  curato da Giuseppe Cappiello, che parte da un quesito: come favorire la competitività delle imprese in un territorio? La risposta che viene data è appunto una sola: investire in conoscenza.

Il libro è composto da soli quattro capitoli scritti da specialisti del settore: un primo che inquadra la situazione delle imprese italiane nell’ambito internazionale, un secondo che affronta l’intreccio fra crescita internazionale e innovazione, uno successivo che esamina gli strumenti e disposizione per proteggere l’innovazione e, infine, un quarto capitolo che ragiona sulle politiche pubbliche per l’innovazione. Alla base di tutto, appunto, lo sviluppo della necessità di cura della conoscenza diffusa nel tessuto imprenditoriale quale leva forte per innescare la crescita.

Scritto in maniera sintetica (il testo arriva a circa 150 pagine), il libro ha un’origine importante e unica. A seguito del terremoto che il 6 aprile 2009 ha colpito L’Aquila e i comuni circostanti, alcuni studiosi e manager hanno infatti cercato di comprendere quali fossero gli ingredienti necessari alla ripartenza e allo sviluppo. I ragionamenti condotti in quell’occasione hanno prodotto una proposta ritenuta valida non solo per L’Aquila e l’Abruzzo, ma per tutte le imprese ed i policy maker interessati a fronteggiare la complessità che contraddistingue questi tempi: occorre spingere sulla leva dell’innovazione, provando a proporre il cambiamento piuttosto che subirlo, facendo massa critica di saperi e sentimenti e stabilendo i compiti sulla base dell’inventario esplicito di intelligenze in gioco.

Il libro è appunto la sintesi del metodo nato dalla pratica della ricostruzione di un territorio. Libro “nato sul campo”, dunque. Da leggere e magari applicare in altri territori.

Innovazione e internazionalizzazione. La conoscenza come motore di sviluppo

Giuseppe Cappiello

Egea, 2017

Quattro saggi riuniti in un unico volume ragionano sui collegamenti fra conoscenza, innovazione e sviluppo

L’impresa è fatta di conoscenza. Certo, c’è l’idea iniziale, il guizzo d’ingegno. Ma poi l’idea va coltivata, fatta crescere, accudita, messa in collegamento con altre. Conoscere è l’elemento cruciale per ogni buon imprenditore e manager. Occorre però comprendere anche attraverso quale percorso arrivare ad una condizione di questo genere. E’ utile a questo proposito leggere “Innovazione e internazionalizzazione. La conoscenza come motore di sviluppo”, appena pubblicato e  curato da Giuseppe Cappiello, che parte da un quesito: come favorire la competitività delle imprese in un territorio? La risposta che viene data è appunto una sola: investire in conoscenza.

Il libro è composto da soli quattro capitoli scritti da specialisti del settore: un primo che inquadra la situazione delle imprese italiane nell’ambito internazionale, un secondo che affronta l’intreccio fra crescita internazionale e innovazione, uno successivo che esamina gli strumenti e disposizione per proteggere l’innovazione e, infine, un quarto capitolo che ragiona sulle politiche pubbliche per l’innovazione. Alla base di tutto, appunto, lo sviluppo della necessità di cura della conoscenza diffusa nel tessuto imprenditoriale quale leva forte per innescare la crescita.

Scritto in maniera sintetica (il testo arriva a circa 150 pagine), il libro ha un’origine importante e unica. A seguito del terremoto che il 6 aprile 2009 ha colpito L’Aquila e i comuni circostanti, alcuni studiosi e manager hanno infatti cercato di comprendere quali fossero gli ingredienti necessari alla ripartenza e allo sviluppo. I ragionamenti condotti in quell’occasione hanno prodotto una proposta ritenuta valida non solo per L’Aquila e l’Abruzzo, ma per tutte le imprese ed i policy maker interessati a fronteggiare la complessità che contraddistingue questi tempi: occorre spingere sulla leva dell’innovazione, provando a proporre il cambiamento piuttosto che subirlo, facendo massa critica di saperi e sentimenti e stabilendo i compiti sulla base dell’inventario esplicito di intelligenze in gioco.

Il libro è appunto la sintesi del metodo nato dalla pratica della ricostruzione di un territorio. Libro “nato sul campo”, dunque. Da leggere e magari applicare in altri territori.

Innovazione e internazionalizzazione. La conoscenza come motore di sviluppo

Giuseppe Cappiello

Egea, 2017

Imprese d’immigranti

Una ricerca a cavallo fra analisi d’impresa e scienze sociali, esplora il vasto e sconosciuto molto delle aziende create da immigrati

La globalizzazione porta gli imprenditori ovunque. E spesso crea imprenditori nuovi anche nei contesti sociali più inconsueti e apparentemente più lontani dall’organizzazione della produzione. E’ il caso delle imprese create da immigrati. Fenomeno non nuovo, questo, che tuttavia appare talvolta come quasi sconosciuto. Esempio di intraprendenza imprenditoriale, l’azienda progettata e gestita da immigrati è oggi un’entità ben definita, con una propria cultura d’impresa, seppur poco esplorata. Leggere l’intervento di Gianfranca Ranisio apparso su EtnoAntropologia è quindi interessante.

“Strategie d’impresa e processi di etnicizzazione in alcuni percorsi lavorativi di migranti” cerca appunto di approfondire la situazione e la cultura delle imprese costituite da immigrati. Il lavoro parte da un esempio classico nella letteratura e forse un po’ meno nelle ricerche di organizzazione d’impresa: il venditore di tappeti. Sulla vicenda reale di uno di questi, però, la Ranisio costruisce una analisi approfondita della realtà odierna delle imprese create da immigrati in Italia. Certo, spiega quasi subito l’autrice, occorre tenere conto “dei differenti percorsi migratori individuali e anche delle differenti modalità di accesso al lavoro, che caratterizzano le storie lavorative dei singoli e si accompagnano al fare impresa” in Italia”. Ma il risultato dell’indagine merita di essere letto.

Il testo nella prima parte fornisce un inquadramento del concetto di “capitale etnico” ma anche una rielaborazione dell’idea stessa di imprenditore affrontata non solo dal punto di vista economico ma più in generale da quello delle scienze sociali. La seconda parte affronta il tema del quadro teorico di riferimento che è possibile utilizzare per analizzare le imprese di immigranti e la loro situazione in Italia. La terza parte, infine, è una carrellata di imprese e imprenditori immigrati nell’area di Napoli.

Ne emerge un quadro complesso, non negativo ma, anzi, indicatore di una cultura d’impresa che si aggiorna, cambia, si evolve, si fa più interessante e variegata. Bello uno degli ultimi ragionamenti dell’autrice: “L’appartenenza può indirizzare, se non condizionare, le

scelte lavorative e diventare essa stessa parte del capitale culturale che entra in gioco, in quanto assunta come differenza percepita e/o prodotta dello sguardo esterno. In questi casi infatti l’etnicità da un lato diventa l’attribuzione di una competenza assegnata da parte degli altri, dall’altra è esibita come autoaffermazione di una competenza che si rivendica come propria e quindi si traduce in risorsa. Coloro che sono oggetto di stereotipi diventano essi stessi mercanti della propria cultura, ma con meccanismi per cui l’identità si rafforza”. Cultura d’impresa che si basa sulle differenze e che però si fa più forte attraverso di esse.

Strategie d’impresa e processi di etnicizzazione in alcuni percorsi lavorativi di migranti

Gianfranca Ranisio

EtnoAntropologia, 4 (2) 2016 – ISSN 2284-0176

Una ricerca a cavallo fra analisi d’impresa e scienze sociali, esplora il vasto e sconosciuto molto delle aziende create da immigrati

La globalizzazione porta gli imprenditori ovunque. E spesso crea imprenditori nuovi anche nei contesti sociali più inconsueti e apparentemente più lontani dall’organizzazione della produzione. E’ il caso delle imprese create da immigrati. Fenomeno non nuovo, questo, che tuttavia appare talvolta come quasi sconosciuto. Esempio di intraprendenza imprenditoriale, l’azienda progettata e gestita da immigrati è oggi un’entità ben definita, con una propria cultura d’impresa, seppur poco esplorata. Leggere l’intervento di Gianfranca Ranisio apparso su EtnoAntropologia è quindi interessante.

“Strategie d’impresa e processi di etnicizzazione in alcuni percorsi lavorativi di migranti” cerca appunto di approfondire la situazione e la cultura delle imprese costituite da immigrati. Il lavoro parte da un esempio classico nella letteratura e forse un po’ meno nelle ricerche di organizzazione d’impresa: il venditore di tappeti. Sulla vicenda reale di uno di questi, però, la Ranisio costruisce una analisi approfondita della realtà odierna delle imprese create da immigrati in Italia. Certo, spiega quasi subito l’autrice, occorre tenere conto “dei differenti percorsi migratori individuali e anche delle differenti modalità di accesso al lavoro, che caratterizzano le storie lavorative dei singoli e si accompagnano al fare impresa” in Italia”. Ma il risultato dell’indagine merita di essere letto.

Il testo nella prima parte fornisce un inquadramento del concetto di “capitale etnico” ma anche una rielaborazione dell’idea stessa di imprenditore affrontata non solo dal punto di vista economico ma più in generale da quello delle scienze sociali. La seconda parte affronta il tema del quadro teorico di riferimento che è possibile utilizzare per analizzare le imprese di immigranti e la loro situazione in Italia. La terza parte, infine, è una carrellata di imprese e imprenditori immigrati nell’area di Napoli.

Ne emerge un quadro complesso, non negativo ma, anzi, indicatore di una cultura d’impresa che si aggiorna, cambia, si evolve, si fa più interessante e variegata. Bello uno degli ultimi ragionamenti dell’autrice: “L’appartenenza può indirizzare, se non condizionare, le

scelte lavorative e diventare essa stessa parte del capitale culturale che entra in gioco, in quanto assunta come differenza percepita e/o prodotta dello sguardo esterno. In questi casi infatti l’etnicità da un lato diventa l’attribuzione di una competenza assegnata da parte degli altri, dall’altra è esibita come autoaffermazione di una competenza che si rivendica come propria e quindi si traduce in risorsa. Coloro che sono oggetto di stereotipi diventano essi stessi mercanti della propria cultura, ma con meccanismi per cui l’identità si rafforza”. Cultura d’impresa che si basa sulle differenze e che però si fa più forte attraverso di esse.

Strategie d’impresa e processi di etnicizzazione in alcuni percorsi lavorativi di migranti

Gianfranca Ranisio

EtnoAntropologia, 4 (2) 2016 – ISSN 2284-0176

Creatività più importante dell’ingegneria”: gli stimoli da Silicon Valley e la forza di cultura e industria in Italia

“La creatività è più importante delle materie ‘stem’, dell’ingegneria”. Parla Stephen Wozniak, un ingegnere. Anzi uno degli ingegneri di maggior successo nel mondo: il 1° aprile del 1976, con Steve Jobs, aveva fondato la Apple e ne aveva realizzato i primi computer. E ancora oggi, da azionista di peso, influisce sulle strategie della multinazionale di Cupertino. L’innovazione tecnologica è da mezzo secolo il suo mondo. Ma sa guardarne limiti e prospettive. E così, durante un convegno a Milano, dichiara:  “La cosa più importante per le start up e le società tecnologiche è l’ispirazione. Immaginare il futuro e ciò che le persone vogliono. L’ispirazione è più importante della conoscenza. Devi avere un’idea nella tua testa… Creare qualcosa che non esiste. E le materie ‘stem’ non sono creative” (Corriere della Sera, 4 luglio).

Stem” è un acronimo, con le iniziali di science, technology, engineering e mathematics: la formula dell’innovazione e dello sviluppo americano, cara alla stagione del presidente Obama e alle culture hi tech della Silicon Valley. In un mondo in rapido cambiamento, Wozniak suggerisce un passaggio in più: la cura della creatività, la forza del disegnare, progettare, scrivere. E ancora una volta si rivela in sintonia con l’amico e socio di tutta una vita, Jobs e con la sua suggestione sulla necessità di un “ingegnere rinascimentale” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa, il 27 giugno). Umanesimo e scienza.

Non solo “stem” ma “steam”, aveva detto tra anni fa l’Assolombarda, allora presieduta da Gianfelice Rocca. Sempre un acronimo, con un’aggiunta e un paio di modifiche. L’aggiunta è stata la “a” di “arts”, le conoscenze umanistiche, le capacità creative, da legare in modo originale alle conoscenze scientifiche. Le modifiche: la “e” che sta per environment, l’ambiente, le energie della “green economy” in cui proprio l’Italia vanta imprese eccellenti; e la “m” di manifacturing, l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo” (l’essenziale definizione di Carlo M. Cipolla sulla forza storica e attuale dell’industria italiana). “Steam” non è un gioco semantico. Ma una scelta strategica (ripresa nel nuovo corso di Assolombarda, con la presidenza di Carlo Bonomi) per lo sviluppo italiano in chiave europea. Scelta politica (e di politica industriale: il sostegno pubblico all’innovazione). E culturale: la sostenibilità. Ambientale e sociale.

Viviamo tempi difficili. Di radicali trasformazioni. Di metamorfosi. Non sempre positive.

I filosofi mettono in crisi la sostenibilità del paradigma del “progresso” che ha caratterizzato, come motore, tutto il pensiero della modernità, a cominciare dall’economia e dai suoi paradigmi della “crescita”: “Si tratta d’un passaggio di epoca, in Europa e in Occidente e non di una crisi congiunturale”, avverte Massimo Cacciari (“L’Espresso”, 9 luglio). E c’è chi, come Emanuele Severino, diffida della “tecnocrazia”: “Vado mostrando da tempo l’inevitabilità del processo che conduce al dominio della tecnica sulle forze che ancora intendono servirsi di essa. L’incremento tecnico-scientifico sostituirà l’uomo da cui tale incremento è ostacolato e promuoverà l’uomo che lo favorisce”.

La visione di Severino è cupa. Altre, meno pessimiste, parlano di sfida aperta. E vale comunque la pena rileggere le parole di Tim Cook, guida della Apple, ai laureandi dei Mit, il Massachusetts Institute of Technology, luogo cardine di ricerca e innovazione: “Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze” (già citato nel blog del 27 giugno). Valori, appunto.

La macchina dell’economia è tutta da ripensare. Per tenerla in piedi. E rimetterla in moto. Riconsiderare criticamente creazione del valore e metodi (Papa Francesco spinge molto in questa direzione, in compagnia peraltro di autorevoli esponenti della migliore letteratura economica). E riscriverne gli  strumenti di misurazione (il Pil, il prodotto interno lordo, da affiancare e fors’anche sostituire con il Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile: l’Istat ci lavora da qualche anno in Italia ed è un buon paradigma, considerato a livello internazionale). Sviluppare insomma – vale la pena ripeterlo – una cultura della sostenibilità. Qualità della vita e migliori equilibri sociali, che crescano nel tempo (utile e speriamo efficace antidoto alle varie, intollerabili forme di populismo).

E l’Italia? Cresce poco e male, come si sa (con forti divari tra Nord e Sud e distorsioni tra le imprese private più dinamiche, innovative e internazionali e le pesantezze della “mano pubblica”). Ma ha comunque ricominciato a crescere. Meglio di niente, naturalmente. Bisogna fare molto di più.

Il Paese ha una leva di forza, la sua industria culturale: ha generato nel 2016 90 miliardi di euro di valore aggiunto (250 miliardi, considerando l’indotto). E’ cresciuta dell’1,8% (più del Pil, dunque). Dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6% di tutti gli occupati in Italia. Lo documenta l’ultimo Rapporto Symbola, presentato il 28 giugno, mettendo insieme i datti di cinque macro-settori: le industrie creative (architettura, design e comunicazione), le industrie culturali propriamente dette (cinema, editoria, musica, stampa, software e videogiochi), il patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, monumenti e aree archeologiche), le performing arts e arti visive, le imprese “creative driven”, che utilizzano in modo strutturale professioni creative (la manifattura evoluta, l’artigianato creativo). Un mondo in movimento, in cambiamento. “La cultura è un asset di sviluppo su cui puntare”, commenta Ivan Lo Bello, presidente di UnionCamere. Ed Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Se l’Italia produce valore e lavoro concentrandosi su industria e bellezza, aiuta il futuro”. Ecco il punto: connettere capacità industriale e creatività, manifattura e cultura. E usare la forza dell’intelligenza creativa per costruire meccanismi di sviluppo che siano cardine dell’evoluzione dei bisogni, dei valori, del tempo che cambia. L’Italia, mediterranea ed europea, ha buone carte da giocare. “La cultura è trasversale, è fondamentale per l’economia. Un punto da cui fare ripartire un nuovo Rinascimento”, sintetizza Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria (Il Sole24Ore, 29 giugno).

Servono ingegneri rinascimentali, appunto. Si torna a Jobs, alla “cultura politecnica” e al governo filosofico della tecnologia.

“La creatività è più importante delle materie ‘stem’, dell’ingegneria”. Parla Stephen Wozniak, un ingegnere. Anzi uno degli ingegneri di maggior successo nel mondo: il 1° aprile del 1976, con Steve Jobs, aveva fondato la Apple e ne aveva realizzato i primi computer. E ancora oggi, da azionista di peso, influisce sulle strategie della multinazionale di Cupertino. L’innovazione tecnologica è da mezzo secolo il suo mondo. Ma sa guardarne limiti e prospettive. E così, durante un convegno a Milano, dichiara:  “La cosa più importante per le start up e le società tecnologiche è l’ispirazione. Immaginare il futuro e ciò che le persone vogliono. L’ispirazione è più importante della conoscenza. Devi avere un’idea nella tua testa… Creare qualcosa che non esiste. E le materie ‘stem’ non sono creative” (Corriere della Sera, 4 luglio).

Stem” è un acronimo, con le iniziali di science, technology, engineering e mathematics: la formula dell’innovazione e dello sviluppo americano, cara alla stagione del presidente Obama e alle culture hi tech della Silicon Valley. In un mondo in rapido cambiamento, Wozniak suggerisce un passaggio in più: la cura della creatività, la forza del disegnare, progettare, scrivere. E ancora una volta si rivela in sintonia con l’amico e socio di tutta una vita, Jobs e con la sua suggestione sulla necessità di un “ingegnere rinascimentale” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa, il 27 giugno). Umanesimo e scienza.

Non solo “stem” ma “steam”, aveva detto tra anni fa l’Assolombarda, allora presieduta da Gianfelice Rocca. Sempre un acronimo, con un’aggiunta e un paio di modifiche. L’aggiunta è stata la “a” di “arts”, le conoscenze umanistiche, le capacità creative, da legare in modo originale alle conoscenze scientifiche. Le modifiche: la “e” che sta per environment, l’ambiente, le energie della “green economy” in cui proprio l’Italia vanta imprese eccellenti; e la “m” di manifacturing, l’attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo” (l’essenziale definizione di Carlo M. Cipolla sulla forza storica e attuale dell’industria italiana). “Steam” non è un gioco semantico. Ma una scelta strategica (ripresa nel nuovo corso di Assolombarda, con la presidenza di Carlo Bonomi) per lo sviluppo italiano in chiave europea. Scelta politica (e di politica industriale: il sostegno pubblico all’innovazione). E culturale: la sostenibilità. Ambientale e sociale.

Viviamo tempi difficili. Di radicali trasformazioni. Di metamorfosi. Non sempre positive.

I filosofi mettono in crisi la sostenibilità del paradigma del “progresso” che ha caratterizzato, come motore, tutto il pensiero della modernità, a cominciare dall’economia e dai suoi paradigmi della “crescita”: “Si tratta d’un passaggio di epoca, in Europa e in Occidente e non di una crisi congiunturale”, avverte Massimo Cacciari (“L’Espresso”, 9 luglio). E c’è chi, come Emanuele Severino, diffida della “tecnocrazia”: “Vado mostrando da tempo l’inevitabilità del processo che conduce al dominio della tecnica sulle forze che ancora intendono servirsi di essa. L’incremento tecnico-scientifico sostituirà l’uomo da cui tale incremento è ostacolato e promuoverà l’uomo che lo favorisce”.

La visione di Severino è cupa. Altre, meno pessimiste, parlano di sfida aperta. E vale comunque la pena rileggere le parole di Tim Cook, guida della Apple, ai laureandi dei Mit, il Massachusetts Institute of Technology, luogo cardine di ricerca e innovazione: “Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze” (già citato nel blog del 27 giugno). Valori, appunto.

La macchina dell’economia è tutta da ripensare. Per tenerla in piedi. E rimetterla in moto. Riconsiderare criticamente creazione del valore e metodi (Papa Francesco spinge molto in questa direzione, in compagnia peraltro di autorevoli esponenti della migliore letteratura economica). E riscriverne gli  strumenti di misurazione (il Pil, il prodotto interno lordo, da affiancare e fors’anche sostituire con il Bes, l’indice del Benessere Equo e Sostenibile: l’Istat ci lavora da qualche anno in Italia ed è un buon paradigma, considerato a livello internazionale). Sviluppare insomma – vale la pena ripeterlo – una cultura della sostenibilità. Qualità della vita e migliori equilibri sociali, che crescano nel tempo (utile e speriamo efficace antidoto alle varie, intollerabili forme di populismo).

E l’Italia? Cresce poco e male, come si sa (con forti divari tra Nord e Sud e distorsioni tra le imprese private più dinamiche, innovative e internazionali e le pesantezze della “mano pubblica”). Ma ha comunque ricominciato a crescere. Meglio di niente, naturalmente. Bisogna fare molto di più.

Il Paese ha una leva di forza, la sua industria culturale: ha generato nel 2016 90 miliardi di euro di valore aggiunto (250 miliardi, considerando l’indotto). E’ cresciuta dell’1,8% (più del Pil, dunque). Dà lavoro a 1,5 milioni di persone, il 6% di tutti gli occupati in Italia. Lo documenta l’ultimo Rapporto Symbola, presentato il 28 giugno, mettendo insieme i datti di cinque macro-settori: le industrie creative (architettura, design e comunicazione), le industrie culturali propriamente dette (cinema, editoria, musica, stampa, software e videogiochi), il patrimonio storico-artistico (musei, biblioteche, archivi, monumenti e aree archeologiche), le performing arts e arti visive, le imprese “creative driven”, che utilizzano in modo strutturale professioni creative (la manifattura evoluta, l’artigianato creativo). Un mondo in movimento, in cambiamento. “La cultura è un asset di sviluppo su cui puntare”, commenta Ivan Lo Bello, presidente di UnionCamere. Ed Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Se l’Italia produce valore e lavoro concentrandosi su industria e bellezza, aiuta il futuro”. Ecco il punto: connettere capacità industriale e creatività, manifattura e cultura. E usare la forza dell’intelligenza creativa per costruire meccanismi di sviluppo che siano cardine dell’evoluzione dei bisogni, dei valori, del tempo che cambia. L’Italia, mediterranea ed europea, ha buone carte da giocare. “La cultura è trasversale, è fondamentale per l’economia. Un punto da cui fare ripartire un nuovo Rinascimento”, sintetizza Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria (Il Sole24Ore, 29 giugno).

Servono ingegneri rinascimentali, appunto. Si torna a Jobs, alla “cultura politecnica” e al governo filosofico della tecnologia.

Giusto valore d’impresa

Un libro racconta la storia di come una falegnameria possa diventare una Società Benefit, creare benessere ed essere un esempio da seguire

 

Ogni azienda è un’organizzazione diversa da tutte le altre. Ogni impresa è qualcosa di unico, inimitabile ma da conoscere. Apprendere ogni storia d’impresa è quindi sempre operazione da fare, cosa buona per accrescere la conoscenza del sistema della produzione entro il quale tutte le imprese bene o male si muovono. Leggere “La giusta dimensione” di Andrea Bettini appena pubblicato, è quindi qualcosa di utile per chi voglia saperne di più su cosa significhi un’impresa a tutto tondo.

Il libro non è una storia di gestione di un’azienda di successo. Non è nemmeno una storia scritta secondo i canoni tradizionali della storiografia d’impresa. “La giusta dimensione” è il racconto di un’esperienza imprenditoriale nata in una cantina ed evolutasi con successo fino ad oggi. Bettini – che  del cosiddetto storytelling  aziendale è uno dei più importanti esponenti -,  ha raccontato la storia della Zordan di Valdagno partendo dagli inizi di falegnameria di Attilio Zordan per la Marzotto, passando per la crescita successiva e la crisi del 2008 e arrivando fino alla situazione odierna con i tre figli a capo di un’impresa ormai evoluta, internazionale, adulta. Dietro praticamente ogni passaggio, trapela lo spirito d’impresa, la sua cultura, come substrato fertile per tutto ciò che l’azienda è riuscita a fare. Una cultura fatta di abnegazione per il lavoro ma anche di legami familiari, attenzione alle persone e al futuro, di principi saldi e di capacità di reagire (quella resilienza che oggi è tanto di moda), insita quasi nella genetica del capostipite e in quella dei suoi figli.

Il volume si legge agevolmente e in breve tempo. Dopo una prima parte più storica, Bettini scrive una seconda parte che racconta il periodo del passaggio della crisi e, infine, una terza dove vengono fissati i principi d’azione che hanno consentito la Zordan di arrivare fino ad oggi. Con due traguardi raggiunti oltre a quelli di bilancio e occupazione. Zordan oggi è infatti un’azienda certificata B Corp (che attesta il soddisfacimento di rigorosi livelli in termini di prestazioni sociali e ambientali oltre che di trasparenza), ma anche una Società Benefit (SB) che integra cioè nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sulla biosfera.

Arricchiscono il libro (poco più di 100 pagine), anche contenuti multimediali che possono essere scaricati inquadrando alcune pagine del volume e, soprattutto, il fatto che i proventi delle vendite (per espressa volontà di Zordan e dell’autore), sono destinati ad art4sport, un’Associazione Onlus che crede nello sport come terapia per il recupero fisico e psicologico dei bambini e dei ragazzi portatori di protesi di arto. Impresa impegnata non solo a fare profitti, la Zordan, come nella più forte tradizione delle Società Benefit.

La giusta dimensione. Storia di un’impresa che ha saputo evolvere senza perdere di vista valori e persone

Andrea Bettini

Franco Angeli, 2017

Un libro racconta la storia di come una falegnameria possa diventare una Società Benefit, creare benessere ed essere un esempio da seguire

 

Ogni azienda è un’organizzazione diversa da tutte le altre. Ogni impresa è qualcosa di unico, inimitabile ma da conoscere. Apprendere ogni storia d’impresa è quindi sempre operazione da fare, cosa buona per accrescere la conoscenza del sistema della produzione entro il quale tutte le imprese bene o male si muovono. Leggere “La giusta dimensione” di Andrea Bettini appena pubblicato, è quindi qualcosa di utile per chi voglia saperne di più su cosa significhi un’impresa a tutto tondo.

Il libro non è una storia di gestione di un’azienda di successo. Non è nemmeno una storia scritta secondo i canoni tradizionali della storiografia d’impresa. “La giusta dimensione” è il racconto di un’esperienza imprenditoriale nata in una cantina ed evolutasi con successo fino ad oggi. Bettini – che  del cosiddetto storytelling  aziendale è uno dei più importanti esponenti -,  ha raccontato la storia della Zordan di Valdagno partendo dagli inizi di falegnameria di Attilio Zordan per la Marzotto, passando per la crescita successiva e la crisi del 2008 e arrivando fino alla situazione odierna con i tre figli a capo di un’impresa ormai evoluta, internazionale, adulta. Dietro praticamente ogni passaggio, trapela lo spirito d’impresa, la sua cultura, come substrato fertile per tutto ciò che l’azienda è riuscita a fare. Una cultura fatta di abnegazione per il lavoro ma anche di legami familiari, attenzione alle persone e al futuro, di principi saldi e di capacità di reagire (quella resilienza che oggi è tanto di moda), insita quasi nella genetica del capostipite e in quella dei suoi figli.

Il volume si legge agevolmente e in breve tempo. Dopo una prima parte più storica, Bettini scrive una seconda parte che racconta il periodo del passaggio della crisi e, infine, una terza dove vengono fissati i principi d’azione che hanno consentito la Zordan di arrivare fino ad oggi. Con due traguardi raggiunti oltre a quelli di bilancio e occupazione. Zordan oggi è infatti un’azienda certificata B Corp (che attesta il soddisfacimento di rigorosi livelli in termini di prestazioni sociali e ambientali oltre che di trasparenza), ma anche una Società Benefit (SB) che integra cioè nel proprio oggetto sociale, oltre agli obiettivi di profitto, lo scopo di avere un impatto positivo sulla società e sulla biosfera.

Arricchiscono il libro (poco più di 100 pagine), anche contenuti multimediali che possono essere scaricati inquadrando alcune pagine del volume e, soprattutto, il fatto che i proventi delle vendite (per espressa volontà di Zordan e dell’autore), sono destinati ad art4sport, un’Associazione Onlus che crede nello sport come terapia per il recupero fisico e psicologico dei bambini e dei ragazzi portatori di protesi di arto. Impresa impegnata non solo a fare profitti, la Zordan, come nella più forte tradizione delle Società Benefit.

La giusta dimensione. Storia di un’impresa che ha saputo evolvere senza perdere di vista valori e persone

Andrea Bettini

Franco Angeli, 2017

Cultura della ricerca d’impresa, il caso Italia

Un articolo apparso pochi giorni fa, approfondisce i collegamenti fra Industria 4.0, indagine scientifica e necessità di sviluppo del sistema produttivo

L’impresa cresce quando adotta in maniera avveduta le nuove tecnologie. Non si tratta di acquisire ciecamente tutto ciò che può essere nuovo, ma di scegliere. E per scegliere occorre (ri)cercare. E’ il nodo della ricerca d’impresa che deve essere collegata con l’Accademia, senza però essere da questa bloccata. Tutto, poi, accelera nel momento in cui il paradigma dell’Industria 4.0 entra negli stabilimenti e negli uffici.  Organizzazione della produzione e Accademia si ritrovano a dover fare i conti con esigenze nuove e nuovi strumenti per soddisfarle.

Michele Tiraboschi (Professore Ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Modena oltre che Coordinatore Scientifico del programma ADAPT), nel suo “Research Work in the Industry 4.0 Era: The Italian Case” appena pubblicato, affronta proprio la situazione che si crea quando Industria 4.0 implica lo sviluppo della ricerca nelle imprese. Un cambio di cultura d’impresa che deve essere compreso fino in fondo, anche nelle sue ricadute giuridiche e contrattuali oltre che di organizzazione della produzione e del lavoro.

Tiraboschi, dopo aver inquadrato il tema generale, mette sotto la lente d’ingrandimento le posizioni lavorative di ricerca all’interno delle imprese (dal punto di vista della collocazione contrattuale, delle possibilità di carriera, delle remunerazioni e dei riconoscimenti), per poi passare a rapportare ciò che accade nelle imprese con l’apparato legislativo presente in Italia (e quindi con gli incentivi economici a disposizione delle aziende per fare ricerca). Ne emerge l’idea che la ricerca in Italia è ancora strettamente associata all’Accademia e che questo potrebbe ostacolare la creazione di ricercatori basati sulla società private e la cooperazione tra il pubblico e il settore privato.

Mancano, quindi, non solo strumenti economici e di legge importanti per far scattare per davvero la ricerca d’impresa, ma forse prima ancora una diffusa cultura d’impresa che riesca a far fare quel salto di qualità che ancora non c’è stato nel sistema produttivo nazionale. Tiraboschi sintetizza efficacemente tutto questo e deve essere letto con attenzione.

Research Work in the Industry 4.0 Era: The Italian Case

Michele Tiraboschi

E-Journal of International and Comparative Labour Studies, Volume 6, No. 2, May-June 2017

Un articolo apparso pochi giorni fa, approfondisce i collegamenti fra Industria 4.0, indagine scientifica e necessità di sviluppo del sistema produttivo

L’impresa cresce quando adotta in maniera avveduta le nuove tecnologie. Non si tratta di acquisire ciecamente tutto ciò che può essere nuovo, ma di scegliere. E per scegliere occorre (ri)cercare. E’ il nodo della ricerca d’impresa che deve essere collegata con l’Accademia, senza però essere da questa bloccata. Tutto, poi, accelera nel momento in cui il paradigma dell’Industria 4.0 entra negli stabilimenti e negli uffici.  Organizzazione della produzione e Accademia si ritrovano a dover fare i conti con esigenze nuove e nuovi strumenti per soddisfarle.

Michele Tiraboschi (Professore Ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Modena oltre che Coordinatore Scientifico del programma ADAPT), nel suo “Research Work in the Industry 4.0 Era: The Italian Case” appena pubblicato, affronta proprio la situazione che si crea quando Industria 4.0 implica lo sviluppo della ricerca nelle imprese. Un cambio di cultura d’impresa che deve essere compreso fino in fondo, anche nelle sue ricadute giuridiche e contrattuali oltre che di organizzazione della produzione e del lavoro.

Tiraboschi, dopo aver inquadrato il tema generale, mette sotto la lente d’ingrandimento le posizioni lavorative di ricerca all’interno delle imprese (dal punto di vista della collocazione contrattuale, delle possibilità di carriera, delle remunerazioni e dei riconoscimenti), per poi passare a rapportare ciò che accade nelle imprese con l’apparato legislativo presente in Italia (e quindi con gli incentivi economici a disposizione delle aziende per fare ricerca). Ne emerge l’idea che la ricerca in Italia è ancora strettamente associata all’Accademia e che questo potrebbe ostacolare la creazione di ricercatori basati sulla società private e la cooperazione tra il pubblico e il settore privato.

Mancano, quindi, non solo strumenti economici e di legge importanti per far scattare per davvero la ricerca d’impresa, ma forse prima ancora una diffusa cultura d’impresa che riesca a far fare quel salto di qualità che ancora non c’è stato nel sistema produttivo nazionale. Tiraboschi sintetizza efficacemente tutto questo e deve essere letto con attenzione.

Research Work in the Industry 4.0 Era: The Italian Case

Michele Tiraboschi

E-Journal of International and Comparative Labour Studies, Volume 6, No. 2, May-June 2017

Presentazione del libro “La Pubblicità con la P maiuscola” – 4 luglio 2017

Presentato il libro “La Pubblicità con la P maiuscola”

E’ stato presentato al Teatro Franco Parenti di Milano «La Pubblicità con la P maiuscola» il nuovo libro a cura della Fondazione Pirelli ed edito da Corraini Edizioni che ripercorrere trent’anni di pubblicità Pirelli, dagli anni Settanta ai primi anni Duemila, attraverso materiali provenienti dall’Archivio Storico aziendale conservato presso la Fondazione Pirelli

Durante la serata sono intervenuti Marco Tronchetti Provera, Vice Presidente Esecutivo e Ceo di Pirelli e Presidente di Fondazione Pirelli, Carlo Bonomi, Presidente di Assolombarda, Paola Dubini, Docente dell’Università Bocconi di Milano, Vicky Gitto, Chief Creative Officer di Young & Rubicam, Aldo Grasso, Docente dell’Università Cattolica di Milano e critico televisivo, e Antonio Calabrò, Consigliere Delegato e Direttore della Fondazione Pirelli.

Una selezione di immagini pubblicate nel volume resteranno esposte per alcuni giorni nel foyer del Teatro Franco Parenti di Milano, a partire dal 7 luglio, con i seguenti orari: dal lunedì al sabato dalle ore 10.00 alle ore 14.00 e dalle ore 16.00 alle ore 20.00

E’ stato presentato al Teatro Franco Parenti di Milano «La Pubblicità con la P maiuscola» il nuovo libro a cura della Fondazione Pirelli ed edito da Corraini Edizioni che ripercorrere trent’anni di pubblicità Pirelli, dagli anni Settanta ai primi anni Duemila, attraverso materiali provenienti dall’Archivio Storico aziendale conservato presso la Fondazione Pirelli

Durante la serata sono intervenuti Marco Tronchetti Provera, Vice Presidente Esecutivo e Ceo di Pirelli e Presidente di Fondazione Pirelli, Carlo Bonomi, Presidente di Assolombarda, Paola Dubini, Docente dell’Università Bocconi di Milano, Vicky Gitto, Chief Creative Officer di Young & Rubicam, Aldo Grasso, Docente dell’Università Cattolica di Milano e critico televisivo, e Antonio Calabrò, Consigliere Delegato e Direttore della Fondazione Pirelli.

Una selezione di immagini pubblicate nel volume resteranno esposte per alcuni giorni nel foyer del Teatro Franco Parenti di Milano, a partire dal 7 luglio, con i seguenti orari: dal lunedì al sabato dalle ore 10.00 alle ore 14.00 e dalle ore 16.00 alle ore 20.00

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