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Starts, i progetti Ue per il dialogo tra scienza e arte: è l’ “Ulisse politecnico”

Il progetto si chiama Starts. Nasce negli uffici della Ue. Riguarda l’innovazione. E al di là del pertinente significato letterale (le partenze, gli avvii, sono un’essenziale condizione, appunto, per innovare), il suo vero fascino sta nell’essere un acronimo di parole dense di senso e valore: science, technology e arts. Ne ha parlato nei giorni scorsi Pierluigi Sacco su “Il Sole24Ore”, raccontando d’un incontro, a fine giugno, organizzato dalla Direzione Generale “Connect” della Commissione di Bruxelles, dove si sono confrontate società e istituzioni di primo piano, come Ars Electronica di Linz, il Dipartimento Stratégie Interactive di Dassault Systèmes, Trasmediale, l’Ircam, Ubiquitous Commons, Superglue, etc. Il tema: esplorare il vero potenziale nel dialogo tra arte, cultura e tecnologia, capire come creare spazi perché questo dialogo trovi espressione adeguata nelle strategie della Ue e, in particolare, nei programmi rivolti alla ricerca e all’innovazione come Horizon 2020.

Bene, che a Bruxelles se ne siano accorti. È il valore dell’”Ulisse politecnico” raccontato più volte in questo blog, della necessità, cioè, per le imprese, d’avere come prezioso capitale umano gli ingegneri-filosofi capaci di sguardo ampio e competenze tecniche profonde e, più in generale, per la società italiana, di sanare la frattura tra le “due culture” e di recuperare i valori, cari peraltro alla nostra storia, delle sintesi tra pensiero umanistico e pensiero scientifico, ricostruendo, in tempi di diffusione, di sofisticati saperi hi tech, una vera e propria “cultura politecnica” che rende Italia ed Europa più colte, più civili e, grazie a queste sintesi, più competitive.

Al lavori di Starts hanno partecipato anche scienziati americani, come Roger Malina, astrofisico di primo piano e direttore di “Leonardo Publications” del Mit di Boston: segno d’un possibile, fruttuoso dialogo tra Ue e Usa. Commenta Sacco: “L’esito dei giorni di riflessione è molto incoraggiante e prevede, come prossimo passo, l’elaborazione di modelli di cooperazione tra artisti e scienziati che possano essere testati e progressivamente affinati, in modo da creare una nuova ‘cassetta degli attrezzi’ progettuale interamente finalizzata al lavoro trans-disciplinare. Si apre così la fase di sviluppo di Starts, che porterà all’apertura di vari cantieri di progettazione e che prelude al lancio dei primi prototipi progettuali. La risposta entusiastica e convinta sia sul versante degli scienziati che su quello degli artisti, dalle arti visive al teatro, dai media digitali alla musica, lascia pensare che non dovremo attendere a lungo per vedere i primi risultati”.

Su questo piano l’Italia può dare un grande contributo. Non solo per memoria. Ma anche per attualità. Lo mostrano le relazioni tra impresa, ricerca scientifica e cultura umanistica (Eni, Pirelli, l’Olivetti di Adriano, l’Italcementi del dialogo con i grandi architetti, ma anche le esperienze di molte altre imprese pur medie e piccole). I recenti intensi confronti tra artisti contemporanei e tecnologi nei laboratori R&D di Pirelli per le attività della Fondazione Pirelli e dell’HangarBicocca, il lavoro dei due grandi Politecnici di Milano e Torino, etc.

Una strategia competitiva di ampio respiro. Rilanciata, di recente, anche da Assolombarda, che, per iniziativa del suo presidente Gianfelice Rocca, ha individuato la chiave competitiva di Milano nel suo essere una “metropoli steam”, secondo un acronimo che parla di science, technology, engineering, arts e mathematics. Sono termini analoghi a quello di Starts. Innovazione nel senso più ampio del termine, insomma. In cui le competenze italiane in arts sono un tratto distintivo fortissimo. Nuove energie per uno sviluppo di qualità.

Il progetto si chiama Starts. Nasce negli uffici della Ue. Riguarda l’innovazione. E al di là del pertinente significato letterale (le partenze, gli avvii, sono un’essenziale condizione, appunto, per innovare), il suo vero fascino sta nell’essere un acronimo di parole dense di senso e valore: science, technology e arts. Ne ha parlato nei giorni scorsi Pierluigi Sacco su “Il Sole24Ore”, raccontando d’un incontro, a fine giugno, organizzato dalla Direzione Generale “Connect” della Commissione di Bruxelles, dove si sono confrontate società e istituzioni di primo piano, come Ars Electronica di Linz, il Dipartimento Stratégie Interactive di Dassault Systèmes, Trasmediale, l’Ircam, Ubiquitous Commons, Superglue, etc. Il tema: esplorare il vero potenziale nel dialogo tra arte, cultura e tecnologia, capire come creare spazi perché questo dialogo trovi espressione adeguata nelle strategie della Ue e, in particolare, nei programmi rivolti alla ricerca e all’innovazione come Horizon 2020.

Bene, che a Bruxelles se ne siano accorti. È il valore dell’”Ulisse politecnico” raccontato più volte in questo blog, della necessità, cioè, per le imprese, d’avere come prezioso capitale umano gli ingegneri-filosofi capaci di sguardo ampio e competenze tecniche profonde e, più in generale, per la società italiana, di sanare la frattura tra le “due culture” e di recuperare i valori, cari peraltro alla nostra storia, delle sintesi tra pensiero umanistico e pensiero scientifico, ricostruendo, in tempi di diffusione, di sofisticati saperi hi tech, una vera e propria “cultura politecnica” che rende Italia ed Europa più colte, più civili e, grazie a queste sintesi, più competitive.

Al lavori di Starts hanno partecipato anche scienziati americani, come Roger Malina, astrofisico di primo piano e direttore di “Leonardo Publications” del Mit di Boston: segno d’un possibile, fruttuoso dialogo tra Ue e Usa. Commenta Sacco: “L’esito dei giorni di riflessione è molto incoraggiante e prevede, come prossimo passo, l’elaborazione di modelli di cooperazione tra artisti e scienziati che possano essere testati e progressivamente affinati, in modo da creare una nuova ‘cassetta degli attrezzi’ progettuale interamente finalizzata al lavoro trans-disciplinare. Si apre così la fase di sviluppo di Starts, che porterà all’apertura di vari cantieri di progettazione e che prelude al lancio dei primi prototipi progettuali. La risposta entusiastica e convinta sia sul versante degli scienziati che su quello degli artisti, dalle arti visive al teatro, dai media digitali alla musica, lascia pensare che non dovremo attendere a lungo per vedere i primi risultati”.

Su questo piano l’Italia può dare un grande contributo. Non solo per memoria. Ma anche per attualità. Lo mostrano le relazioni tra impresa, ricerca scientifica e cultura umanistica (Eni, Pirelli, l’Olivetti di Adriano, l’Italcementi del dialogo con i grandi architetti, ma anche le esperienze di molte altre imprese pur medie e piccole). I recenti intensi confronti tra artisti contemporanei e tecnologi nei laboratori R&D di Pirelli per le attività della Fondazione Pirelli e dell’HangarBicocca, il lavoro dei due grandi Politecnici di Milano e Torino, etc.

Una strategia competitiva di ampio respiro. Rilanciata, di recente, anche da Assolombarda, che, per iniziativa del suo presidente Gianfelice Rocca, ha individuato la chiave competitiva di Milano nel suo essere una “metropoli steam”, secondo un acronimo che parla di science, technology, engineering, arts e mathematics. Sono termini analoghi a quello di Starts. Innovazione nel senso più ampio del termine, insomma. In cui le competenze italiane in arts sono un tratto distintivo fortissimo. Nuove energie per uno sviluppo di qualità.

Strumenti per la cultura dell’impresa globale

Globali sempre di più. Ma anche, tutto sommato, legate ancora a filo doppio alle origini locali. E a tutto ciò che ne consegue dal punto di vista organizzativo, produttivo e, alla fine, culturale. Sono così molte delle imprese italiane. E non solo, visto che il tema della globalizzazione è comune a tutto il sistema economico. Ne è testimonianza lo studio “The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study”, di Rui Monteiro e Raquel Meneses (della School of Economics and Management, University of Porto in Portogallo).

L’articolo parte dalla considerazione che la globalizzazione ha cambiato radicalmente il paesaggio degli “affari internazionali e multinazionali” mettendo le imprese  nella condizione di affrontare la questione della “gestione dell’ambiente in cui operano”. E non potrebbe che essere così, visto che imprenditore e impresa si ritrovano a muoversi in mondi diversi da quelli consueti, lontani dagli schemi d’azione consolidati, terreni da conquistare che, tuttavia, devono prima essere esplorati. Anche con strumenti conoscitivi nuovi.

In questo senso, spiegano i due autori, lo studio delle relazioni internazionali e della diplomazia si è sempre più legato alle specifiche pratiche commerciali di imprese internazionali.

Ma quanto “valgono” queste pratiche nella consuetudine aziendale? Molto secondo i due autori.  Monteiro e Meneses dimostrano la bontà di tutto questo prima con una solida impostazione teorica e poi con una indagine “sul campo” attraverso l’analisi del comportamento di otto aziende che hanno già superato la fase del salto nella globalizzazione.

“I risultati – spiegano gli autori -, hanno mostrato che i presupposti teorici sono stati sostanzialmente confermati”. Al di là della tecnica, poi, emerge anche in questo caso l’importanza del cambiamento del metodo culturale che dà forma all’organizzazione d’impresa.

The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study 

Rui Monteiro, Raquel Meneses (School of Economics and Management, University of Porto)

International Journal of Business and globalisation, vol. 15,n. 1, 2015

Globali sempre di più. Ma anche, tutto sommato, legate ancora a filo doppio alle origini locali. E a tutto ciò che ne consegue dal punto di vista organizzativo, produttivo e, alla fine, culturale. Sono così molte delle imprese italiane. E non solo, visto che il tema della globalizzazione è comune a tutto il sistema economico. Ne è testimonianza lo studio “The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study”, di Rui Monteiro e Raquel Meneses (della School of Economics and Management, University of Porto in Portogallo).

L’articolo parte dalla considerazione che la globalizzazione ha cambiato radicalmente il paesaggio degli “affari internazionali e multinazionali” mettendo le imprese  nella condizione di affrontare la questione della “gestione dell’ambiente in cui operano”. E non potrebbe che essere così, visto che imprenditore e impresa si ritrovano a muoversi in mondi diversi da quelli consueti, lontani dagli schemi d’azione consolidati, terreni da conquistare che, tuttavia, devono prima essere esplorati. Anche con strumenti conoscitivi nuovi.

In questo senso, spiegano i due autori, lo studio delle relazioni internazionali e della diplomazia si è sempre più legato alle specifiche pratiche commerciali di imprese internazionali.

Ma quanto “valgono” queste pratiche nella consuetudine aziendale? Molto secondo i due autori.  Monteiro e Meneses dimostrano la bontà di tutto questo prima con una solida impostazione teorica e poi con una indagine “sul campo” attraverso l’analisi del comportamento di otto aziende che hanno già superato la fase del salto nella globalizzazione.

“I risultati – spiegano gli autori -, hanno mostrato che i presupposti teorici sono stati sostanzialmente confermati”. Al di là della tecnica, poi, emerge anche in questo caso l’importanza del cambiamento del metodo culturale che dà forma all’organizzazione d’impresa.

The relevance of business diplomacy in internationalisation processes: an empirical study 

Rui Monteiro, Raquel Meneses (School of Economics and Management, University of Porto)

International Journal of Business and globalisation, vol. 15,n. 1, 2015

L’impresa che dialoga

Dialogo dunque cresco. Ai tempi dell’automazione e dell’informazione alla portata di tutti, nelle imprese si fa sempre più strada anche la necessità di dare spazio alla persona che lavora e quindi al dialogo, al confronto di idee per raggiungere un traguardo comune. Non assenza di regole, ma, al contrario, in alcuni casi, regole ancora più strette da seguire, eppure maggiormente in grado di condurre tutti – la squadra, adoperando termini spesso troppo usati -, ad un risultato comune e di successo.

Ma dialogo, condivisione, lavoro comune sono concetti che occorre applicare con attenzione. Non devono portare alla confusione, ma alla migliore azione.

“Iniziativa individuale e impresa. Per una cultura dialogica” di Karl-Martin Dietz serve per affrontare questo tema da un punto di vista organico e originale. Il testo ripercorre una conferenza tenuta da Dietz presso l’Università di Heidelberg, ne approfondisce i contenuti e costituisce una buona introduzione alla cosiddetta “conduzione dialogica” d’impresa e alla  “cultura dialogica” della stessa. Si tratta cioè della sintesi di un approccio sviluppato a partire dalla metà degli anni ’90 e che da allora ha fatto molta strada nella pratica di molte imprese oltre che di organizzazioni culturali. Deitz  spiega, illustra, argomenta partendo dalle sue conoscenze di filologia classica e filosofia, oltre che di economia. E arriva a delineare un metodo di gestione d’impresa fondato, appunto, sul dialogo, ma ben radicato anche nella reale pratica aziendale.

Dopo aver affrontato il tema gettando alcune serie basi teoriche – anche fra l’altro con un bel capitolo sul concetto stesso di dialogo -, Dietz va al centro della questione è spiega cosa sia la “cultura dialogica d’impresa”, cioè quel particolare approccio di gestione della stessa che “si propone, attraverso i suoi processi, di portare nell’impresa il maggior numero possibile di persone a un atteggiamento imprenditoriale, di fare in modo che invece di disposizioni vi siano sempre più stimoli, e possibilità invece di direttive”. L’autore, quindi, indica alcuni strumenti operativi che danno corpo a “processi dialogici” importanti per il cambiamento di gestione: l’incontro individuale, la trasparenza, la discussione e  la decisione.

Non sempre il testo di Dietz è facile e immediato, e non sempre ci si può trovare d’accordo con quanto scritto, ma leggerlo è importante: pone domande, indica metodi di lavoro diversi dai consueti. Dietz va conosciuto da imprenditori e manager avveduti.

Iniziativa individuale e impresa. Per una cultura dialogica

Karl-Martin Dietz

Editrice Novalis, 2013

Dialogo dunque cresco. Ai tempi dell’automazione e dell’informazione alla portata di tutti, nelle imprese si fa sempre più strada anche la necessità di dare spazio alla persona che lavora e quindi al dialogo, al confronto di idee per raggiungere un traguardo comune. Non assenza di regole, ma, al contrario, in alcuni casi, regole ancora più strette da seguire, eppure maggiormente in grado di condurre tutti – la squadra, adoperando termini spesso troppo usati -, ad un risultato comune e di successo.

Ma dialogo, condivisione, lavoro comune sono concetti che occorre applicare con attenzione. Non devono portare alla confusione, ma alla migliore azione.

“Iniziativa individuale e impresa. Per una cultura dialogica” di Karl-Martin Dietz serve per affrontare questo tema da un punto di vista organico e originale. Il testo ripercorre una conferenza tenuta da Dietz presso l’Università di Heidelberg, ne approfondisce i contenuti e costituisce una buona introduzione alla cosiddetta “conduzione dialogica” d’impresa e alla  “cultura dialogica” della stessa. Si tratta cioè della sintesi di un approccio sviluppato a partire dalla metà degli anni ’90 e che da allora ha fatto molta strada nella pratica di molte imprese oltre che di organizzazioni culturali. Deitz  spiega, illustra, argomenta partendo dalle sue conoscenze di filologia classica e filosofia, oltre che di economia. E arriva a delineare un metodo di gestione d’impresa fondato, appunto, sul dialogo, ma ben radicato anche nella reale pratica aziendale.

Dopo aver affrontato il tema gettando alcune serie basi teoriche – anche fra l’altro con un bel capitolo sul concetto stesso di dialogo -, Dietz va al centro della questione è spiega cosa sia la “cultura dialogica d’impresa”, cioè quel particolare approccio di gestione della stessa che “si propone, attraverso i suoi processi, di portare nell’impresa il maggior numero possibile di persone a un atteggiamento imprenditoriale, di fare in modo che invece di disposizioni vi siano sempre più stimoli, e possibilità invece di direttive”. L’autore, quindi, indica alcuni strumenti operativi che danno corpo a “processi dialogici” importanti per il cambiamento di gestione: l’incontro individuale, la trasparenza, la discussione e  la decisione.

Non sempre il testo di Dietz è facile e immediato, e non sempre ci si può trovare d’accordo con quanto scritto, ma leggerlo è importante: pone domande, indica metodi di lavoro diversi dai consueti. Dietz va conosciuto da imprenditori e manager avveduti.

Iniziativa individuale e impresa. Per una cultura dialogica

Karl-Martin Dietz

Editrice Novalis, 2013

Un secolo di Gomma

Responsabilità sociale e regole Ue, una sfida per le imprese e il governo

Responsabilità sociale d’impresa come dimensione chiave della competitività. E sostenibilità ambientale e sociale come caratteristiche di fondo dell’industria italiana. C’è una direttiva della Ue, la 2014/95, da introdurre nell’ordinamento italiano, sulla “comunicazione delle informazioni non finanziarie” (il bilancio ambientale, il bilancio sociale, i documenti sui rapporti con gli stakeholders, le regole sull’inclusione e contro le discriminazioni, etc.). C’è una crescente attenzione ai temi dei rapporti tra imprese e i territori su cui insistono le attività produttive (l’ONU e l’Ocse hanno varato importanti documenti, per dare conto con dati e fatti di tali rapporti). Ma c’è già un gran cammino fatto dalle imprese italiane più competitive e abituate agli standard dei mercati internazionali per prodotti e sistemi di produzione rispettosi di ambiente, persone, etc.

Se n’è discusso alla fine della scorsa settimana, a Roma, nelle sale della Presidenza del Consiglio, con un convegno su “Trasparenza e sostenibilità – Dall’Europa una sfida per le imprese italiane“, organizzato dal Gruppo Cultura di Confindustria con la partecipazione di imprenditori, manager, economisti, dirigenti del ministero dello Sviluppo Economico e del Lavoro e con la partecipazione del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Sandro Gozi. Direttiva Ue già diventata provvedimento del governo, legge delega, ha detto Gozi, e adesso da mettere a punto entro l’agosto 2016, dopo un confronto con Confindustria, altre organizzazioni d’impresa, sindacati.

Ci sono parecchie opinioni comuni. Una applicazione della Direttiva Ue non burocratica, “leggera”, che comporti pochi adempimenti formali per le imprese. Una flessibilità, per le imprese, di scegliere a quali standard internazionali uniformare i loro documenti, dai bilanci ambientali a quelli sociali (Iso 26000, Global Compact, Global Reporting Iniziative, Linee Guida OCSE, Principi guida dell’ONU su imprese e diritti umani, etc.). Un’attenzione per le piccole e medie imprese, da coinvolgere in percorsi di responsabilità sociale e non da gravare con ulteriori complesse burocraticità.

Siamo di fronte all’esigenza di una vera e propria svolta culturale, nell’attività dell’impresa. Che insiste sulla qualità come cardine della competitività. E che deve trovare anche nuove e migliori ragioni di legittimazione sociale. Le imprese italiane, ha certificato Symbola (vedi blog della scorsa settimana) sono campioni di eco-sostenibilità. Molte imprese grandi e medie sono già in linea con i più esigenti parametri internazionali. Si può andare avanti, coinvolgendo tutto il sistema imprenditoriale. Con buoni vantaggi per tutti.

Responsabilità sociale d’impresa come dimensione chiave della competitività. E sostenibilità ambientale e sociale come caratteristiche di fondo dell’industria italiana. C’è una direttiva della Ue, la 2014/95, da introdurre nell’ordinamento italiano, sulla “comunicazione delle informazioni non finanziarie” (il bilancio ambientale, il bilancio sociale, i documenti sui rapporti con gli stakeholders, le regole sull’inclusione e contro le discriminazioni, etc.). C’è una crescente attenzione ai temi dei rapporti tra imprese e i territori su cui insistono le attività produttive (l’ONU e l’Ocse hanno varato importanti documenti, per dare conto con dati e fatti di tali rapporti). Ma c’è già un gran cammino fatto dalle imprese italiane più competitive e abituate agli standard dei mercati internazionali per prodotti e sistemi di produzione rispettosi di ambiente, persone, etc.

Se n’è discusso alla fine della scorsa settimana, a Roma, nelle sale della Presidenza del Consiglio, con un convegno su “Trasparenza e sostenibilità – Dall’Europa una sfida per le imprese italiane“, organizzato dal Gruppo Cultura di Confindustria con la partecipazione di imprenditori, manager, economisti, dirigenti del ministero dello Sviluppo Economico e del Lavoro e con la partecipazione del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Sandro Gozi. Direttiva Ue già diventata provvedimento del governo, legge delega, ha detto Gozi, e adesso da mettere a punto entro l’agosto 2016, dopo un confronto con Confindustria, altre organizzazioni d’impresa, sindacati.

Ci sono parecchie opinioni comuni. Una applicazione della Direttiva Ue non burocratica, “leggera”, che comporti pochi adempimenti formali per le imprese. Una flessibilità, per le imprese, di scegliere a quali standard internazionali uniformare i loro documenti, dai bilanci ambientali a quelli sociali (Iso 26000, Global Compact, Global Reporting Iniziative, Linee Guida OCSE, Principi guida dell’ONU su imprese e diritti umani, etc.). Un’attenzione per le piccole e medie imprese, da coinvolgere in percorsi di responsabilità sociale e non da gravare con ulteriori complesse burocraticità.

Siamo di fronte all’esigenza di una vera e propria svolta culturale, nell’attività dell’impresa. Che insiste sulla qualità come cardine della competitività. E che deve trovare anche nuove e migliori ragioni di legittimazione sociale. Le imprese italiane, ha certificato Symbola (vedi blog della scorsa settimana) sono campioni di eco-sostenibilità. Molte imprese grandi e medie sono già in linea con i più esigenti parametri internazionali. Si può andare avanti, coinvolgendo tutto il sistema imprenditoriale. Con buoni vantaggi per tutti.

La legalità conveniente della buona impresa

Il successo di un’impresa si misura in tanti modi. Certo, c’ė il bilancio che fa profitti e segna vittorie di mercato, ci sono gli indici produttivi ad evidenziare la crescita dell’efficienza, c’ė la remunerazione degli azionisti a socializzare i traguardi raggiunti. Ma c’ė anche la modalità con cui il maggior profitto viene raggiunto, il mercato conquistato, la produzione accresciuta. È da tempo, quindi, che le imprese si misurano anche in termini di impegno sociale, responsabilità nei confronti del territorio in cui operano ma anche attenzione per i dipendenti che vi lavorano. È il periodo, questo, dell’etica d’impresa e dell’azienda che guarda spesso quasi più verso l’esterno di essa che al suo interno.

È per questi motivi che è bello e interessante leggere “Le sfide della legalità conveniente.  Per una pedagogia civile”, l’intervento che Salvatore Rossi – Direttore generale di Banca d’Italia -, ha fatto nell’ambito di un recente convegno dell’Associazione Nazionale Funzionari Amministrazione Civile dell’Interno. Si tratta di poche pagine in cui viene affrontato un tema importante per la crescita della cultura d’impresa in Italia e non solo: quello della legalità conveniente, cioè della legalità come elemento imprescindibile, non solo per una buona gestione d’impresa, ma anche per stabilire il successo dell’impresa stessa. Accanto a questo,Rossi ragiona anche sulle modalità per diffondere al meglio la stessa pratica della  legalità “conveniente”.

Emerge così che occorre dimostrare, per renderla più efficace, la convenienza della legalità come metodo unico e imprescindibile nella gestione d’impresa ed è necessario saper insegnare la pratica della legalità a tutti i livelli per poter arrivare a determinare il suo ruolo di “strumento di crescita utile e conveniente”, oltre che unico per la buona impresa.

Il testo di Salvatore Rossi spiega quindi gli intrecci fra livello di consapevolezza della convenienza della legalità e livello di istruzione, oltre che le ricadute a livello economico.

Una delle ultime fatiche di Rossi è quindi uno scritto importante, che crea un collegamento chiaro fra cultura dell’impresa responsabile e progresso della cultura sociale: un intreccio virtuoso che andrebbe coltivato di più e con più attenzione.

Le sfide della legalità conveniente. Per una pedagogia civile

Salvatore Rossi

Banca d’Italia, 2015

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Il successo di un’impresa si misura in tanti modi. Certo, c’ė il bilancio che fa profitti e segna vittorie di mercato, ci sono gli indici produttivi ad evidenziare la crescita dell’efficienza, c’ė la remunerazione degli azionisti a socializzare i traguardi raggiunti. Ma c’ė anche la modalità con cui il maggior profitto viene raggiunto, il mercato conquistato, la produzione accresciuta. È da tempo, quindi, che le imprese si misurano anche in termini di impegno sociale, responsabilità nei confronti del territorio in cui operano ma anche attenzione per i dipendenti che vi lavorano. È il periodo, questo, dell’etica d’impresa e dell’azienda che guarda spesso quasi più verso l’esterno di essa che al suo interno.

È per questi motivi che è bello e interessante leggere “Le sfide della legalità conveniente.  Per una pedagogia civile”, l’intervento che Salvatore Rossi – Direttore generale di Banca d’Italia -, ha fatto nell’ambito di un recente convegno dell’Associazione Nazionale Funzionari Amministrazione Civile dell’Interno. Si tratta di poche pagine in cui viene affrontato un tema importante per la crescita della cultura d’impresa in Italia e non solo: quello della legalità conveniente, cioè della legalità come elemento imprescindibile, non solo per una buona gestione d’impresa, ma anche per stabilire il successo dell’impresa stessa. Accanto a questo,Rossi ragiona anche sulle modalità per diffondere al meglio la stessa pratica della  legalità “conveniente”.

Emerge così che occorre dimostrare, per renderla più efficace, la convenienza della legalità come metodo unico e imprescindibile nella gestione d’impresa ed è necessario saper insegnare la pratica della legalità a tutti i livelli per poter arrivare a determinare il suo ruolo di “strumento di crescita utile e conveniente”, oltre che unico per la buona impresa.

Il testo di Salvatore Rossi spiega quindi gli intrecci fra livello di consapevolezza della convenienza della legalità e livello di istruzione, oltre che le ricadute a livello economico.

Una delle ultime fatiche di Rossi è quindi uno scritto importante, che crea un collegamento chiaro fra cultura dell’impresa responsabile e progresso della cultura sociale: un intreccio virtuoso che andrebbe coltivato di più e con più attenzione.

Le sfide della legalità conveniente. Per una pedagogia civile

Salvatore Rossi

Banca d’Italia, 2015

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L’azienda che vive

“L’azienda è un sistema vivente”. Lo sanno bene imprenditori e operai, e poi anche i manager e gli impiegati che vi lavorano. Fabbriche come corpi vivi, che sudano, che si ribellano; uffici come esseri che pensano, si emozionano, si affannano. Non è retorica industrialista ma osservazione della realtà con una particolare lente di ingrandimento. D’altra parte, che le aziende non siano macchine ma qualcosa d’altro, lo si sa e lo si sente. Occorre però sistematizzare ogni tanto queste sensazioni, renderle più efficaci per interpretare la realtà. A questo serve, per esempio, “Tempo della vita  e mercato del tempo”, dialogo sotto forma di libro scritto da Aldo Masullo (filosofo, Emerito di Filosofia morale all’Università Federico II di Napoli), e da Paolo Ricci (economista e Ordinario di Economia aziendale all’Università del Sannio).

In poco più di cento pagine, i due si esercitano in tre dialoghi attorno ai cardini economici e filosofici del fare impresa e quindi dell’economia e della filosofia che possono  aiutare a capire meglio come un’azienda diventa impresa, come si muove, come decide e, quindi, in definitiva come vive.

Il ragionamento parte, appunto, dalla constatazione di come l’azienda sia un sistema vivente ed è da qui che  si dipana lungo un cammino che tocca i collegamenti fra essere impresa e automazione (ci si chiede se l’azienda possa essere costituita solo da robot), per passare poi all’organizzazione aziendale in vista di determinati fini, alla natura dei traguardi che l’imprenditore si prefigge, per arrivare a quelli che vengono definiti “paradossi della nostra economia”, alla natura e al tempo di ritorno degli investimenti, al problema della continuità aziendale, del passaggio generazionale, toccando anche aspetti spinosi come quello della legittimazione al comando aziendale. Masullo e Ricci, poi, arrivano a ragionare sul valore aziendale spiegando che questo “non è dato soltanto dai suoi beni patrimoniali”.

I tre dialoghi attorno all’azienda e all’impresa di un filosofo e di un economista, possono non sempre essere condivisibili fino in fondo, in alcuni passaggi, poi, appaiono forse eccessivamente contorti. Forte è la critica al sistema capitalistico nel quale le aziende-imprese di oggi si muovo. Ma “Tempo della vita e tempo di mercato” è certamente un libro da leggere e gustare, qualcosa da avere sul tavolo e rileggere. Un testo che lascia una traccia una volta che lo si è letto.

Tempo della vita e mercato del tempo

Aldo Masullo, Paolo Ricci

Franco Angeli, 2015

“L’azienda è un sistema vivente”. Lo sanno bene imprenditori e operai, e poi anche i manager e gli impiegati che vi lavorano. Fabbriche come corpi vivi, che sudano, che si ribellano; uffici come esseri che pensano, si emozionano, si affannano. Non è retorica industrialista ma osservazione della realtà con una particolare lente di ingrandimento. D’altra parte, che le aziende non siano macchine ma qualcosa d’altro, lo si sa e lo si sente. Occorre però sistematizzare ogni tanto queste sensazioni, renderle più efficaci per interpretare la realtà. A questo serve, per esempio, “Tempo della vita  e mercato del tempo”, dialogo sotto forma di libro scritto da Aldo Masullo (filosofo, Emerito di Filosofia morale all’Università Federico II di Napoli), e da Paolo Ricci (economista e Ordinario di Economia aziendale all’Università del Sannio).

In poco più di cento pagine, i due si esercitano in tre dialoghi attorno ai cardini economici e filosofici del fare impresa e quindi dell’economia e della filosofia che possono  aiutare a capire meglio come un’azienda diventa impresa, come si muove, come decide e, quindi, in definitiva come vive.

Il ragionamento parte, appunto, dalla constatazione di come l’azienda sia un sistema vivente ed è da qui che  si dipana lungo un cammino che tocca i collegamenti fra essere impresa e automazione (ci si chiede se l’azienda possa essere costituita solo da robot), per passare poi all’organizzazione aziendale in vista di determinati fini, alla natura dei traguardi che l’imprenditore si prefigge, per arrivare a quelli che vengono definiti “paradossi della nostra economia”, alla natura e al tempo di ritorno degli investimenti, al problema della continuità aziendale, del passaggio generazionale, toccando anche aspetti spinosi come quello della legittimazione al comando aziendale. Masullo e Ricci, poi, arrivano a ragionare sul valore aziendale spiegando che questo “non è dato soltanto dai suoi beni patrimoniali”.

I tre dialoghi attorno all’azienda e all’impresa di un filosofo e di un economista, possono non sempre essere condivisibili fino in fondo, in alcuni passaggi, poi, appaiono forse eccessivamente contorti. Forte è la critica al sistema capitalistico nel quale le aziende-imprese di oggi si muovo. Ma “Tempo della vita e tempo di mercato” è certamente un libro da leggere e gustare, qualcosa da avere sul tavolo e rileggere. Un testo che lascia una traccia una volta che lo si è letto.

Tempo della vita e mercato del tempo

Aldo Masullo, Paolo Ricci

Franco Angeli, 2015

Una musa tra le ruote: le più belle immagini di Pirelli in un libro

Una musa tra le ruote, in un libro si celebra il rapporto tra arte e impresa

Symbola: l’orgoglio dell’industria da far crescere e il pregiudizio sul declino da combattere

L’evocazione è letteraria: “Orgoglio e pregiudizio”. Ma l’indicazione programmatica è molto concreta: “Perché l’Italia deve fare l’Italia”. Il luogo è Treia, un bellissimo borgo sulle colline di Macerata (ambiente naturale ben conservato, cultura diffusa, agricoltura efficiente, industria manifatturiera di qualità: a due passi, nella piana di Tolentino, ci sono anche gli stabilimenti di Poltrona Frau, un’eccellenza internazionale del made in Italy). L’occasione, nello scorso fine settimana, è il XIII Seminario Estivo di Symbola, la dinamica associazione della “soft economy” presieduta da Ermete Realacci. Nella sala del Teatro Comunale, ministri, politici, imprenditori e manager, economisti, uomini e donne di cultura e di scienza. L’orgoglio è quello del “bello e ben fatto”. Il pregiudizio è una convinzione diffusa d’essere di fronte all’irreversibile declino dell’Italia. Tutt’altro, si è detto e documentato. Quel pregiudizio è da sfatare. I dati del “Rapporto Italia – Geografie del nuovo made in Italy” (realizzato da Symbola con Unioncamere e Fondazione Edison) testimoniano infatti che ci sono quasi mille prodotti “da podio mondiale nell’export”, con un saldo commerciale attivo da record, punto di forza di un Paese che è i primi cinque al mondo a vantare un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (in buona compagnia con Cina, Germania, Giappone e Corea). E secondo un sondaggio Ipsos, circa l’80% degli americani e dei cinesi associa al made in Italy un valore positivo”. C’è una domanda mondiale di qualità italiana da soddisfare. Ed eccole, dunque, le eccellenze su cui puntare: la nostra manifattura, nelle “4A” di automazione industriale, agro-industria, arredamento e abbigliamento, ma anche l’automotive (grandi apprezzamenti per il rilancio dell’Alfa Romeo, con la nuova Giulia), la chimica, la gomma, la plastica, il farmaceutico, la meccatronica e la domotica, etc. Dunque, è necessario fare crescere la nostra industria di qualità. Più Italia nel mondo. E più mondo in Italia (Expo e dopo Expo possono ben aiutare).

I dati sul Pil dicono che siano in ripresa, pur debole e fragile. E cresce, anche se timidamente, la fiducia di imprese e consumatori. Sono condizioni da valorizzare, dopo una lunghissima e deprimente stagione di crisi. Ma anche da rafforzare. Vale la pena dare ascolto alle indicazioni di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, al recente convegno dei Cavalieri del Lavoro, sabato, a Milano: “L’andamento declinante della nostra economia si è interrotto quest’anno con un piccolo ma significativo incremento nell’andamento del Pil. Ma questi decimali di punto non diventeranno più robusti se non vi saranno interventi incisivi in termini di una vera policy per l’ industria”, oltre alle riforme per modernizzare il sistema Paese, troppo a lungo rinviate e ancora troppo timidamente avviate, per avere risultati stabili ci vuole una visione di politica industriale, delle regole moderne che favoriscano gli investimenti e politiche con strumenti affidabili e di cui si possano misurare i risultati nel tempo, correggendo gli errori”. Si torna dunque a parlare, dopo anni, di politica industriale, sia in Italia che a livello europeo. Con una netta modifica rispetto al passato. Non più contributi, incentivi, sostegni settoriali. Ma la costruzione di un ambiente favorevole alle imprese, alla crescita, agli investimenti interni e internazionali. Come? Puntando su innovazione, ricerca, formazione, semplificazione amministrativa, efficienza di fisco e giustizia civile, regole efficaci per aumentare la concorrenza, infrastrutture (la banda larga). Una miscela virtuosa, appunto, di riforme e “policy per l’industria”. In Italia, come abbiamo visto dai dati di Symbola, c’è un patrimonio di imprenditorialità e una grande forza delle imprese. Una leva essenziale, per lo sviluppo. Da usare bene. Un compito per la buona politica, no?

L’evocazione è letteraria: “Orgoglio e pregiudizio”. Ma l’indicazione programmatica è molto concreta: “Perché l’Italia deve fare l’Italia”. Il luogo è Treia, un bellissimo borgo sulle colline di Macerata (ambiente naturale ben conservato, cultura diffusa, agricoltura efficiente, industria manifatturiera di qualità: a due passi, nella piana di Tolentino, ci sono anche gli stabilimenti di Poltrona Frau, un’eccellenza internazionale del made in Italy). L’occasione, nello scorso fine settimana, è il XIII Seminario Estivo di Symbola, la dinamica associazione della “soft economy” presieduta da Ermete Realacci. Nella sala del Teatro Comunale, ministri, politici, imprenditori e manager, economisti, uomini e donne di cultura e di scienza. L’orgoglio è quello del “bello e ben fatto”. Il pregiudizio è una convinzione diffusa d’essere di fronte all’irreversibile declino dell’Italia. Tutt’altro, si è detto e documentato. Quel pregiudizio è da sfatare. I dati del “Rapporto Italia – Geografie del nuovo made in Italy” (realizzato da Symbola con Unioncamere e Fondazione Edison) testimoniano infatti che ci sono quasi mille prodotti “da podio mondiale nell’export”, con un saldo commerciale attivo da record, punto di forza di un Paese che è i primi cinque al mondo a vantare un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (in buona compagnia con Cina, Germania, Giappone e Corea). E secondo un sondaggio Ipsos, circa l’80% degli americani e dei cinesi associa al made in Italy un valore positivo”. C’è una domanda mondiale di qualità italiana da soddisfare. Ed eccole, dunque, le eccellenze su cui puntare: la nostra manifattura, nelle “4A” di automazione industriale, agro-industria, arredamento e abbigliamento, ma anche l’automotive (grandi apprezzamenti per il rilancio dell’Alfa Romeo, con la nuova Giulia), la chimica, la gomma, la plastica, il farmaceutico, la meccatronica e la domotica, etc. Dunque, è necessario fare crescere la nostra industria di qualità. Più Italia nel mondo. E più mondo in Italia (Expo e dopo Expo possono ben aiutare).

I dati sul Pil dicono che siano in ripresa, pur debole e fragile. E cresce, anche se timidamente, la fiducia di imprese e consumatori. Sono condizioni da valorizzare, dopo una lunghissima e deprimente stagione di crisi. Ma anche da rafforzare. Vale la pena dare ascolto alle indicazioni di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, al recente convegno dei Cavalieri del Lavoro, sabato, a Milano: “L’andamento declinante della nostra economia si è interrotto quest’anno con un piccolo ma significativo incremento nell’andamento del Pil. Ma questi decimali di punto non diventeranno più robusti se non vi saranno interventi incisivi in termini di una vera policy per l’ industria”, oltre alle riforme per modernizzare il sistema Paese, troppo a lungo rinviate e ancora troppo timidamente avviate, per avere risultati stabili ci vuole una visione di politica industriale, delle regole moderne che favoriscano gli investimenti e politiche con strumenti affidabili e di cui si possano misurare i risultati nel tempo, correggendo gli errori”. Si torna dunque a parlare, dopo anni, di politica industriale, sia in Italia che a livello europeo. Con una netta modifica rispetto al passato. Non più contributi, incentivi, sostegni settoriali. Ma la costruzione di un ambiente favorevole alle imprese, alla crescita, agli investimenti interni e internazionali. Come? Puntando su innovazione, ricerca, formazione, semplificazione amministrativa, efficienza di fisco e giustizia civile, regole efficaci per aumentare la concorrenza, infrastrutture (la banda larga). Una miscela virtuosa, appunto, di riforme e “policy per l’industria”. In Italia, come abbiamo visto dai dati di Symbola, c’è un patrimonio di imprenditorialità e una grande forza delle imprese. Una leva essenziale, per lo sviluppo. Da usare bene. Un compito per la buona politica, no?

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