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L’enciclica ambientalista del Papa e le sfide per economia e società

“Laudato si’”, è il titolo della nuova enciclica di Papa Francesco. Francescana fin dall’incipit, appunto, con un richiamo esplicito alla predicazione sulla bellezza del creato e sulla responsabilità della sua conservazione, “sulla cura della casa comune”. Un’enciclica “green”, ambientalista, secondo la sintesi dei media. Un monito, comunque, che investe le responsabilità di politica, economia, società non solo sull’ambiente ma sulla qualità degli equilibri economici e sociali.

Da tempo, d’altronde, e giustamente, Papa Francesco spende la propria autorevolezza per ricordare alla Chiesa, ma anche a tutta l’’opinione pubblica internazionale, ai credenti di altre religioni e ai non credenti, l’importanza di una “economia giusta”, più equilibrata, rispettosa dei diritti delle persone e dell’ambiente. Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e in altri interventi di forte spessore morale, aveva già denunciato “il feticismo del denaro”, i rischi di una “dittatura dell’economia senza volto né scopo”, le “iniquità radice dei mali sociali”. La nuova enciclica continua questi ragionamenti, con attenzione speciale per la tutela dell’eco-sistema, i diritti al cibo e alla vita di intere popolazioni. Il monito contro “la cultura dello spreco e dello scarto” è assolutamente condivisibile. Così come l’invito a frenare la rapacità finanziaria per costruire migliori equilibri di lavoro, di consumo, di vita.

Gli economisti e gli uomini e le donne d’impresa lo staranno a sentire? Si spera proprio di sì. Quelli posti dal Papa, peraltro, sono temi propri del miglior dibattito economico, come ci dicono, per esempio, le riletture degli scritti di John Maynard Keynes e di un grande economista italiano da riscoprire, Federico Caffè (Mario Draghi e Ignazio Visco sono stati tra i suoi allievi migliori).

Gli opportuni interventi del Papa rilanciano, infatti, il dibattito sul senso dell’economia, sulle relazioni tra “il capitalismo e il senso del limite”. Perché non può esservi né sviluppo di lungo periodo né buona economia senza una radicale riconsiderazione critica dei criteri di produzione e di consumo.

L’enciclica contiene una severissima critica della “finanza che soffoca l’economia reale” e ribadisce che “il mercato da solo non garantisce lo sviluppo&rdquordquo;. Temi forti, ruvidi, che hanno suscitato critiche e perplessità. Senza demonizzare la finanza, quando è realmente al servizio dell’impresa e della crescita equilibrata (finanza sono i sostegni all’industria e all’innovazione, i sostegni per le case, le opere pubbliche e i nuovi stabilimenti, le assicurazioni come parte integrante del welfare), il Papa ha ragione nel rilanciare la centralità dell’economia reale, dell’industria, della fabbrica, i valori della produzione sostenibile e del lavoro, la dignità di chi produce creando ricchezza da condividere e migliorando la qualità della vita. Proprio la Grande Crisi scatenata dall’avidità dell’economia di carta e della finanza speculativa ha insegnato a tutto il mondo che bisogna tornare a guardare alla produzione di beni e servizi, alla concretezza e alla responsabilità del lavoro ben fatto.

L’attenzione alla persona, d’altronde, è prioritaria, per qualunque attore economico che sia consapevole dell’importanza e delle responsabilità del suo ruolo. Proprio Papa Francesco aveva detto, lo scorso anno: ‘La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita…’. E vale la pena ricordare il conseguente commento di un grande filosofo, Michael Novak, sulle pagine di un quotidiano cattolico, Avvenire: ‘Fare impresa è una vocazione, salverà il mondo dalla povertà’. Temi essenziali, dunque, d’un consapevole discorso pubblico sull’impresa, lo sviluppo, la sostenibilità. Una sfida che, al di là dell’impresa, investe soprattutto i governi, la politica.

L’enciclica sostiene, ancora, che “serve la decrescita in alcune parti del mondo”, procurando risorse per far crescere in modo sano altre parti. E’ forse la parte più debole e criticabile. Perché sarebbe invece necessaria non una decrescita ma, piuttosto, una crescita più equilibrata, che punti sulla qualità e non sulla quantità di produzioni e ricchezza, sul superamento degli squilibri, su riforme attente la sicurezza, al territorio, ai diritti delle nuove generazioni e dei ceti sociali più deboli. Temi, anche in questo caso, di forte rilievo politico. Bisogna passare dall’ossessione della crescita ad ogni costo alla responsabilità dello sviluppo sostenibile. E cambiare anche strumenti di misurazione: non più solo il Pil, il prodotto interno lordo, la il Bes, l’indice del “benessere equo e sostenibile”, uno strumento messo a punto proprio dell’Istat, in Italia e già in uso. Sui temi ecologici c’è un forte appello affinché si faccia una vera “rivoluzione” che metta sullo stesso piano difesa della natura e difesa dell’uomo. E qui il Papa ha proprio ragione: è necessaria una vera e propria svolta culturale, contro l’avidità finanziaria e le illusioni di onnipotenza della tecnologia. Si riconduce tutto alla misura dell’uomo. E proprio in questa dimensione l’enciclica è di grande importanza, al di là di singoli temi su cui si può molto discutere, anche criticamente. Lega infatti questioni diverse in nome dello sviluppo equilibrato: la difesa dell’ambiente, la battaglia contro gli sprechi, la responsabilità dell’impresa e del lavoro, la condanna dell’illegalità, l’importanza dell’impegno personale. Un’idea globale dell’impegno. Con cui confrontarsi, anche da posizioni diverse. Un essenziale invito alla ricerca, alla riflessione, al dialogo.

“Laudato si’”, è il titolo della nuova enciclica di Papa Francesco. Francescana fin dall’incipit, appunto, con un richiamo esplicito alla predicazione sulla bellezza del creato e sulla responsabilità della sua conservazione, “sulla cura della casa comune”. Un’enciclica “green”, ambientalista, secondo la sintesi dei media. Un monito, comunque, che investe le responsabilità di politica, economia, società non solo sull’ambiente ma sulla qualità degli equilibri economici e sociali.

Da tempo, d’altronde, e giustamente, Papa Francesco spende la propria autorevolezza per ricordare alla Chiesa, ma anche a tutta l’’opinione pubblica internazionale, ai credenti di altre religioni e ai non credenti, l’importanza di una “economia giusta”, più equilibrata, rispettosa dei diritti delle persone e dell’ambiente. Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e in altri interventi di forte spessore morale, aveva già denunciato “il feticismo del denaro”, i rischi di una “dittatura dell’economia senza volto né scopo”, le “iniquità radice dei mali sociali”. La nuova enciclica continua questi ragionamenti, con attenzione speciale per la tutela dell’eco-sistema, i diritti al cibo e alla vita di intere popolazioni. Il monito contro “la cultura dello spreco e dello scarto” è assolutamente condivisibile. Così come l’invito a frenare la rapacità finanziaria per costruire migliori equilibri di lavoro, di consumo, di vita.

Gli economisti e gli uomini e le donne d’impresa lo staranno a sentire? Si spera proprio di sì. Quelli posti dal Papa, peraltro, sono temi propri del miglior dibattito economico, come ci dicono, per esempio, le riletture degli scritti di John Maynard Keynes e di un grande economista italiano da riscoprire, Federico Caffè (Mario Draghi e Ignazio Visco sono stati tra i suoi allievi migliori).

Gli opportuni interventi del Papa rilanciano, infatti, il dibattito sul senso dell’economia, sulle relazioni tra “il capitalismo e il senso del limite”. Perché non può esservi né sviluppo di lungo periodo né buona economia senza una radicale riconsiderazione critica dei criteri di produzione e di consumo.

L’enciclica contiene una severissima critica della “finanza che soffoca l’economia reale” e ribadisce che “il mercato da solo non garantisce lo sviluppo&rdquordquo;. Temi forti, ruvidi, che hanno suscitato critiche e perplessità. Senza demonizzare la finanza, quando è realmente al servizio dell’impresa e della crescita equilibrata (finanza sono i sostegni all’industria e all’innovazione, i sostegni per le case, le opere pubbliche e i nuovi stabilimenti, le assicurazioni come parte integrante del welfare), il Papa ha ragione nel rilanciare la centralità dell’economia reale, dell’industria, della fabbrica, i valori della produzione sostenibile e del lavoro, la dignità di chi produce creando ricchezza da condividere e migliorando la qualità della vita. Proprio la Grande Crisi scatenata dall’avidità dell’economia di carta e della finanza speculativa ha insegnato a tutto il mondo che bisogna tornare a guardare alla produzione di beni e servizi, alla concretezza e alla responsabilità del lavoro ben fatto.

L’attenzione alla persona, d’altronde, è prioritaria, per qualunque attore economico che sia consapevole dell’importanza e delle responsabilità del suo ruolo. Proprio Papa Francesco aveva detto, lo scorso anno: ‘La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita…’. E vale la pena ricordare il conseguente commento di un grande filosofo, Michael Novak, sulle pagine di un quotidiano cattolico, Avvenire: ‘Fare impresa è una vocazione, salverà il mondo dalla povertà’. Temi essenziali, dunque, d’un consapevole discorso pubblico sull’impresa, lo sviluppo, la sostenibilità. Una sfida che, al di là dell’impresa, investe soprattutto i governi, la politica.

L’enciclica sostiene, ancora, che “serve la decrescita in alcune parti del mondo”, procurando risorse per far crescere in modo sano altre parti. E’ forse la parte più debole e criticabile. Perché sarebbe invece necessaria non una decrescita ma, piuttosto, una crescita più equilibrata, che punti sulla qualità e non sulla quantità di produzioni e ricchezza, sul superamento degli squilibri, su riforme attente la sicurezza, al territorio, ai diritti delle nuove generazioni e dei ceti sociali più deboli. Temi, anche in questo caso, di forte rilievo politico. Bisogna passare dall’ossessione della crescita ad ogni costo alla responsabilità dello sviluppo sostenibile. E cambiare anche strumenti di misurazione: non più solo il Pil, il prodotto interno lordo, la il Bes, l’indice del “benessere equo e sostenibile”, uno strumento messo a punto proprio dell’Istat, in Italia e già in uso. Sui temi ecologici c’è un forte appello affinché si faccia una vera “rivoluzione” che metta sullo stesso piano difesa della natura e difesa dell’uomo. E qui il Papa ha proprio ragione: è necessaria una vera e propria svolta culturale, contro l’avidità finanziaria e le illusioni di onnipotenza della tecnologia. Si riconduce tutto alla misura dell’uomo. E proprio in questa dimensione l’enciclica è di grande importanza, al di là di singoli temi su cui si può molto discutere, anche criticamente. Lega infatti questioni diverse in nome dello sviluppo equilibrato: la difesa dell’ambiente, la battaglia contro gli sprechi, la responsabilità dell’impresa e del lavoro, la condanna dell’illegalità, l’importanza dell’impegno personale. Un’idea globale dell’impegno. Con cui confrontarsi, anche da posizioni diverse. Un essenziale invito alla ricerca, alla riflessione, al dialogo.

Pirelli, la storia fuori dai cassetti

Il mondo degli archivi d’impresa riunito a Milano

Pirelli ospiterà lunedì 15 e martedì 16 giugno – nell’Auditorium di Milano Bicocca – l’International Council on Archives, sezione Business Archives (ICA/SBA), il convegno annuale per archivisti d’impresa, dedicato al tema “Creating the best business archive – Achiving a good return on investment” promosso da Intesa San Paolo con la partnership di Fondazione Pirelli.

Negli ultimi anni il numero di fondi archivistici aziendali e archivi aziendali sia nel settore pubblico sia in quello privato è cresciuto enormemente. Come ottenere un buon ritorno sugli investimenti è infatti il tema e la sfida di questa conferenza, che si propone di diventare un luogo di scambio di idee ed esperienze. Il convegno prenderà le mosse dalla situazione italiana (Overview of Italian business archive scene) per arrivare a parlare dei Business archives in emerging markets per poi approfondire tematiche quali la scelta di modelli di gestione, con particolare attenzione per le esperienze inglesi, americane e svedesi (Innovative models of management) e le diverse forme organizzative degli archivi d’impresa (New archive services – New problems and solutions).

I partecipanti avranno la possibilità di visitare la storica Bicocca degli Arcimboldi, l’R&D (Laboratori di Ricerca e Sviluppo), l’Headquarters Pirelli con la torre di raffreddamento, simbolo e testimonianza della trasformazione urbanistica dell’area Bicocca, e l’archivio aziendale conservato presso la Fondazione Pirelli: un ricco patrimonio – proclamato di notevole interesse storico dalla Sovraintendenza Archivistica per la Lombardia nel 1972 – di cui fa parte anche un’ampia sezione dedicata alla comunicazione visiva, testimonianza della profonda collaborazione di Pirelli con intellettuali, artisti e fotografi.

Pirelli ospiterà lunedì 15 e martedì 16 giugno – nell’Auditorium di Milano Bicocca – l’International Council on Archives, sezione Business Archives (ICA/SBA), il convegno annuale per archivisti d’impresa, dedicato al tema “Creating the best business archive – Achiving a good return on investment” promosso da Intesa San Paolo con la partnership di Fondazione Pirelli.

Negli ultimi anni il numero di fondi archivistici aziendali e archivi aziendali sia nel settore pubblico sia in quello privato è cresciuto enormemente. Come ottenere un buon ritorno sugli investimenti è infatti il tema e la sfida di questa conferenza, che si propone di diventare un luogo di scambio di idee ed esperienze. Il convegno prenderà le mosse dalla situazione italiana (Overview of Italian business archive scene) per arrivare a parlare dei Business archives in emerging markets per poi approfondire tematiche quali la scelta di modelli di gestione, con particolare attenzione per le esperienze inglesi, americane e svedesi (Innovative models of management) e le diverse forme organizzative degli archivi d’impresa (New archive services – New problems and solutions).

I partecipanti avranno la possibilità di visitare la storica Bicocca degli Arcimboldi, l’R&D (Laboratori di Ricerca e Sviluppo), l’Headquarters Pirelli con la torre di raffreddamento, simbolo e testimonianza della trasformazione urbanistica dell’area Bicocca, e l’archivio aziendale conservato presso la Fondazione Pirelli: un ricco patrimonio – proclamato di notevole interesse storico dalla Sovraintendenza Archivistica per la Lombardia nel 1972 – di cui fa parte anche un’ampia sezione dedicata alla comunicazione visiva, testimonianza della profonda collaborazione di Pirelli con intellettuali, artisti e fotografi.

Cultura d’impresa IKEA

Come fa un’impresa a conquistare un nuovo mercato? E come fa un’impresa a dotarsi di fornitori affidabili in tutto il mondo?  Le domande non sono retoriche e non hanno una sola risposta. Eppure sono quesiti che importanti, che ogni giorno vengono posti probabilmente migliaia di volte. Per capire che risposte dare oltre alla teoria serve la pratica e quindi l’esperienza degli altri.

“Managing Strategic Alliances. The risks and rewards of IKEA’s purchasing strategy in Trade Area Greater China Regione (TAGC)” serve a questo scopo. Si tratta di una sorta di materiale di lavoro che analizza appunto la strategia di IKEA in Cina in particolare nei confronti dei fornitori.

Il lavoro è un documento molto sintetico, rapido da leggere, che di fatto mette a confronto il sistema di cultura d’impresa proprio dell’IKEA con quello di un’area di mercato vasta e complessa come la Trade Area Greater China Region (TAGC). In particolare, viene posto l’accento sulla gestione strategica dei fornitori e su come questa sia improntata sulla cultura IKEA. Tutto quindi parte dall’analisi della strategia di acquisizione dei fornitori da parte di IKEA. “La strategia di acquisto  – viene spiegato -, è stata progettata per mantenere bassi i costi, permettendo all’azienda di essere competitiva sui costi”.  Successivamente, vengono approfonditi i vantaggi possibili derivanti dalle alleanze nell’area TAGC partendo però sempre dalla cultura d’impresa IKEA (che traspare anche nei metodi di acquisizione di nuovi partners così come dalle istruzioni studiate per effettuarla).  La conclusione dell’indagine,  ribadisce l’importanza della ricerca della migliore alleanza in termini di forniture per rendere sempre più forte la strategia di abbattimento dei costi sulla quale l’impresa svedese ha fatto la sua fortuna.

Leggere “Managing Strategic Alliances” serve tuttavia anche per un altro scopo oltre a quello di comprendere la realtà IKEA. E’ un esempio, infatti, di come  ancora una volta la cultura d’impresa informa di se’ la strategia dell’impresa stessa, il suo muoversi nel mondo, la sua ricerca di alleati utili all’obiettivo finale.

Managing Strategic Alliances

Emily Groh

University of Portland

Primavera 2015

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Come fa un’impresa a conquistare un nuovo mercato? E come fa un’impresa a dotarsi di fornitori affidabili in tutto il mondo?  Le domande non sono retoriche e non hanno una sola risposta. Eppure sono quesiti che importanti, che ogni giorno vengono posti probabilmente migliaia di volte. Per capire che risposte dare oltre alla teoria serve la pratica e quindi l’esperienza degli altri.

“Managing Strategic Alliances. The risks and rewards of IKEA’s purchasing strategy in Trade Area Greater China Regione (TAGC)” serve a questo scopo. Si tratta di una sorta di materiale di lavoro che analizza appunto la strategia di IKEA in Cina in particolare nei confronti dei fornitori.

Il lavoro è un documento molto sintetico, rapido da leggere, che di fatto mette a confronto il sistema di cultura d’impresa proprio dell’IKEA con quello di un’area di mercato vasta e complessa come la Trade Area Greater China Region (TAGC). In particolare, viene posto l’accento sulla gestione strategica dei fornitori e su come questa sia improntata sulla cultura IKEA. Tutto quindi parte dall’analisi della strategia di acquisizione dei fornitori da parte di IKEA. “La strategia di acquisto  – viene spiegato -, è stata progettata per mantenere bassi i costi, permettendo all’azienda di essere competitiva sui costi”.  Successivamente, vengono approfonditi i vantaggi possibili derivanti dalle alleanze nell’area TAGC partendo però sempre dalla cultura d’impresa IKEA (che traspare anche nei metodi di acquisizione di nuovi partners così come dalle istruzioni studiate per effettuarla).  La conclusione dell’indagine,  ribadisce l’importanza della ricerca della migliore alleanza in termini di forniture per rendere sempre più forte la strategia di abbattimento dei costi sulla quale l’impresa svedese ha fatto la sua fortuna.

Leggere “Managing Strategic Alliances” serve tuttavia anche per un altro scopo oltre a quello di comprendere la realtà IKEA. E’ un esempio, infatti, di come  ancora una volta la cultura d’impresa informa di se’ la strategia dell’impresa stessa, il suo muoversi nel mondo, la sua ricerca di alleati utili all’obiettivo finale.

Managing Strategic Alliances

Emily Groh

University of Portland

Primavera 2015

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Economia e cultura per fare meglio impresa

Produrre bene significa  anche avere attenzione all’altro. Ma occorre disporre degli strumenti adatti per  poter comprendere l’altro. L’economia, in altre parole, deve avvalersi anche di altre discipline. E così la gestione aziendale. Cultura d’impresa, cultura del territorio e gestione economica devono quindi andare di pari passo. Affermazione apparentemente facile, questa è in effetti difficile da applicare in realtà.

“Culture and economic action”, appena pubblicato, è un libro che può aiutare molto a capire i legami forti fra cultura ed economia, ed è quindi utile per mettere insieme consapevolezza culturale e azione economica.

L’assunto di base della raccolta di saggi curata da Laura E. Grube e Virgil Henry Storr  (economisti di scuola austriaca), è che per davvero il tipo di cultura influenza la modalità con cui l’economia si avvicina alla realtà e la interpreta.

Per spiegare quest’idea, il libro si suddivide in due parti.  Nella prima,  i lavori inquadrano dal punto di vista generale la teoria economica e la cultura e i loro legami. Qui sono toccati temi come la natura dell’imprenditorialità, la gestione delle opportunità e della scoperta, il mercato, lo sviluppo economico e la crescita, il capitale.  Nella seconda parte (“Understanding economic life by usign culture”), vengono invece presi in considerazione diversi “casi studio”  che approfondiscono casi di influenza reciproca fra cultura ed economia in alcuni Paesi  e Continenti. Si parla, per esempio, della situazione negli USA ma anche di quella della Romania e del Sud Africa.

Ciò che ne emerge è un affascinante quadro fatto di teoria e di pratica, di analisi economica di alto livello e di ricerca sociale approfondita. Una lettura utile a chi – manager o imprenditore -, debba cimentarsi con “l’altro” inteso come un nuovo mercato, un nuovo insediamento produttivo, un nuovo socio in azienda.

Culture and economic action

Laura E. Grube, Virgil Henry Storr

Elgar, 2015

Produrre bene significa  anche avere attenzione all’altro. Ma occorre disporre degli strumenti adatti per  poter comprendere l’altro. L’economia, in altre parole, deve avvalersi anche di altre discipline. E così la gestione aziendale. Cultura d’impresa, cultura del territorio e gestione economica devono quindi andare di pari passo. Affermazione apparentemente facile, questa è in effetti difficile da applicare in realtà.

“Culture and economic action”, appena pubblicato, è un libro che può aiutare molto a capire i legami forti fra cultura ed economia, ed è quindi utile per mettere insieme consapevolezza culturale e azione economica.

L’assunto di base della raccolta di saggi curata da Laura E. Grube e Virgil Henry Storr  (economisti di scuola austriaca), è che per davvero il tipo di cultura influenza la modalità con cui l’economia si avvicina alla realtà e la interpreta.

Per spiegare quest’idea, il libro si suddivide in due parti.  Nella prima,  i lavori inquadrano dal punto di vista generale la teoria economica e la cultura e i loro legami. Qui sono toccati temi come la natura dell’imprenditorialità, la gestione delle opportunità e della scoperta, il mercato, lo sviluppo economico e la crescita, il capitale.  Nella seconda parte (“Understanding economic life by usign culture”), vengono invece presi in considerazione diversi “casi studio”  che approfondiscono casi di influenza reciproca fra cultura ed economia in alcuni Paesi  e Continenti. Si parla, per esempio, della situazione negli USA ma anche di quella della Romania e del Sud Africa.

Ciò che ne emerge è un affascinante quadro fatto di teoria e di pratica, di analisi economica di alto livello e di ricerca sociale approfondita. Una lettura utile a chi – manager o imprenditore -, debba cimentarsi con “l’altro” inteso come un nuovo mercato, un nuovo insediamento produttivo, un nuovo socio in azienda.

Culture and economic action

Laura E. Grube, Virgil Henry Storr

Elgar, 2015

Assolombarda: “steam” per il dopo-Expo, innovazione, hi tech e “arts”

Steam”, per “far volare Milano”. Un gioco di parole, sul “vapore” che può sostenere lo sviluppo. Ma anche e soprattutto una strategia, rilanciata da Assolombarda nell’assemblea che lunedì ha approvato all’unanimità la fusione con Confindustria Monza e Brianza (ne nascerà un colosso di oltre 5.700 imprese iscritte, con 320mila addetti, in rappresentanza di un territorio che concentra circa il 39% delle imprese attive della Lombardia, considerando anche le aziende di Lodi, già confluite da tempo in Assolombarda).

Che strategia? “Steam” è un acronimo: le iniziali di “science”, “technology”, “engineering”, “arts” e “mathematics”. E cioè tutte le componenti dell’innovazione che spinge la crescita economica, con una sottolineatura molto netta, per quel che riguarda la Grande Milano: la “a” delle culture creative e umanistiche che si aggiunge e potenza fortemente la formula “stem” cara all’innovazione hi tech made in Usa. E’ un tema ribadito, ancora lunedì, dal presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca (ne abbiamo parlato altre volte, in questo blog). E sottolinea proprio la straordinaria e originale competitività di Milano metropoli, con la sua “cultura politecnica” che lega umanesimo e scienza, visioni letterarie e artistiche e competenze tecnologiche. Tutto in chiave di “economia della conoscenza” e di innovazione, nel senso più ampio del termine.

Sostiene Rocca: “Steam è qualcosa di molto diverso dalla tradizionale divisione tra manifattura e servizi. L’elevata quota di servizi generata dalla manifattura, il moltiplicatore rappresentato dal fatto che la concorrenza nella globalizzazione è tra gradi aree metropolitane che proiettano nel mondo le proprie specializzazioni e la propria attrattività, l’impatto dell’intreccio tra ricerca e nuove tecnologie, l’innovazione di processo e di prodotto che va scaricata a terra trasformando le imprese e la pubblica amministrazione, tutto questo per noi di Assolombarda va declinato insieme: nella formula Steam. Siamo convinti che la matrice di queste priorità congiunte possa determinare tra i 13 e i 18 miliardi di valore aggiunto nel prossimo decennio. E’ lo scenario più vantaggioso tra quelli che abbiamo esaminato”.

Uno scenario di eccellenze e di stimolante cultura d’impresa innovativa “che mette  a fattor comune multiplo le caratteristiche di Milano come start up town, come polo di incubazione della nuova imprenditorialità, di città della ricerca, con l’eccellenza dei suoi poli universitari a 360 gradi, di città delle idee come centro europeo della moda, del design e della comunicazione, di città della nuova manifattura e dell’Industry 4.0”.

In tempi in cui l’Expo porta tutto il mondo a guardare a Milano e Milano a mettere in vetrina le eccellenze dell’intero made in Italy, la sfida sta proprio qua: manifattura, cultura, formazione, ricerca. La metropoli dell’innovazione e del cambiamento. Anche e soprattutto per il dopo Expo. Steam, appunto.

Steam”, per “far volare Milano”. Un gioco di parole, sul “vapore” che può sostenere lo sviluppo. Ma anche e soprattutto una strategia, rilanciata da Assolombarda nell’assemblea che lunedì ha approvato all’unanimità la fusione con Confindustria Monza e Brianza (ne nascerà un colosso di oltre 5.700 imprese iscritte, con 320mila addetti, in rappresentanza di un territorio che concentra circa il 39% delle imprese attive della Lombardia, considerando anche le aziende di Lodi, già confluite da tempo in Assolombarda).

Che strategia? “Steam” è un acronimo: le iniziali di “science”, “technology”, “engineering”, “arts” e “mathematics”. E cioè tutte le componenti dell’innovazione che spinge la crescita economica, con una sottolineatura molto netta, per quel che riguarda la Grande Milano: la “a” delle culture creative e umanistiche che si aggiunge e potenza fortemente la formula “stem” cara all’innovazione hi tech made in Usa. E’ un tema ribadito, ancora lunedì, dal presidente di Assolombarda Gianfelice Rocca (ne abbiamo parlato altre volte, in questo blog). E sottolinea proprio la straordinaria e originale competitività di Milano metropoli, con la sua “cultura politecnica” che lega umanesimo e scienza, visioni letterarie e artistiche e competenze tecnologiche. Tutto in chiave di “economia della conoscenza” e di innovazione, nel senso più ampio del termine.

Sostiene Rocca: “Steam è qualcosa di molto diverso dalla tradizionale divisione tra manifattura e servizi. L’elevata quota di servizi generata dalla manifattura, il moltiplicatore rappresentato dal fatto che la concorrenza nella globalizzazione è tra gradi aree metropolitane che proiettano nel mondo le proprie specializzazioni e la propria attrattività, l’impatto dell’intreccio tra ricerca e nuove tecnologie, l’innovazione di processo e di prodotto che va scaricata a terra trasformando le imprese e la pubblica amministrazione, tutto questo per noi di Assolombarda va declinato insieme: nella formula Steam. Siamo convinti che la matrice di queste priorità congiunte possa determinare tra i 13 e i 18 miliardi di valore aggiunto nel prossimo decennio. E’ lo scenario più vantaggioso tra quelli che abbiamo esaminato”.

Uno scenario di eccellenze e di stimolante cultura d’impresa innovativa “che mette  a fattor comune multiplo le caratteristiche di Milano come start up town, come polo di incubazione della nuova imprenditorialità, di città della ricerca, con l’eccellenza dei suoi poli universitari a 360 gradi, di città delle idee come centro europeo della moda, del design e della comunicazione, di città della nuova manifattura e dell’Industry 4.0”.

In tempi in cui l’Expo porta tutto il mondo a guardare a Milano e Milano a mettere in vetrina le eccellenze dell’intero made in Italy, la sfida sta proprio qua: manifattura, cultura, formazione, ricerca. La metropoli dell’innovazione e del cambiamento. Anche e soprattutto per il dopo Expo. Steam, appunto.

Quando l’arte corre veloce

Cosa accade quando un’impresa esplora il mondo?

Le imprese che lavorano anche all’estero – e non solo semplicemente vendendo ciò che fanno -, corrono di più che le altre, accelerano meglio nella conquista di nuovi mercati, appaiono più dinamiche, più pronte a reagire. Questione di organizzazione, ma anche di cultura dell’impresa stessa, abituata a guardare oltre il mercato interno. Comprendere il come e il perché di tutto questo è necessario per migliorare la gestione delle singole aziende ma anche per ampliare l’orizzonte di chi – manager o imprenditore -, non ha ancora definitivamente scelto che cosa fare. E per farlo occorrono valutazioni basate su numeri.

Ci hanno pensato  Alessandro Borin e Michele Mancini del Servizio Relazioni Internazionali di Banca d’Italia in una nota pubblicata nei working papers dell’Istituto Centrale italiano che parte da una constatazione – “Negli ultimi due decenni un numero crescente di imprese italiane ha scelto di internazionalizzarsi attraverso la creazione o l’acquisizione di affiliate estere” -, per arrivare ad un obiettivo di studio: capire “gli effetti di questi investimenti sulla produttività e sull’occupazione della casa-madre”.

L’indagine è stata svolta con la costruzione di una banca dati progettata apposta incrociando le informazioni provenienti da più fonti per un esteso campione di imprese manifatturiere italiane per il periodo 1988-2011.

La conclusione dell’analisi statistica ed economica, conforta quella delle “sensazioni d’impresa”.

“Le aziende che si internazionalizzano – spiegano i due ricercatori -, posseggono un vantaggio competitivo rispetto alle altre ancora prima di diventare multinazionali”. Che vuole dire, in altri termini, come occorra essere in qualche modo già predisposti a varcare i confini per cercare nuovi mercati. Certo, occorre una cultura imprenditoriale diversa ma anche connotati economici concreti e ben definiti come una “dimensione molto superiore alla media (circa il doppio per fatturato) e una produttività superiore del 14% a quella delle altre imprese, indipendentemente dal settore e dalla dimensione”. Ma non solo.

L’indagine sonda anche gli effetti della presenza di attività oltre confine sulla struttura aziendale e sulle modalità di affrontare la produzione. Arrivando  non solo a constatare le presenza di risultati positivi in termini di bilancio, ma anche – e soprattutto -, un cambiamento della struttura dell’occupazione. “Il risultato aggregato – spiega il rapporto -, è determinato dalla crescita degli occupati white collar nelle imprese che investono nei paesi avanzati; negli altri casi non si registrano effetti statisticamente significativi, neppure nella componente blue collar delle imprese che investono nei paesi emergenti”.

Insomma, quando l’impresa inizia ad esplorare il mondo, davvero cambia tutto, dentro e fuori di essa. La nota di Banca d’Italia aggiunge elementi preziosi per comprendere meglio la nuova realtà.

Investimenti diretti esteri e performance d’impresa: un’analisi empirica basata su un campione di imprese italiane

Alessandro Borin e Michele Mancini

Banca d’Italia, Proposte di discussione, giugno 2015

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Le imprese che lavorano anche all’estero – e non solo semplicemente vendendo ciò che fanno -, corrono di più che le altre, accelerano meglio nella conquista di nuovi mercati, appaiono più dinamiche, più pronte a reagire. Questione di organizzazione, ma anche di cultura dell’impresa stessa, abituata a guardare oltre il mercato interno. Comprendere il come e il perché di tutto questo è necessario per migliorare la gestione delle singole aziende ma anche per ampliare l’orizzonte di chi – manager o imprenditore -, non ha ancora definitivamente scelto che cosa fare. E per farlo occorrono valutazioni basate su numeri.

Ci hanno pensato  Alessandro Borin e Michele Mancini del Servizio Relazioni Internazionali di Banca d’Italia in una nota pubblicata nei working papers dell’Istituto Centrale italiano che parte da una constatazione – “Negli ultimi due decenni un numero crescente di imprese italiane ha scelto di internazionalizzarsi attraverso la creazione o l’acquisizione di affiliate estere” -, per arrivare ad un obiettivo di studio: capire “gli effetti di questi investimenti sulla produttività e sull’occupazione della casa-madre”.

L’indagine è stata svolta con la costruzione di una banca dati progettata apposta incrociando le informazioni provenienti da più fonti per un esteso campione di imprese manifatturiere italiane per il periodo 1988-2011.

La conclusione dell’analisi statistica ed economica, conforta quella delle “sensazioni d’impresa”.

“Le aziende che si internazionalizzano – spiegano i due ricercatori -, posseggono un vantaggio competitivo rispetto alle altre ancora prima di diventare multinazionali”. Che vuole dire, in altri termini, come occorra essere in qualche modo già predisposti a varcare i confini per cercare nuovi mercati. Certo, occorre una cultura imprenditoriale diversa ma anche connotati economici concreti e ben definiti come una “dimensione molto superiore alla media (circa il doppio per fatturato) e una produttività superiore del 14% a quella delle altre imprese, indipendentemente dal settore e dalla dimensione”. Ma non solo.

L’indagine sonda anche gli effetti della presenza di attività oltre confine sulla struttura aziendale e sulle modalità di affrontare la produzione. Arrivando  non solo a constatare le presenza di risultati positivi in termini di bilancio, ma anche – e soprattutto -, un cambiamento della struttura dell’occupazione. “Il risultato aggregato – spiega il rapporto -, è determinato dalla crescita degli occupati white collar nelle imprese che investono nei paesi avanzati; negli altri casi non si registrano effetti statisticamente significativi, neppure nella componente blue collar delle imprese che investono nei paesi emergenti”.

Insomma, quando l’impresa inizia ad esplorare il mondo, davvero cambia tutto, dentro e fuori di essa. La nota di Banca d’Italia aggiunge elementi preziosi per comprendere meglio la nuova realtà.

Investimenti diretti esteri e performance d’impresa: un’analisi empirica basata su un campione di imprese italiane

Alessandro Borin e Michele Mancini

Banca d’Italia, Proposte di discussione, giugno 2015

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L’impresa paziente

La buona impresa è anche un’impresa paziente? Probabilmente sì, se all’idea (al concetto), di pazienza si dà il significato giusto. Che non è quello legato al perdere tempo, all’essere arrendevoli e inattivi di fronte alla realtà.  Se fosse così, certamente nessun imprenditore che si rispetti potrebbe essere paziente. Soprattutto oggi. Proprio al tempo presente, tuttavia, il concetto di pazienza se ben interpretato e usato, può essere molto utile a chi deve assumere decisioni di gestione e scelte economiche che possono dirimere del destino di aziende e persone.

“Pazienza” di Luciana Regina, pubblicato da qualche mese, aiuta certamente a capire cos’è davvero la pazienza e ad applicarla anche nella gestione d’impresa. Con una precisazione: il volume (poco più di cento pagine), non è un libriccino di filosofia applicata all’impresa, ma qualcosa d’altro, più completo e complesso, e per questo forse più utile proprio agli imprenditori e ai manager che le aziende devono vivificare e governare. Il testo di Luciana Regina (filosofa e docente di Pratiche filosofiche all’Università di Torino),non dà ricette preconfezionate e nemmeno certezze particolari: indaga, fa ragionare, affascina, prende per mano il lettore e lo porta con i suoi stessi mezzi a ragionare attorno ad un concetto comune ma alla fine poco approfondito veramente.  Regina, poi, scrive come se parlasse a persone interessate all’argomento ma senza una vera preparazione filosofica, discute con se stessa e con il lettore. Si fa capire (cosa rara al giorno d’oggi, ancor di più nel settore della filosofia e delle scienze sociali).

Il volume, quindi, affronta il concetto di pazienza dal punto di vista filosofico indagandone i diversi aspetti, le interpretazioni, le applicazioni nella vita quotidiana e nel lavoro. Fra i vari capitoli, spiccano “La pazienza e l’epoca presente”, “La pazienza e l’inutile”, “La pazienza secolarizzata” e ancora “Pazienza e mediazione”. E per far capire meglio di cosa si sta parlando, vengono anche usati esempi tratti da alcuni grandi della letteratura e non solo. Compaiono così il “Piccolo Principe” accanto a Gesù, Giobbe vicino ad Ulisse, e poi ancora Kafka, Melville, Hemigway, Conrad, Buzzati, Tolstoj e Dostoevskij. Tutti accomunati da un concetto di pazienza che si declina in varie forme ma che rimane immutato ed efficace.

Il libro di Luciana Regina è apparentemente lontano dall’impresa e dall’economia eppure invece è ad esse molto vicino se impresa ed economia sono attività immerse nella società e fatte di persone. Ad un certo punto l’autrice compara la pazienza con il dilagare dell’immediato e del contingente, dell’inevitabile e dell’urgente. Certo, le scelte d’impresa possono anche essere un lampo che squarcia il buio di una monotona gestione, ma sono anche frutto di lunghe e (guarda caso), pazienti ricerche di migliori produzioni e nuovi mercati, attente osservazioni, lungimiranti e non frettolose visioni del futuro. Per questo serve leggere “Pazienza”.

Pazienza

Luciana Regina

Mursia, 2014

La buona impresa è anche un’impresa paziente? Probabilmente sì, se all’idea (al concetto), di pazienza si dà il significato giusto. Che non è quello legato al perdere tempo, all’essere arrendevoli e inattivi di fronte alla realtà.  Se fosse così, certamente nessun imprenditore che si rispetti potrebbe essere paziente. Soprattutto oggi. Proprio al tempo presente, tuttavia, il concetto di pazienza se ben interpretato e usato, può essere molto utile a chi deve assumere decisioni di gestione e scelte economiche che possono dirimere del destino di aziende e persone.

“Pazienza” di Luciana Regina, pubblicato da qualche mese, aiuta certamente a capire cos’è davvero la pazienza e ad applicarla anche nella gestione d’impresa. Con una precisazione: il volume (poco più di cento pagine), non è un libriccino di filosofia applicata all’impresa, ma qualcosa d’altro, più completo e complesso, e per questo forse più utile proprio agli imprenditori e ai manager che le aziende devono vivificare e governare. Il testo di Luciana Regina (filosofa e docente di Pratiche filosofiche all’Università di Torino),non dà ricette preconfezionate e nemmeno certezze particolari: indaga, fa ragionare, affascina, prende per mano il lettore e lo porta con i suoi stessi mezzi a ragionare attorno ad un concetto comune ma alla fine poco approfondito veramente.  Regina, poi, scrive come se parlasse a persone interessate all’argomento ma senza una vera preparazione filosofica, discute con se stessa e con il lettore. Si fa capire (cosa rara al giorno d’oggi, ancor di più nel settore della filosofia e delle scienze sociali).

Il volume, quindi, affronta il concetto di pazienza dal punto di vista filosofico indagandone i diversi aspetti, le interpretazioni, le applicazioni nella vita quotidiana e nel lavoro. Fra i vari capitoli, spiccano “La pazienza e l’epoca presente”, “La pazienza e l’inutile”, “La pazienza secolarizzata” e ancora “Pazienza e mediazione”. E per far capire meglio di cosa si sta parlando, vengono anche usati esempi tratti da alcuni grandi della letteratura e non solo. Compaiono così il “Piccolo Principe” accanto a Gesù, Giobbe vicino ad Ulisse, e poi ancora Kafka, Melville, Hemigway, Conrad, Buzzati, Tolstoj e Dostoevskij. Tutti accomunati da un concetto di pazienza che si declina in varie forme ma che rimane immutato ed efficace.

Il libro di Luciana Regina è apparentemente lontano dall’impresa e dall’economia eppure invece è ad esse molto vicino se impresa ed economia sono attività immerse nella società e fatte di persone. Ad un certo punto l’autrice compara la pazienza con il dilagare dell’immediato e del contingente, dell’inevitabile e dell’urgente. Certo, le scelte d’impresa possono anche essere un lampo che squarcia il buio di una monotona gestione, ma sono anche frutto di lunghe e (guarda caso), pazienti ricerche di migliori produzioni e nuovi mercati, attente osservazioni, lungimiranti e non frettolose visioni del futuro. Per questo serve leggere “Pazienza”.

Pazienza

Luciana Regina

Mursia, 2014

Mattarella all’Expo: economia green e “circolare” contro l’incultura di scarti e sprechi

“Riuscire a usare le risorse in modo più intelligente non è un’utopia. Bisogna essere consumatori razionali”. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella cita Steiner, filosofo e pedagogo. Parla all’Expo, declinando in modo civilmente responsabile i contenuti di una necessaria svolta nell’economia, nel segno di quella “economia giusta” indicata come essenziale da Papa Francesco. E rilanciando le questioni del diritto al cibo, della sostenibilità ambientale e sociale e della legalità (contro la corruzione diffusa che sconvolge mercati e vite quotidiane di milioni di persone), insiste sui contenuti di un radicale cambiamento nelle attuali attitudini alla produzione e al consumo. E’ una sfida civile e culturale. E riguarda, naturalmente, anche la migliore cultura d’impresa (sono appunto temi ricorrenti, da gran tempo, su questo blog).

Mattarella parla di persone capaci di “condizionare il mercato” e non “esserne condizionate”. Chiede di “ridurre gli sprechi”. Insiste sul “consumo responsabile” come “scelta di cittadinanza e civiltà”, invitando a “scegliere prodotti rispettosi dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori” che li producono. E sostiene: “La cultura dello scarto e del consumo illimitato mal si concilia” con le esigenze di uno sviluppo equilibrato e sostenibile, un obiettivo che proprio la necessità di uscire dalla Grande Crisi ha imposto a Stati, amministratori pubblici, imprese, cittadini.

Si tratta di “fare più con meno”, guardare ai modelli del “riuso” e delle “energie rinnovabili”, pensare sempre in termini di “sostenibilità”. Un punto è chiaro: “Non si tratta di rassegnata decrescita”. Ma di una nuova cultura della “green economy”, “una sfida che sta già cambiando i mercati” e la cui importanza è sempre più avvertita della migliore manifattura, dalle imprese agro-alimentari di qualità ed è sostenuta da associazioni come Symbola, in un dialogo costante tra associazioni d’impresa, organizzazioni sociali e istituzioni (un vero e proprio cardine della competitività italiana in chiave di sostenibilità).

Mattarella fa ancora un passo avanti e parla di “una economia sempre più circolare”. Il rinvio è alla Ue. Al centro delle politiche ambientali europee c’è infatti da qualche tempo la cosiddetta “economia circolare”. E Janez Potočnik, commissario per l’Ambiente, presentando gli obiettivi UE sul riciclaggio ha spiegato: «Nel XXI secolo, caratterizzato da economie emergenti, milioni di consumatori appartenenti alla nuova classe media e mercati interconnessi utilizzano ancora sistemi economici lineari ereditati dal Diciannovesimo secolo. Se vogliamo essere competitivi dobbiamo trarre il massimo dalle nostre risorse, reimmettendole nel ciclo produttivo invece di collocarle in discarica come rifiuti».

Programmi politici. Ma anche impegni d’impresa. Alcune multinazionali (Philips, Cisco, Kingfisher hanno avviato progetti in direzione dell’”economia circolare”. E altre (Cola Cola, Ikea, etc.) sostengono un’importante fondazione britannica, la Ellen MacArthur Foundation, nata con questo obiettivo. Si torna alla sostenibilità ambientale e sociale, appunto. E all’esperienza dell’Expo che, sostiene Mattarella, “sta mostrando come l’Italia arrivi a giocare da protagonista in questa sfida portando il meglio di sé: manifattura, cultura, dieta mediterranea”. Patrimonio economico e civile, stile di vita, prospettiva di migliore equilibrio.

“Riuscire a usare le risorse in modo più intelligente non è un’utopia. Bisogna essere consumatori razionali”. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella cita Steiner, filosofo e pedagogo. Parla all’Expo, declinando in modo civilmente responsabile i contenuti di una necessaria svolta nell’economia, nel segno di quella “economia giusta” indicata come essenziale da Papa Francesco. E rilanciando le questioni del diritto al cibo, della sostenibilità ambientale e sociale e della legalità (contro la corruzione diffusa che sconvolge mercati e vite quotidiane di milioni di persone), insiste sui contenuti di un radicale cambiamento nelle attuali attitudini alla produzione e al consumo. E’ una sfida civile e culturale. E riguarda, naturalmente, anche la migliore cultura d’impresa (sono appunto temi ricorrenti, da gran tempo, su questo blog).

Mattarella parla di persone capaci di “condizionare il mercato” e non “esserne condizionate”. Chiede di “ridurre gli sprechi”. Insiste sul “consumo responsabile” come “scelta di cittadinanza e civiltà”, invitando a “scegliere prodotti rispettosi dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori” che li producono. E sostiene: “La cultura dello scarto e del consumo illimitato mal si concilia” con le esigenze di uno sviluppo equilibrato e sostenibile, un obiettivo che proprio la necessità di uscire dalla Grande Crisi ha imposto a Stati, amministratori pubblici, imprese, cittadini.

Si tratta di “fare più con meno”, guardare ai modelli del “riuso” e delle “energie rinnovabili”, pensare sempre in termini di “sostenibilità”. Un punto è chiaro: “Non si tratta di rassegnata decrescita”. Ma di una nuova cultura della “green economy”, “una sfida che sta già cambiando i mercati” e la cui importanza è sempre più avvertita della migliore manifattura, dalle imprese agro-alimentari di qualità ed è sostenuta da associazioni come Symbola, in un dialogo costante tra associazioni d’impresa, organizzazioni sociali e istituzioni (un vero e proprio cardine della competitività italiana in chiave di sostenibilità).

Mattarella fa ancora un passo avanti e parla di “una economia sempre più circolare”. Il rinvio è alla Ue. Al centro delle politiche ambientali europee c’è infatti da qualche tempo la cosiddetta “economia circolare”. E Janez Potočnik, commissario per l’Ambiente, presentando gli obiettivi UE sul riciclaggio ha spiegato: «Nel XXI secolo, caratterizzato da economie emergenti, milioni di consumatori appartenenti alla nuova classe media e mercati interconnessi utilizzano ancora sistemi economici lineari ereditati dal Diciannovesimo secolo. Se vogliamo essere competitivi dobbiamo trarre il massimo dalle nostre risorse, reimmettendole nel ciclo produttivo invece di collocarle in discarica come rifiuti».

Programmi politici. Ma anche impegni d’impresa. Alcune multinazionali (Philips, Cisco, Kingfisher hanno avviato progetti in direzione dell’”economia circolare”. E altre (Cola Cola, Ikea, etc.) sostengono un’importante fondazione britannica, la Ellen MacArthur Foundation, nata con questo obiettivo. Si torna alla sostenibilità ambientale e sociale, appunto. E all’esperienza dell’Expo che, sostiene Mattarella, “sta mostrando come l’Italia arrivi a giocare da protagonista in questa sfida portando il meglio di sé: manifattura, cultura, dieta mediterranea”. Patrimonio economico e civile, stile di vita, prospettiva di migliore equilibrio.

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