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Mito 2014 Settimo Torinese – Stabilimento Pirelli Industrie Pneumatici

Cultura d’impresa Toyota

Decidere e comunicare correttamente le decisioni, è uno dei capisaldi di una buona cultura d’impresa che si fa efficace gestione. E, come sempre, capire come fa chi ottiene successi di mercato è importante e istruttivo. Toyota è uno di questi esempi. Da qui, quindi, l’interesse nel leggere “Report on decision making styles in japanese companies toyota motor corporation” scritto da un gruppo di ricercatori e studenti dell’ Universiti Teknologi Mara di Selangor in Malesia. Si tratta di un breve documento che ha il pregio di sintetizzare il nocciolo forte della “filosofia” Toyota e di compararlo con l’approccio alla cultura d’impresa in Giappone.

Il testo – nemmeno venti pagine -, è rigidamente diviso in quattro parti. Prima di tutto viene scattata una fotografia della Toyota come impresa nel mercato globale, poi viene esaminato il meccanismo di produzione e assistenza globale che questa azienda ha creato nel tempo. Nella seconda parte, sono posti a confronto la cultura giapponese d’impresa e il meccanismo di decisione adottato all’interno della Toyota.  Successivamente, vengono approfonditi i punti cruciali del percorso di ogni decisione all’interno degli stabilimenti: l’organizzazione dell’impresa, il metodo di partecipazione alle decisioni, la trasparenza delle decisioni, il meccanismo dei “richiami” per la risoluzione dei problemi.

Le conclusioni del rapporto sono chiare e semplici. Il metodo di decisione adottato dalla Toyota ha successo perché improntato dalla cultura d’impresa giapponese e quindi basato sul consenso e sulla cooperazione presenti negli stabilimenti; tutto l’opposto di quanto, invece, viene applicato nelle imprese occidentali nelle quali la gerarchia assume connotati diversi e più rigidi. In particolare, sono diversi, in Toyota, aspetti importanti della produzione come quelli legati alle transazioni commerciali, ai servizi rivolti ai clienti, tecnici, finanziari e di marketing.

Il rapporto prodotto dai ricercatori e dagli studenti di Selangor rappresenta una buona e breve lettura utile a chi voglia rendersi conto delle differenze fra modi diversi di intendere la cultura d’impresa: ciò che serve per capire meglio dove si è e cosa si sta facendo.

Report on decision making styles in japanese companies toyota motor corporation

AA.VV.

Universiti Teknologi Mara

Selangor, Malesia, 2015

Decidere e comunicare correttamente le decisioni, è uno dei capisaldi di una buona cultura d’impresa che si fa efficace gestione. E, come sempre, capire come fa chi ottiene successi di mercato è importante e istruttivo. Toyota è uno di questi esempi. Da qui, quindi, l’interesse nel leggere “Report on decision making styles in japanese companies toyota motor corporation” scritto da un gruppo di ricercatori e studenti dell’ Universiti Teknologi Mara di Selangor in Malesia. Si tratta di un breve documento che ha il pregio di sintetizzare il nocciolo forte della “filosofia” Toyota e di compararlo con l’approccio alla cultura d’impresa in Giappone.

Il testo – nemmeno venti pagine -, è rigidamente diviso in quattro parti. Prima di tutto viene scattata una fotografia della Toyota come impresa nel mercato globale, poi viene esaminato il meccanismo di produzione e assistenza globale che questa azienda ha creato nel tempo. Nella seconda parte, sono posti a confronto la cultura giapponese d’impresa e il meccanismo di decisione adottato all’interno della Toyota.  Successivamente, vengono approfonditi i punti cruciali del percorso di ogni decisione all’interno degli stabilimenti: l’organizzazione dell’impresa, il metodo di partecipazione alle decisioni, la trasparenza delle decisioni, il meccanismo dei “richiami” per la risoluzione dei problemi.

Le conclusioni del rapporto sono chiare e semplici. Il metodo di decisione adottato dalla Toyota ha successo perché improntato dalla cultura d’impresa giapponese e quindi basato sul consenso e sulla cooperazione presenti negli stabilimenti; tutto l’opposto di quanto, invece, viene applicato nelle imprese occidentali nelle quali la gerarchia assume connotati diversi e più rigidi. In particolare, sono diversi, in Toyota, aspetti importanti della produzione come quelli legati alle transazioni commerciali, ai servizi rivolti ai clienti, tecnici, finanziari e di marketing.

Il rapporto prodotto dai ricercatori e dagli studenti di Selangor rappresenta una buona e breve lettura utile a chi voglia rendersi conto delle differenze fra modi diversi di intendere la cultura d’impresa: ciò che serve per capire meglio dove si è e cosa si sta facendo.

Report on decision making styles in japanese companies toyota motor corporation

AA.VV.

Universiti Teknologi Mara

Selangor, Malesia, 2015

Uomini-macchina e macchine-uomo; lavoro e automazione a confronto

Macchine contro uomini, tecnologie avverse al lavoro. Ma anche innovazione che crea nova occupazione, automazione che dà vita a spazi diversi di benessere. E’ la pluricentenaria diatriba fra lavoro e strumenti di produzione sempre più automatizzati e lontani (apparentemente), dall’uomo. Temi di cui si nutre anche la cultura d’impresa e di fabbrica, oltre che la storia della manifattura e dell’industria (ma a ben vedere di tutta l’economia). Temi difficili da affrontare e da comprendere pienamente. Salvo imbattersi in buone letture come “Uomini e macchine. La sfida dell’automazione” pubblicato da Lorenzo Pinna: libriccino di meno di duecento pagine che riesce a raccontare la storia dei rapporti fra macchine e uomini dall’antichità classica ad oggi in maniera piana e completa, chiara, avvincente come un viaggio d’esplorazione di Giulio Verne.

Pinna, è giornalista oltre che scrittore e divulgatore scientifico, e sa che per spiegare occorre prima capire e poi essere capaci di raccontare in maniera esatta eppure scorrevole, avvincente e precisa fatti anche complessi. E’ di questi principi che si nutre la sua ultima fatica letteraria che parte, come si è detto, dagli automaton degli antichi greci per arrivare fino a Google. Tutto seguendo un filo logico che èquello della storia e degli uomini. E con alcuni snodi importante da cogliere pienamente come quello della Rivoluzione industriale, del passaggio dagli automaton ai robot, dell’avvento della cibernetica, della macchine-uomo e dei paradossi dell’automazione oltre che dell’Intelligenza Artificiale.

Ciò che forse conta di più, tuttavia, è che il libro di Pinna  non dà soluzioni preconfezionate, non è apocalittico e nemmeno assurdamente e positivamente immaginifico. “Uomini e macchine” contiene pochi numeri e molte idee, racconta i fatti, mette in fila considerazioni, fornisce strumenti per pensare. Anche alla situazione dell’Italia di fronte al lavoro e all’automazione dell’oggi.

Pinna fa capire che di fronte all’evoluzione dell’automazione deve cambiare – com’è sempre cambiata  -, la cultura d’impresa e che dietro ad ogni macchina c’è (alla fine),  sempre un uomo. Ha ragione Piero Angela (con il quale Pinna ha lavorato a lungo), a scrivere nella Prefazione che questo libro è “da leggere e da far leggere…”.

Uomini e macchine. La sfida dell’automazione

Lorenzo Pinna

Boringhieri, 2014

Macchine contro uomini, tecnologie avverse al lavoro. Ma anche innovazione che crea nova occupazione, automazione che dà vita a spazi diversi di benessere. E’ la pluricentenaria diatriba fra lavoro e strumenti di produzione sempre più automatizzati e lontani (apparentemente), dall’uomo. Temi di cui si nutre anche la cultura d’impresa e di fabbrica, oltre che la storia della manifattura e dell’industria (ma a ben vedere di tutta l’economia). Temi difficili da affrontare e da comprendere pienamente. Salvo imbattersi in buone letture come “Uomini e macchine. La sfida dell’automazione” pubblicato da Lorenzo Pinna: libriccino di meno di duecento pagine che riesce a raccontare la storia dei rapporti fra macchine e uomini dall’antichità classica ad oggi in maniera piana e completa, chiara, avvincente come un viaggio d’esplorazione di Giulio Verne.

Pinna, è giornalista oltre che scrittore e divulgatore scientifico, e sa che per spiegare occorre prima capire e poi essere capaci di raccontare in maniera esatta eppure scorrevole, avvincente e precisa fatti anche complessi. E’ di questi principi che si nutre la sua ultima fatica letteraria che parte, come si è detto, dagli automaton degli antichi greci per arrivare fino a Google. Tutto seguendo un filo logico che èquello della storia e degli uomini. E con alcuni snodi importante da cogliere pienamente come quello della Rivoluzione industriale, del passaggio dagli automaton ai robot, dell’avvento della cibernetica, della macchine-uomo e dei paradossi dell’automazione oltre che dell’Intelligenza Artificiale.

Ciò che forse conta di più, tuttavia, è che il libro di Pinna  non dà soluzioni preconfezionate, non è apocalittico e nemmeno assurdamente e positivamente immaginifico. “Uomini e macchine” contiene pochi numeri e molte idee, racconta i fatti, mette in fila considerazioni, fornisce strumenti per pensare. Anche alla situazione dell’Italia di fronte al lavoro e all’automazione dell’oggi.

Pinna fa capire che di fronte all’evoluzione dell’automazione deve cambiare – com’è sempre cambiata  -, la cultura d’impresa e che dietro ad ogni macchina c’è (alla fine),  sempre un uomo. Ha ragione Piero Angela (con il quale Pinna ha lavorato a lungo), a scrivere nella Prefazione che questo libro è “da leggere e da far leggere…”.

Uomini e macchine. La sfida dell’automazione

Lorenzo Pinna

Boringhieri, 2014

Fabbriche di qualità, “l’Italia è di nuovo in piedi”

L’Italia è di nuovo in piedi”, scrive il Financial Times, spiegando: “Forse gli italiani non se ne sono ancora accorti, ma l’economia mostra segni di vita dopo anni di difficoltà” ed è “finalmente emersa da una tripla recessione che ha lasciato molte ammaccature”. Si cresce, dunque. Lo certifica l’Istat, dando percentuali positive, nel primo trimestre (0,3%, numeri da prefisso telefonico, ma una buona volta con il segno + davanti). Lo sostiene pure la Commissione Ue, che prevede una crescita dello 0,6% quest’anno e dell’1,4 nel 2016 (altri uffici studi indicano percentuali anche maggiori). Ripresa, appunto. Fragilissima. Ma pur sempre ripresa. Da rafforzare, nota ancora il Financial Times, con le riforme che il governo Renzi deve continuare a portare avanti (seguendo l’esempio virtuoso di Irlanda, Spagna e Portogallo che, facendo le riforme indicate dalla “troika” Ue-Fmi-Bce, si sono rimesse in piedi, al contrario della Grecia restia a fare qualunque rinnovamento, prigioniera com’è delle propaganda populista: lo nota bene Danilo Taino sul Corriere della Sera di sabato 30 maggio).

Una ripresa fondata su cosa? “L’industria è la chiave della svolta”, ha detto la scorsa settimana all’assemblea di Confindustria Giorgio Squinzi, documentando i “segni di risveglio”, chiedendo al governo la continuazione delle riforme che liberino risorse per la buona economia, insistendo con i sindacati su più moderne “relazioni industriali” (nuove politiche contrattuali che leghino, in fabbrica, aumenti dei salari a incremento della produttività, ma anche una nuova dimensione del welfare a livello aziendale, sfida economica e sociale di grande modernità).

Non c’è ripresa senza impresa”, dice Confindustria, con uno slogan d’effetto. E dunque va rafforzato un ambiente favorevole all’impresa, agli investimenti interni e internazionali, alla competitività, “al cantiere di un Paese più moderno e a misura d’impresa”. “Un’impresa – dice ancora Squinzi – che deve essere resa libera di operare, orientata all’innovazione continua e alla crescita sostenibile, un’impresa che sia elemento qualificante di una società aperta, fatta di diritti e di pari responsabilità, fondata sull’impegno e sul merito, un’impresa capace di dare lavoro di qualità alle future generazioni”. Impresa, in altri termini, come attore economico e sociale, in grado di creare ricchezza e lavoro, di fare da agente di coesione sociale, di stabilire positive relazioni tra territori d’origine e mercati globali. Scelte forti d’identità e prospettiva. Scelte di “cultura politecnica”, dunque.

Ne è protagonista, innanzitutto, la manifattura, attorno a cui si muovono i servizi, in un virtuoso circuito di sviluppo comune. Il suo fatturato, infatti, crescerà dell’1,8% nel 2015, più del doppio del Pil, dunque, secondo le previsioni del Centro Studi Intesa Sanpaolo e di Prometeia. E aumenta anche la quota di beni ad alto valore aggiunto sull’export: adesso è al 40%, con un robusto incremento nell’arco degli ultimi dieci anni (era il 31% nel 2005). Riprova che proprio nel cuore della Grande Crisi l’industria manifatturiera si è riposizionata, insistendo sulla qualità. Un percorso che ancora continua. Le esportazioni del manifatturiero, infatti, nell’arco 2015-2019, cresceranno del 17%, con punte del 31% per auto e moto di oltre il 20% per elettrotecnica ed elettronica (bene anche chimica, farmaceutica, agroalimentare e meccanica, sotto la media invece arredamento e sistema moda).

Il cuore di questa ripresa industriale? Le medie imprese, come certifica l’indagine annuale di Mediobanca-Unioncamere, su 3.212 aziende manifatturiere di medie dimensioni, che assicurano il 16% del valore aggiunto industriale e il 17% dell’export nazionale: solide, innovative, legate ai territori e alle filiere produttive ma anche ben internazionalizzate, capaci anche di attrarre interessanti investimenti esteri. “Torna l’ottimismo”, commenta Mediobanca. Fabbriche di qualità.

L’Italia è di nuovo in piedi”, scrive il Financial Times, spiegando: “Forse gli italiani non se ne sono ancora accorti, ma l’economia mostra segni di vita dopo anni di difficoltà” ed è “finalmente emersa da una tripla recessione che ha lasciato molte ammaccature”. Si cresce, dunque. Lo certifica l’Istat, dando percentuali positive, nel primo trimestre (0,3%, numeri da prefisso telefonico, ma una buona volta con il segno + davanti). Lo sostiene pure la Commissione Ue, che prevede una crescita dello 0,6% quest’anno e dell’1,4 nel 2016 (altri uffici studi indicano percentuali anche maggiori). Ripresa, appunto. Fragilissima. Ma pur sempre ripresa. Da rafforzare, nota ancora il Financial Times, con le riforme che il governo Renzi deve continuare a portare avanti (seguendo l’esempio virtuoso di Irlanda, Spagna e Portogallo che, facendo le riforme indicate dalla “troika” Ue-Fmi-Bce, si sono rimesse in piedi, al contrario della Grecia restia a fare qualunque rinnovamento, prigioniera com’è delle propaganda populista: lo nota bene Danilo Taino sul Corriere della Sera di sabato 30 maggio).

Una ripresa fondata su cosa? “L’industria è la chiave della svolta”, ha detto la scorsa settimana all’assemblea di Confindustria Giorgio Squinzi, documentando i “segni di risveglio”, chiedendo al governo la continuazione delle riforme che liberino risorse per la buona economia, insistendo con i sindacati su più moderne “relazioni industriali” (nuove politiche contrattuali che leghino, in fabbrica, aumenti dei salari a incremento della produttività, ma anche una nuova dimensione del welfare a livello aziendale, sfida economica e sociale di grande modernità).

Non c’è ripresa senza impresa”, dice Confindustria, con uno slogan d’effetto. E dunque va rafforzato un ambiente favorevole all’impresa, agli investimenti interni e internazionali, alla competitività, “al cantiere di un Paese più moderno e a misura d’impresa”. “Un’impresa – dice ancora Squinzi – che deve essere resa libera di operare, orientata all’innovazione continua e alla crescita sostenibile, un’impresa che sia elemento qualificante di una società aperta, fatta di diritti e di pari responsabilità, fondata sull’impegno e sul merito, un’impresa capace di dare lavoro di qualità alle future generazioni”. Impresa, in altri termini, come attore economico e sociale, in grado di creare ricchezza e lavoro, di fare da agente di coesione sociale, di stabilire positive relazioni tra territori d’origine e mercati globali. Scelte forti d’identità e prospettiva. Scelte di “cultura politecnica”, dunque.

Ne è protagonista, innanzitutto, la manifattura, attorno a cui si muovono i servizi, in un virtuoso circuito di sviluppo comune. Il suo fatturato, infatti, crescerà dell’1,8% nel 2015, più del doppio del Pil, dunque, secondo le previsioni del Centro Studi Intesa Sanpaolo e di Prometeia. E aumenta anche la quota di beni ad alto valore aggiunto sull’export: adesso è al 40%, con un robusto incremento nell’arco degli ultimi dieci anni (era il 31% nel 2005). Riprova che proprio nel cuore della Grande Crisi l’industria manifatturiera si è riposizionata, insistendo sulla qualità. Un percorso che ancora continua. Le esportazioni del manifatturiero, infatti, nell’arco 2015-2019, cresceranno del 17%, con punte del 31% per auto e moto di oltre il 20% per elettrotecnica ed elettronica (bene anche chimica, farmaceutica, agroalimentare e meccanica, sotto la media invece arredamento e sistema moda).

Il cuore di questa ripresa industriale? Le medie imprese, come certifica l’indagine annuale di Mediobanca-Unioncamere, su 3.212 aziende manifatturiere di medie dimensioni, che assicurano il 16% del valore aggiunto industriale e il 17% dell’export nazionale: solide, innovative, legate ai territori e alle filiere produttive ma anche ben internazionalizzate, capaci anche di attrarre interessanti investimenti esteri. “Torna l’ottimismo”, commenta Mediobanca. Fabbriche di qualità.

Cultura d’impresa al femminile, in Cina

Donne e imprenditrici, oppure manager. Condizioni ancora oggi, spesso, difficili da conciliare. Eppure, una moderna cultura d’impresa passa anche per questa strada. In tutto il mondo. Anche se si tratta di un percorso difficile da compiere, arduo, tortuoso, fatto di fermate e di scatti in avanti. Capire a che punto si è del cammino è importante. E lo è anche comprendere dove stanno le altre imprese, le altre culture della produzione.

Leggere “Boss Lady: How Female Chinese Managers Succeed in China’s Guanxi System”, tesi di ricerca scritta da C. Palmer Withers per il Bachelor of Arts degree in International Studies alla University of Mississippi, serve proprio per quest’ultimo scopo: sapere cosa fanno gli altri.

La ricerca, resa pubblica nel maggio di quest’anno, esamina infatti il ruolo delle manager donne in Cina, cioè all’interno di una tradizione culturale e d’impresa spiccatamente maschilista.  Il lavoro parte dal concetto di guanxi (关系), che sintetizza il percorso di creazione di “connessioni nelle relazioni interpersonali”. L’obiettivo è quello di comprendere come le donne manager e imprenditrici si collocano nel sistema, nella rete di relazioni aziendali ed economiche presente in Cina.  Anzi di più, la ricerca indaga se e come le manager cinesi applicato il concetto di guanxi nell’ambito della loro attività.

Dopo un primo capitolo introduttivo, che serve anche per inquadrare dal punto di vista teorico e storico l’argomento, C. Palmer Withers analizza i casi di tre imprenditrici self made seguiti da altre interviste a manager d’impresa cinesi che hanno avuto luogo nel maggio 2014. L’obiettivo di questa parte, è trovare i fattori comuni che hanno influenzato il percorso delle imprenditrici verso il successo. Di ogni caso, vengono approfonditi i passaggi lavorativi cruciali, ma anche il retroterra culturale e di vita che ha fatto da sfondo alla carriere lavorativa della singola persona.

“Questo progetto- spiega Palmer Withers -,  individua come le manager cinesi femminili stanno costruendo il loro guanxi nonché come attuano nuove strategie manageriali per salvaguardare la loro posizioni di potere”.

La conclusione del lavoro mette insieme i risultati della ricerca con una analisi generale di come le donne in Cina stanno conquistando posizioni di potere all’interno del settore privato.  Lo studio, in altre parole, è arrivato a “capire meglio come le donne manager cinesi stanno iniziando a utilizzare le loro proprie reti guanxi per avere successo al fianco (e spesso superando), i loro colleghi di sesso maschile”.  Anzi, e C. Palmer Withers arriva ad azzardare una previsione: “Il settore privato cinese, e meglio ancora l’economia globale – scrive -, presto  diventeranno sempre più influenzati da questi sempre più potenti e sempre più visibili manager cinesi femminili”. Si delinea, quindi, un cambio radicale nella cultura d’impresa di uno dei più importanti giocatori della partita economica mondiale

Boss Lady: How Female Chinese Managers Succeed in China’s Guanxi System

C. Palmer Withers

Bachelor of Arts degree in International Studies. Croft Institute for International Studies. Sally McDonnell Barksdale Honors College. The University of Mississippi

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Donne e imprenditrici, oppure manager. Condizioni ancora oggi, spesso, difficili da conciliare. Eppure, una moderna cultura d’impresa passa anche per questa strada. In tutto il mondo. Anche se si tratta di un percorso difficile da compiere, arduo, tortuoso, fatto di fermate e di scatti in avanti. Capire a che punto si è del cammino è importante. E lo è anche comprendere dove stanno le altre imprese, le altre culture della produzione.

Leggere “Boss Lady: How Female Chinese Managers Succeed in China’s Guanxi System”, tesi di ricerca scritta da C. Palmer Withers per il Bachelor of Arts degree in International Studies alla University of Mississippi, serve proprio per quest’ultimo scopo: sapere cosa fanno gli altri.

La ricerca, resa pubblica nel maggio di quest’anno, esamina infatti il ruolo delle manager donne in Cina, cioè all’interno di una tradizione culturale e d’impresa spiccatamente maschilista.  Il lavoro parte dal concetto di guanxi (关系), che sintetizza il percorso di creazione di “connessioni nelle relazioni interpersonali”. L’obiettivo è quello di comprendere come le donne manager e imprenditrici si collocano nel sistema, nella rete di relazioni aziendali ed economiche presente in Cina.  Anzi di più, la ricerca indaga se e come le manager cinesi applicato il concetto di guanxi nell’ambito della loro attività.

Dopo un primo capitolo introduttivo, che serve anche per inquadrare dal punto di vista teorico e storico l’argomento, C. Palmer Withers analizza i casi di tre imprenditrici self made seguiti da altre interviste a manager d’impresa cinesi che hanno avuto luogo nel maggio 2014. L’obiettivo di questa parte, è trovare i fattori comuni che hanno influenzato il percorso delle imprenditrici verso il successo. Di ogni caso, vengono approfonditi i passaggi lavorativi cruciali, ma anche il retroterra culturale e di vita che ha fatto da sfondo alla carriere lavorativa della singola persona.

“Questo progetto- spiega Palmer Withers -,  individua come le manager cinesi femminili stanno costruendo il loro guanxi nonché come attuano nuove strategie manageriali per salvaguardare la loro posizioni di potere”.

La conclusione del lavoro mette insieme i risultati della ricerca con una analisi generale di come le donne in Cina stanno conquistando posizioni di potere all’interno del settore privato.  Lo studio, in altre parole, è arrivato a “capire meglio come le donne manager cinesi stanno iniziando a utilizzare le loro proprie reti guanxi per avere successo al fianco (e spesso superando), i loro colleghi di sesso maschile”.  Anzi, e C. Palmer Withers arriva ad azzardare una previsione: “Il settore privato cinese, e meglio ancora l’economia globale – scrive -, presto  diventeranno sempre più influenzati da questi sempre più potenti e sempre più visibili manager cinesi femminili”. Si delinea, quindi, un cambio radicale nella cultura d’impresa di uno dei più importanti giocatori della partita economica mondiale

Boss Lady: How Female Chinese Managers Succeed in China’s Guanxi System

C. Palmer Withers

Bachelor of Arts degree in International Studies. Croft Institute for International Studies. Sally McDonnell Barksdale Honors College. The University of Mississippi

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Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto

“…io posso dire che gli archivi sono zeppi di idee rimaste in germe, di abbozzi, di pentimenti, di errori, perchè il frutto più saporoso è quello che costa più fatica senza dubbio, è quello però che di questa fatica non mostra alcuna traccia e sembra un frutto spontaneo, nato dalla grazia. Ho qui davanti ai miei occhi la traccia di questi rilievi e mi ci perdo come un archeologo davanti ai sigilli mesopotamici, o un bambino che insegue il movito senza capo ne coda di un vecchio tappeto”. (Leonardo Sinisgalli, da Bassorilievi sui pneumatici, in “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”, n. 4, 1952)

Cita così la quarta di copertina del volume “Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto“, disponibile in libreria dal mese di maggio. Il libro, curato dalla Fondazione Pirelli e Giovanna Ginex ed edito da Corraini, ripercorre la storia della comunicazione Pirelli partendo dalla valorizzazione del fondo archivistico di bozzetti e disegni originali (dal 1872 al 1972) restaurati dalla Fondazione Pirelli.

Il volume raccoglie oltre 200 opere realizzate da vari artisti per pubblicizzare i prodotti, per illustrare la rivista “Pirelli” o per celebrare gli anniversari del Gruppo industriale, nella consapevolezza che tale patrimonio rappresenta un prezioso spaccato della storia delle arti figurative, della grafica e della comunicazione d’impresa.

Il nucleo principale del volume, costituito dal catalogo delle opere e preceduto da 3 saggi di inquadramento e approfondimento storico, è diviso in 3 sezioni. La prima è dedicata ai bozzetti eseguiti per pubblicizzare i prodotti, la seconda è dedicata ai disegni realizzati per illustrare la rivista “Pirelli” e una terza parte è dedicata alle tavole realizzate per la celebrazione del cinquantenario e del settantacinquesimo anniversario dell’azienda.

In appendice al libro un’importante sezione è dedicata alle schede di prodotto, corredate da immagini tratte da brevetti e cataloghi storici, che descrivono gli articoli Pirelli oggetto delle campagne pubblicitarie; chiude il volume una selezione di profili biografici di circa 60 autori che hanno lavorato per la comunicazione Pirelli nel corso di un secolo.

Marcello Dudovich, Aldo Mazza, Leonetto Cappiello, Bob Noorda, Riccardo Manzi, Alessando Mendini, Armando Testa sono solo alcuni dei nomi degli artisti che hanno prestato la loro creativià a servizio dell’azienda, realizzando campagne pubblicitarie in una varietà di linguaggi e registri che trova sintesi nella costante presenza del marchio della P lunga, tratto distintivo della pubblicità aziendale a partire dal 1907 e nella codifica di uno stile unico, lo “Stile Pirelli“.

“…io posso dire che gli archivi sono zeppi di idee rimaste in germe, di abbozzi, di pentimenti, di errori, perchè il frutto più saporoso è quello che costa più fatica senza dubbio, è quello però che di questa fatica non mostra alcuna traccia e sembra un frutto spontaneo, nato dalla grazia. Ho qui davanti ai miei occhi la traccia di questi rilievi e mi ci perdo come un archeologo davanti ai sigilli mesopotamici, o un bambino che insegue il movito senza capo ne coda di un vecchio tappeto”. (Leonardo Sinisgalli, da Bassorilievi sui pneumatici, in “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”, n. 4, 1952)

Cita così la quarta di copertina del volume “Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto“, disponibile in libreria dal mese di maggio. Il libro, curato dalla Fondazione Pirelli e Giovanna Ginex ed edito da Corraini, ripercorre la storia della comunicazione Pirelli partendo dalla valorizzazione del fondo archivistico di bozzetti e disegni originali (dal 1872 al 1972) restaurati dalla Fondazione Pirelli.

Il volume raccoglie oltre 200 opere realizzate da vari artisti per pubblicizzare i prodotti, per illustrare la rivista “Pirelli” o per celebrare gli anniversari del Gruppo industriale, nella consapevolezza che tale patrimonio rappresenta un prezioso spaccato della storia delle arti figurative, della grafica e della comunicazione d’impresa.

Il nucleo principale del volume, costituito dal catalogo delle opere e preceduto da 3 saggi di inquadramento e approfondimento storico, è diviso in 3 sezioni. La prima è dedicata ai bozzetti eseguiti per pubblicizzare i prodotti, la seconda è dedicata ai disegni realizzati per illustrare la rivista “Pirelli” e una terza parte è dedicata alle tavole realizzate per la celebrazione del cinquantenario e del settantacinquesimo anniversario dell’azienda.

In appendice al libro un’importante sezione è dedicata alle schede di prodotto, corredate da immagini tratte da brevetti e cataloghi storici, che descrivono gli articoli Pirelli oggetto delle campagne pubblicitarie; chiude il volume una selezione di profili biografici di circa 60 autori che hanno lavorato per la comunicazione Pirelli nel corso di un secolo.

Marcello Dudovich, Aldo Mazza, Leonetto Cappiello, Bob Noorda, Riccardo Manzi, Alessando Mendini, Armando Testa sono solo alcuni dei nomi degli artisti che hanno prestato la loro creativià a servizio dell’azienda, realizzando campagne pubblicitarie in una varietà di linguaggi e registri che trova sintesi nella costante presenza del marchio della P lunga, tratto distintivo della pubblicità aziendale a partire dal 1907 e nella codifica di uno stile unico, lo “Stile Pirelli“.

Cultura d’impresa e cultura della scuola, giovani in mezzo

La cultura d’impresa delinea il senso del produrre dell’imprenditore e di chi lavora in azienda. E’ cultura a tutto tondo: guarda all’interno della fabbrica, ma osserva anche ciò che accade al di fuori di questa, eredita il passato, costruisce il futuro dell’organizzazione di cui fa parte. E deve essere compresa, per poter capire l’impresa di cui rappresenta il senso. Ma tutto questo non basta. Almeno oggi. Ciò che occorre, infatti, è anche capire le culture d’impresa nel loro complesso che animano la società. Anche nei suoi aspetti non strettamente economici. Deve, cioè, esistere uno scambio reciproco e continuo fra imprese e società, fra uomini e donne della produzione e cittadini e cittadine: a ben vedere, spesso, le medesime persone che vestono giacche diverse. Se così non accade, si rischia la frattura fra produzione e sociale, fra aspirazioni di vita e lavoro. Oggi questo, spesso, accade.

Leggere “La ricreazione è finita. Scegliere la scuola, trovare il lavoro” di Roger Abravanel e Luca D’Agnese (Director emeritus di McKinsey il primo e Responsabile di Enel per l’America Latina il secondo), è utile per tentare di colmare la frattura creata fra imprese e società. Con un’attenzione particolare ai giovani cioè a quella parte sensibile e preziosa del mondo d’oggi che deve essere particolarmente curata e valorizzata. Anche dalle imprese.

Il libro si legge bene, in maniera scorrevole perché è scritto da persone che sanno e guardano a persone, i giovani, che devono sapere e che vengono prese per mano lungo la lettura. Ad iniziare dall’esame della famiglia – nucleo della società ma anche base di partenza dei giovani in cerca di lavoro -, e della disoccupazione, per passare poi a quello dei cambiamenti avvenuti nel sistema delle imprese e del lavoro. Gettato uno sguardo dentro alle famiglie e dentro alle imprese, Abravanel e D’Agnese passano a guardare dentro la scuola per arrivare a rispondere alla domanda cruciale di fronte alla quale si trovano i giovani da una parte e le imprese dall’altra: come scegliere? Il testo non è fatto solo teoria, ma è disseminato di esempi che servono per far capire come cambia il lavoro e com’è oggi la cultura di quelle imprese alle quali i giovani devono rivolgersi. Ed è anche un testo impietoso ma realista nella sua parte dedicata alla scuola. In fondo a tutto, un decalogo dedicato ai giovani per capire che strada intraprendere.

Roger Abravanel e Luca D’Agnese non hanno scritto un testo di cultura d’impresa; ma certamente hanno scritto qualcosa che di questa cultura riesce a far capire molto e che quindi può far bene a tutti leggere: imprese e società nella quale queste agiscono.

La ricreazione è finita. Scegliere la scuola, trovare il lavoro

Roger Abravanel-Luca D’Agnese

Rizzoli, 2015

La cultura d’impresa delinea il senso del produrre dell’imprenditore e di chi lavora in azienda. E’ cultura a tutto tondo: guarda all’interno della fabbrica, ma osserva anche ciò che accade al di fuori di questa, eredita il passato, costruisce il futuro dell’organizzazione di cui fa parte. E deve essere compresa, per poter capire l’impresa di cui rappresenta il senso. Ma tutto questo non basta. Almeno oggi. Ciò che occorre, infatti, è anche capire le culture d’impresa nel loro complesso che animano la società. Anche nei suoi aspetti non strettamente economici. Deve, cioè, esistere uno scambio reciproco e continuo fra imprese e società, fra uomini e donne della produzione e cittadini e cittadine: a ben vedere, spesso, le medesime persone che vestono giacche diverse. Se così non accade, si rischia la frattura fra produzione e sociale, fra aspirazioni di vita e lavoro. Oggi questo, spesso, accade.

Leggere “La ricreazione è finita. Scegliere la scuola, trovare il lavoro” di Roger Abravanel e Luca D’Agnese (Director emeritus di McKinsey il primo e Responsabile di Enel per l’America Latina il secondo), è utile per tentare di colmare la frattura creata fra imprese e società. Con un’attenzione particolare ai giovani cioè a quella parte sensibile e preziosa del mondo d’oggi che deve essere particolarmente curata e valorizzata. Anche dalle imprese.

Il libro si legge bene, in maniera scorrevole perché è scritto da persone che sanno e guardano a persone, i giovani, che devono sapere e che vengono prese per mano lungo la lettura. Ad iniziare dall’esame della famiglia – nucleo della società ma anche base di partenza dei giovani in cerca di lavoro -, e della disoccupazione, per passare poi a quello dei cambiamenti avvenuti nel sistema delle imprese e del lavoro. Gettato uno sguardo dentro alle famiglie e dentro alle imprese, Abravanel e D’Agnese passano a guardare dentro la scuola per arrivare a rispondere alla domanda cruciale di fronte alla quale si trovano i giovani da una parte e le imprese dall’altra: come scegliere? Il testo non è fatto solo teoria, ma è disseminato di esempi che servono per far capire come cambia il lavoro e com’è oggi la cultura di quelle imprese alle quali i giovani devono rivolgersi. Ed è anche un testo impietoso ma realista nella sua parte dedicata alla scuola. In fondo a tutto, un decalogo dedicato ai giovani per capire che strada intraprendere.

Roger Abravanel e Luca D’Agnese non hanno scritto un testo di cultura d’impresa; ma certamente hanno scritto qualcosa che di questa cultura riesce a far capire molto e che quindi può far bene a tutti leggere: imprese e società nella quale queste agiscono.

La ricreazione è finita. Scegliere la scuola, trovare il lavoro

Roger Abravanel-Luca D’Agnese

Rizzoli, 2015

Legalità e cultura del mercato, dialogo aperto tra magistratura e imprese

Legalità. Impegno contro mafia e corruzione. E buona cultura d’impresa come cultura del mercato efficiente, trasparente e ben regolato, come attitudine alla competizione fair, come intraprendenza che premia merito, qualità e sicurezza, come responsabilità per la sostenibilità sociale e ambientale. Legalità, dunque, come valore istituzionale, con tutte le sue implicazioni morali e civili. Ma anche legalità come asset di competitività e di sviluppo. Sono questi i temi alla base delle due giornate di studio milanesi organizzate, mercoledì e giovedì della scorsa settimana, dalla Scuola Superiore della Magistratura (la sede del Distretto di Milano) e da Assolombarda sul tema “Criminalità organizzata e impresa”. Discussioni dense e aperte, con la partecipazione di magistrati, imprenditori, economisti, studiosi di diritto, uomini delle forze dell’ordine e manager, per mettere a confronto esperienze, impegni, analisi da diversi ma convergenti punti di vista sulle questioni poste dal dilagare delle organizzazioni mafiose nei contesti dell’economia anche nelle regioni del Nord e dalla necessità di risposte che riguardino non solo prevenzione e repressione giudiziaria, ma anche contrasto da parte degli attori economici e sociali. Lo sfondo generale: la presa d’atto e la crescente consapevolezza che le attività criminali di mafia, camorra e ‘ndrangheta non sono solo un problema di ordine pubblico, ma investono l’economia di mercato, la tenuta della politica e della pubblica amministrazione, la qualità della stessa democrazia.

C’è un lavoro importante da portare avanti, ognuno a suo modo (magistratura e imprese) ma con convergenza di intenti. I nuovi provvedimenti voluti dal governo Renzi e varati dal Parlamento contro la corruzione e la mafia offrono strumenti migliori che nel passato. E c’è naturalmente ancora strada da fare, per evitare che l’illegalità stavolga crescita e buona economia di mercato.

Per quardare le cose dal punto di vista della cultura d’impresa, si può partire dal “rating di legalità”, una misura sostenuta da Confindustria e accolta, a metà dicembre 2014, dall’Alto Commissario Anticorruzione Raffaele Cantone e dal presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella con un regolamento che “premia gli imprenditori virtuosi sul piano economico e della legge” e fa “da punteggio aggiuntivo per l’aggiudicazione degli appalti pubblici”. E’ una misura importante. E aumenta il numero delle imprese che lo chiedono (oltre 500 l’hanno già ottenuto).

Servono anche i “codici etici”. Per le buone imprese, infatti, “fare pulizia” non è solo un imperativo morale (diretto anche all’interno del proprio mondo), ma una regola per la crescita. E accanto alle norme, più efficaci e severe contro la corruzione e la mafia, è necessaria una vera e propria svolta culturale, una nuova e diffusa coscienza civile che metta nell’angolo mafiosi, corruttori, complici, l’ampia “zona grigia” che nel tempo ha consentito il degrado del tessuto politico e sociale a vantaggio dei clan.

La corruzione è zavorra dello sviluppo”, ha documentato, nel dicembre dello scorso anno, il Centro Studi Confindustria: ostacolo per una buona cultura di mercato, distorsione d’una equilibrata crescita economica e sociale, frattura nel mondo delle imprese, del lavoro, del miglioramento della società.

Da che punto di vista, allora, guardare alla legalità? Per esempio, da quello della relazione perversa tra eccesso di leggi e regolamenti e loro sostanziale scarso rispetto. Da quello dell’inquinamento delle attività economiche da parte della mafia e delle altre organizzazioni criminali, diffuse su tutto il territorio italiano. O ancora da quello della concorrenza sleale portata dall’economia del “sommerso” e dalla persistenza di ampie aree di evasione fiscale. Oppure dal punto di vista della scarsa efficienza ed efficacia di una macchina giudiziaria complessa e lenta, che non risponde al bisogno di giustizia civile e penale in tempi ragionevoli, con pronunciamenti chiari e di qualità. E del cattivo funzionamento della giustizia e dunque della crisi dei mercati ben regolati si avvantaggia l’attore economico più spregiudicato, prepotente, illegale. Ai danni di tutta la buona economia nazionale.

Sburocratizzare”, è la parola d’ordine, anche d’importanti riforme in corso, avviate dal Governo. Meno norme, e più chiare. Minori passaggi burocratici. Controlli meno schematicamente formali e più incisivi. Trasparenza. Si tratta di insistere su scelte politiche radicali, anche per rompere il conservatorismo contro le riforme e per valorizzare quelle stesse componenti della pubblica amministrazione (minoritarie, ma di gran valore) che si muovono con un forte senso dello Stato e delle regole.

Legalità, per Assolombarda, che ne ha fatto uno dei cardini della strategia “Far volare Milano per far volare l’Italia”, vuol dire anche avviare iniziative per tutelare le imprese dalla concorrenza sleale delle cosche della criminalità organizzata, dichiarando il pieno appoggio alle attività antimafia della Procura della Repubblica di Milano nelle indagini contro le relazioni perverse tra cosche della ‘ndrangheta e disinvolti imprenditori in cerca di scorciatoie illegali d’affari e organizzando, in collaborazione con Tribunale e Corte d’Appello, seminari, confronti, attività di formazione sulle ragioni della giustizia e quelle, coincidenti, delle buone imprese. Come quello, appunto, della scorsa settimana a Milano, una iniziativa cui dare seguito.

La concorrenza, infatti, è un valore chiave. A patto che sia aperta, rispettosa delle regole, giocata secondo i principi costitutivi di un buon mercato: la qualità, il miglior prezzo, il prodotto più innovativo, il servizio più efficiente. Nulla di quanto avviene nel caso dell’impresa mafiosa, che può farsi forte di altri elementi: la violenza nell’affrontare i concorrenti e condizionare i fornitori, la corruzione delle pubbliche amministrazioni, l’alterazione delle relazioni industriali, dei rapporti con i dipendenti, fondati su minacce e frequente ricorso al “lavoro nero”, l’evasione delle norme sulle tasse e i contributi, il credito “nero”, da riciclaggio, facile e a bassissimo costo.

Hanno dunque avuto ragione le istituzioni ad alzare la guardia dell’impegno investigativo e repressivo e delle misure di prevenzione e cautela contro le infiltrazioni mafiose. E le associazioni d’impresa e molte delle singole imprese stesse a insistere sui nessi sempre più stretti tra legalità e buona cresc ita dell’economia e dei mercati. Un impegno da rafforzare.

Legalità. Impegno contro mafia e corruzione. E buona cultura d’impresa come cultura del mercato efficiente, trasparente e ben regolato, come attitudine alla competizione fair, come intraprendenza che premia merito, qualità e sicurezza, come responsabilità per la sostenibilità sociale e ambientale. Legalità, dunque, come valore istituzionale, con tutte le sue implicazioni morali e civili. Ma anche legalità come asset di competitività e di sviluppo. Sono questi i temi alla base delle due giornate di studio milanesi organizzate, mercoledì e giovedì della scorsa settimana, dalla Scuola Superiore della Magistratura (la sede del Distretto di Milano) e da Assolombarda sul tema “Criminalità organizzata e impresa”. Discussioni dense e aperte, con la partecipazione di magistrati, imprenditori, economisti, studiosi di diritto, uomini delle forze dell’ordine e manager, per mettere a confronto esperienze, impegni, analisi da diversi ma convergenti punti di vista sulle questioni poste dal dilagare delle organizzazioni mafiose nei contesti dell’economia anche nelle regioni del Nord e dalla necessità di risposte che riguardino non solo prevenzione e repressione giudiziaria, ma anche contrasto da parte degli attori economici e sociali. Lo sfondo generale: la presa d’atto e la crescente consapevolezza che le attività criminali di mafia, camorra e ‘ndrangheta non sono solo un problema di ordine pubblico, ma investono l’economia di mercato, la tenuta della politica e della pubblica amministrazione, la qualità della stessa democrazia.

C’è un lavoro importante da portare avanti, ognuno a suo modo (magistratura e imprese) ma con convergenza di intenti. I nuovi provvedimenti voluti dal governo Renzi e varati dal Parlamento contro la corruzione e la mafia offrono strumenti migliori che nel passato. E c’è naturalmente ancora strada da fare, per evitare che l’illegalità stavolga crescita e buona economia di mercato.

Per quardare le cose dal punto di vista della cultura d’impresa, si può partire dal “rating di legalità”, una misura sostenuta da Confindustria e accolta, a metà dicembre 2014, dall’Alto Commissario Anticorruzione Raffaele Cantone e dal presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella con un regolamento che “premia gli imprenditori virtuosi sul piano economico e della legge” e fa “da punteggio aggiuntivo per l’aggiudicazione degli appalti pubblici”. E’ una misura importante. E aumenta il numero delle imprese che lo chiedono (oltre 500 l’hanno già ottenuto).

Servono anche i “codici etici”. Per le buone imprese, infatti, “fare pulizia” non è solo un imperativo morale (diretto anche all’interno del proprio mondo), ma una regola per la crescita. E accanto alle norme, più efficaci e severe contro la corruzione e la mafia, è necessaria una vera e propria svolta culturale, una nuova e diffusa coscienza civile che metta nell’angolo mafiosi, corruttori, complici, l’ampia “zona grigia” che nel tempo ha consentito il degrado del tessuto politico e sociale a vantaggio dei clan.

La corruzione è zavorra dello sviluppo”, ha documentato, nel dicembre dello scorso anno, il Centro Studi Confindustria: ostacolo per una buona cultura di mercato, distorsione d’una equilibrata crescita economica e sociale, frattura nel mondo delle imprese, del lavoro, del miglioramento della società.

Da che punto di vista, allora, guardare alla legalità? Per esempio, da quello della relazione perversa tra eccesso di leggi e regolamenti e loro sostanziale scarso rispetto. Da quello dell’inquinamento delle attività economiche da parte della mafia e delle altre organizzazioni criminali, diffuse su tutto il territorio italiano. O ancora da quello della concorrenza sleale portata dall’economia del “sommerso” e dalla persistenza di ampie aree di evasione fiscale. Oppure dal punto di vista della scarsa efficienza ed efficacia di una macchina giudiziaria complessa e lenta, che non risponde al bisogno di giustizia civile e penale in tempi ragionevoli, con pronunciamenti chiari e di qualità. E del cattivo funzionamento della giustizia e dunque della crisi dei mercati ben regolati si avvantaggia l’attore economico più spregiudicato, prepotente, illegale. Ai danni di tutta la buona economia nazionale.

Sburocratizzare”, è la parola d’ordine, anche d’importanti riforme in corso, avviate dal Governo. Meno norme, e più chiare. Minori passaggi burocratici. Controlli meno schematicamente formali e più incisivi. Trasparenza. Si tratta di insistere su scelte politiche radicali, anche per rompere il conservatorismo contro le riforme e per valorizzare quelle stesse componenti della pubblica amministrazione (minoritarie, ma di gran valore) che si muovono con un forte senso dello Stato e delle regole.

Legalità, per Assolombarda, che ne ha fatto uno dei cardini della strategia “Far volare Milano per far volare l’Italia”, vuol dire anche avviare iniziative per tutelare le imprese dalla concorrenza sleale delle cosche della criminalità organizzata, dichiarando il pieno appoggio alle attività antimafia della Procura della Repubblica di Milano nelle indagini contro le relazioni perverse tra cosche della ‘ndrangheta e disinvolti imprenditori in cerca di scorciatoie illegali d’affari e organizzando, in collaborazione con Tribunale e Corte d’Appello, seminari, confronti, attività di formazione sulle ragioni della giustizia e quelle, coincidenti, delle buone imprese. Come quello, appunto, della scorsa settimana a Milano, una iniziativa cui dare seguito.

La concorrenza, infatti, è un valore chiave. A patto che sia aperta, rispettosa delle regole, giocata secondo i principi costitutivi di un buon mercato: la qualità, il miglior prezzo, il prodotto più innovativo, il servizio più efficiente. Nulla di quanto avviene nel caso dell’impresa mafiosa, che può farsi forte di altri elementi: la violenza nell’affrontare i concorrenti e condizionare i fornitori, la corruzione delle pubbliche amministrazioni, l’alterazione delle relazioni industriali, dei rapporti con i dipendenti, fondati su minacce e frequente ricorso al “lavoro nero”, l’evasione delle norme sulle tasse e i contributi, il credito “nero”, da riciclaggio, facile e a bassissimo costo.

Hanno dunque avuto ragione le istituzioni ad alzare la guardia dell’impegno investigativo e repressivo e delle misure di prevenzione e cautela contro le infiltrazioni mafiose. E le associazioni d’impresa e molte delle singole imprese stesse a insistere sui nessi sempre più stretti tra legalità e buona cresc ita dell’economia e dei mercati. Un impegno da rafforzare.

Pirelli altro che calendario

La cultura dell’impresa cooperativa

Anche le cooperative sono imprese, seppur particolari. Organizzazione, gestione, gerarchie, pulsioni e tensioni creative sono, di fatto, le stesse. Certo cambia il fine ultimo – il profitto imprenditoriale -, ma anche una cooperativa vive animata da una propria cultura che guida e spinge in avanti l’intero meccanismo della produzione. Capire come, quindi, è importante. Anche tenendo conto di quanta parte detiene la cooperazione nell’economia nazionale.

È interessante, quindi, leggere “L’identikit della cooperazione italiana nel XXI secolo” tesi scritta da Eleonora Mancini per il Corso di Politica economica e Gestione delle risorse umane dell’Università di Roma Tre.

L’obiettivo del lavoro è quello di mettere a fuoco l’evoluzione delle imprese cooperative italiane e scattare una istantanea dello stato della cooperazione oggi. Eleonora Mancini parte da una considerazione di base: le cooperative hanno profondi significati sociali e umani. Ma anche un ben radicato substrato sociale che dà forma alla loro cultura d’impresa.

Il lavoro, quindi, è un esame accurato della cooperazione in Italia che parte dai “caratteri” dell’uomo cooperativo per arrivare alle tipologie delle imprese cooperative, ai loro cicli di vita e alla descrizione del loro comportamento nei momenti di crisi. Poi, il lavoro continua esaminando i punti di forza e di debolezza della cooperazione, le sue necessità e il rapporto con il mercato del lavoro italiano. Tutto si conclude con l’indicazione del possibile ruolo della cooperazione per superare l’attuale fase di crisi.

Il lavoro prodotto da Eleonora Mancini può così essere un buon vademecum per capire meglio la cultura e la situazione dell’impresa cooperativa, un testo che si caratterizza per  brevità di lettura e chiarezza d’esposizione. È interessante, fra gli altri, questo passaggio: “La cooperazione è un fenomeno a elevato grado di cambiamento. È certamente una potenzialità, ma le sue possibilità molteplici sono indeterminabili a causa dell’intrico delle variabili in gioco, delle circostanze ambientali e storiche e dei condizionamenti che la “formazione sociale” capitalistica esercita su di essa. Ci sono coloro che considerano la cooperativa come una forma di impresa ormai superata, un bel ricordo del passato, un modo di fare economia che esalta la solidarietà, ma che ormai è divenuto inopportuno. Chi pensa questo sbaglia. Il valore della cooperazione è tutto nel presente, nella persistenza delle sue potenzialità sia come “sistema di imprese”, sia come “movimento sociale”.

Le pagine della Mancini, nella loro sintesi, servono proprio per capire di più tutto questo.

L’indentikit della cooperazione italiana nel XXI secolo

Eleonora Mancini

Facoltà di Scienze della formazione Laurea triennale in Formazione e Risorse Umane Corso di Politica economica e Gestione delle risorse umane, 2014-2015

Anche le cooperative sono imprese, seppur particolari. Organizzazione, gestione, gerarchie, pulsioni e tensioni creative sono, di fatto, le stesse. Certo cambia il fine ultimo – il profitto imprenditoriale -, ma anche una cooperativa vive animata da una propria cultura che guida e spinge in avanti l’intero meccanismo della produzione. Capire come, quindi, è importante. Anche tenendo conto di quanta parte detiene la cooperazione nell’economia nazionale.

È interessante, quindi, leggere “L’identikit della cooperazione italiana nel XXI secolo” tesi scritta da Eleonora Mancini per il Corso di Politica economica e Gestione delle risorse umane dell’Università di Roma Tre.

L’obiettivo del lavoro è quello di mettere a fuoco l’evoluzione delle imprese cooperative italiane e scattare una istantanea dello stato della cooperazione oggi. Eleonora Mancini parte da una considerazione di base: le cooperative hanno profondi significati sociali e umani. Ma anche un ben radicato substrato sociale che dà forma alla loro cultura d’impresa.

Il lavoro, quindi, è un esame accurato della cooperazione in Italia che parte dai “caratteri” dell’uomo cooperativo per arrivare alle tipologie delle imprese cooperative, ai loro cicli di vita e alla descrizione del loro comportamento nei momenti di crisi. Poi, il lavoro continua esaminando i punti di forza e di debolezza della cooperazione, le sue necessità e il rapporto con il mercato del lavoro italiano. Tutto si conclude con l’indicazione del possibile ruolo della cooperazione per superare l’attuale fase di crisi.

Il lavoro prodotto da Eleonora Mancini può così essere un buon vademecum per capire meglio la cultura e la situazione dell’impresa cooperativa, un testo che si caratterizza per  brevità di lettura e chiarezza d’esposizione. È interessante, fra gli altri, questo passaggio: “La cooperazione è un fenomeno a elevato grado di cambiamento. È certamente una potenzialità, ma le sue possibilità molteplici sono indeterminabili a causa dell’intrico delle variabili in gioco, delle circostanze ambientali e storiche e dei condizionamenti che la “formazione sociale” capitalistica esercita su di essa. Ci sono coloro che considerano la cooperativa come una forma di impresa ormai superata, un bel ricordo del passato, un modo di fare economia che esalta la solidarietà, ma che ormai è divenuto inopportuno. Chi pensa questo sbaglia. Il valore della cooperazione è tutto nel presente, nella persistenza delle sue potenzialità sia come “sistema di imprese”, sia come “movimento sociale”.

Le pagine della Mancini, nella loro sintesi, servono proprio per capire di più tutto questo.

L’indentikit della cooperazione italiana nel XXI secolo

Eleonora Mancini

Facoltà di Scienze della formazione Laurea triennale in Formazione e Risorse Umane Corso di Politica economica e Gestione delle risorse umane, 2014-2015

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