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Imprese eccezionali

Ogni cultura d’impresa ha una sua storia. Ed è importante conoscerla, questa storia, per capire l’impresa nel momento attuale. Lo stesso ė anche per i territori e le imprese che in essi sono nate e sono cresciute. Vale, anche in questo caso, l’indicazione che il presente si conosce meglio se si sa anche dal passato che lo ha originato. Senza nostalgie per i tempi che furono, ma con la consapevolezza che dall’esperienza di prima si costruisce meglio il futuro.

Per tutto questo serve ed è bello leggere “Fare impresa nel Nord Est. Dal decollo alla grande crisi” scritto da Giorgio Brunetti è appena pubblicato.

Brunetti è adesso Professore emerito di Strategia e politica aziendale all’Università Bocconi di Milano, ma le aziende le conosce non solo dal punto di vista teorico: per anni è stato in numerosi consigli di amministrazione di alcuni dei più bei nomi dell’industria nazionale. E non solo, perché da giovane ricercatore, Brunetti ha avuto modo di percorrere in lungo e in largo l’Italia industriale, soprattutto del Nord Est. Ed è proprio la storia di questa parte del Paese che Brunetti racconta in poco più di 150 pagine che si leggono con facilità e piacere. Perché, occorre dirlo, Brunetti scrive da profondo conoscitore di una realtà che ha visto lungo decenni nel suo dipanarsi, crescere e continuare nonostante i colpi della crisi.

Dal racconto, emergono quindi tutti i caratteri – positivi e negativi – di questa parte dell’industria nazionale, fatta non di grandi aziende come quelle metalmeccaniche del Nord Ovest oppure di Milano, ma di medio piccole realtà produttive conosciutissime in alcuni casi, meno in altri, che però hanno davvero creato un modello di produzione e sociale che ha fatto scuola e che, bene o male, ancora oggi esiste e può insegnare molto.

Scorrono, quindi, sotto la penna di Brunetti le vicende di grandi nomi come Zanussi, Zoppas, Marzotto, Benetton, Del Vecchio, uniti da vicende parallele che spesso si incontrano, collegati dalla ripresa del dopoguerra, dal miracolo economico seguente, dagli anni di crisi, dall’entrata in scena dell’Europa, dell’euro, della crisi globale.

Di ogni passaggio, Brunetti, racconta la vicenda, gli aspetti economici, quelli sociali; delinea l’evolversi di una cultura della produzione e della manifattura che è arrivata fino ad oggi. Testo anche di indicazione politico-economica, la fatica di Brunetti si conclude con alcune indicazioni per una politica industriale che non butti via ciò che di buono c’è del passato, ma che riesca a trovare nuove leve per un futuro migliore.

Brunetti non scrive da accademico – quale d’altra parte è -, ma quasi da reporter che descrive vicende accadute prospettando però quelle che potrebbero ancora accadere. Anche per questo è da leggere.

Fare impresa nel Nord Est. Dal decollo alla grande crisi

Giorgio Brunetti

Bollati Boringhieri, 2015

Ogni cultura d’impresa ha una sua storia. Ed è importante conoscerla, questa storia, per capire l’impresa nel momento attuale. Lo stesso ė anche per i territori e le imprese che in essi sono nate e sono cresciute. Vale, anche in questo caso, l’indicazione che il presente si conosce meglio se si sa anche dal passato che lo ha originato. Senza nostalgie per i tempi che furono, ma con la consapevolezza che dall’esperienza di prima si costruisce meglio il futuro.

Per tutto questo serve ed è bello leggere “Fare impresa nel Nord Est. Dal decollo alla grande crisi” scritto da Giorgio Brunetti è appena pubblicato.

Brunetti è adesso Professore emerito di Strategia e politica aziendale all’Università Bocconi di Milano, ma le aziende le conosce non solo dal punto di vista teorico: per anni è stato in numerosi consigli di amministrazione di alcuni dei più bei nomi dell’industria nazionale. E non solo, perché da giovane ricercatore, Brunetti ha avuto modo di percorrere in lungo e in largo l’Italia industriale, soprattutto del Nord Est. Ed è proprio la storia di questa parte del Paese che Brunetti racconta in poco più di 150 pagine che si leggono con facilità e piacere. Perché, occorre dirlo, Brunetti scrive da profondo conoscitore di una realtà che ha visto lungo decenni nel suo dipanarsi, crescere e continuare nonostante i colpi della crisi.

Dal racconto, emergono quindi tutti i caratteri – positivi e negativi – di questa parte dell’industria nazionale, fatta non di grandi aziende come quelle metalmeccaniche del Nord Ovest oppure di Milano, ma di medio piccole realtà produttive conosciutissime in alcuni casi, meno in altri, che però hanno davvero creato un modello di produzione e sociale che ha fatto scuola e che, bene o male, ancora oggi esiste e può insegnare molto.

Scorrono, quindi, sotto la penna di Brunetti le vicende di grandi nomi come Zanussi, Zoppas, Marzotto, Benetton, Del Vecchio, uniti da vicende parallele che spesso si incontrano, collegati dalla ripresa del dopoguerra, dal miracolo economico seguente, dagli anni di crisi, dall’entrata in scena dell’Europa, dell’euro, della crisi globale.

Di ogni passaggio, Brunetti, racconta la vicenda, gli aspetti economici, quelli sociali; delinea l’evolversi di una cultura della produzione e della manifattura che è arrivata fino ad oggi. Testo anche di indicazione politico-economica, la fatica di Brunetti si conclude con alcune indicazioni per una politica industriale che non butti via ciò che di buono c’è del passato, ma che riesca a trovare nuove leve per un futuro migliore.

Brunetti non scrive da accademico – quale d’altra parte è -, ma quasi da reporter che descrive vicende accadute prospettando però quelle che potrebbero ancora accadere. Anche per questo è da leggere.

Fare impresa nel Nord Est. Dal decollo alla grande crisi

Giorgio Brunetti

Bollati Boringhieri, 2015

Ecco la buona cultura d’impresa e mercato: l’Italia torna al centro dell’economia internazionale

L’Italia è di nuovo al centro dei grandi flussi dell’economia globale. Merito, innanzitutto, delle nostre imprese, che hanno sviluppato una crescente cultura del mercato e della competitività. Sono diventate, infatti, sempre più attraenti per gli investimenti internazionali, ma hanno anche sviluppato una forte intraprendenza estera, ampliando gli investimenti diretti su parecchi mercati, dagli Usa al Brasile, dalla Cina alle altre nazioni più dinamiche. “L’Italia torna all’estero: acquisizioni per 9,3 miliardi”, titola in prima pagina “Il Sole24Ore” di domenica, con un documentato articolo di Paolo Bricco che racconta come “il nostro capitalismo sta esprimendo all’estero un buon dinamismo” anche se “il processo di internazionalizzazione dell’economia italiana continua ad avere dimensioni strutturalmente minori rispetto agli standard europei”: siamo ancora in coda negli investimenti esteri, a confronto con i grandi paesi Ue (Germania e Gran Bretagna, innanzitutto) anche per gravi limiti di sistema (eccesso di burocrazia e regolazione formale, fisco esoso e complesso, corruzione diffusa, lentezze della giustizia, gravi carenze nelle infrastrutture, etc.) e le nostre imprese, dinamiche ma piccole rispetto ai mercati esteri, fanno poche acquisizioni.

Il panorama difficile sta comunque cambiando. Qualcosa si muove. E vale dunque la pena darne conto. Quei 9,3 miliardi di investimenti all’estero di cui parla “Il Sole24Ore” riguardano le acquisizioni fatte da imprese italiane nel primo quadrimestre del 2015. Un ottimo dato, anche rispetto ai 12,2 miliardi di tutto il 2014, comunque in gran progresso rispetto alle cifre minime dal 2010 (appena 1,7 miliardi) al 2013 (4,3 miliardi). Ci si avvicina a quei 13,7 miliardi del 2009, quando ancora la Grande Crisi non aveva fatto sentire tutto il suo peso. “Le nuove rotte? Soprattutto gli Usa, e non solo per Fiat-Chrysler”, nota Bricco. “Aprirsi ai mercati globali è la soluzione anche per le piccole e medie imprese”, aggiunge Luca Orlando, sempre sul “Sole”.

Buoni dati pure per gli investimenti esteri in Italia, che si stanno concentrando sulla manifattura, abbandonando parzialmente finanza e immobiliare. I dati sono chiari: 16,8 miliardi nel 2014, dopo due anni difficili (6,2 nel 2012 e 10,7 nel 2013) e allo stesso livello del 2011. C’è da fare molto di più, naturalmente, rendendo l’Italia sempre più accogliente e competitiva. Ma ci si muove (poco, però, stando agli appena 2,4 miliardi del primo trimestre 2015).

Cosa piace delle nostre imprese? Il loro dinamismo. La solida cultura del “bello e ben fatto”. Le capacità d’innovazione adattativa, soprattutto nel medium tech manifatturiero. La flessibilità. La qualità delle risorse umane. La disponibilità del management a interpretare con intelligenza e originalità le evoluzioni dei mercati. La nostra buona “cultura d’impresa politecnica”, insomma. Una vera e propria forza competitiva. Da continuare a spendere bene.

L’Italia è di nuovo al centro dei grandi flussi dell’economia globale. Merito, innanzitutto, delle nostre imprese, che hanno sviluppato una crescente cultura del mercato e della competitività. Sono diventate, infatti, sempre più attraenti per gli investimenti internazionali, ma hanno anche sviluppato una forte intraprendenza estera, ampliando gli investimenti diretti su parecchi mercati, dagli Usa al Brasile, dalla Cina alle altre nazioni più dinamiche. “L’Italia torna all’estero: acquisizioni per 9,3 miliardi”, titola in prima pagina “Il Sole24Ore” di domenica, con un documentato articolo di Paolo Bricco che racconta come “il nostro capitalismo sta esprimendo all’estero un buon dinamismo” anche se “il processo di internazionalizzazione dell’economia italiana continua ad avere dimensioni strutturalmente minori rispetto agli standard europei”: siamo ancora in coda negli investimenti esteri, a confronto con i grandi paesi Ue (Germania e Gran Bretagna, innanzitutto) anche per gravi limiti di sistema (eccesso di burocrazia e regolazione formale, fisco esoso e complesso, corruzione diffusa, lentezze della giustizia, gravi carenze nelle infrastrutture, etc.) e le nostre imprese, dinamiche ma piccole rispetto ai mercati esteri, fanno poche acquisizioni.

Il panorama difficile sta comunque cambiando. Qualcosa si muove. E vale dunque la pena darne conto. Quei 9,3 miliardi di investimenti all’estero di cui parla “Il Sole24Ore” riguardano le acquisizioni fatte da imprese italiane nel primo quadrimestre del 2015. Un ottimo dato, anche rispetto ai 12,2 miliardi di tutto il 2014, comunque in gran progresso rispetto alle cifre minime dal 2010 (appena 1,7 miliardi) al 2013 (4,3 miliardi). Ci si avvicina a quei 13,7 miliardi del 2009, quando ancora la Grande Crisi non aveva fatto sentire tutto il suo peso. “Le nuove rotte? Soprattutto gli Usa, e non solo per Fiat-Chrysler”, nota Bricco. “Aprirsi ai mercati globali è la soluzione anche per le piccole e medie imprese”, aggiunge Luca Orlando, sempre sul “Sole”.

Buoni dati pure per gli investimenti esteri in Italia, che si stanno concentrando sulla manifattura, abbandonando parzialmente finanza e immobiliare. I dati sono chiari: 16,8 miliardi nel 2014, dopo due anni difficili (6,2 nel 2012 e 10,7 nel 2013) e allo stesso livello del 2011. C’è da fare molto di più, naturalmente, rendendo l’Italia sempre più accogliente e competitiva. Ma ci si muove (poco, però, stando agli appena 2,4 miliardi del primo trimestre 2015).

Cosa piace delle nostre imprese? Il loro dinamismo. La solida cultura del “bello e ben fatto”. Le capacità d’innovazione adattativa, soprattutto nel medium tech manifatturiero. La flessibilità. La qualità delle risorse umane. La disponibilità del management a interpretare con intelligenza e originalità le evoluzioni dei mercati. La nostra buona “cultura d’impresa politecnica”, insomma. Una vera e propria forza competitiva. Da continuare a spendere bene.

Banche-imprese socialmente responsabili

Imprese socialmente responsabili, ma anche banche socialmente responsabili. Che, poi, a guardar dentro all’argomento significa dire la stessa cosa, visto che le banche sono anch’esse imprese e che quindi anch’esse devono occuparsi degli “effetti” esterni e interni del loro agire. Anche in questo caso, a cambiare di livello non è nient’altro che la cultura d’impresa che deve caratterizzare l’azione della produzione e il rapporto di questa con il mercato e con l’ambiente esterno.

È utile, per capire meglio lo stato dell’arte sull’argomento, leggere “Corporate Social Responsibility in the Banking Sector” di Csaba Lentner,  Krisztina Szegedi, Tibor Tatay pubblicato da poco sul Public Finance Quarterly.

L’articolo ragiona sul ruolo della responsabilità sociale come aspetto particolare della cultura d’impresa moderna, applicando però il tutto al sistema delle banche. “Dopo la crisi del 2008 – spiegano gli autori -, molti erano preoccupati di come ripristinare la fiducia nella finanza e nelle istituzioni e come le banche potessero meglio contribuire ad una crescita sociale ed economica sostenibile”. In altre parole, dopo la crisi, le banche centrali di molti paesi sono diventate “responsabili” per sostenere la stabilità finanziaria sviluppando particolare strategie di responsabilità sociale.

L’articolo quindi inizia con un approfondimento delle figure e dei ruoli degli attori sui mercati finanziari e dei loro sistemi di relazione, per passare poi ad una interpretazione della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), nell’ambito del sistema del credito.  può contribuire alla stabilità finanziaria. Cuore dell’intervento è quindi uno schema a quattro parti nel quale viene sintetizzata la RSI delle banche attraverso l’incrocio di un’insieme di azioni di responsabilità sociale d’impresa (integrate nel sistema produttivo oppure esterne a questo), e di azioni proprie delle banche.

L’articolo di Lentner,  Szegedi e Tatay non fornisce grandi novità sul tema della RSI e del sistema del credito, ma ha il merito di sistematizzare un tema complesso e – ancora oggi -, non sempre pienamente accettato, in uno spazio breve e con un testo chiaro (costellato anche da una serie di esempi interessanti). Quanto apparso sul Public Finance Quarterly è quindi cosa da leggere, per capire meglio come anche le banche – al pari di ogni impresa – debbano fare i conti con il mondo esterno ad esse.

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Corporate Social Responsibility in the Banking Sector

Csaba Lentner, Krisztina Szegedi, Tibor Tatay

Public Finance Quarterly, 2015/1

Imprese socialmente responsabili, ma anche banche socialmente responsabili. Che, poi, a guardar dentro all’argomento significa dire la stessa cosa, visto che le banche sono anch’esse imprese e che quindi anch’esse devono occuparsi degli “effetti” esterni e interni del loro agire. Anche in questo caso, a cambiare di livello non è nient’altro che la cultura d’impresa che deve caratterizzare l’azione della produzione e il rapporto di questa con il mercato e con l’ambiente esterno.

È utile, per capire meglio lo stato dell’arte sull’argomento, leggere “Corporate Social Responsibility in the Banking Sector” di Csaba Lentner,  Krisztina Szegedi, Tibor Tatay pubblicato da poco sul Public Finance Quarterly.

L’articolo ragiona sul ruolo della responsabilità sociale come aspetto particolare della cultura d’impresa moderna, applicando però il tutto al sistema delle banche. “Dopo la crisi del 2008 – spiegano gli autori -, molti erano preoccupati di come ripristinare la fiducia nella finanza e nelle istituzioni e come le banche potessero meglio contribuire ad una crescita sociale ed economica sostenibile”. In altre parole, dopo la crisi, le banche centrali di molti paesi sono diventate “responsabili” per sostenere la stabilità finanziaria sviluppando particolare strategie di responsabilità sociale.

L’articolo quindi inizia con un approfondimento delle figure e dei ruoli degli attori sui mercati finanziari e dei loro sistemi di relazione, per passare poi ad una interpretazione della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI), nell’ambito del sistema del credito.  può contribuire alla stabilità finanziaria. Cuore dell’intervento è quindi uno schema a quattro parti nel quale viene sintetizzata la RSI delle banche attraverso l’incrocio di un’insieme di azioni di responsabilità sociale d’impresa (integrate nel sistema produttivo oppure esterne a questo), e di azioni proprie delle banche.

L’articolo di Lentner,  Szegedi e Tatay non fornisce grandi novità sul tema della RSI e del sistema del credito, ma ha il merito di sistematizzare un tema complesso e – ancora oggi -, non sempre pienamente accettato, in uno spazio breve e con un testo chiaro (costellato anche da una serie di esempi interessanti). Quanto apparso sul Public Finance Quarterly è quindi cosa da leggere, per capire meglio come anche le banche – al pari di ogni impresa – debbano fare i conti con il mondo esterno ad esse.

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Corporate Social Responsibility in the Banking Sector

Csaba Lentner, Krisztina Szegedi, Tibor Tatay

Public Finance Quarterly, 2015/1

Le buone imprese comprendono il mondo

La buona cultura d’impresa passa anche per la solida consapevolezza del mondo in cui l’impresa agisce. E non potrebbe che essere così, nel momento in cui ogni azienda diventata impresa costituisce un’entità che continuamente comunica con l’esterno scambiando prodotti, informazioni, ma anche sensazioni, umori, tensioni.

Da qui nasce l’utilità – e la necessità -, per imprenditori e manager di leggere alcuni libri utili a capire ciò che si muove al di fuori della mura della fabbrica. E’ il caso di “L’era dello sviluppo sostenibile” di Jeffrey D. Sachs appena pubblicato in traduzione italiana.  Sachs è un economista, ma soprattutto è il direttore dell’Earth Institute della Columbia University e ancora di più è uno scrittore che si fa leggere anche quando scrive di cose oggettivamente complesse; per questo le circa 540 pagine dell’ultima sua fatica possono essere scorse con facilità, anche se non si tratta di un libro di avventure. Anche se poi l’argomento altro non è che l’avventura del mondo.

Al centro dell’argomentazione di Sachs è l’analisi dello sviluppo sostenibile inteso come “paradigma per comprendere il mondo”, ma anche come “metodo per risolvere i problemi globali”. Detto in altri termini, Sachs ragiona attorno allo sviluppo sostenibile che viene visto come una scienza che aiuta a capire i sistemi complessi che animano il mondo dell’oggi, ma anche come un insieme di regole che dettano comportamenti utili a costruire un equilibrio che possa portare sviluppo e benessere e non distruzione.

Ma cosa si deve proporre un vero sviluppo sostenibile? Per l’autore quattro obiettivi (che a ben vedere sono gli stessi di una buona impresa):  prosperità economica, inclusione e coesione sociale, sostenibilità ambientale, buona governance.

Da questi traguardi prende corpo tutto il volume che riesce a spiegare, sistemare, organizzare risultati di molte discipline come l’economia, la demografia, la sociologia, la climatologia. Mettendo in fila dati e considerazioni (anche di chi non è d’accordo), Sachs arriva ad una conclusione che non è catastrofica ma è impegnativa: investire in giustizia economica e sociale significa investire anche in efficienza e il tempo a nostra disposizione non è ancora scaduto.

“L’era dello sviluppo sostenibile” non deve essere preso come la “bibbia” per il prossimo secolo, ma come una necessaria lettura per chi vuole capire meglio e di più cosa sta accadendo e cosa può accadere. Un buon libro per buoni manager.

L’era dello sviluppo sostenibile

Jeffrey D. Sachs

Università Bocconi Editore, 2015

La buona cultura d’impresa passa anche per la solida consapevolezza del mondo in cui l’impresa agisce. E non potrebbe che essere così, nel momento in cui ogni azienda diventata impresa costituisce un’entità che continuamente comunica con l’esterno scambiando prodotti, informazioni, ma anche sensazioni, umori, tensioni.

Da qui nasce l’utilità – e la necessità -, per imprenditori e manager di leggere alcuni libri utili a capire ciò che si muove al di fuori della mura della fabbrica. E’ il caso di “L’era dello sviluppo sostenibile” di Jeffrey D. Sachs appena pubblicato in traduzione italiana.  Sachs è un economista, ma soprattutto è il direttore dell’Earth Institute della Columbia University e ancora di più è uno scrittore che si fa leggere anche quando scrive di cose oggettivamente complesse; per questo le circa 540 pagine dell’ultima sua fatica possono essere scorse con facilità, anche se non si tratta di un libro di avventure. Anche se poi l’argomento altro non è che l’avventura del mondo.

Al centro dell’argomentazione di Sachs è l’analisi dello sviluppo sostenibile inteso come “paradigma per comprendere il mondo”, ma anche come “metodo per risolvere i problemi globali”. Detto in altri termini, Sachs ragiona attorno allo sviluppo sostenibile che viene visto come una scienza che aiuta a capire i sistemi complessi che animano il mondo dell’oggi, ma anche come un insieme di regole che dettano comportamenti utili a costruire un equilibrio che possa portare sviluppo e benessere e non distruzione.

Ma cosa si deve proporre un vero sviluppo sostenibile? Per l’autore quattro obiettivi (che a ben vedere sono gli stessi di una buona impresa):  prosperità economica, inclusione e coesione sociale, sostenibilità ambientale, buona governance.

Da questi traguardi prende corpo tutto il volume che riesce a spiegare, sistemare, organizzare risultati di molte discipline come l’economia, la demografia, la sociologia, la climatologia. Mettendo in fila dati e considerazioni (anche di chi non è d’accordo), Sachs arriva ad una conclusione che non è catastrofica ma è impegnativa: investire in giustizia economica e sociale significa investire anche in efficienza e il tempo a nostra disposizione non è ancora scaduto.

“L’era dello sviluppo sostenibile” non deve essere preso come la “bibbia” per il prossimo secolo, ma come una necessaria lettura per chi vuole capire meglio e di più cosa sta accadendo e cosa può accadere. Un buon libro per buoni manager.

L’era dello sviluppo sostenibile

Jeffrey D. Sachs

Università Bocconi Editore, 2015

La sfida dei “talenti” è aperta: occhio ai progressi di Cina e India

Da dove vengono i talenti? Dal Far East, in misura crescente. Basta fare un giro tra i viali e i padiglioni dell’Expo, per apprezzare le qualità hi tech delle imprese di Cina e India, forti dei loro ingegneri, matematici, scienziati. O, per avere un’idea più chiara del prossimo futuro, è quanto mai utile dare anche un’occhiata attenta ai dati dell’Ocse sulle proiezioni della percentuale di persone tra i 25 e i 34 anni che raggiungeranno, tra 15 anni, nel 2030 cioè, un livello di massima istruzione: il 27% dei talenti mondiali sarà in Cina, il 23% in India. Dunque, metà dei “talenti” del mondo. Notevoli anche i dati che parlano del 5% in Indonesia e il 5% in Brasile. Una clamorosa evoluzione positiva, rispetto alla situazione di oggi. Mentre l’8% dei talenti che verrà dagli Usa, il 2% dalla Germania e il 2% dal Regno Unito, l’1% da Francia e altrettanto dall’Italia sono una evoluzione negativa rispetto alla condizione di adesso. Si modificano gli equilibi mondiali dell’ “economia della conoscenza”. Vincono i Paesi con popolazioni più giovani e che stanno investendo massicciamente sull’istruzione e sulla formazione anche ai più alti livelli.

Le statistiche dell’Ocse, pubblicate di recente dal Corriere della sera (28 aprile), mostrano che nel nell’ultimo decennio c’erano 66 milioni di laureati nei Paesi Ocse e 64 milioni nell’area del G20. In proiezione, appunto al 2030, il numero dei laureati in Cina, India, Indonesia, Russia, Brasile, Argentina, Arabia Saudita e Sud Africa supererà del 40% quello di europei e americani Usa. Appunto una “rivoluzione culturale”, con forti ricadute su quantità e qualità della ricchezza e del potere.

I rettori delle più importanti università italiane, intervistati dal Corriere della Sera, sono consapevoli delle novità. Ma dicono: “L’eccellenza in ricerca e formazione è ancora qui, tra Europa e Usa”. E stanno giocando due carte fondamentali, per reggere la concorrenza: accordi di partnership con le università più dinamiche del Far East, ma anche programmi di attrazione di migliori studenti nei nostri atenei più prestigiosi. Lo stesso stanno facendo gli atenei francesi, inglesi, tedeschi. Sulla scia di quel che da tempo fanno le università americane. Alla sfida internazionale, insomma, si risponde aprendosi, non chiudenosi. Accettando il confronto sulla qualità. E provando a insistere sull’asset competitivo, tipicamente europeo, del mix fra tradizione e innovazione. Un mix originale, in cui l’Italia può ancora giocare buone carte. I suoi due grandi Politecnici, a Milano e a Torino e le grandi università milanesi, la Statale, la Bocconi, la Cattolica, offrono indicazioni interessanti. D’altronde, dei 180mila studenti universitari milanesi, il 10% viene dall’estero. Scommessa aperta, insomma. Sfida dei talenti in corso. Con occhio attento delle nostre imprese migliori, più internazionali.

Da dove vengono i talenti? Dal Far East, in misura crescente. Basta fare un giro tra i viali e i padiglioni dell’Expo, per apprezzare le qualità hi tech delle imprese di Cina e India, forti dei loro ingegneri, matematici, scienziati. O, per avere un’idea più chiara del prossimo futuro, è quanto mai utile dare anche un’occhiata attenta ai dati dell’Ocse sulle proiezioni della percentuale di persone tra i 25 e i 34 anni che raggiungeranno, tra 15 anni, nel 2030 cioè, un livello di massima istruzione: il 27% dei talenti mondiali sarà in Cina, il 23% in India. Dunque, metà dei “talenti” del mondo. Notevoli anche i dati che parlano del 5% in Indonesia e il 5% in Brasile. Una clamorosa evoluzione positiva, rispetto alla situazione di oggi. Mentre l’8% dei talenti che verrà dagli Usa, il 2% dalla Germania e il 2% dal Regno Unito, l’1% da Francia e altrettanto dall’Italia sono una evoluzione negativa rispetto alla condizione di adesso. Si modificano gli equilibi mondiali dell’ “economia della conoscenza”. Vincono i Paesi con popolazioni più giovani e che stanno investendo massicciamente sull’istruzione e sulla formazione anche ai più alti livelli.

Le statistiche dell’Ocse, pubblicate di recente dal Corriere della sera (28 aprile), mostrano che nel nell’ultimo decennio c’erano 66 milioni di laureati nei Paesi Ocse e 64 milioni nell’area del G20. In proiezione, appunto al 2030, il numero dei laureati in Cina, India, Indonesia, Russia, Brasile, Argentina, Arabia Saudita e Sud Africa supererà del 40% quello di europei e americani Usa. Appunto una “rivoluzione culturale”, con forti ricadute su quantità e qualità della ricchezza e del potere.

I rettori delle più importanti università italiane, intervistati dal Corriere della Sera, sono consapevoli delle novità. Ma dicono: “L’eccellenza in ricerca e formazione è ancora qui, tra Europa e Usa”. E stanno giocando due carte fondamentali, per reggere la concorrenza: accordi di partnership con le università più dinamiche del Far East, ma anche programmi di attrazione di migliori studenti nei nostri atenei più prestigiosi. Lo stesso stanno facendo gli atenei francesi, inglesi, tedeschi. Sulla scia di quel che da tempo fanno le università americane. Alla sfida internazionale, insomma, si risponde aprendosi, non chiudenosi. Accettando il confronto sulla qualità. E provando a insistere sull’asset competitivo, tipicamente europeo, del mix fra tradizione e innovazione. Un mix originale, in cui l’Italia può ancora giocare buone carte. I suoi due grandi Politecnici, a Milano e a Torino e le grandi università milanesi, la Statale, la Bocconi, la Cattolica, offrono indicazioni interessanti. D’altronde, dei 180mila studenti universitari milanesi, il 10% viene dall’estero. Scommessa aperta, insomma. Sfida dei talenti in corso. Con occhio attento delle nostre imprese migliori, più internazionali.

Conoscere per gestire meglio e crescere

Luigi Einaudi diceva che occorre “conoscere per deliberare”. Verità valida ancora oggi. Anche nell’ambito aziendale. Anzi, la conoscenza sempre di più è base di una sana gestione a tutto tondo, così come di una solida cultura d’impresa, che sia di aiuto ai manager e che connoti di se’ l’intero sistema produttivo. Ciò è valido pure nelle imprese che, apparentemente, paiono più lontane da questi concetti, come quelle manifatturiere.

A questo proposito Zuzana Crhova, Karel Kolman e Drahomíra Pavelkova (della Facoltà di Management ed economia della Tomas Bata University di Zlin nella Repubblica Ceca), hanno appena pubblicato “Support of Knowledge Sharing in Manufacturing Companies: A Case Study” che può essere utile per sistemare adeguatamente gli elementi per un ragionamento completo sul ruolo della conoscenza nella gestione d’impresa.

L’articolo parte dal considerare la “conoscenza” come una risorsa importante che può aiutare le organizzazioni a creare un vantaggio competitivo. Gli autori sono piuttosto chiari e scrivono: “La necessità di prendersi cura di questo bene è più importante in questi giorni di cambiamenti turbolenti”. La “conoscenza” viene quindi vista come facilitatrice dell’adattamento ai continui cambiamenti.

La ricerca, inizia con una sintesi della letteratura sul tema e, naturalmente, dalla definizione di “conoscenza” intesa come prodotto di una serie di relazioni gerarchiche tra dati e informazioni. “La conoscenza è in cima a questa piramide”, e può essere anche intesa come “l’informazione trasformata in una forma adoperabile”.

Sistemata la teoria, l’articolo, attraverso una serie di interviste arriva al nucleo centrale dell’intervento dei tre ricercatori: uno schema che visualizza i percorsi di condivisione della “conoscenza” all’interno di un’impresa manifatturiera. Il miglioramento dei livelli di attività dell’impresa e della sua stessa cultura, spiegano i tre, è dato dal meccanismo ottimale di condivisione della “conoscenza”. Un meccanismo che mette insieme tutti gli elementi di gestione aziendale come i costi, i benefici, la produttività, la formazione, la progettualità, la cultura dei componenti di base, l’efficienza.

Quanto scritto da Zuzana Crhova, Karel Kolman e Drahomíra Pavelkova costituisce così un breve manuale per orientarsi che imprenditori e uomini d’azienda possono avere sottomano per capire meglio come si collocano le singole azioni che possono essere compiute ogni giorno. Una lettura semplice, che può essere estremamente utile.

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Support of Knowledge Sharing in Manufacturing Companies: A Case Study 

Zuzana Crhova, Karel Kolman, Drahomíra Pavelkova

International Journal of Social, Education, Economics and Management Engineering Vol:9, No:5, 2015

Luigi Einaudi diceva che occorre “conoscere per deliberare”. Verità valida ancora oggi. Anche nell’ambito aziendale. Anzi, la conoscenza sempre di più è base di una sana gestione a tutto tondo, così come di una solida cultura d’impresa, che sia di aiuto ai manager e che connoti di se’ l’intero sistema produttivo. Ciò è valido pure nelle imprese che, apparentemente, paiono più lontane da questi concetti, come quelle manifatturiere.

A questo proposito Zuzana Crhova, Karel Kolman e Drahomíra Pavelkova (della Facoltà di Management ed economia della Tomas Bata University di Zlin nella Repubblica Ceca), hanno appena pubblicato “Support of Knowledge Sharing in Manufacturing Companies: A Case Study” che può essere utile per sistemare adeguatamente gli elementi per un ragionamento completo sul ruolo della conoscenza nella gestione d’impresa.

L’articolo parte dal considerare la “conoscenza” come una risorsa importante che può aiutare le organizzazioni a creare un vantaggio competitivo. Gli autori sono piuttosto chiari e scrivono: “La necessità di prendersi cura di questo bene è più importante in questi giorni di cambiamenti turbolenti”. La “conoscenza” viene quindi vista come facilitatrice dell’adattamento ai continui cambiamenti.

La ricerca, inizia con una sintesi della letteratura sul tema e, naturalmente, dalla definizione di “conoscenza” intesa come prodotto di una serie di relazioni gerarchiche tra dati e informazioni. “La conoscenza è in cima a questa piramide”, e può essere anche intesa come “l’informazione trasformata in una forma adoperabile”.

Sistemata la teoria, l’articolo, attraverso una serie di interviste arriva al nucleo centrale dell’intervento dei tre ricercatori: uno schema che visualizza i percorsi di condivisione della “conoscenza” all’interno di un’impresa manifatturiera. Il miglioramento dei livelli di attività dell’impresa e della sua stessa cultura, spiegano i tre, è dato dal meccanismo ottimale di condivisione della “conoscenza”. Un meccanismo che mette insieme tutti gli elementi di gestione aziendale come i costi, i benefici, la produttività, la formazione, la progettualità, la cultura dei componenti di base, l’efficienza.

Quanto scritto da Zuzana Crhova, Karel Kolman e Drahomíra Pavelkova costituisce così un breve manuale per orientarsi che imprenditori e uomini d’azienda possono avere sottomano per capire meglio come si collocano le singole azioni che possono essere compiute ogni giorno. Una lettura semplice, che può essere estremamente utile.

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Support of Knowledge Sharing in Manufacturing Companies: A Case Study 

Zuzana Crhova, Karel Kolman, Drahomíra Pavelkova

International Journal of Social, Education, Economics and Management Engineering Vol:9, No:5, 2015

Capire la “crisi” fa bene alla cultura d’impresa

Idee chiare e concetti limpidi. La buona cultura d’impresa si nutre anche di questo. Ed è importante che sia così, soprattutto in tempi difficili. Ecco perché, per esempio, aver chiaro in mente cosa voglia dire “crisi” è condizione necessaria per l’imprenditore avveduto e il manager attento. Allora è utile leggere “Il tempo della crisi” di Gianni Puglisi in procinto di uscire in tutte le librerie. Puglisi è Professore di Letteratura comparata presso all’Università IULM ma è anche giornalista e soprattutto osservatore attento delle cose della realtà di oggi. Ripercorre quindi tutti i significati del vocabolo “crisi” attingendo di continuo a esempi tratti da letteratura, cinema, filosofia, mitologia, antropologia.

“Quale crisi? – si chiede Puglisi -, È questa la domanda che cominciano a farsi in molti, da un lato ascoltando i politici, gli economisti e quanti a loro si accodano, che ne predicano, a giorni alterni, l’inizio della fine e la difficoltà ad uscirne, e dall’altro lato osservando la vita nelle città, le folle negli outlet, nei supermercati, nei negozi di lusso, nelle stazioni sciistiche, gli ingorghi sulle autostrade, nei centri storici. Sicuramente una crisi c’è stata e forse è ancora in atto, ma di certo la situazione è ben lontana da quella che vogliono farci credere e anche vedere i responsabili vicini e lontani della crisi stessa”.

Capire per davvero la realtà, quindi, passa anche dalla comprensione del significato profondo delle parole che si usano per descriverla e raccontarla.

Dalle pagine di Puglisi, emerge che la “crisi” di oggi è certamente economica, ma non solo. E’ qualcosa di più vasto e più complesso: universale e particolare in un solo momento.  Qualcosa che coinvolge macroeventi della globalizzazione ma anche comportamenti di ogni giorno di persone sulla piccola scena sociale.

Una condizione nella quale, occorre aggiungere, proprio la cultura d’impresa dà e riceve stimoli. Perché, diciamo noi, è naturale che l’impresa sia oggetto e soggetto della crisi, protagonista e vittima, strumento di rivalsa e di condivisione delle difficoltà. Luogo in cui, per tutto questo, proprio l’idea della “crisi” deve essere più chiara e capita.

Il libricino di Puglisi – 136 pagine da leggere concentrati e veloci -, aiuta a comprendere, fornisce strumenti validi anche per capire la realtà dentro e fuori l’impresa.

Leggere le pagine di Puglisi, quindi, è buona cosa per tutti. Anche perchè chi le scrive è sapiente ma non dà l’aria di esserlo. E quindi si fa comprendere da tutti.

Il tempo della crisi

Gianni Puglisi

Sellerio, 2015

Idee chiare e concetti limpidi. La buona cultura d’impresa si nutre anche di questo. Ed è importante che sia così, soprattutto in tempi difficili. Ecco perché, per esempio, aver chiaro in mente cosa voglia dire “crisi” è condizione necessaria per l’imprenditore avveduto e il manager attento. Allora è utile leggere “Il tempo della crisi” di Gianni Puglisi in procinto di uscire in tutte le librerie. Puglisi è Professore di Letteratura comparata presso all’Università IULM ma è anche giornalista e soprattutto osservatore attento delle cose della realtà di oggi. Ripercorre quindi tutti i significati del vocabolo “crisi” attingendo di continuo a esempi tratti da letteratura, cinema, filosofia, mitologia, antropologia.

“Quale crisi? – si chiede Puglisi -, È questa la domanda che cominciano a farsi in molti, da un lato ascoltando i politici, gli economisti e quanti a loro si accodano, che ne predicano, a giorni alterni, l’inizio della fine e la difficoltà ad uscirne, e dall’altro lato osservando la vita nelle città, le folle negli outlet, nei supermercati, nei negozi di lusso, nelle stazioni sciistiche, gli ingorghi sulle autostrade, nei centri storici. Sicuramente una crisi c’è stata e forse è ancora in atto, ma di certo la situazione è ben lontana da quella che vogliono farci credere e anche vedere i responsabili vicini e lontani della crisi stessa”.

Capire per davvero la realtà, quindi, passa anche dalla comprensione del significato profondo delle parole che si usano per descriverla e raccontarla.

Dalle pagine di Puglisi, emerge che la “crisi” di oggi è certamente economica, ma non solo. E’ qualcosa di più vasto e più complesso: universale e particolare in un solo momento.  Qualcosa che coinvolge macroeventi della globalizzazione ma anche comportamenti di ogni giorno di persone sulla piccola scena sociale.

Una condizione nella quale, occorre aggiungere, proprio la cultura d’impresa dà e riceve stimoli. Perché, diciamo noi, è naturale che l’impresa sia oggetto e soggetto della crisi, protagonista e vittima, strumento di rivalsa e di condivisione delle difficoltà. Luogo in cui, per tutto questo, proprio l’idea della “crisi” deve essere più chiara e capita.

Il libricino di Puglisi – 136 pagine da leggere concentrati e veloci -, aiuta a comprendere, fornisce strumenti validi anche per capire la realtà dentro e fuori l’impresa.

Leggere le pagine di Puglisi, quindi, è buona cosa per tutti. Anche perchè chi le scrive è sapiente ma non dà l’aria di esserlo. E quindi si fa comprendere da tutti.

Il tempo della crisi

Gianni Puglisi

Sellerio, 2015

Papa Francesco e lo “scandalo” delle donne pagate meno degli uomini

“E’ uno scandalo che le donne siano pagate meno degli uomini”. Le parole di Papa Francesco, il 29 aprile scorso, toccano il cuore del problema d’una economia ingiusta, ma anche fortemente rallentata nel dinamismo per il suo sviluppo. Insistono su un tema morale e civile, l’eguaglianza di diritti, doveri e responsabilità. Ma anche su una questione economica: un Paese che discrimina le donne non è in grado di costruire una crescita equilibrata e sostenibile.

“Avvenire”, a supporto del discorso del Papa, ricorda alcuni dati essenziali: la differenza salariale tra uomo e donna, secondo Eurostat (l’agenzia statistica della Ue) in Italia è del 6,7% (ma l’esperienza diretta italiana mostra come in certi casi, al di là dei contratti formali, il differenziale sia superiore al 20%, mentre in Germania è ben maggiore, il 22,4%, in Gran Bretagna il 19,1% e in Francia il 14,8%); il tasso di occupazione femminile è del 46,8% contro il 64,7% degli uomini (troppo poche donne sul mercato del lavoro, riprova d’una grave incapacità sistemica di utilizzare bene competenze e intelligenze); il 30% delle donne rinunciano al lavoro dopo aver avuto dei figli (conferma di gravi carenze delle politiche del welfare e della famiglia).

Siamo insomma di fronte a una condizione di discriminazione, anche se, rispetto al passato, sono stati fatti molti passi avanti per una maggiore e migliore inclusione del capitale umano femminile (ne abbiamo parlato più volte, nei blog di questa rubrica settimanale).

Vale la pena, allora, ricordare ancora una volta la lezione del premio Nobel per l’economia Gary Becker: discriminare è ingiusto e, inoltre, non conviene. Perché la discriminazione – documenta Becker –  impedisce di scegliere i migliori, mortifica la resa del capitale umano, abbatte la competitività. Se chi discrimina non sostiene costo alcuno, aggiunge Becker, non c’è limite economico alla discriminazione. Ma ciò succede solo in strutture non competitive. Il mercato (aperto e ben regolato, naturalmente, non il monopolio né l’oligopolio né le economie ad alto grado di protezionismo) è invece competitivo. E vanno bene solo le imprese che non discriminano (le persone di colore, le donne, etc.) ma scelgono e fanno crescere i migliori. Chi discrimina, in una società di mercato – insiste Becker – non sa insomma fare bene nemmeno i suoi interessi.

E’ una sfida per la buona cultura d’impresa, che deve lavorare all’integrazione e all’inclusione (questione di responsabilità sociale ma anche, alla Becker, di convenienza, di competitività). E una lezione economica e morale. Da non dimenticare proprio quando in Europa e anche in Italia la presenza di donne nell’economia, come ricorda anche il Papa, non è ancora al livello di una corretta condizione di equilibrio.  Lo sviluppo viene solo da una “società aperta”, inclusiva, capace di darsi norme intelligenti e lungimiranti.

“E’ uno scandalo che le donne siano pagate meno degli uomini”. Le parole di Papa Francesco, il 29 aprile scorso, toccano il cuore del problema d’una economia ingiusta, ma anche fortemente rallentata nel dinamismo per il suo sviluppo. Insistono su un tema morale e civile, l’eguaglianza di diritti, doveri e responsabilità. Ma anche su una questione economica: un Paese che discrimina le donne non è in grado di costruire una crescita equilibrata e sostenibile.

“Avvenire”, a supporto del discorso del Papa, ricorda alcuni dati essenziali: la differenza salariale tra uomo e donna, secondo Eurostat (l’agenzia statistica della Ue) in Italia è del 6,7% (ma l’esperienza diretta italiana mostra come in certi casi, al di là dei contratti formali, il differenziale sia superiore al 20%, mentre in Germania è ben maggiore, il 22,4%, in Gran Bretagna il 19,1% e in Francia il 14,8%); il tasso di occupazione femminile è del 46,8% contro il 64,7% degli uomini (troppo poche donne sul mercato del lavoro, riprova d’una grave incapacità sistemica di utilizzare bene competenze e intelligenze); il 30% delle donne rinunciano al lavoro dopo aver avuto dei figli (conferma di gravi carenze delle politiche del welfare e della famiglia).

Siamo insomma di fronte a una condizione di discriminazione, anche se, rispetto al passato, sono stati fatti molti passi avanti per una maggiore e migliore inclusione del capitale umano femminile (ne abbiamo parlato più volte, nei blog di questa rubrica settimanale).

Vale la pena, allora, ricordare ancora una volta la lezione del premio Nobel per l’economia Gary Becker: discriminare è ingiusto e, inoltre, non conviene. Perché la discriminazione – documenta Becker –  impedisce di scegliere i migliori, mortifica la resa del capitale umano, abbatte la competitività. Se chi discrimina non sostiene costo alcuno, aggiunge Becker, non c’è limite economico alla discriminazione. Ma ciò succede solo in strutture non competitive. Il mercato (aperto e ben regolato, naturalmente, non il monopolio né l’oligopolio né le economie ad alto grado di protezionismo) è invece competitivo. E vanno bene solo le imprese che non discriminano (le persone di colore, le donne, etc.) ma scelgono e fanno crescere i migliori. Chi discrimina, in una società di mercato – insiste Becker – non sa insomma fare bene nemmeno i suoi interessi.

E’ una sfida per la buona cultura d’impresa, che deve lavorare all’integrazione e all’inclusione (questione di responsabilità sociale ma anche, alla Becker, di convenienza, di competitività). E una lezione economica e morale. Da non dimenticare proprio quando in Europa e anche in Italia la presenza di donne nell’economia, come ricorda anche il Papa, non è ancora al livello di una corretta condizione di equilibrio.  Lo sviluppo viene solo da una “società aperta”, inclusiva, capace di darsi norme intelligenti e lungimiranti.

Imparare l’intraprendenza d’impresa

Si può anche imparare ad essere imprenditori. Certo, la voglia di rischiare, intraprendere, esplorare, occorre averla dentro, ma quest’essenza deve anche essere aiutata a farsi vedere,a diventare per davvero cultura d’impresa. I modi possono essere tanti. È certamente vero, tuttavia, che uno di questi sta nella formazione e nella scuola.

“Educazione all’imprenditorialità, orientamento all’iniziativa” è una ricerca – pubblicata su Pedagogia oggi della Siped (la Società Italiana di Pedagogia) -, che può essere utile per capire meglio questo aspetto della cultura d’impresa.

Si tratta di un intervento scritto da Roberta Piazza (Professore Associato di Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Catania), che affronta il tema dell’educazione all’imprenditorialità collegato all’insegnamento. “Il successo dell’educazione all’imprenditorialità (EE dalla formulazione in inglese) è ormai internazionale”, spiega l’autrice, ma “la ricerca in Europa mostra che fin troppa attenzione è volta alla capacità degli studenti di creare impresa e meno alle molteplici attività educative attraverso le quali è possibile effettivamente stimolare comportamenti intraprendenti”. La ricerca quindi si sofferma sui significati di Educazione all’intraprendenza (EE) “cercando di definirne il focus in funzione dell’acquisizione di quelle capacità richieste ai giovani di sviluppare la creatività e far fronte al costante cambiamento nel lavoro”.

Roberta Piazza prende in esame prima come la EE sia inquadrata in Italia e in Europa, soprattutto nell’ambito della formazione e dell’organizzazione scolastica, e poi approfondisce i meccanismi del passaggio dall’educazione all’imprenditorialità alle azioni per “orientare” i giovani verso le iniziative imprenditoriali. Vengono quindi elencati diversi aspetti che un’educazione di questo genere deve contenere per essere tale. Ma viene soprattutto puntato il dito su due carenze: la scarsa partecipazione degli imprenditori alla formazione all’imprenditorialità e l’emarginazione di cui questo tipo di educazione soffre nell’ambito universitario. Viene spiegato che “l’incertezza sul significato da assegnare all’educazione all’imprenditorialità, la mancanza di adeguata formazione del personale universitario, le difficoltà a coinvolgere imprenditori nei percorsi formativi e valutativi, la tradizionale valutazione accademica delle conoscenze piuttosto che delle competenze e dei comportamenti sono solo alcuni degli impedimenti che limitano l’inserimento dell’EE nelle università. Per quanto sia insistente la richiesta politica di includere sempre più l’imprenditorialità all’interno dei percorsi formativi, non è difficile notare quanto tale modello educativo sia sostanzialmente ai margini della formazione universitaria, patrimonio degli ambiti economici e manageriali, sostanzialmente isolato rispetto le tradizionali attività della ricerca e della didattica”.

Da tutto questo, un’altra sfida per il nostro Paese: “Promuovere il potenziale imprenditoriale – dice Roberta Piazza -, è diventato un’altra missione (ancora!) per l’istruzione superiore, piuttosto che un valore condiviso. Per divenire centrale, l’EE dovrebbe  invece essere inclusa nell’architettura istituzionale delle università, quale contributo agli obiettivi istituzionali dell’insegnamento di qualità e della ricerca”.

Educazione all’imprenditorialità, orientamento all’iniziativa

Roberta Piazza

Pedagogia oggi, 1/2015 (Siped)

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Si può anche imparare ad essere imprenditori. Certo, la voglia di rischiare, intraprendere, esplorare, occorre averla dentro, ma quest’essenza deve anche essere aiutata a farsi vedere,a diventare per davvero cultura d’impresa. I modi possono essere tanti. È certamente vero, tuttavia, che uno di questi sta nella formazione e nella scuola.

“Educazione all’imprenditorialità, orientamento all’iniziativa” è una ricerca – pubblicata su Pedagogia oggi della Siped (la Società Italiana di Pedagogia) -, che può essere utile per capire meglio questo aspetto della cultura d’impresa.

Si tratta di un intervento scritto da Roberta Piazza (Professore Associato di Pedagogia Generale e Sociale all’Università di Catania), che affronta il tema dell’educazione all’imprenditorialità collegato all’insegnamento. “Il successo dell’educazione all’imprenditorialità (EE dalla formulazione in inglese) è ormai internazionale”, spiega l’autrice, ma “la ricerca in Europa mostra che fin troppa attenzione è volta alla capacità degli studenti di creare impresa e meno alle molteplici attività educative attraverso le quali è possibile effettivamente stimolare comportamenti intraprendenti”. La ricerca quindi si sofferma sui significati di Educazione all’intraprendenza (EE) “cercando di definirne il focus in funzione dell’acquisizione di quelle capacità richieste ai giovani di sviluppare la creatività e far fronte al costante cambiamento nel lavoro”.

Roberta Piazza prende in esame prima come la EE sia inquadrata in Italia e in Europa, soprattutto nell’ambito della formazione e dell’organizzazione scolastica, e poi approfondisce i meccanismi del passaggio dall’educazione all’imprenditorialità alle azioni per “orientare” i giovani verso le iniziative imprenditoriali. Vengono quindi elencati diversi aspetti che un’educazione di questo genere deve contenere per essere tale. Ma viene soprattutto puntato il dito su due carenze: la scarsa partecipazione degli imprenditori alla formazione all’imprenditorialità e l’emarginazione di cui questo tipo di educazione soffre nell’ambito universitario. Viene spiegato che “l’incertezza sul significato da assegnare all’educazione all’imprenditorialità, la mancanza di adeguata formazione del personale universitario, le difficoltà a coinvolgere imprenditori nei percorsi formativi e valutativi, la tradizionale valutazione accademica delle conoscenze piuttosto che delle competenze e dei comportamenti sono solo alcuni degli impedimenti che limitano l’inserimento dell’EE nelle università. Per quanto sia insistente la richiesta politica di includere sempre più l’imprenditorialità all’interno dei percorsi formativi, non è difficile notare quanto tale modello educativo sia sostanzialmente ai margini della formazione universitaria, patrimonio degli ambiti economici e manageriali, sostanzialmente isolato rispetto le tradizionali attività della ricerca e della didattica”.

Da tutto questo, un’altra sfida per il nostro Paese: “Promuovere il potenziale imprenditoriale – dice Roberta Piazza -, è diventato un’altra missione (ancora!) per l’istruzione superiore, piuttosto che un valore condiviso. Per divenire centrale, l’EE dovrebbe  invece essere inclusa nell’architettura istituzionale delle università, quale contributo agli obiettivi istituzionali dell’insegnamento di qualità e della ricerca”.

Educazione all’imprenditorialità, orientamento all’iniziativa

Roberta Piazza

Pedagogia oggi, 1/2015 (Siped)

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Più cooperazione è più cultura d’impresa

La buona cultura d’impresa si traduce anche in cultura della collaborazione. Ovvio, non si tratta di metter in comune i “segreti” della produzione. Cooperare e collaborare fra imprese vuol dire crescere insieme, lavorare per il bene comune di un territorio che diventa bene per tutti e per i singoli. Concetti forse facili da comprendere, difficili – spesso -, da mettere in pratica. Ma molte volte è già accaduto. E certamente accadrà ancora. Capire come scatti la scintilla della collaborazione e della cooperazione, e quindi quella dello sviluppo, è importante: facilita la strada perché questo accada sempre più spesso.

“Collaborare per crescere. La cooperazione tra imprese al Nord e al Sud”, appena pubblicato e curato da Pier Francesco Asso e Emmanuele Pavolini per la Fondazione Res, è un buon manuale per intraprendere il cammino nelle motivazioni del successo (e dell’insuccesso), della cooperazione e collaborazione fra imprese.

“Dove si diffonde un sistema di relazioni cooperative – viene spiegato -, le imprese sperimentano una più elevata crescita economica ed entrano con maggiore successo nei mercati internazionali”. Ma a che cosa è legata la propensione delle imprese a cooperare? Il volume cerca appunto di dare risposta a questa domanda attraverso una serie di saggi curati da numerosi ricercatori fra Nord, Centro e Sud della Penisola. Fra elaborazioni statistiche (comprensibili), e interviste a imprenditori, si cerca quindi di individuare quali elementi – fiduciari, relazionali, culturali, o, più generalmente, politico-istituzionali – influenzino le differenti propensioni a collaborare e a intessere reti di relazioni.

L’indicazione finale è che la fiducia, alcuni vincoli legati alle esperienze o alle percezioni degli imprenditori, ma anche il funzionamento delle amministrazioni pubbliche, influenzano la propensione delle imprese a stringere collaborazioni. Il confronto fa Centro-Nord e Mezzogiorno, poi, evidenzia punti di forza e differenze fra territori. Ma non chiude la porta dello sviluppo alle realtà produttive del Sud.

Ne emerge anche una conclusione che – saggiamente – è posta all’inizio del volume: “Il valore economico e la stessa attività d’impresa sono, almeno in parte, una costruzione sociale”. Che dice tutto su quanto la buona cultura d’impresa di cui si diceva all’inizio, sia fatta prima di uomini e donne e poi di tecnica.

Collaborare per crescere. La cooperazione tra imprese al Nord e al Sud

Pier E. Asso – Emmanuele Pavolini (a cura di)

Donzelli, 2014

La buona cultura d’impresa si traduce anche in cultura della collaborazione. Ovvio, non si tratta di metter in comune i “segreti” della produzione. Cooperare e collaborare fra imprese vuol dire crescere insieme, lavorare per il bene comune di un territorio che diventa bene per tutti e per i singoli. Concetti forse facili da comprendere, difficili – spesso -, da mettere in pratica. Ma molte volte è già accaduto. E certamente accadrà ancora. Capire come scatti la scintilla della collaborazione e della cooperazione, e quindi quella dello sviluppo, è importante: facilita la strada perché questo accada sempre più spesso.

“Collaborare per crescere. La cooperazione tra imprese al Nord e al Sud”, appena pubblicato e curato da Pier Francesco Asso e Emmanuele Pavolini per la Fondazione Res, è un buon manuale per intraprendere il cammino nelle motivazioni del successo (e dell’insuccesso), della cooperazione e collaborazione fra imprese.

“Dove si diffonde un sistema di relazioni cooperative – viene spiegato -, le imprese sperimentano una più elevata crescita economica ed entrano con maggiore successo nei mercati internazionali”. Ma a che cosa è legata la propensione delle imprese a cooperare? Il volume cerca appunto di dare risposta a questa domanda attraverso una serie di saggi curati da numerosi ricercatori fra Nord, Centro e Sud della Penisola. Fra elaborazioni statistiche (comprensibili), e interviste a imprenditori, si cerca quindi di individuare quali elementi – fiduciari, relazionali, culturali, o, più generalmente, politico-istituzionali – influenzino le differenti propensioni a collaborare e a intessere reti di relazioni.

L’indicazione finale è che la fiducia, alcuni vincoli legati alle esperienze o alle percezioni degli imprenditori, ma anche il funzionamento delle amministrazioni pubbliche, influenzano la propensione delle imprese a stringere collaborazioni. Il confronto fa Centro-Nord e Mezzogiorno, poi, evidenzia punti di forza e differenze fra territori. Ma non chiude la porta dello sviluppo alle realtà produttive del Sud.

Ne emerge anche una conclusione che – saggiamente – è posta all’inizio del volume: “Il valore economico e la stessa attività d’impresa sono, almeno in parte, una costruzione sociale”. Che dice tutto su quanto la buona cultura d’impresa di cui si diceva all’inizio, sia fatta prima di uomini e donne e poi di tecnica.

Collaborare per crescere. La cooperazione tra imprese al Nord e al Sud

Pier E. Asso – Emmanuele Pavolini (a cura di)

Donzelli, 2014

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