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Il Papa e Tacito, Assonime e Assolombarda: l’impegno diffuso contro mafia e corruzione, freni per lo sviluppo

La corruzione? “Una piaga putrefatta della società”. La definizione, durissima, è di Papa Francesco, nel giorno dell’annuncio del Giubileo, a metà aprile. Ripete, con sempre maggior forza, le altre prese di posizione del Pontefice, in stimolo alla crescita d’una maggiore e migliore moralità, pubblica e privata. E continua a trovare ampia eco e solidi consensi in molti settori politici, economici, culturali. Sono oramai parecchie, d’altronde, le voci che si levano contro la corruzione, una degenerazione della vita pubblica, ma anche dell’economia, del mercato e delle relazioni sociali: la Banca d’Italia, la Confindustria (in prima linea, l’Assolombarda, promotrice di una diffusa cultura della legalità), ma anche associazioni, fondazioni, organizzazioni attive nella vita sociale. Ed è netta la relazione che si mette in risalto tra crescita della corruzione e presenza della mafia (‘ndrangheta, camorra, Cosa Nostra siciliana) non solo nel Mezzogiorno, ma anche in molte aree del Nord. MiWorld, associazione di personalità dell’impresa, della cultura e dell’università, attiva nel dibattito milanese, ha messo a punto, di recente, uno studio sulla diffusione della cultura come antidoto alla corruzione e alla criminalità (è stato presentato a Milano il 24 aprile, alla Triennale). E il giudizio suona simile a quello pronunciato da Francis Fukuyama in uno dei suoi libri più importanti, “Political order and political decay” (due volumi, il primo del 2011 e il secondo del 2014) e ripreso da Stefano Micossi, direttore generale di Assonime, l’associazione delle maggiori imprese italiane quotate in Borsa: “Fukuyama spiega che il clientelismo si estende nei Paesi in cui la democrazia si è affermata più rapidamente dei livelli educativi e culturali necessari per un uso consapevole dei diritti di voto. E’ un fenomeno diffuso nelle democrazie nascenti, nelle quali il consenso è fragile e l’educazione media della popolazione è ancora inadeguata”. Ma anche in Paesi di democrazia più solida, come in Italia, il degrado clientelare e culturale, unito a un’eccessiva presenza della mano pubblica (e dei partiti) negli ambiti economici e nella gestione della spesa pubblica è una fortissima molla alla diffusione della corruzione. Viene in mente l’antica lezione di Tacito: “Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto”.

Nasce anche da questi giudizi l’impegno pubblico di Assonime, alla fine del marzo scorso, a presentare pubblicamente “Otto linee d’azione per le politiche di contrasto alla corruzione”: 1) dare piena attuazione alle misure esistenti (dalla legge Severino alle recenti modifiche del governo Renzi); 2) distinguere i ruoli della politica (scelte strategiche e indirizzo) da quelle dell’amministrazione (trasparenza, selezione meritocratica del personale della pubblica amministrazione, responsabilità e valutazione dei risultati); 3) circoscrivere le aree di contatto pubblico-privato (semplificando le procedure amministrative, eliminando le autorizzazioni non necessarie, riducendo le “stazioni appaltanti”; anche qui: trasparenza ed efficacia); 4) semplificare la normativa e migliorare la qualità della regolazione (le norme opache e di difficile comprensione e applicazione agevolano i corrotti e i corruttori); 5) assicurare efficacia e trasparenza nell’esercizio dell’azione amministrativa (trasparenza delle scelte fatte, rigorosi controlli sui risultati); 6) adottare un nuovo approccio nella disciplina dei contratti pubblici (semplificare il quadro normativo e rafforzare capacità gestionale e professionalità delle stazioni appaltanti); 7) rafforzare l’azione preventiva nelle imprese (un buon passo avanti è stato fatto con la legge 231 del 2001, adesso bisogna andare avanti anche con i “protocolli di legalità”, i “rating di legalità” e “migliori politiche di corporate social responsibility”); 8) promuovere la cultura della legalità nella società civile (“per combattere la corruzione occorre scardinare la cultura che la sostiene ed elevare il grado di avversione etica nei confronti della stessa”).

Temi forti, impegnativi. Cari, oltre che ad Assonime, anche ad Assolombarda che della legalità e della lotta alla mafia, oltre che del sostegno all’efficienza e all’efficacia dell’amministrazione della Giustizia, ha fatto obiettivi chiave delle iniziative di competitività e della diffusione della buona cultura d’impresa e del mercato, nel programma “Far volare Milano per far volare l’Italia”.

Lotta alla corruzione, dunque, come scelta morale e civile. Ma anche come scelta economica, cardine di concorrenza e sviluppo.

La corruzione? “Una piaga putrefatta della società”. La definizione, durissima, è di Papa Francesco, nel giorno dell’annuncio del Giubileo, a metà aprile. Ripete, con sempre maggior forza, le altre prese di posizione del Pontefice, in stimolo alla crescita d’una maggiore e migliore moralità, pubblica e privata. E continua a trovare ampia eco e solidi consensi in molti settori politici, economici, culturali. Sono oramai parecchie, d’altronde, le voci che si levano contro la corruzione, una degenerazione della vita pubblica, ma anche dell’economia, del mercato e delle relazioni sociali: la Banca d’Italia, la Confindustria (in prima linea, l’Assolombarda, promotrice di una diffusa cultura della legalità), ma anche associazioni, fondazioni, organizzazioni attive nella vita sociale. Ed è netta la relazione che si mette in risalto tra crescita della corruzione e presenza della mafia (‘ndrangheta, camorra, Cosa Nostra siciliana) non solo nel Mezzogiorno, ma anche in molte aree del Nord. MiWorld, associazione di personalità dell’impresa, della cultura e dell’università, attiva nel dibattito milanese, ha messo a punto, di recente, uno studio sulla diffusione della cultura come antidoto alla corruzione e alla criminalità (è stato presentato a Milano il 24 aprile, alla Triennale). E il giudizio suona simile a quello pronunciato da Francis Fukuyama in uno dei suoi libri più importanti, “Political order and political decay” (due volumi, il primo del 2011 e il secondo del 2014) e ripreso da Stefano Micossi, direttore generale di Assonime, l’associazione delle maggiori imprese italiane quotate in Borsa: “Fukuyama spiega che il clientelismo si estende nei Paesi in cui la democrazia si è affermata più rapidamente dei livelli educativi e culturali necessari per un uso consapevole dei diritti di voto. E’ un fenomeno diffuso nelle democrazie nascenti, nelle quali il consenso è fragile e l’educazione media della popolazione è ancora inadeguata”. Ma anche in Paesi di democrazia più solida, come in Italia, il degrado clientelare e culturale, unito a un’eccessiva presenza della mano pubblica (e dei partiti) negli ambiti economici e nella gestione della spesa pubblica è una fortissima molla alla diffusione della corruzione. Viene in mente l’antica lezione di Tacito: “Moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto”.

Nasce anche da questi giudizi l’impegno pubblico di Assonime, alla fine del marzo scorso, a presentare pubblicamente “Otto linee d’azione per le politiche di contrasto alla corruzione”: 1) dare piena attuazione alle misure esistenti (dalla legge Severino alle recenti modifiche del governo Renzi); 2) distinguere i ruoli della politica (scelte strategiche e indirizzo) da quelle dell’amministrazione (trasparenza, selezione meritocratica del personale della pubblica amministrazione, responsabilità e valutazione dei risultati); 3) circoscrivere le aree di contatto pubblico-privato (semplificando le procedure amministrative, eliminando le autorizzazioni non necessarie, riducendo le “stazioni appaltanti”; anche qui: trasparenza ed efficacia); 4) semplificare la normativa e migliorare la qualità della regolazione (le norme opache e di difficile comprensione e applicazione agevolano i corrotti e i corruttori); 5) assicurare efficacia e trasparenza nell’esercizio dell’azione amministrativa (trasparenza delle scelte fatte, rigorosi controlli sui risultati); 6) adottare un nuovo approccio nella disciplina dei contratti pubblici (semplificare il quadro normativo e rafforzare capacità gestionale e professionalità delle stazioni appaltanti); 7) rafforzare l’azione preventiva nelle imprese (un buon passo avanti è stato fatto con la legge 231 del 2001, adesso bisogna andare avanti anche con i “protocolli di legalità”, i “rating di legalità” e “migliori politiche di corporate social responsibility”); 8) promuovere la cultura della legalità nella società civile (“per combattere la corruzione occorre scardinare la cultura che la sostiene ed elevare il grado di avversione etica nei confronti della stessa”).

Temi forti, impegnativi. Cari, oltre che ad Assonime, anche ad Assolombarda che della legalità e della lotta alla mafia, oltre che del sostegno all’efficienza e all’efficacia dell’amministrazione della Giustizia, ha fatto obiettivi chiave delle iniziative di competitività e della diffusione della buona cultura d’impresa e del mercato, nel programma “Far volare Milano per far volare l’Italia”.

Lotta alla corruzione, dunque, come scelta morale e civile. Ma anche come scelta economica, cardine di concorrenza e sviluppo.

Imprese etiche

L’impresa si fa nella realtà produttiva di tutti i giorni, ma anche nelle aule e nella formazione economica che in un Paese vengono organizzate e diffuse. E, d’altra parte, la stessa cultura d’impresa nasce e prende forma  non solo dalla “fabbrica” in se’ stessa, ma anche dall’ambiente sociale, umano e culturale nel quale l’azienda è immersa e al quale la stessa attività aziendale dà in ogni sua fase di vita.  Capire gli intrecci di questa  situazione, è fondamentale per far crescere in maniera equilibrata produzione e società.

Per questo,  fa bene leggere “Concezioni d’impresa in competizione” di Mario Molteni  (Ordinario di Economia aziendale  all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), un saggio apparso recentemente su Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, certamente non sempre facile da affrontare, ma denso di idee e intuizioni che vale la pena avere sotto mano.

Molteni cerca di mettere insieme il concetto di azienda di produzione, quello d’impresa e del suo comportamento nei confronti dell’etica e del mondo che si muove attorno ad essa, quello della necessità di tornare proprio ad affrontare anche i valori etici profondi che l’attività produttiva porta con se’.  “Le decisioni – dice Molteni nelle premesse che fanno da base al suo ragionamento -, implicano una responsabilità e assumono, dunque, una valenza etica. È astratta e, dunque, profondamente errata l’impostazione per la quale ci sarebbe una prospettiva ‘aziendale’ della scelta sulla quale, in un secondo tempo e a discrezione del decisore, si può innestare un punto di vista ‘etico’, che porta a considerare l’impatto della decisione nei confronti di tutti i soggetti coinvolti”. Impresa responsabile, dunque, ma anche pienamente consapevole degli effetti plurimi e densi che ottiene con il suo fare. Impresa che, fra l’altro, deve anche rendersi conto del “non poter essere neutrale” nei confronti dell’ambiente in cui si muove ma pure del fatto che il suo è un “limitato potere di influsso” sulle cose e sugli uomini.

E’, come si è detto, da queste premesse che Molteni costruisce il suo modo di vedere l’impresa e, soprattutto, la sua idea di formazione alla cultura d’impresa. Un approccio nel l’etica e la responsabilità sociale hanno ruoli di primo piano accanto ovviamente alla necessità di una corretta gestione.

Molteni quindi percorre alcune azioni che potrebbero essere intraprese per migliorare da un lato la formazione della cultura d’impresa e dall’altro la sua realizzazione pratica. La nuova impresa si costruisce, quindi, “gettando pounti con altre teorie”, recependo “i nuovi stimoli dell’ambiente”, promuovendo “casi capaci di suscitare ammirazione”, studiando e diffondendo quella “responsabilità d’impresa” che sempre di più appare come una delle strade maestre per far crescere gli effetti positivi dell’attività aziendale nella società. Ma anche cercando di far crescere “imprenditori di concezioni armoniche d’impresa”. Ad ogni azione Molteni dedica un capitolo del suo saggio.

Il risultato finale di questo percorso è una prospettiva diversa da quella del passato, che punta a realizzare per  davvero una “dimensione etico-valoriale nel governo delle aziende”. Non un disegno utopico, ma qualcosa che nel ragionamento di Molteni è necessario e raggiungibile.

Concezioni d’impresa in competizione

Mario Molteni

Impresa Progetto – Electronic Journal of Management

n. 3 – 2014

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L’impresa si fa nella realtà produttiva di tutti i giorni, ma anche nelle aule e nella formazione economica che in un Paese vengono organizzate e diffuse. E, d’altra parte, la stessa cultura d’impresa nasce e prende forma  non solo dalla “fabbrica” in se’ stessa, ma anche dall’ambiente sociale, umano e culturale nel quale l’azienda è immersa e al quale la stessa attività aziendale dà in ogni sua fase di vita.  Capire gli intrecci di questa  situazione, è fondamentale per far crescere in maniera equilibrata produzione e società.

Per questo,  fa bene leggere “Concezioni d’impresa in competizione” di Mario Molteni  (Ordinario di Economia aziendale  all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), un saggio apparso recentemente su Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, certamente non sempre facile da affrontare, ma denso di idee e intuizioni che vale la pena avere sotto mano.

Molteni cerca di mettere insieme il concetto di azienda di produzione, quello d’impresa e del suo comportamento nei confronti dell’etica e del mondo che si muove attorno ad essa, quello della necessità di tornare proprio ad affrontare anche i valori etici profondi che l’attività produttiva porta con se’.  “Le decisioni – dice Molteni nelle premesse che fanno da base al suo ragionamento -, implicano una responsabilità e assumono, dunque, una valenza etica. È astratta e, dunque, profondamente errata l’impostazione per la quale ci sarebbe una prospettiva ‘aziendale’ della scelta sulla quale, in un secondo tempo e a discrezione del decisore, si può innestare un punto di vista ‘etico’, che porta a considerare l’impatto della decisione nei confronti di tutti i soggetti coinvolti”. Impresa responsabile, dunque, ma anche pienamente consapevole degli effetti plurimi e densi che ottiene con il suo fare. Impresa che, fra l’altro, deve anche rendersi conto del “non poter essere neutrale” nei confronti dell’ambiente in cui si muove ma pure del fatto che il suo è un “limitato potere di influsso” sulle cose e sugli uomini.

E’, come si è detto, da queste premesse che Molteni costruisce il suo modo di vedere l’impresa e, soprattutto, la sua idea di formazione alla cultura d’impresa. Un approccio nel l’etica e la responsabilità sociale hanno ruoli di primo piano accanto ovviamente alla necessità di una corretta gestione.

Molteni quindi percorre alcune azioni che potrebbero essere intraprese per migliorare da un lato la formazione della cultura d’impresa e dall’altro la sua realizzazione pratica. La nuova impresa si costruisce, quindi, “gettando pounti con altre teorie”, recependo “i nuovi stimoli dell’ambiente”, promuovendo “casi capaci di suscitare ammirazione”, studiando e diffondendo quella “responsabilità d’impresa” che sempre di più appare come una delle strade maestre per far crescere gli effetti positivi dell’attività aziendale nella società. Ma anche cercando di far crescere “imprenditori di concezioni armoniche d’impresa”. Ad ogni azione Molteni dedica un capitolo del suo saggio.

Il risultato finale di questo percorso è una prospettiva diversa da quella del passato, che punta a realizzare per  davvero una “dimensione etico-valoriale nel governo delle aziende”. Non un disegno utopico, ma qualcosa che nel ragionamento di Molteni è necessario e raggiungibile.

Concezioni d’impresa in competizione

Mario Molteni

Impresa Progetto – Electronic Journal of Management

n. 3 – 2014

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#ioleggoperché Missione lettura

Il 23 aprile è la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore  e in Italia sarà il giorno di #ioleggoperché, un’iniziativa dell’Associazione Italiana Editori in cui i protagonisti sono i libri e i lettori.

E se la lettura è una passione da condividere, nell’ambito dell’impegno a favore della cultura, Pirelli sostiene l’iniziativa #ioleggoperché, con l’obiettivo di promuovere il libro e la lettura presso i futuri lettori.

Un ricco e vivace programma di eventi su tutto il territorio nazionale – nelle piazze, in libreria, biblioteca, università – che potrai seguire sul sito www.ioleggoperché.it

Intanto sul Social Wall di ioleggoperché.it è già attiva la partecipazione di tantissimi lettori. Fra questi, molti hanno già scelto di diventarne Messaggeri e impegnarsi in prima persona nella conquista di nuovi lettori. Le loro armi? I libri e la loro passione, naturalmente!

Anche Fondazione Pirelli ha scelto di diventare messaggero speciale di #ioleggoperché e lancia un invito ai dipendenti appassionati di libri a conquistare nuovi lettori tra i propri colleghi.

Seguici sulla pagina Fb della Fondazione e condivi anche tu la passione della lettura  con #ioleggoperché.

Il 23 aprile è la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore  e in Italia sarà il giorno di #ioleggoperché, un’iniziativa dell’Associazione Italiana Editori in cui i protagonisti sono i libri e i lettori.

E se la lettura è una passione da condividere, nell’ambito dell’impegno a favore della cultura, Pirelli sostiene l’iniziativa #ioleggoperché, con l’obiettivo di promuovere il libro e la lettura presso i futuri lettori.

Un ricco e vivace programma di eventi su tutto il territorio nazionale – nelle piazze, in libreria, biblioteca, università – che potrai seguire sul sito www.ioleggoperché.it

Intanto sul Social Wall di ioleggoperché.it è già attiva la partecipazione di tantissimi lettori. Fra questi, molti hanno già scelto di diventarne Messaggeri e impegnarsi in prima persona nella conquista di nuovi lettori. Le loro armi? I libri e la loro passione, naturalmente!

Anche Fondazione Pirelli ha scelto di diventare messaggero speciale di #ioleggoperché e lancia un invito ai dipendenti appassionati di libri a conquistare nuovi lettori tra i propri colleghi.

Seguici sulla pagina Fb della Fondazione e condivi anche tu la passione della lettura  con #ioleggoperché.

Imprese multiculturali

L’impresa in fin dei conti è una formazione sociale al pari di altre. Certo, l’obiettivo finale è quello di creare profitto, fornire occupazione, benessere materiale. Ma significato e ruolo sociale dell’attività produttiva sono innegabili. Da qui l’importanza di vedere azienda, imprenditore e lavoratori non solamente come soggetti economici. Ciò conta ancora di più nel momento in cui si guarda alle imprese multinazionali o comunque a quelle che non vivono solamente nei ristretti ambiti di un solo Paese. Anzi, proprio partendo dalle imprese multinazionali, è possibile capire meglio e di più dell’importanza di un approccio “diverso” all’organizzazione della produzione.

“Culture e organizzazioni. Valori e strategie per operare efficacemente in contesti internazionali” di Geert Hofstede insieme a Gert J. Hofstede e Michael Minkov – appena tradotto in italiano -, è uno di quei libri che aiuta manager e imprenditori a comprendere meglio la natura sociale e culturale dell’attività d’impresa, arrivando a delineare un modo nuovo e moderno di pensare l’attività produttiva.

Il libro viene definito, con ragione, una sorta di “cassetta degli attrezzi” e di “bussola” per chi vuole inoltrarsi nella foresta delle scienze sociali applicate alle imprese e alla loro cultura. Perché di questo si tratta. Gli autori, infatti, applicano i concetti e il metodo dell’antropologia e della sociologia allo studio dei comportamenti organizzativi e d’impresa. Ne nasce non solo un manuale importante per la cultura d’impresa, ma anche una sorta di manifesto per la cooperazione multinazionale fra aziende.

Il volume si compone rigorosamente di tre parti concatenate alle quali si aggiunge una quarta parte finale che parla di implicazioni e conseguenze oltre che di “incontri interculturali”. Prima di tutti i tre approfondiscono il concetto di cultura in maniera esatta ma non accademica, poi prendono ad analizzare una per una le “dimensioni delle culture nazionali”, cioè quegli aspetti del vivere sociale che cambiano da Paese a Paese, per arrivare (nella terza parte), a toccare ciò che accade quando la cultura tocca le organizzazioni. Si chiude, appunto, con una serie di passaggi sui risvolti operativi e di metodo che toccano le aziende nel momento in cui hanno a che fare con culture diverse.

La fatica di G. Hofstede e dei sui collaboratori non è sempre facile da leggere, ma è certamente una lettura da compiere con attenzione, consapevoli di esserne arricchiti. Colpisce ad un certo punto una citazione di Blaise Pascal – esistono verità in un Paese che sono falsità in un altro -, che può ben rappresentare lo spirito che permea tutto il volume e che potrebbe fare da guida a tante imprese che varcano i propri confini culturali.

Culture e organizzazioni. Valori e strategie per operare efficacemente in contesti internazionali

G. Hofstede, G. J. Hofstede, M. Minkov

Franco Angeli, 2014

L’impresa in fin dei conti è una formazione sociale al pari di altre. Certo, l’obiettivo finale è quello di creare profitto, fornire occupazione, benessere materiale. Ma significato e ruolo sociale dell’attività produttiva sono innegabili. Da qui l’importanza di vedere azienda, imprenditore e lavoratori non solamente come soggetti economici. Ciò conta ancora di più nel momento in cui si guarda alle imprese multinazionali o comunque a quelle che non vivono solamente nei ristretti ambiti di un solo Paese. Anzi, proprio partendo dalle imprese multinazionali, è possibile capire meglio e di più dell’importanza di un approccio “diverso” all’organizzazione della produzione.

“Culture e organizzazioni. Valori e strategie per operare efficacemente in contesti internazionali” di Geert Hofstede insieme a Gert J. Hofstede e Michael Minkov – appena tradotto in italiano -, è uno di quei libri che aiuta manager e imprenditori a comprendere meglio la natura sociale e culturale dell’attività d’impresa, arrivando a delineare un modo nuovo e moderno di pensare l’attività produttiva.

Il libro viene definito, con ragione, una sorta di “cassetta degli attrezzi” e di “bussola” per chi vuole inoltrarsi nella foresta delle scienze sociali applicate alle imprese e alla loro cultura. Perché di questo si tratta. Gli autori, infatti, applicano i concetti e il metodo dell’antropologia e della sociologia allo studio dei comportamenti organizzativi e d’impresa. Ne nasce non solo un manuale importante per la cultura d’impresa, ma anche una sorta di manifesto per la cooperazione multinazionale fra aziende.

Il volume si compone rigorosamente di tre parti concatenate alle quali si aggiunge una quarta parte finale che parla di implicazioni e conseguenze oltre che di “incontri interculturali”. Prima di tutti i tre approfondiscono il concetto di cultura in maniera esatta ma non accademica, poi prendono ad analizzare una per una le “dimensioni delle culture nazionali”, cioè quegli aspetti del vivere sociale che cambiano da Paese a Paese, per arrivare (nella terza parte), a toccare ciò che accade quando la cultura tocca le organizzazioni. Si chiude, appunto, con una serie di passaggi sui risvolti operativi e di metodo che toccano le aziende nel momento in cui hanno a che fare con culture diverse.

La fatica di G. Hofstede e dei sui collaboratori non è sempre facile da leggere, ma è certamente una lettura da compiere con attenzione, consapevoli di esserne arricchiti. Colpisce ad un certo punto una citazione di Blaise Pascal – esistono verità in un Paese che sono falsità in un altro -, che può ben rappresentare lo spirito che permea tutto il volume e che potrebbe fare da guida a tante imprese che varcano i propri confini culturali.

Culture e organizzazioni. Valori e strategie per operare efficacemente in contesti internazionali

G. Hofstede, G. J. Hofstede, M. Minkov

Franco Angeli, 2014

Il “capitale territoriale” del Centro Nord vale quello tedesco, ma senza industria il Mezzogiorno aggrava il degrado verso la Grecia

Dici Europa, come un tutt’uno, un grande spazio politico ed economico con scambi aperti, regole comuni, un’unica moneta. Ma poi guardi meglio alle sue diverse aree, al di là dei confini nazionali, e scopri tante, forse troppe differenze economiche e sociali. Lo rileva, tra gli altri, Aldo Bonomi, in un recente “Microcosmo” su “Il Sole24Ore”, scrivendo che “il capitale territoriale del Centro Nord italiano vale quello tedesco”, mentre invece “il Mezzogiorno si avvicina alla Grecia”. Divari crescenti. Che pongono sempre maggiori problemi non solo economici, ma anche di coesione sociale, di fiducia e, perché no? di tenuta delle stesse prospettive di solida e ben vissuta democrazia.

Cos’è il “capitale territoriale”? Il concetto, introdotto dall’Ocse, riguarda tutti gli elementi che formano la ricchezza di un territorio, con una visione più ampia del Pil e cioè, ricorda Bonomi, “l’homo faber, le imprese, il capitale produttivo, la produttività del lavoro nell’industria”, i livelli e la qualità della formazione, il tasso di occupazione femminile, il capitale umano e il capitale sociale, cioè. La sua analisi mostra “un’interessante geografia territoriale dell’Europa dell’euro”: in cima, la Germania, in mezzo la Francia, in coda Portogallo, Italia, Spagna e Grecia, il Mediterraneo, cioè. Ma, ecco il dato rilevante, Lombardia ed Emilia Romagna tengono il passo con la Germania, il Sud italiano invece sprofonda: “Appaiono due Italie, una tedesca e una greca”, una dell’industria e dei servizi innovativi, delle buone università e dei collegamenti con il cuore più attivo dell’Europa, l’altra sempre più marginale, desolata.

Sono dimensioni già note, in gran parte. Lo documentano da tempo le statistiche sulla “qualità della vita” nelle province italiane, pubblicate ogni anno da “Il Sole24Ore”, che vedono in testa le aree più industrializzate del Centro Nord (industria, ricchezza, benessere…) ma anche le “Mappe del tesoro” elaborate da Roberto Cartocci, politologo dell’Università di Bologna (suo un interessante “Atlante del capitale sociale” pubblicato da Il Mulino nel 2007) che mostrano le relazioni tra dinamismo economico legato all’industria, coesione sociale e diffusione della partecipazione e delle “virtù civiche”) o, ancora, le indagini di Symbola sulla relazione positiva tra territori produttivi del “bello e ben fatto” e benessere diffuso. In sintesi: alla dinamicità del tessuto economico delle imprese manifatturiere corrisponde un alto livello dei redditi e della qualità della vita, ma anche un’importante consapevolezza della responsabilità dell’essere un protagonista sociale attivo, un imprenditore, un lavoratore qualificato e apprezzato, un ricercatore, un cittadino conscio del legame tra cultura, industria, sviluppo, cittadinanza (ne abbiamo parlato molte volte, in questo blog, negli ultimi anni).

Adesso le analisi di Bonomi aggiungono nuove considerazioni. Ponendo questioni economiche, legate alle scelte di politica industriale Ue. Ma anche questioni sociali (lavorare con politiche territoriali europee di coesione). Sfide agli Stati nazione (usare bene i fondi Ue, che l’Italia utilizza poco e male e soprattutto le regioni del Sud ignorano o sprecano; ma anche riformare per tagliare radicalmente la spesa pubblica improduttiva e clientelare e investire massicciamente su industria, ricerca, formazione). E appelli all’imprenditorialità, anche nel Mezzogiorno. Senza impresa, infatti, senza buona cultura d’impresa, non ci sono né ricchezza, né lavoro, né crescita economica e sociale. E il capitale territoriale del Sud non può che continuare a degradarsi.

Dici Europa, come un tutt’uno, un grande spazio politico ed economico con scambi aperti, regole comuni, un’unica moneta. Ma poi guardi meglio alle sue diverse aree, al di là dei confini nazionali, e scopri tante, forse troppe differenze economiche e sociali. Lo rileva, tra gli altri, Aldo Bonomi, in un recente “Microcosmo” su “Il Sole24Ore”, scrivendo che “il capitale territoriale del Centro Nord italiano vale quello tedesco”, mentre invece “il Mezzogiorno si avvicina alla Grecia”. Divari crescenti. Che pongono sempre maggiori problemi non solo economici, ma anche di coesione sociale, di fiducia e, perché no? di tenuta delle stesse prospettive di solida e ben vissuta democrazia.

Cos’è il “capitale territoriale”? Il concetto, introdotto dall’Ocse, riguarda tutti gli elementi che formano la ricchezza di un territorio, con una visione più ampia del Pil e cioè, ricorda Bonomi, “l’homo faber, le imprese, il capitale produttivo, la produttività del lavoro nell’industria”, i livelli e la qualità della formazione, il tasso di occupazione femminile, il capitale umano e il capitale sociale, cioè. La sua analisi mostra “un’interessante geografia territoriale dell’Europa dell’euro”: in cima, la Germania, in mezzo la Francia, in coda Portogallo, Italia, Spagna e Grecia, il Mediterraneo, cioè. Ma, ecco il dato rilevante, Lombardia ed Emilia Romagna tengono il passo con la Germania, il Sud italiano invece sprofonda: “Appaiono due Italie, una tedesca e una greca”, una dell’industria e dei servizi innovativi, delle buone università e dei collegamenti con il cuore più attivo dell’Europa, l’altra sempre più marginale, desolata.

Sono dimensioni già note, in gran parte. Lo documentano da tempo le statistiche sulla “qualità della vita” nelle province italiane, pubblicate ogni anno da “Il Sole24Ore”, che vedono in testa le aree più industrializzate del Centro Nord (industria, ricchezza, benessere…) ma anche le “Mappe del tesoro” elaborate da Roberto Cartocci, politologo dell’Università di Bologna (suo un interessante “Atlante del capitale sociale” pubblicato da Il Mulino nel 2007) che mostrano le relazioni tra dinamismo economico legato all’industria, coesione sociale e diffusione della partecipazione e delle “virtù civiche”) o, ancora, le indagini di Symbola sulla relazione positiva tra territori produttivi del “bello e ben fatto” e benessere diffuso. In sintesi: alla dinamicità del tessuto economico delle imprese manifatturiere corrisponde un alto livello dei redditi e della qualità della vita, ma anche un’importante consapevolezza della responsabilità dell’essere un protagonista sociale attivo, un imprenditore, un lavoratore qualificato e apprezzato, un ricercatore, un cittadino conscio del legame tra cultura, industria, sviluppo, cittadinanza (ne abbiamo parlato molte volte, in questo blog, negli ultimi anni).

Adesso le analisi di Bonomi aggiungono nuove considerazioni. Ponendo questioni economiche, legate alle scelte di politica industriale Ue. Ma anche questioni sociali (lavorare con politiche territoriali europee di coesione). Sfide agli Stati nazione (usare bene i fondi Ue, che l’Italia utilizza poco e male e soprattutto le regioni del Sud ignorano o sprecano; ma anche riformare per tagliare radicalmente la spesa pubblica improduttiva e clientelare e investire massicciamente su industria, ricerca, formazione). E appelli all’imprenditorialità, anche nel Mezzogiorno. Senza impresa, infatti, senza buona cultura d’impresa, non ci sono né ricchezza, né lavoro, né crescita economica e sociale. E il capitale territoriale del Sud non può che continuare a degradarsi.

La forza delle imprese globali e multiculturali

Azienda globale problemi globali, ma anche opportunità su vasta scala. Basta saper governare in maniera differente da prima gli incontri fra culture diverse, per trarne tutto il vantaggio possibile. Cosa non facile, certo, ma perfettamente realizzabile. Partendo dalla considerazione e dalla valorizzazione delle diverse componenti culturali che possono comporre un’impresa globale. E’ un salto di qualità nella stessa cultura d’impresa, che va compreso bene per essere messo in pratica con efficacia.

E’ interessante allora leggere “Projects beyond cultures & cultures behind projects” di Mehrshad Akbari, un lavoro nato da una ricerca condotto all’Università di Göteborg e poi trasformato in tesi per il  Master’s Programme, International Project Management Department of Civil and Environmental Engineering Division of International Project Management.

Il lavoro ha l’obiettivo di mettere in evidenza gli effetti delle differenze culturali sui progetti e sulle organizzazioni. In particolare, viene preso in considerazione il caso di un gruppo di lavoro internazionale rilevando l’importanza di tre aspetti: la “motivazione e interazione” al suo interno, la capacità di “gestione dei conflitti” e la capacità di evitare “impatti sul progetto causati da differenza culturali”.   

La ricerca di Akbari ragiona attorno ai concetti di velocità e di necessità di internazionalizzazione dei progetti, ma anche di capacità di comprendere l’altro e di acquisizione di competenze diverse da prima come caratteristiche obbligatorie per costruire progetti e organizzazioni internazionali efficaci.

Il caso studio pratico analizzato è quello della Saab. Ciò che forse più conta, tuttavia, è il percorso metodologico che Akbari conduce per arrivare a delineare i tre aspetti accennati prima. Dopo un esame della gestione di progetti globali, Akbari prende in considerazione la “cultura a 360°” per poi affrontare il caso della Saab.

E’ importante una delle frasi finali del lavoro: “Una società non ha bisogno di adattare la sua cultura a quella di una controparte, ma è fondamentale la consapevolezza della necessità di prestare totale attenzione e rispetto ad essa”. 

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Projects beyond cultures & cultures behind projects 

Mehrshad Akbari 

Chalmers University of technology Göteborg,

Göteborg, 2015,03

Azienda globale problemi globali, ma anche opportunità su vasta scala. Basta saper governare in maniera differente da prima gli incontri fra culture diverse, per trarne tutto il vantaggio possibile. Cosa non facile, certo, ma perfettamente realizzabile. Partendo dalla considerazione e dalla valorizzazione delle diverse componenti culturali che possono comporre un’impresa globale. E’ un salto di qualità nella stessa cultura d’impresa, che va compreso bene per essere messo in pratica con efficacia.

E’ interessante allora leggere “Projects beyond cultures & cultures behind projects” di Mehrshad Akbari, un lavoro nato da una ricerca condotto all’Università di Göteborg e poi trasformato in tesi per il  Master’s Programme, International Project Management Department of Civil and Environmental Engineering Division of International Project Management.

Il lavoro ha l’obiettivo di mettere in evidenza gli effetti delle differenze culturali sui progetti e sulle organizzazioni. In particolare, viene preso in considerazione il caso di un gruppo di lavoro internazionale rilevando l’importanza di tre aspetti: la “motivazione e interazione” al suo interno, la capacità di “gestione dei conflitti” e la capacità di evitare “impatti sul progetto causati da differenza culturali”.   

La ricerca di Akbari ragiona attorno ai concetti di velocità e di necessità di internazionalizzazione dei progetti, ma anche di capacità di comprendere l’altro e di acquisizione di competenze diverse da prima come caratteristiche obbligatorie per costruire progetti e organizzazioni internazionali efficaci.

Il caso studio pratico analizzato è quello della Saab. Ciò che forse più conta, tuttavia, è il percorso metodologico che Akbari conduce per arrivare a delineare i tre aspetti accennati prima. Dopo un esame della gestione di progetti globali, Akbari prende in considerazione la “cultura a 360°” per poi affrontare il caso della Saab.

E’ importante una delle frasi finali del lavoro: “Una società non ha bisogno di adattare la sua cultura a quella di una controparte, ma è fondamentale la consapevolezza della necessità di prestare totale attenzione e rispetto ad essa”. 

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Projects beyond cultures & cultures behind projects 

Mehrshad Akbari 

Chalmers University of technology Göteborg,

Göteborg, 2015,03

L’impresa felice

Le imprese che funzionano meglio, quelle che fanno più profitti, sono anche quelle in cui è alto il tasso di empatia. Imprese felici, insomma; dove si lavora bene, dove i ruoli ci sono e sono chiari ma le gerarchie hanno una forma particolare. Organizzazioni dove, soprattutto, accanto alle regole dell’economia, pare ve ne siano altre.

Per capire di più è bello leggere “L’impresa empatica” di Serena Baldassarre (consulente di formazione manageriale), e Gian Paolo Bonani (docente di Comunicazione d’Impresa presso l’Università La Sapienza di Roma). I due hanno scritto un volumetto di poco più di 150 pagine da leggere quasi d’un fiato (anche tenendo conto che non è un libro di avventure), e che parte dalla dichiarazione di un obiettivo: “Mostrare che l’impresa può essere luogo di buone intenzioni, di buone azioni e di soddisfazione personali e collettive”. E non solo, perché il volume “vuole suggerire i principi di un comportamento insieme ragionevole e gentile per condurre le unità produttive verso il successo economico”. Profitto e felicità di tutti. Traguardo quasi inconcepibile che, spiegano i due autori nelle prime pagine del volume, può essere raggiunto applicando all’organizzazione d’impresa le regole dell’empatia e della tenerezza, dell’ascolto e della comprensione, della comunicazione corretta e del coinvolgimento personale.

Il volume quindi inizia parlando di “resilienze di successo” per passare poi ad esaminare  i connotati della “mente empatica al comando” di un’azienda per arrivare ad esaminare le caratteristiche dell’organizzazione che impara e quindi comunica correttamente. La prima parte, poi, si chiude parlando delle modalità di allestimento dei gruppi di lavoro che seguano l’approccio perno dell’intero libro. La seconda parte, invece, parla di strumenti per costruire l’impresa empatica: l’ascolto, il discorso e la scrittura efficace.

Libro per certi versi radicale e di rottura degli schemi, “L’impresa empatica” va accolto con attenzione, anche critica, ma va certamente letto. Deve, per esempio, far pensare in ogni senso un passaggio che dice tutto sull’approccio al tema da parte dei due autori: “Bisogna riconoscere la legittimità della leggerezza edonistica allo stesso tempo della dura esigenza del costruire con ragione e strumenti forti. Mai perdendo di vista la gentilezza, mai dimenticando la centralità della tenerezza”. Applicare tutto questo a molte realtà d’impresa e di fabbrica dell’oggi, pare certamente complesso. Ma ci si può con buona ragione provare.

L’impresa empatica. Persone che sanno comunicare

S. Baldassarre, G. P. Bonani

Franco Angeli, 2015

Le imprese che funzionano meglio, quelle che fanno più profitti, sono anche quelle in cui è alto il tasso di empatia. Imprese felici, insomma; dove si lavora bene, dove i ruoli ci sono e sono chiari ma le gerarchie hanno una forma particolare. Organizzazioni dove, soprattutto, accanto alle regole dell’economia, pare ve ne siano altre.

Per capire di più è bello leggere “L’impresa empatica” di Serena Baldassarre (consulente di formazione manageriale), e Gian Paolo Bonani (docente di Comunicazione d’Impresa presso l’Università La Sapienza di Roma). I due hanno scritto un volumetto di poco più di 150 pagine da leggere quasi d’un fiato (anche tenendo conto che non è un libro di avventure), e che parte dalla dichiarazione di un obiettivo: “Mostrare che l’impresa può essere luogo di buone intenzioni, di buone azioni e di soddisfazione personali e collettive”. E non solo, perché il volume “vuole suggerire i principi di un comportamento insieme ragionevole e gentile per condurre le unità produttive verso il successo economico”. Profitto e felicità di tutti. Traguardo quasi inconcepibile che, spiegano i due autori nelle prime pagine del volume, può essere raggiunto applicando all’organizzazione d’impresa le regole dell’empatia e della tenerezza, dell’ascolto e della comprensione, della comunicazione corretta e del coinvolgimento personale.

Il volume quindi inizia parlando di “resilienze di successo” per passare poi ad esaminare  i connotati della “mente empatica al comando” di un’azienda per arrivare ad esaminare le caratteristiche dell’organizzazione che impara e quindi comunica correttamente. La prima parte, poi, si chiude parlando delle modalità di allestimento dei gruppi di lavoro che seguano l’approccio perno dell’intero libro. La seconda parte, invece, parla di strumenti per costruire l’impresa empatica: l’ascolto, il discorso e la scrittura efficace.

Libro per certi versi radicale e di rottura degli schemi, “L’impresa empatica” va accolto con attenzione, anche critica, ma va certamente letto. Deve, per esempio, far pensare in ogni senso un passaggio che dice tutto sull’approccio al tema da parte dei due autori: “Bisogna riconoscere la legittimità della leggerezza edonistica allo stesso tempo della dura esigenza del costruire con ragione e strumenti forti. Mai perdendo di vista la gentilezza, mai dimenticando la centralità della tenerezza”. Applicare tutto questo a molte realtà d’impresa e di fabbrica dell’oggi, pare certamente complesso. Ma ci si può con buona ragione provare.

L’impresa empatica. Persone che sanno comunicare

S. Baldassarre, G. P. Bonani

Franco Angeli, 2015

Distretti e poli industriali trainano la ripresa: è la cultura della “collaborazione competitiva”

Sono i distretti industriali a guidare la ripresa manifatturiera italiana. Crescono, innovano, conquistano spazi crescenti sui mercati internazionali. E mostrano come il miglioramento della competitività dell’industria italiana dipenda dalla originale combinazione tra radicamento territoriale (la forza della tradizione per la qualità) e sguardo aperto al mondo. Cultura d’impresa d’eccellenza, insomma. Con la solida consapevolezza del significato più profondo della parola “competizione”, da rilanciare facendo buon uso della memoria delle sue origini: il latino “cum petere”, camminare insieme verso un obiettivo comune (ne abbiamo fatto cenno altre volte, in questi nostri blog).

Le stime di crescita dei distretti industriali (la punta più dinamica dell’industria italiana, con una aumentata capacità di innovazione, non solo per prodotti e produzione, ma anche per servizio), vengono dalle recenti indagini del Centro Studi di Intesa Sanpaolo (febbraio 2015), dicono che l’export è cresciuto del 3,5% tra gennaio e sempre 2014, più che in Germania. E le previsioni sul fatturato sono positive anche per 2015 e 2016. In testa, i distretti del mobile, con una crescita attesa del 4% circa nel 2015 e del 3,7% nel 2016, rispetto a una media generale appena superiore al 3%. Poi, la meccanica, i prodotti in metallo, l’alimentare e il sistema moda. “Ricerca e reshoring spingono i distretti”, commenta Il Sole24Ore, insistendo sull’innovazione, ma anche sulla recente tendenza di molte imprese a tornare a produrre in Italia, “rimpatriando” molte produzioni che nel corso degli anni 80 e 90 del Novecento erano state spostate all’estero. Un “reshoring” legato alla più matura consapevolezza che la competitività si gioca sull’alta qualità, nelle nicchie ad alto valore aggiunto e non può raggiungere alta qualità se non valorizzando le capacità del cosiddetto “bello e ben fatto”, le competenze della migliore manifattura “made in Italy”, le sintesi tra design e funzionalità.

E’ la lezione che viene anche dalle filiere e dalle piattaforme produttive, una meta-organizzazione tipica dell’industria italiana che trova, appunto nello “stare insieme”, la chiave per superare le angustie e i limiti delle piccole dimensioni e, sulla dinamicità delle relazioni tra piccole e medie imprese specializzate, costruisce le ragioni d’una migliore competitività,

Oltre ai distretti, sempre secondo la ricerca di Intesa Sanpaolo, vanno bene anche tre poli tecnologici (aeronautico, farmaceutico e biomedicale) che sono cresciuti anche negli anni più duri e seletivi della crisi. Anche per questi poli, vale la pena insistere sulle caratteristiche distintive italiane: “collaborazione competitiva”, legami con strutture d’eccellenza dei territori (le migliori università, i centri di ricerca pubblici e privati), cross fertilization delle esperienze, intelligente utilizzo del capitale umano.

Nasce anche ad queste considerazioni la necessità di una politica industriale mirata, costruita cioè sul sostegno a ricerca, innovazione, trasferimento tecnologico, formazione, stimolo ai nuovi investimenti, anche internazionali. E supporto alle collaborazioni pure nel mondo dei servizi, dalla logistica alla finanza, dalla distribuzione al miglioramento del capitale umano, anche con solidi innesti manageriali. Dinamismo. E trasformazione.

Sono i distretti industriali a guidare la ripresa manifatturiera italiana. Crescono, innovano, conquistano spazi crescenti sui mercati internazionali. E mostrano come il miglioramento della competitività dell’industria italiana dipenda dalla originale combinazione tra radicamento territoriale (la forza della tradizione per la qualità) e sguardo aperto al mondo. Cultura d’impresa d’eccellenza, insomma. Con la solida consapevolezza del significato più profondo della parola “competizione”, da rilanciare facendo buon uso della memoria delle sue origini: il latino “cum petere”, camminare insieme verso un obiettivo comune (ne abbiamo fatto cenno altre volte, in questi nostri blog).

Le stime di crescita dei distretti industriali (la punta più dinamica dell’industria italiana, con una aumentata capacità di innovazione, non solo per prodotti e produzione, ma anche per servizio), vengono dalle recenti indagini del Centro Studi di Intesa Sanpaolo (febbraio 2015), dicono che l’export è cresciuto del 3,5% tra gennaio e sempre 2014, più che in Germania. E le previsioni sul fatturato sono positive anche per 2015 e 2016. In testa, i distretti del mobile, con una crescita attesa del 4% circa nel 2015 e del 3,7% nel 2016, rispetto a una media generale appena superiore al 3%. Poi, la meccanica, i prodotti in metallo, l’alimentare e il sistema moda. “Ricerca e reshoring spingono i distretti”, commenta Il Sole24Ore, insistendo sull’innovazione, ma anche sulla recente tendenza di molte imprese a tornare a produrre in Italia, “rimpatriando” molte produzioni che nel corso degli anni 80 e 90 del Novecento erano state spostate all’estero. Un “reshoring” legato alla più matura consapevolezza che la competitività si gioca sull’alta qualità, nelle nicchie ad alto valore aggiunto e non può raggiungere alta qualità se non valorizzando le capacità del cosiddetto “bello e ben fatto”, le competenze della migliore manifattura “made in Italy”, le sintesi tra design e funzionalità.

E’ la lezione che viene anche dalle filiere e dalle piattaforme produttive, una meta-organizzazione tipica dell’industria italiana che trova, appunto nello “stare insieme”, la chiave per superare le angustie e i limiti delle piccole dimensioni e, sulla dinamicità delle relazioni tra piccole e medie imprese specializzate, costruisce le ragioni d’una migliore competitività,

Oltre ai distretti, sempre secondo la ricerca di Intesa Sanpaolo, vanno bene anche tre poli tecnologici (aeronautico, farmaceutico e biomedicale) che sono cresciuti anche negli anni più duri e seletivi della crisi. Anche per questi poli, vale la pena insistere sulle caratteristiche distintive italiane: “collaborazione competitiva”, legami con strutture d’eccellenza dei territori (le migliori università, i centri di ricerca pubblici e privati), cross fertilization delle esperienze, intelligente utilizzo del capitale umano.

Nasce anche ad queste considerazioni la necessità di una politica industriale mirata, costruita cioè sul sostegno a ricerca, innovazione, trasferimento tecnologico, formazione, stimolo ai nuovi investimenti, anche internazionali. E supporto alle collaborazioni pure nel mondo dei servizi, dalla logistica alla finanza, dalla distribuzione al miglioramento del capitale umano, anche con solidi innesti manageriali. Dinamismo. E trasformazione.

Il nuovo allestimento “Una musa tra le ruote”

In occasione della pubblicazione del volume “Una musa tra le ruote”, per il nuovo allestimento dell’Open Space della Fondazione abbiamo esposto 56 opere originali che ripercorrono la storia della comunicazione aziendale dagli anni Dieci alla fine degli anni Sessanta e che documentano l’intenso rapporto di committenza con artisti di fama internazionale, che da sempre caratterizza l’azienda. 

Si tratta di bozzetti eseguiti per pubblicizzare i prodotti, di disegni realizzati per illustrare articoli e servizi della Rivista Pirelli o celebrare gli anniversari del Gruppo industriale: le opere esposte portano la firma di grandi artisti come Armando Testa, Bruno Munari, Bob Noorda e Lora Lamm, per citarne alcuni.

Tra i materiali selezionati anche tre opere di grande formato con vedute degli stabilimenti e statistiche sulla produzione, realizzate da Domenico Bonanimi e Umberto Ubaldi nel 1922 ed esposte al Museo Storico delle Industrie Pirelli per celebrare il 50° anniversario dell’azienda.

A pavimento sono state riprodotte inoltre diverse fotografie che documentano le modalità di veicolazione del messaggio pubblicitario attraverso l’affissione di manifesti, cartelli vetrina e allestimenti fieristici. Al centro dell’Open Space, sempre a pavimento, una scelta di schede tecniche che raccontano la storia della produzione dei pneumatici Pirelli più famosi, dal Cord allo Stella Bianca, dallo Stelvio al Cinturato.

In una teca dedicata è esposto, nell’originale reinterpretazione di una pubblicità realizzata da Riccardo Manzi per il «Cinturato» Pirelli nel 1957, il «Cinturato All Season», moderno pneumatico progettato per garantire una mobilità alternativa ed innovativa.

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In occasione della pubblicazione del volume “Una musa tra le ruote”, per il nuovo allestimento dell’Open Space della Fondazione abbiamo esposto 56 opere originali che ripercorrono la storia della comunicazione aziendale dagli anni Dieci alla fine degli anni Sessanta e che documentano l’intenso rapporto di committenza con artisti di fama internazionale, che da sempre caratterizza l’azienda. 

Si tratta di bozzetti eseguiti per pubblicizzare i prodotti, di disegni realizzati per illustrare articoli e servizi della Rivista Pirelli o celebrare gli anniversari del Gruppo industriale: le opere esposte portano la firma di grandi artisti come Armando Testa, Bruno Munari, Bob Noorda e Lora Lamm, per citarne alcuni.

Tra i materiali selezionati anche tre opere di grande formato con vedute degli stabilimenti e statistiche sulla produzione, realizzate da Domenico Bonanimi e Umberto Ubaldi nel 1922 ed esposte al Museo Storico delle Industrie Pirelli per celebrare il 50° anniversario dell’azienda.

A pavimento sono state riprodotte inoltre diverse fotografie che documentano le modalità di veicolazione del messaggio pubblicitario attraverso l’affissione di manifesti, cartelli vetrina e allestimenti fieristici. Al centro dell’Open Space, sempre a pavimento, una scelta di schede tecniche che raccontano la storia della produzione dei pneumatici Pirelli più famosi, dal Cord allo Stella Bianca, dallo Stelvio al Cinturato.

In una teca dedicata è esposto, nell’originale reinterpretazione di una pubblicità realizzata da Riccardo Manzi per il «Cinturato» Pirelli nel 1957, il «Cinturato All Season», moderno pneumatico progettato per garantire una mobilità alternativa ed innovativa.

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La cultura pubblica dell’impresa in Italia

Cultura d’impresa privata e cultura d’impresa pubblica. Entrambe intrecciate, entrambe votate – se intese in maniera corretta – allo sviluppo. È fra questi concetti generali che si è dipanata da sempre la politica industria italiana e quella delle singole aziende, grandi o piccole che fossero. A delinearne la storia lungo un secolo di storia italiana è stato recentemente il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento “Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi” tenuto all’Accademia dei Lincei nel corso di un convegno sulla storia dell’IRI e la grande impresa.  SI tratta di un testo limpido, che va letto e gustato e che delinea in circa venti pagine l’intera storia economica d’Italia tra il XX e il XXI secolo indicandone, per l’oggi, i tratti che occorre affrontare per far scattare nuovamente la scintilla dello sviluppo.

Visco spiega: “Oggi, in Italia, l’azione pubblica di promozione della competitività delle imprese e della crescita economica deve soprattutto rivolgersi a migliorare le condizioni generali di contesto per l’attività di impresa anche attraverso regole certe e stabili, garantire una efficace tutela della legalità e del rispetto dei contratti, costituire un fermo presidio di concorrenza in tutti i mercati”. Il Governatore, poi, descrive con poche righe la crudezza della situazione attuale: “La specializzazione produttiva è mutata solo marginalmente nel corso degli ultimi decenni rimanendo concentrata nei comparti dell’industria  manifatturiera e dei servizi a cui corrisponde un basso livello di competenze del lavoro e di tecnologie utilizzate. Ha esposto le imprese italiane alla concorrenza di quelle delle economie emergenti più di quanto sia accaduto agli altri principali paesi europei. Nei settori tradizionali di specializzazione si è registrata una significativa caduta dell’occupazione, della produzione, dei prezzi e dei margini di profitto”. Da qui una ulteriore analisi della situazione che scova cause storiche e strutturali (le dimensioni d’impresa per esempio), alle quali occorre porre rimedio con una più forte capacità tecnologica e innovativa, un più alto livello del capitale umano, un approccio diverso degli aspetti finanziari dell’economia.

Ma, oltre a tutto questo, deve cambiare, sembra affermare Visco, proprio quella cultura d’impresa che quasi un secolo fa aveva fatto da propulsore all’economia nazionale e che, dopo varie evoluzioni, deve adesso fare i conti con una realtà in rapido e spesso drammatico mutamento.

L’analisi proposta dal Governatore dell’istituto centrale italiano è tutta da leggere, spendendoci il tempo giusto che certamente darà grande  profitto a manager e imprenditori.

Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi

I. Visco

Accademia Nazionale dei Lincei. Convegno “La storia dell’IRI e la grande industria oggi”.

Roma, marzo 2015.

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Cultura d’impresa privata e cultura d’impresa pubblica. Entrambe intrecciate, entrambe votate – se intese in maniera corretta – allo sviluppo. È fra questi concetti generali che si è dipanata da sempre la politica industria italiana e quella delle singole aziende, grandi o piccole che fossero. A delinearne la storia lungo un secolo di storia italiana è stato recentemente il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento “Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi” tenuto all’Accademia dei Lincei nel corso di un convegno sulla storia dell’IRI e la grande impresa.  SI tratta di un testo limpido, che va letto e gustato e che delinea in circa venti pagine l’intera storia economica d’Italia tra il XX e il XXI secolo indicandone, per l’oggi, i tratti che occorre affrontare per far scattare nuovamente la scintilla dello sviluppo.

Visco spiega: “Oggi, in Italia, l’azione pubblica di promozione della competitività delle imprese e della crescita economica deve soprattutto rivolgersi a migliorare le condizioni generali di contesto per l’attività di impresa anche attraverso regole certe e stabili, garantire una efficace tutela della legalità e del rispetto dei contratti, costituire un fermo presidio di concorrenza in tutti i mercati”. Il Governatore, poi, descrive con poche righe la crudezza della situazione attuale: “La specializzazione produttiva è mutata solo marginalmente nel corso degli ultimi decenni rimanendo concentrata nei comparti dell’industria  manifatturiera e dei servizi a cui corrisponde un basso livello di competenze del lavoro e di tecnologie utilizzate. Ha esposto le imprese italiane alla concorrenza di quelle delle economie emergenti più di quanto sia accaduto agli altri principali paesi europei. Nei settori tradizionali di specializzazione si è registrata una significativa caduta dell’occupazione, della produzione, dei prezzi e dei margini di profitto”. Da qui una ulteriore analisi della situazione che scova cause storiche e strutturali (le dimensioni d’impresa per esempio), alle quali occorre porre rimedio con una più forte capacità tecnologica e innovativa, un più alto livello del capitale umano, un approccio diverso degli aspetti finanziari dell’economia.

Ma, oltre a tutto questo, deve cambiare, sembra affermare Visco, proprio quella cultura d’impresa che quasi un secolo fa aveva fatto da propulsore all’economia nazionale e che, dopo varie evoluzioni, deve adesso fare i conti con una realtà in rapido e spesso drammatico mutamento.

L’analisi proposta dal Governatore dell’istituto centrale italiano è tutta da leggere, spendendoci il tempo giusto che certamente darà grande  profitto a manager e imprenditori.

Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi

I. Visco

Accademia Nazionale dei Lincei. Convegno “La storia dell’IRI e la grande industria oggi”.

Roma, marzo 2015.

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