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Distretti e poli industriali trainano la ripresa: è la cultura della “collaborazione competitiva”

Sono i distretti industriali a guidare la ripresa manifatturiera italiana. Crescono, innovano, conquistano spazi crescenti sui mercati internazionali. E mostrano come il miglioramento della competitività dell’industria italiana dipenda dalla originale combinazione tra radicamento territoriale (la forza della tradizione per la qualità) e sguardo aperto al mondo. Cultura d’impresa d’eccellenza, insomma. Con la solida consapevolezza del significato più profondo della parola “competizione”, da rilanciare facendo buon uso della memoria delle sue origini: il latino “cum petere”, camminare insieme verso un obiettivo comune (ne abbiamo fatto cenno altre volte, in questi nostri blog).

Le stime di crescita dei distretti industriali (la punta più dinamica dell’industria italiana, con una aumentata capacità di innovazione, non solo per prodotti e produzione, ma anche per servizio), vengono dalle recenti indagini del Centro Studi di Intesa Sanpaolo (febbraio 2015), dicono che l’export è cresciuto del 3,5% tra gennaio e sempre 2014, più che in Germania. E le previsioni sul fatturato sono positive anche per 2015 e 2016. In testa, i distretti del mobile, con una crescita attesa del 4% circa nel 2015 e del 3,7% nel 2016, rispetto a una media generale appena superiore al 3%. Poi, la meccanica, i prodotti in metallo, l’alimentare e il sistema moda. “Ricerca e reshoring spingono i distretti”, commenta Il Sole24Ore, insistendo sull’innovazione, ma anche sulla recente tendenza di molte imprese a tornare a produrre in Italia, “rimpatriando” molte produzioni che nel corso degli anni 80 e 90 del Novecento erano state spostate all’estero. Un “reshoring” legato alla più matura consapevolezza che la competitività si gioca sull’alta qualità, nelle nicchie ad alto valore aggiunto e non può raggiungere alta qualità se non valorizzando le capacità del cosiddetto “bello e ben fatto”, le competenze della migliore manifattura “made in Italy”, le sintesi tra design e funzionalità.

E’ la lezione che viene anche dalle filiere e dalle piattaforme produttive, una meta-organizzazione tipica dell’industria italiana che trova, appunto nello “stare insieme”, la chiave per superare le angustie e i limiti delle piccole dimensioni e, sulla dinamicità delle relazioni tra piccole e medie imprese specializzate, costruisce le ragioni d’una migliore competitività,

Oltre ai distretti, sempre secondo la ricerca di Intesa Sanpaolo, vanno bene anche tre poli tecnologici (aeronautico, farmaceutico e biomedicale) che sono cresciuti anche negli anni più duri e seletivi della crisi. Anche per questi poli, vale la pena insistere sulle caratteristiche distintive italiane: “collaborazione competitiva”, legami con strutture d’eccellenza dei territori (le migliori università, i centri di ricerca pubblici e privati), cross fertilization delle esperienze, intelligente utilizzo del capitale umano.

Nasce anche ad queste considerazioni la necessità di una politica industriale mirata, costruita cioè sul sostegno a ricerca, innovazione, trasferimento tecnologico, formazione, stimolo ai nuovi investimenti, anche internazionali. E supporto alle collaborazioni pure nel mondo dei servizi, dalla logistica alla finanza, dalla distribuzione al miglioramento del capitale umano, anche con solidi innesti manageriali. Dinamismo. E trasformazione.

Sono i distretti industriali a guidare la ripresa manifatturiera italiana. Crescono, innovano, conquistano spazi crescenti sui mercati internazionali. E mostrano come il miglioramento della competitività dell’industria italiana dipenda dalla originale combinazione tra radicamento territoriale (la forza della tradizione per la qualità) e sguardo aperto al mondo. Cultura d’impresa d’eccellenza, insomma. Con la solida consapevolezza del significato più profondo della parola “competizione”, da rilanciare facendo buon uso della memoria delle sue origini: il latino “cum petere”, camminare insieme verso un obiettivo comune (ne abbiamo fatto cenno altre volte, in questi nostri blog).

Le stime di crescita dei distretti industriali (la punta più dinamica dell’industria italiana, con una aumentata capacità di innovazione, non solo per prodotti e produzione, ma anche per servizio), vengono dalle recenti indagini del Centro Studi di Intesa Sanpaolo (febbraio 2015), dicono che l’export è cresciuto del 3,5% tra gennaio e sempre 2014, più che in Germania. E le previsioni sul fatturato sono positive anche per 2015 e 2016. In testa, i distretti del mobile, con una crescita attesa del 4% circa nel 2015 e del 3,7% nel 2016, rispetto a una media generale appena superiore al 3%. Poi, la meccanica, i prodotti in metallo, l’alimentare e il sistema moda. “Ricerca e reshoring spingono i distretti”, commenta Il Sole24Ore, insistendo sull’innovazione, ma anche sulla recente tendenza di molte imprese a tornare a produrre in Italia, “rimpatriando” molte produzioni che nel corso degli anni 80 e 90 del Novecento erano state spostate all’estero. Un “reshoring” legato alla più matura consapevolezza che la competitività si gioca sull’alta qualità, nelle nicchie ad alto valore aggiunto e non può raggiungere alta qualità se non valorizzando le capacità del cosiddetto “bello e ben fatto”, le competenze della migliore manifattura “made in Italy”, le sintesi tra design e funzionalità.

E’ la lezione che viene anche dalle filiere e dalle piattaforme produttive, una meta-organizzazione tipica dell’industria italiana che trova, appunto nello “stare insieme”, la chiave per superare le angustie e i limiti delle piccole dimensioni e, sulla dinamicità delle relazioni tra piccole e medie imprese specializzate, costruisce le ragioni d’una migliore competitività,

Oltre ai distretti, sempre secondo la ricerca di Intesa Sanpaolo, vanno bene anche tre poli tecnologici (aeronautico, farmaceutico e biomedicale) che sono cresciuti anche negli anni più duri e seletivi della crisi. Anche per questi poli, vale la pena insistere sulle caratteristiche distintive italiane: “collaborazione competitiva”, legami con strutture d’eccellenza dei territori (le migliori università, i centri di ricerca pubblici e privati), cross fertilization delle esperienze, intelligente utilizzo del capitale umano.

Nasce anche ad queste considerazioni la necessità di una politica industriale mirata, costruita cioè sul sostegno a ricerca, innovazione, trasferimento tecnologico, formazione, stimolo ai nuovi investimenti, anche internazionali. E supporto alle collaborazioni pure nel mondo dei servizi, dalla logistica alla finanza, dalla distribuzione al miglioramento del capitale umano, anche con solidi innesti manageriali. Dinamismo. E trasformazione.

Il nuovo allestimento “Una musa tra le ruote”

In occasione della pubblicazione del volume “Una musa tra le ruote”, per il nuovo allestimento dell’Open Space della Fondazione abbiamo esposto 56 opere originali che ripercorrono la storia della comunicazione aziendale dagli anni Dieci alla fine degli anni Sessanta e che documentano l’intenso rapporto di committenza con artisti di fama internazionale, che da sempre caratterizza l’azienda. 

Si tratta di bozzetti eseguiti per pubblicizzare i prodotti, di disegni realizzati per illustrare articoli e servizi della Rivista Pirelli o celebrare gli anniversari del Gruppo industriale: le opere esposte portano la firma di grandi artisti come Armando Testa, Bruno Munari, Bob Noorda e Lora Lamm, per citarne alcuni.

Tra i materiali selezionati anche tre opere di grande formato con vedute degli stabilimenti e statistiche sulla produzione, realizzate da Domenico Bonanimi e Umberto Ubaldi nel 1922 ed esposte al Museo Storico delle Industrie Pirelli per celebrare il 50° anniversario dell’azienda.

A pavimento sono state riprodotte inoltre diverse fotografie che documentano le modalità di veicolazione del messaggio pubblicitario attraverso l’affissione di manifesti, cartelli vetrina e allestimenti fieristici. Al centro dell’Open Space, sempre a pavimento, una scelta di schede tecniche che raccontano la storia della produzione dei pneumatici Pirelli più famosi, dal Cord allo Stella Bianca, dallo Stelvio al Cinturato.

In una teca dedicata è esposto, nell’originale reinterpretazione di una pubblicità realizzata da Riccardo Manzi per il «Cinturato» Pirelli nel 1957, il «Cinturato All Season», moderno pneumatico progettato per garantire una mobilità alternativa ed innovativa.

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In occasione della pubblicazione del volume “Una musa tra le ruote”, per il nuovo allestimento dell’Open Space della Fondazione abbiamo esposto 56 opere originali che ripercorrono la storia della comunicazione aziendale dagli anni Dieci alla fine degli anni Sessanta e che documentano l’intenso rapporto di committenza con artisti di fama internazionale, che da sempre caratterizza l’azienda. 

Si tratta di bozzetti eseguiti per pubblicizzare i prodotti, di disegni realizzati per illustrare articoli e servizi della Rivista Pirelli o celebrare gli anniversari del Gruppo industriale: le opere esposte portano la firma di grandi artisti come Armando Testa, Bruno Munari, Bob Noorda e Lora Lamm, per citarne alcuni.

Tra i materiali selezionati anche tre opere di grande formato con vedute degli stabilimenti e statistiche sulla produzione, realizzate da Domenico Bonanimi e Umberto Ubaldi nel 1922 ed esposte al Museo Storico delle Industrie Pirelli per celebrare il 50° anniversario dell’azienda.

A pavimento sono state riprodotte inoltre diverse fotografie che documentano le modalità di veicolazione del messaggio pubblicitario attraverso l’affissione di manifesti, cartelli vetrina e allestimenti fieristici. Al centro dell’Open Space, sempre a pavimento, una scelta di schede tecniche che raccontano la storia della produzione dei pneumatici Pirelli più famosi, dal Cord allo Stella Bianca, dallo Stelvio al Cinturato.

In una teca dedicata è esposto, nell’originale reinterpretazione di una pubblicità realizzata da Riccardo Manzi per il «Cinturato» Pirelli nel 1957, il «Cinturato All Season», moderno pneumatico progettato per garantire una mobilità alternativa ed innovativa.

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La cultura pubblica dell’impresa in Italia

Cultura d’impresa privata e cultura d’impresa pubblica. Entrambe intrecciate, entrambe votate – se intese in maniera corretta – allo sviluppo. È fra questi concetti generali che si è dipanata da sempre la politica industria italiana e quella delle singole aziende, grandi o piccole che fossero. A delinearne la storia lungo un secolo di storia italiana è stato recentemente il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento “Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi” tenuto all’Accademia dei Lincei nel corso di un convegno sulla storia dell’IRI e la grande impresa.  SI tratta di un testo limpido, che va letto e gustato e che delinea in circa venti pagine l’intera storia economica d’Italia tra il XX e il XXI secolo indicandone, per l’oggi, i tratti che occorre affrontare per far scattare nuovamente la scintilla dello sviluppo.

Visco spiega: “Oggi, in Italia, l’azione pubblica di promozione della competitività delle imprese e della crescita economica deve soprattutto rivolgersi a migliorare le condizioni generali di contesto per l’attività di impresa anche attraverso regole certe e stabili, garantire una efficace tutela della legalità e del rispetto dei contratti, costituire un fermo presidio di concorrenza in tutti i mercati”. Il Governatore, poi, descrive con poche righe la crudezza della situazione attuale: “La specializzazione produttiva è mutata solo marginalmente nel corso degli ultimi decenni rimanendo concentrata nei comparti dell’industria  manifatturiera e dei servizi a cui corrisponde un basso livello di competenze del lavoro e di tecnologie utilizzate. Ha esposto le imprese italiane alla concorrenza di quelle delle economie emergenti più di quanto sia accaduto agli altri principali paesi europei. Nei settori tradizionali di specializzazione si è registrata una significativa caduta dell’occupazione, della produzione, dei prezzi e dei margini di profitto”. Da qui una ulteriore analisi della situazione che scova cause storiche e strutturali (le dimensioni d’impresa per esempio), alle quali occorre porre rimedio con una più forte capacità tecnologica e innovativa, un più alto livello del capitale umano, un approccio diverso degli aspetti finanziari dell’economia.

Ma, oltre a tutto questo, deve cambiare, sembra affermare Visco, proprio quella cultura d’impresa che quasi un secolo fa aveva fatto da propulsore all’economia nazionale e che, dopo varie evoluzioni, deve adesso fare i conti con una realtà in rapido e spesso drammatico mutamento.

L’analisi proposta dal Governatore dell’istituto centrale italiano è tutta da leggere, spendendoci il tempo giusto che certamente darà grande  profitto a manager e imprenditori.

Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi

I. Visco

Accademia Nazionale dei Lincei. Convegno “La storia dell’IRI e la grande industria oggi”.

Roma, marzo 2015.

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Cultura d’impresa privata e cultura d’impresa pubblica. Entrambe intrecciate, entrambe votate – se intese in maniera corretta – allo sviluppo. È fra questi concetti generali che si è dipanata da sempre la politica industria italiana e quella delle singole aziende, grandi o piccole che fossero. A delinearne la storia lungo un secolo di storia italiana è stato recentemente il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento “Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi” tenuto all’Accademia dei Lincei nel corso di un convegno sulla storia dell’IRI e la grande impresa.  SI tratta di un testo limpido, che va letto e gustato e che delinea in circa venti pagine l’intera storia economica d’Italia tra il XX e il XXI secolo indicandone, per l’oggi, i tratti che occorre affrontare per far scattare nuovamente la scintilla dello sviluppo.

Visco spiega: “Oggi, in Italia, l’azione pubblica di promozione della competitività delle imprese e della crescita economica deve soprattutto rivolgersi a migliorare le condizioni generali di contesto per l’attività di impresa anche attraverso regole certe e stabili, garantire una efficace tutela della legalità e del rispetto dei contratti, costituire un fermo presidio di concorrenza in tutti i mercati”. Il Governatore, poi, descrive con poche righe la crudezza della situazione attuale: “La specializzazione produttiva è mutata solo marginalmente nel corso degli ultimi decenni rimanendo concentrata nei comparti dell’industria  manifatturiera e dei servizi a cui corrisponde un basso livello di competenze del lavoro e di tecnologie utilizzate. Ha esposto le imprese italiane alla concorrenza di quelle delle economie emergenti più di quanto sia accaduto agli altri principali paesi europei. Nei settori tradizionali di specializzazione si è registrata una significativa caduta dell’occupazione, della produzione, dei prezzi e dei margini di profitto”. Da qui una ulteriore analisi della situazione che scova cause storiche e strutturali (le dimensioni d’impresa per esempio), alle quali occorre porre rimedio con una più forte capacità tecnologica e innovativa, un più alto livello del capitale umano, un approccio diverso degli aspetti finanziari dell’economia.

Ma, oltre a tutto questo, deve cambiare, sembra affermare Visco, proprio quella cultura d’impresa che quasi un secolo fa aveva fatto da propulsore all’economia nazionale e che, dopo varie evoluzioni, deve adesso fare i conti con una realtà in rapido e spesso drammatico mutamento.

L’analisi proposta dal Governatore dell’istituto centrale italiano è tutta da leggere, spendendoci il tempo giusto che certamente darà grande  profitto a manager e imprenditori.

Le imprese e il ruolo dell’azione pubblica, oggi

I. Visco

Accademia Nazionale dei Lincei. Convegno “La storia dell’IRI e la grande industria oggi”.

Roma, marzo 2015.

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L’azienda che crea il valore d’impresa

L’azienda come base fondante dell’impresa, insieme all’imprenditore ovviamente. Ma la dottrina economica insegna: senza ciò che i classici dicono essere un insieme coordinato di fattori della produzione, lo spirito imprenditoriale può poco. E, d’altra parte, non c’è impresa senza azienda, non c’è imprenditore che non pensi subito, appena scattata la scintilla creativa di un’idea di prodotto, proprio a quell’insieme coordinato di mezzi di produzione che possa consentirgli di arrivare all’obiettivo che si è prefissato.

Da qui lì’importanza di capire bene che cosa sono le aziende, come sono fatte e come vivono. Da qui, quindi, la necessità di poter avere fra le mani buoni libri come “L’azienda di produzione. Elementi costitutivi, condizioni operative, creazione di valore” di Enrico Gonella. Un volume che già dal titolo indica qualcosa in più: non solo il racconto di com’è fatta un’azienda, ma anche il suo fine ultimo: la creazione di valore.

Il libro però è un manuale che parte da una considerazione: “L’azienda di produzione rappresenta un fondamentale fattore propulsivo dell’economia, giacché contribuisce al soddisfacimento dei bisogni umani, realizzando beni e prestando servizi, e offre al lavoro e al capitale, fattori produttivi primigeni, possibilità di impiego e di rimunerazione”.

Gonella insegna Economia aziendale presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa, e quindi sa come condurre per mano il lettore attraverso le parti che compongono un’azienda, delineando di fatto una moderna cultura d’impresa. Con tutta la consapevolezza del caso. “Esaminare l’azienda, entità di natura complessa, multiforme e dinamica, al fine di ricercarne possibili uniformità, di sicuro non è compito agevole – dice infatti l’autore -. Va detto, però, che ogni nucleo produttivo possiede un proprio apparato strutturale, svolge una sua particolare attività, interagisce con l’ambiente in cui sorge, vive, si sviluppa, talora cessa di esistere. L’azienda è, appunto, tutto questo: struttura, dinamica, elemento di uno specifico sistema economico”. Questa entità, d’altra parte, vive secondo “precise regole di funzionamento, da cui non si può prescindere”, ma è anche “strumento forgiato dall’uomo per raggiungere certi obiettivi, ad esempio la creazione di valore nel lungo periodo”.

Fanno parte del libro – oltre a capitoli necessari come quelli che esaminano ogni componente -, anche altri che prendono in considerazione l’equilibrio aziendale e la specifica funzione creatrice di valore oltre che un passaggio finale che ragiona sulla distinzione o meno fra fini aziendali e fini dei soggetti economici che presidiano l’azienda.

L’azienda di produzione. Elementi costitutivi, condizioni operative, creazione di valore

Enrico Gonnella

Franco Angeli, 2014

L’azienda come base fondante dell’impresa, insieme all’imprenditore ovviamente. Ma la dottrina economica insegna: senza ciò che i classici dicono essere un insieme coordinato di fattori della produzione, lo spirito imprenditoriale può poco. E, d’altra parte, non c’è impresa senza azienda, non c’è imprenditore che non pensi subito, appena scattata la scintilla creativa di un’idea di prodotto, proprio a quell’insieme coordinato di mezzi di produzione che possa consentirgli di arrivare all’obiettivo che si è prefissato.

Da qui lì’importanza di capire bene che cosa sono le aziende, come sono fatte e come vivono. Da qui, quindi, la necessità di poter avere fra le mani buoni libri come “L’azienda di produzione. Elementi costitutivi, condizioni operative, creazione di valore” di Enrico Gonella. Un volume che già dal titolo indica qualcosa in più: non solo il racconto di com’è fatta un’azienda, ma anche il suo fine ultimo: la creazione di valore.

Il libro però è un manuale che parte da una considerazione: “L’azienda di produzione rappresenta un fondamentale fattore propulsivo dell’economia, giacché contribuisce al soddisfacimento dei bisogni umani, realizzando beni e prestando servizi, e offre al lavoro e al capitale, fattori produttivi primigeni, possibilità di impiego e di rimunerazione”.

Gonella insegna Economia aziendale presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Pisa, e quindi sa come condurre per mano il lettore attraverso le parti che compongono un’azienda, delineando di fatto una moderna cultura d’impresa. Con tutta la consapevolezza del caso. “Esaminare l’azienda, entità di natura complessa, multiforme e dinamica, al fine di ricercarne possibili uniformità, di sicuro non è compito agevole – dice infatti l’autore -. Va detto, però, che ogni nucleo produttivo possiede un proprio apparato strutturale, svolge una sua particolare attività, interagisce con l’ambiente in cui sorge, vive, si sviluppa, talora cessa di esistere. L’azienda è, appunto, tutto questo: struttura, dinamica, elemento di uno specifico sistema economico”. Questa entità, d’altra parte, vive secondo “precise regole di funzionamento, da cui non si può prescindere”, ma è anche “strumento forgiato dall’uomo per raggiungere certi obiettivi, ad esempio la creazione di valore nel lungo periodo”.

Fanno parte del libro – oltre a capitoli necessari come quelli che esaminano ogni componente -, anche altri che prendono in considerazione l’equilibrio aziendale e la specifica funzione creatrice di valore oltre che un passaggio finale che ragiona sulla distinzione o meno fra fini aziendali e fini dei soggetti economici che presidiano l’azienda.

L’azienda di produzione. Elementi costitutivi, condizioni operative, creazione di valore

Enrico Gonnella

Franco Angeli, 2014

I talenti e le imprese, tra formazione d’eccellenza e
opportunità di un buon lavoro

Si fa della buona formazione, in Italia, attenta alla sintesi tra cultura (nella sua dimensione essenziale di sguardo analitico e critico) e competenze. E ci sono dei luoghi d’eccellenza, oramai di respiro europeo, a cominciare dai Politecnici di Torino e Milano e da altre strutture universitarie sempre più qualificate per gli studi superiori e i master, soprattutto nell’area del Nord Ovest, che continua ad attrarre “talenti” in cerca di buona formazione e solida qualificazione.

Una riprova è anche la Scuola di Alta Formazione al Management (Safm), nata cinque anni fa per iniziativa della Fondazione Pirelli, della Fondazione Agnelli e della Fondazione Garrone, in collaborazione con il Collège des Ingénieurs di Parigi (venerdì, a Milano, la festa dell’anniversario, “Safm’s got talents” e un convegno su formazione e “talenti”, con lo sguardo rivolto alle imprese e alle leve dello sviluppo economico).

Ma cosa vuol dire, “talento”, per un’impresa? Le parole chiave sono: capacità di pensare diverso e vedere oltre, attitudine a cercare e affrontare il cambiamento e le sfide, non mollando e puntando all’eccellenza. Sono concetti che emergono da un’indagine di Manageritalia, condotta con la collaborazione tecnica di AstraRicerche e, appunto, in partnership con la Safm e Kilpatrick International Executive Search e presentata venerdì. Secondo gli intervistati (1000 persone, tra manager italiani, esteri e studenti) il talento è dato da dedizione, impegno, determinazione e tenacia. A seguire competenza e professionalità; adattabilità, flessibilità e versatilità; curiosità; creatività e ingegno e visione.

La convinzione dei manager intervistati è che il talento che serve per emergere nel mondo del lavoro è soprattutto favorito da un contesto familiare e sociale ricco di stimoli e sfide (86,5%), da ottimi studi (76,7%) e dal rapporto col mondo del lavoro durante gli studi (64,8%). Poi c’è anche una componente innata, una vera predisposizione dalla nascita (60,7%). Minoritario il contributo delle scuole dove quella pubblica (20,9%) prevale su quella privata (12,3%).

Quasi a conferma che per un giovane talento «fuggire» all’estero per finire gli studi e iniziare a lavorare è una scelta fondamentale, un “must”, studio e lavoro all’estero sono per il 90,6% degli intervistati il principale fattore per favorire il talento di un giovane che vuole inserirsi nel mondo del lavoro. A seguire, ecco tutti i vari livelli di istruzione: ottimi studi universitari (90,3%), alle superiori (83%), post-universitari (70,3%) e alle elementari/medie (67,3%).

Gli intervistati non hanno un’opinione esaltante dello stato e delle prospettive della scuola italiana. Su tutto prevale l’affermazione che la scuola (secondaria superiore e Università) italiana non è al passo con i tempi e deve rinnovarsi (79,8%), che le Università non devono limitarsi a valutare i giovani esame per esame, ma dovrebbero certificare caratteristiche e competenze dei giovani a 360° (69,4%). Non si pensa che l’Università sia una “fabbrica” che deve sfornare lavoratori pronti all’uso, ma deve dare solide e ampie basi (72,4%). Si riconosce un mondo universitario fatto di luci e ombre: alcune Università italiane sono tra le migliori al mondo (64,2%), ma alcune che vantano un “bel nome” sono deludenti, perché hanno perso la capacità di formare giovani adatti al mondo del lavoro odierno (59,3%).

L’accusa è anche autodiretta. Infatti, si sostiene che le aziende dovrebbero aprirsi maggiormente agli stage formativi degli studenti universitari (91,5%) e contribuire alla formazione degli studenti dedicando parte del tempo dei loro management a lezioni in aula o a interi corsi (81,3%).

Come migliorare la situazione? La maggioranza degli intervistati sostiene che ogni Università dovrebbe avere un pool di aziende sostenitrici (in modo esplicito e trasparente), con un coordinamento continuo e forte sulla formazione degli studenti negli ultimi anni (78,9%) e che le aziende e le loro associazioni dovrebbero investire di più nel rapporto con le Università, nel dare indicazioni sulle loro esigenze (88,6%).

Si aggiunge che le aziende dovrebbero individuare e seguire gli studenti ancor prima che terminino gli studi negli ultimi anni di formazione (72,1%). Ma si chiarisce anche che le Università dovrebbero avere programmi molto più dinamici, in grado di seguire le tendenze a breve-medio periodo del mondo del lavoro (73,4%).

Peraltro, si nega che un rapporto stretto tra Università e mondo del lavoro rischi di ridurre le competenze generali a favore di quelle specifiche (lo nega il 64,2%) e che sia meglio interrompere gli studi per fare prima esperienza in azienda (74,2%).

Come migliorare l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro e valorizzare, fin dall’inizio, i “talenti”? Per i manager intervistati l’azienda deve avere un sistema evoluto di ricerca e selezione del personale in grado di far emergere i talenti (51,3%). Anche perché, si spiega, non basta cercare talenti, ma si devono creare con il contatto con il mondo formativo (88%). I manager aggiungono comunque che è in azienda, più che in Università, che si scoprono i talenti (75,6%), anche se ammettono che spesso in azienda il talento è “schiacciato”, ingabbiato e limitato (61,9%). Problema aperto, insomma. Dimensione conflittuale tra interessi diversi. Da comporre, con una buona cultura d’impresa aperta, critica, inclusiva.

«Dall’indagine emerge chiaro il senso del talento dei giovani nel mondo del lavoro, che, ci dicono i manager, non è solo innato, ma va formato, coltivato e aiutato a esprimersi a favore di tutti. E in questo la formazione e il dialogo con il mondo del lavoro hanno un ruolo chiave», commenta il presidente di Manageritalia Guido Carella. E aggiunge: «La scuola deve aggiornarsi, l’Università deve dialogare di più con il mondo del lavoro. E le imprese devono aprirsi, entrare nelle università e fare massima sinergia. Perché i giovani e il talento, quello loro e di tutti, sono patrimoni determinanti per la crescita e lo sviluppo futuro. Quindi, è opportuno che tutti – istituzioni, scuola e Università, aziende, manager ecc. – lavoriamo da subito per creare quei ponti e quel dialogo che servono perché il talento non venga sprecato e sia invece messo a fattor comune. Anche perché se è un bene che ci sia la fuga dei cervelli, dobbiamo essere capaci di creare un ecosistema che attiri cervelli e talenti dall’estero e favorisca la crescita e il ritorno di quelli di casa nostra».

Si fa della buona formazione, in Italia, attenta alla sintesi tra cultura (nella sua dimensione essenziale di sguardo analitico e critico) e competenze. E ci sono dei luoghi d’eccellenza, oramai di respiro europeo, a cominciare dai Politecnici di Torino e Milano e da altre strutture universitarie sempre più qualificate per gli studi superiori e i master, soprattutto nell’area del Nord Ovest, che continua ad attrarre “talenti” in cerca di buona formazione e solida qualificazione.

Una riprova è anche la Scuola di Alta Formazione al Management (Safm), nata cinque anni fa per iniziativa della Fondazione Pirelli, della Fondazione Agnelli e della Fondazione Garrone, in collaborazione con il Collège des Ingénieurs di Parigi (venerdì, a Milano, la festa dell’anniversario, “Safm’s got talents” e un convegno su formazione e “talenti”, con lo sguardo rivolto alle imprese e alle leve dello sviluppo economico).

Ma cosa vuol dire, “talento”, per un’impresa? Le parole chiave sono: capacità di pensare diverso e vedere oltre, attitudine a cercare e affrontare il cambiamento e le sfide, non mollando e puntando all’eccellenza. Sono concetti che emergono da un’indagine di Manageritalia, condotta con la collaborazione tecnica di AstraRicerche e, appunto, in partnership con la Safm e Kilpatrick International Executive Search e presentata venerdì. Secondo gli intervistati (1000 persone, tra manager italiani, esteri e studenti) il talento è dato da dedizione, impegno, determinazione e tenacia. A seguire competenza e professionalità; adattabilità, flessibilità e versatilità; curiosità; creatività e ingegno e visione.

La convinzione dei manager intervistati è che il talento che serve per emergere nel mondo del lavoro è soprattutto favorito da un contesto familiare e sociale ricco di stimoli e sfide (86,5%), da ottimi studi (76,7%) e dal rapporto col mondo del lavoro durante gli studi (64,8%). Poi c’è anche una componente innata, una vera predisposizione dalla nascita (60,7%). Minoritario il contributo delle scuole dove quella pubblica (20,9%) prevale su quella privata (12,3%).

Quasi a conferma che per un giovane talento «fuggire» all’estero per finire gli studi e iniziare a lavorare è una scelta fondamentale, un “must”, studio e lavoro all’estero sono per il 90,6% degli intervistati il principale fattore per favorire il talento di un giovane che vuole inserirsi nel mondo del lavoro. A seguire, ecco tutti i vari livelli di istruzione: ottimi studi universitari (90,3%), alle superiori (83%), post-universitari (70,3%) e alle elementari/medie (67,3%).

Gli intervistati non hanno un’opinione esaltante dello stato e delle prospettive della scuola italiana. Su tutto prevale l’affermazione che la scuola (secondaria superiore e Università) italiana non è al passo con i tempi e deve rinnovarsi (79,8%), che le Università non devono limitarsi a valutare i giovani esame per esame, ma dovrebbero certificare caratteristiche e competenze dei giovani a 360° (69,4%). Non si pensa che l’Università sia una “fabbrica” che deve sfornare lavoratori pronti all’uso, ma deve dare solide e ampie basi (72,4%). Si riconosce un mondo universitario fatto di luci e ombre: alcune Università italiane sono tra le migliori al mondo (64,2%), ma alcune che vantano un “bel nome” sono deludenti, perché hanno perso la capacità di formare giovani adatti al mondo del lavoro odierno (59,3%).

L’accusa è anche autodiretta. Infatti, si sostiene che le aziende dovrebbero aprirsi maggiormente agli stage formativi degli studenti universitari (91,5%) e contribuire alla formazione degli studenti dedicando parte del tempo dei loro management a lezioni in aula o a interi corsi (81,3%).

Come migliorare la situazione? La maggioranza degli intervistati sostiene che ogni Università dovrebbe avere un pool di aziende sostenitrici (in modo esplicito e trasparente), con un coordinamento continuo e forte sulla formazione degli studenti negli ultimi anni (78,9%) e che le aziende e le loro associazioni dovrebbero investire di più nel rapporto con le Università, nel dare indicazioni sulle loro esigenze (88,6%).

Si aggiunge che le aziende dovrebbero individuare e seguire gli studenti ancor prima che terminino gli studi negli ultimi anni di formazione (72,1%). Ma si chiarisce anche che le Università dovrebbero avere programmi molto più dinamici, in grado di seguire le tendenze a breve-medio periodo del mondo del lavoro (73,4%).

Peraltro, si nega che un rapporto stretto tra Università e mondo del lavoro rischi di ridurre le competenze generali a favore di quelle specifiche (lo nega il 64,2%) e che sia meglio interrompere gli studi per fare prima esperienza in azienda (74,2%).

Come migliorare l’ingresso degli studenti nel mondo del lavoro e valorizzare, fin dall’inizio, i “talenti”? Per i manager intervistati l’azienda deve avere un sistema evoluto di ricerca e selezione del personale in grado di far emergere i talenti (51,3%). Anche perché, si spiega, non basta cercare talenti, ma si devono creare con il contatto con il mondo formativo (88%). I manager aggiungono comunque che è in azienda, più che in Università, che si scoprono i talenti (75,6%), anche se ammettono che spesso in azienda il talento è “schiacciato”, ingabbiato e limitato (61,9%). Problema aperto, insomma. Dimensione conflittuale tra interessi diversi. Da comporre, con una buona cultura d’impresa aperta, critica, inclusiva.

«Dall’indagine emerge chiaro il senso del talento dei giovani nel mondo del lavoro, che, ci dicono i manager, non è solo innato, ma va formato, coltivato e aiutato a esprimersi a favore di tutti. E in questo la formazione e il dialogo con il mondo del lavoro hanno un ruolo chiave», commenta il presidente di Manageritalia Guido Carella. E aggiunge: «La scuola deve aggiornarsi, l’Università deve dialogare di più con il mondo del lavoro. E le imprese devono aprirsi, entrare nelle università e fare massima sinergia. Perché i giovani e il talento, quello loro e di tutti, sono patrimoni determinanti per la crescita e lo sviluppo futuro. Quindi, è opportuno che tutti – istituzioni, scuola e Università, aziende, manager ecc. – lavoriamo da subito per creare quei ponti e quel dialogo che servono perché il talento non venga sprecato e sia invece messo a fattor comune. Anche perché se è un bene che ci sia la fuga dei cervelli, dobbiamo essere capaci di creare un ecosistema che attiri cervelli e talenti dall’estero e favorisca la crescita e il ritorno di quelli di casa nostra».

L’Italia in dieci “selfie”: buona cultura d’impresa per migliorare competizione e sviluppo

L’Italia, lentamente, sta uscendo dalla crisi. Ma per farlo davvero, per avviare cioè un processo di profondo rinnovamento economico e sociale e dunque uno sviluppo più equilibrato e duraturo deve “cambiare lo sguardo”. E’ la sfida, per le imprese, i consumatori, la politica e i cittadini, proposta da Symbola, la fondazione guidata da Ermete Realacci e condensava in un documento originale e stimolante, “L’Italia in dieci selfie”, ritratto non convenzionale e profondamente veritiero sui punti di forza della competitività italiana.

Cosa dice il documento? “Solo 5 paesi al mondo possono vantare un surplus commerciale manifatturiero superiore a 100 miliardi di dollari. E l’Italia è uno di questi. C’è un paese in Europa che attira più turisti cinesi, statunitensi, canadesi, australiani e brasiliani di ogni altro grazie alla bellezza, alla qualità e alla cultura di cui è ricco. E’ l’Italia. C’è un paese che primeggia in quanto ad efficienza ambientale, meno CO2 e più recupero di materia prima, delle proprie imprese: è l’Italia. E c’è un Paese che vanta 935 prodotti, sul totale dei 5.117 prodotti in cui è analizzato il commercio globale, da podio mondiale per attivo commerciale con l’estero. Questo paese è l’Italia”. Ritratto dunque dei talenti. E risposta critica ai tanti ed  erronei luoghi comuni “che rischiano di distogliere l’attenzione dai problemi reali del Paese”.

Ci sono, dice Realacci, mali antichi da superare: “Il debito pubblico, la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, la mancanza di lavoro, il peso delle mafie e di una corruzione mai contrastata adeguatamente, una burocrazia spesso soffocante, il Sud che perde contatto. Non possiamo farcela senza un’idea di futuro, se non partiamo da quelli che sono i nostri punti di forza, se non mobilitiamo i talenti e le energie migliori. E per farlo dobbiamo guardare il Paese, i territori, le comunità, le imprese con attenzione e simpatia: con occhi diversi dalle agenzie di rating, senza rimanere prigionieri di pigrizie e preconcetti talvolta di importazione”. E “dobbiamo costruire un racconto dell’Italia fuori dal coro di quanti ci vorrebbero inesorabilmente destinati al declino”. Perché, come scrive Paul Auster, “le storie accadono solo a chi sa raccontarle”.

Ecco allora i 10 selfie di Symbola da cui partire per sfidare la crisi (con la forza dei dati delle ricerche, oltre che di Symbola, anche di Unioncamere e Fondazione Edison). Il primo selfie mostra che “l’Italia è uno dei soli cinque paesi al mondo che vanta un surplus manifatturiero sopra i 100 miliardi di dollari”. In compagnia di grandi potenze industriali come Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud. Mentre Francia (-34 mld), Gran Bretagna (-99) e Usa (-610) vedono la bilancia commerciale manifatturiera pendere al contrario. Il secondo selfie dice che “le imprese italiane sono tra le più competitive al mondo”. Su un totale di 5.117 prodotti (il massimo livello di disaggregazione statistica del commercio mondiale) nel 2012 l’Italia si è piazzata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero in ben 935. Il terzo selfie: “Considerando il debito aggregato (Stato, famiglie, imprese) l’Italia è uno dei paesi meno indebitati al mondo”: quello italiano, nonostante crisi e austerity non siano state indolore nemmeno per le famiglie, pesa il 261% del Pil. Quello del Giappone il 412%, quello della Spagna il 305%, quello britannico il 284%, quello del Regno Unito il 284% e quello degli Stati Uniti il 264%.

Il quarto selfie mostra che “i prodotti agroalimentari italiani dominano sui mercati mondiali”. Tra questi prodotti, infatti, ben 23 non hanno rivali sui mercati internazionali e vantano le maggiori quote di mercato mondiale. E ce ne sono altri 54 per i quali siamo secondi o terzi. Nonostante la contraffazione e la concorrenza sleale dell’Italian sounding, siamo sul podio nel commercio mondiale per ben 77 prodotti. Il quinto selòvie riguarda la forza dell’industria meccanica: “L’Italia è il secondo paese più competitivo al mondo nel machinery” e “occupa i vertici delle graduatorie mondiali di settore”. Nella classifica di competitività calcolata sulla base del Trade performance Index, elaborato dall’International Trade Centre dell’UNCTAD/WTO, l’industria italiana della meccanica risulta seconda solo a quella tedesca.

Ecco il sesto selfie: “Dalla green economy il turbo per le imprese italiane”. Il 22% delle aziende italiane, percentuale che sale al 33% delle imprese manifatturiere, nella crisi hanno scommesso sulla green economy, settore che vale 101 miliardi di euro di valore aggiunto, il 10,2% dell’economia nazionale. Una scelta vincente. In termini di export: se consideriamo le imprese manifatturiere, il 44% di quelle che investono green esportano stabilmente, contro il 24% di quelle che non lo fanno. E di innovazione, il 30% delle aziende manifatturiere che puntano sul verde hanno sviluppato nuovi prodotti o nuovi servizi, contro il 15% delle altre. Con i green jobs che sono diventati protagonisti dell’innovazione e coprono addirittura il 70% di tutte le assunzioni destinate alle attività di ricerca e sviluppo delle nostre aziende.

Il settimo selfie mostra come “l’Italia è leader in Europa per eco-efficienza del sistema produttivo”. Il nostro modello produttivo, infatti, è tra i più innovativi in campo ambientale, con 104 tonnellate di anidride carbonica per milione di euro prodotto (la Germania ne immette in atmosfera 143, il Regno Unito 130) e 41 di rifiuti (65 la Germania e il Regno Unito, 93 la Francia): “Siamo campioni europei nell’industria del riciclo: a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti su scala europea, nel nostro Paese ne sono stati recuperati 24,1 milioni, il valore assoluto più elevato tra tutti i paesi europei (in Germania sono 22,4). Milano, la città dell’EXPO è, insieme a Vienna, per raccolta differenziata, in cima alla classifica delle metropoli europee sopra il milione di abitanti e ha nel mondo, fra le grandi città, il primato delle persone servite dalla raccolta dell’organico.

L’ottavo selfie sostiene che “Con la cultura l’Italia mangia”. La filiera italiana della cultura – comprensiva del valore prodotto dalle industrie culturali e creative, ma anche da quella parte dell’economia nazionale che, come il turismo, viene ‘attivata’ dalla cultura (ogni euro prodotto dalle industrie culturali e creative ne genera 1,67 sul resto dell’economia) – vale il 15,3% del valore aggiunto nazionale: 214 miliardi di euro. Il nono selfie sostiene che “l’Italia, nell’eurozona, è la meta preferita dei turisti extraeuropei”. Siamo il primo paese per pernottamenti di turisti extra Ue, con 56 milioni di notti. Siamo la meta preferita di paesi come la Cina, il Brasile, il Giappone, la Corea del Sud,  l’Australia, gli Usa e il Canada (dati Eurostat). Un risultato che ha solide radici nella bellezza e nella cultura di cui il Paese è ricco. L’Italia, non a caso, è il Paese che nel mondo vanta il maggior numero di siti Unesco nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità (51 su 1001).

L’ultimo selfie riguarda la “coesione: una ricetta per competere”. E spiega: “Le imprese ‘coesive’ – quelle più legate alle comunità, ai lavoratori, al territorio, che investono nelle competenze, nella sostenibilità, nella qualità e bellezza – sono più competitive. Nel 2013 queste imprese hanno aumentato il fatturato nel 39% dei casi rispetto al 2012, contro il 31% delle non coesive. Hanno visto crescere l’occupazione nel 22% contro il 15%. Non è forse un caso se, tra il 2007 e il 2012, pur senza misure pubbliche a sostegno, sono imprese italiane quelle che hanno guidato – dietro gli Usa – il re-shoring mondiale e rappresentano oggi il 60% delle rilocalizzazioni europee”.

“Questi 10 selfie – conclude Ermete Realacci, presidente di Symbola – sono una rappresentazione plastica dei punti di forza del Paese e indicano con chiarezza la direzione da seguire per tornare a crescere.  Per affrontare la tempesta perfetta di questa crisi, infatti, l’Italia deve accettare le sfide di un mondo che cambia senza perdere la propria anima. E, come sta già facendo in molti campi anche senza politiche e riconoscimenti, incrociare innovazione e conoscenza con qualità, bellezza, green economy. Insomma l’Italia deve fare l’Italia”.

L’Italia, lentamente, sta uscendo dalla crisi. Ma per farlo davvero, per avviare cioè un processo di profondo rinnovamento economico e sociale e dunque uno sviluppo più equilibrato e duraturo deve “cambiare lo sguardo”. E’ la sfida, per le imprese, i consumatori, la politica e i cittadini, proposta da Symbola, la fondazione guidata da Ermete Realacci e condensava in un documento originale e stimolante, “L’Italia in dieci selfie”, ritratto non convenzionale e profondamente veritiero sui punti di forza della competitività italiana.

Cosa dice il documento? “Solo 5 paesi al mondo possono vantare un surplus commerciale manifatturiero superiore a 100 miliardi di dollari. E l’Italia è uno di questi. C’è un paese in Europa che attira più turisti cinesi, statunitensi, canadesi, australiani e brasiliani di ogni altro grazie alla bellezza, alla qualità e alla cultura di cui è ricco. E’ l’Italia. C’è un paese che primeggia in quanto ad efficienza ambientale, meno CO2 e più recupero di materia prima, delle proprie imprese: è l’Italia. E c’è un Paese che vanta 935 prodotti, sul totale dei 5.117 prodotti in cui è analizzato il commercio globale, da podio mondiale per attivo commerciale con l’estero. Questo paese è l’Italia”. Ritratto dunque dei talenti. E risposta critica ai tanti ed  erronei luoghi comuni “che rischiano di distogliere l’attenzione dai problemi reali del Paese”.

Ci sono, dice Realacci, mali antichi da superare: “Il debito pubblico, la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, la mancanza di lavoro, il peso delle mafie e di una corruzione mai contrastata adeguatamente, una burocrazia spesso soffocante, il Sud che perde contatto. Non possiamo farcela senza un’idea di futuro, se non partiamo da quelli che sono i nostri punti di forza, se non mobilitiamo i talenti e le energie migliori. E per farlo dobbiamo guardare il Paese, i territori, le comunità, le imprese con attenzione e simpatia: con occhi diversi dalle agenzie di rating, senza rimanere prigionieri di pigrizie e preconcetti talvolta di importazione”. E “dobbiamo costruire un racconto dell’Italia fuori dal coro di quanti ci vorrebbero inesorabilmente destinati al declino”. Perché, come scrive Paul Auster, “le storie accadono solo a chi sa raccontarle”.

Ecco allora i 10 selfie di Symbola da cui partire per sfidare la crisi (con la forza dei dati delle ricerche, oltre che di Symbola, anche di Unioncamere e Fondazione Edison). Il primo selfie mostra che “l’Italia è uno dei soli cinque paesi al mondo che vanta un surplus manifatturiero sopra i 100 miliardi di dollari”. In compagnia di grandi potenze industriali come Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud. Mentre Francia (-34 mld), Gran Bretagna (-99) e Usa (-610) vedono la bilancia commerciale manifatturiera pendere al contrario. Il secondo selfie dice che “le imprese italiane sono tra le più competitive al mondo”. Su un totale di 5.117 prodotti (il massimo livello di disaggregazione statistica del commercio mondiale) nel 2012 l’Italia si è piazzata prima, seconda o terza al mondo per attivo commerciale con l’estero in ben 935. Il terzo selfie: “Considerando il debito aggregato (Stato, famiglie, imprese) l’Italia è uno dei paesi meno indebitati al mondo”: quello italiano, nonostante crisi e austerity non siano state indolore nemmeno per le famiglie, pesa il 261% del Pil. Quello del Giappone il 412%, quello della Spagna il 305%, quello britannico il 284%, quello del Regno Unito il 284% e quello degli Stati Uniti il 264%.

Il quarto selfie mostra che “i prodotti agroalimentari italiani dominano sui mercati mondiali”. Tra questi prodotti, infatti, ben 23 non hanno rivali sui mercati internazionali e vantano le maggiori quote di mercato mondiale. E ce ne sono altri 54 per i quali siamo secondi o terzi. Nonostante la contraffazione e la concorrenza sleale dell’Italian sounding, siamo sul podio nel commercio mondiale per ben 77 prodotti. Il quinto selòvie riguarda la forza dell’industria meccanica: “L’Italia è il secondo paese più competitivo al mondo nel machinery” e “occupa i vertici delle graduatorie mondiali di settore”. Nella classifica di competitività calcolata sulla base del Trade performance Index, elaborato dall’International Trade Centre dell’UNCTAD/WTO, l’industria italiana della meccanica risulta seconda solo a quella tedesca.

Ecco il sesto selfie: “Dalla green economy il turbo per le imprese italiane”. Il 22% delle aziende italiane, percentuale che sale al 33% delle imprese manifatturiere, nella crisi hanno scommesso sulla green economy, settore che vale 101 miliardi di euro di valore aggiunto, il 10,2% dell’economia nazionale. Una scelta vincente. In termini di export: se consideriamo le imprese manifatturiere, il 44% di quelle che investono green esportano stabilmente, contro il 24% di quelle che non lo fanno. E di innovazione, il 30% delle aziende manifatturiere che puntano sul verde hanno sviluppato nuovi prodotti o nuovi servizi, contro il 15% delle altre. Con i green jobs che sono diventati protagonisti dell’innovazione e coprono addirittura il 70% di tutte le assunzioni destinate alle attività di ricerca e sviluppo delle nostre aziende.

Il settimo selfie mostra come “l’Italia è leader in Europa per eco-efficienza del sistema produttivo”. Il nostro modello produttivo, infatti, è tra i più innovativi in campo ambientale, con 104 tonnellate di anidride carbonica per milione di euro prodotto (la Germania ne immette in atmosfera 143, il Regno Unito 130) e 41 di rifiuti (65 la Germania e il Regno Unito, 93 la Francia): “Siamo campioni europei nell’industria del riciclo: a fronte di un avvio a recupero industriale di 163 milioni di tonnellate di rifiuti su scala europea, nel nostro Paese ne sono stati recuperati 24,1 milioni, il valore assoluto più elevato tra tutti i paesi europei (in Germania sono 22,4). Milano, la città dell’EXPO è, insieme a Vienna, per raccolta differenziata, in cima alla classifica delle metropoli europee sopra il milione di abitanti e ha nel mondo, fra le grandi città, il primato delle persone servite dalla raccolta dell’organico.

L’ottavo selfie sostiene che “Con la cultura l’Italia mangia”. La filiera italiana della cultura – comprensiva del valore prodotto dalle industrie culturali e creative, ma anche da quella parte dell’economia nazionale che, come il turismo, viene ‘attivata’ dalla cultura (ogni euro prodotto dalle industrie culturali e creative ne genera 1,67 sul resto dell’economia) – vale il 15,3% del valore aggiunto nazionale: 214 miliardi di euro. Il nono selfie sostiene che “l’Italia, nell’eurozona, è la meta preferita dei turisti extraeuropei”. Siamo il primo paese per pernottamenti di turisti extra Ue, con 56 milioni di notti. Siamo la meta preferita di paesi come la Cina, il Brasile, il Giappone, la Corea del Sud,  l’Australia, gli Usa e il Canada (dati Eurostat). Un risultato che ha solide radici nella bellezza e nella cultura di cui il Paese è ricco. L’Italia, non a caso, è il Paese che nel mondo vanta il maggior numero di siti Unesco nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità (51 su 1001).

L’ultimo selfie riguarda la “coesione: una ricetta per competere”. E spiega: “Le imprese ‘coesive’ – quelle più legate alle comunità, ai lavoratori, al territorio, che investono nelle competenze, nella sostenibilità, nella qualità e bellezza – sono più competitive. Nel 2013 queste imprese hanno aumentato il fatturato nel 39% dei casi rispetto al 2012, contro il 31% delle non coesive. Hanno visto crescere l’occupazione nel 22% contro il 15%. Non è forse un caso se, tra il 2007 e il 2012, pur senza misure pubbliche a sostegno, sono imprese italiane quelle che hanno guidato – dietro gli Usa – il re-shoring mondiale e rappresentano oggi il 60% delle rilocalizzazioni europee”.

“Questi 10 selfie – conclude Ermete Realacci, presidente di Symbola – sono una rappresentazione plastica dei punti di forza del Paese e indicano con chiarezza la direzione da seguire per tornare a crescere.  Per affrontare la tempesta perfetta di questa crisi, infatti, l’Italia deve accettare le sfide di un mondo che cambia senza perdere la propria anima. E, come sta già facendo in molti campi anche senza politiche e riconoscimenti, incrociare innovazione e conoscenza con qualità, bellezza, green economy. Insomma l’Italia deve fare l’Italia”.

Capitale umano da buone scuole d’impresa

L’impresa è fatta di uomini e donne che hanno un obiettivo comune. Certo, vale anche il fatto che questa nasce da un’azienda e quindi anche dall’insieme di quelli che gli economisti chiamano strumenti di produzione. Ma l’impresa, quella vera, si sviluppa davvero nel momento in cui qualcuno ci mette la volontà umana del fare per raggiungere determinati obiettivi.

Da qui, quindi, l’importanza del cosiddetto capitale umano. Strumento di produzione anch’esso, ma pure qualcosa di più, spesso di impalpabile e indefinibile con i canoni normali dell’economia. Tutto ciò che serve per capirlo meglio è allora importante. Come l’articolo di Carla Altobelli (del Ministero per lo Sviluppo Economico), da poco pubblicato da Argomenti che cerca mettere in fila il ruolo e l’importanza del capitale umano nell’ambito della creazione di aziende e della cultura d’impresa partendo dalla considerazione che l’imprenditorialità possa essere considerata anche una risposta ai programmi specifici di formazione e al livello di istruzione raggiunto dalla popolazione. Perché in effetti occorre anche considerare, nello sviluppo d’impresa, il ruolo della formazione e della scuola nella nascita di imprenditori nuovi o comunque di persone capaci di “essere capitale umano” di primo livello. Senza per questo arrivare a pensare a società divise in migliori e peggiori, ma, invece, cercando di avere una scuola buona per tutti e per tutti in grado di dare il massimo.

Il ragionamento di Carla Altobelli ruota attorno al fatto che proprio il livello e la qualità del capitale umano possono produrre almeno nel lungo periodo un impatto rilevante sulla crescita, sia direttamente, sia attivando reti tra diversi attori e fenomeni di coesione sociale, di rispetto delle norme, di adeguamento ai cambiamenti tecnologici.

Non un paese di utopia, ma un traguardo che è possibile raggiungere partendo da regole, approcci e visioni della società che devono essere temperate le une con le altre e armonizzate con equilibrio. Dice Altobelli: “Una politica volta a valorizzare il capitale umano e a ridurre il gap tra mondo produttivo e sistema dell’istruzione e della formazione può rappresentare una leva efficace per sostenere la ripresa economica e per condurre il Paese sulla via della crescita”. L’articolo quindi ruota attorno a questo nodo di concetti, dandone una visione compiuta, che aspetta solamente di essere messa in pratica.

Il ruolo del capitale umano nei processi imprenditoriali e come ingrediente cruciale per la crescita

Carla Altobelli (Ministero per lo Sviluppo Economico)

Argomenti, 42,2014

L’impresa è fatta di uomini e donne che hanno un obiettivo comune. Certo, vale anche il fatto che questa nasce da un’azienda e quindi anche dall’insieme di quelli che gli economisti chiamano strumenti di produzione. Ma l’impresa, quella vera, si sviluppa davvero nel momento in cui qualcuno ci mette la volontà umana del fare per raggiungere determinati obiettivi.

Da qui, quindi, l’importanza del cosiddetto capitale umano. Strumento di produzione anch’esso, ma pure qualcosa di più, spesso di impalpabile e indefinibile con i canoni normali dell’economia. Tutto ciò che serve per capirlo meglio è allora importante. Come l’articolo di Carla Altobelli (del Ministero per lo Sviluppo Economico), da poco pubblicato da Argomenti che cerca mettere in fila il ruolo e l’importanza del capitale umano nell’ambito della creazione di aziende e della cultura d’impresa partendo dalla considerazione che l’imprenditorialità possa essere considerata anche una risposta ai programmi specifici di formazione e al livello di istruzione raggiunto dalla popolazione. Perché in effetti occorre anche considerare, nello sviluppo d’impresa, il ruolo della formazione e della scuola nella nascita di imprenditori nuovi o comunque di persone capaci di “essere capitale umano” di primo livello. Senza per questo arrivare a pensare a società divise in migliori e peggiori, ma, invece, cercando di avere una scuola buona per tutti e per tutti in grado di dare il massimo.

Il ragionamento di Carla Altobelli ruota attorno al fatto che proprio il livello e la qualità del capitale umano possono produrre almeno nel lungo periodo un impatto rilevante sulla crescita, sia direttamente, sia attivando reti tra diversi attori e fenomeni di coesione sociale, di rispetto delle norme, di adeguamento ai cambiamenti tecnologici.

Non un paese di utopia, ma un traguardo che è possibile raggiungere partendo da regole, approcci e visioni della società che devono essere temperate le une con le altre e armonizzate con equilibrio. Dice Altobelli: “Una politica volta a valorizzare il capitale umano e a ridurre il gap tra mondo produttivo e sistema dell’istruzione e della formazione può rappresentare una leva efficace per sostenere la ripresa economica e per condurre il Paese sulla via della crescita”. L’articolo quindi ruota attorno a questo nodo di concetti, dandone una visione compiuta, che aspetta solamente di essere messa in pratica.

Il ruolo del capitale umano nei processi imprenditoriali e come ingrediente cruciale per la crescita

Carla Altobelli (Ministero per lo Sviluppo Economico)

Argomenti, 42,2014

Emigranti d’impresa

La cultura d’impresa è ovunque e nasce ovunque. Non si tratta di un concetto buonista, ma della constatazione della realtà storica che si coglie guardando allo sviluppo economico così come alle storie di singole – tante -, imprese. Poter sapere di più e meglio dell’evoluzione di queste ultime, quindi, è utile e importante per comprendere più a fondo  tutto il resto. E’ bello e interessante, per esempio, leggere “Entrepreneurs in Family Business Dynasties” che racconta che cosa è accaduto fra l’Italia e l’Australia dal secolo scorso fino ad oggi in tema di imprese, famiglie imprenditoriali e immigrazione. Perché, come si è detto poco sopra, l’impresa e la sua cultura sono e nascono ovunque. Anche dagli immigrati, anche nell’altro capo del globo.

Il libro – scritto da Laura Hougaz impegnata nel National Senior Researcher e responsabile del Journal for Private Higher Education with the Australian Council for Private Education and Training (ACPET) -, racconta la storia e l’evoluzione di sette dinastie di imprenditori italiani emigrati in Australia lungo circa 100 anni e attraverso tre generazioni ed a partire dalla generazione fondatrice nella prima metà del XX secolo. Tempi eroici e gesta eroiche anche se impersonate da figure di normali emigranti, che tuttavia spiegano bene come alla fine dei conti l’impresa può nascere in modi inaspettati. Tutto partendo dall’Australia che è stata una delle mete d’eccellenza della emigrazione italiana dello scorso secolo.

“Con un duro lavoro e sacrifici – spiega l’autrice -, queste famiglie hanno posto le basi di una cultura di lunga durata e di valori che costituiscono il collante” di un atteggiamento imprenditoriale familiare multigenerazionale. Il libro quindi si concentra sui valori personali, della famiglia e del business che hanno consentito, attraverso le generazioni, la crescita di imprese di successo.

Fra i temi trattati: la complessità della famiglia imprenditoriale italiana emigrata, i valori messi in pratica (l’affarismo, l’altruismo e la fedeltà), alcune storie familiari,  le fasi della creazione delle singole imprese italiane in Australia, gli aspetti legati alla ereditarietà delle conoscenze, alla formazione d’impresa familiare.

Racconto e analisi attenta, il volume prende per mano il lettore e lo conduce per davvero attraverso la storia generale dell’emigrazione e dell’economia italiana in Australia ma anche dentro alle storie di generazioni di emigranti. Emergono così dalle circa 200 pagine del libro le vicende dei Carazza, dei Costa, dei Genovese e dei Grollo, dei Piedimonte, dei Pizzini e ancora dei Vaccari, tutti imprenditori a tutto tondo, migranti per dovere di sopravvivenza e uomini d’impresa per vocazione.

Entrepreneurs in Family Business Dynasties. Stories of Italian-Australian businesses over 100 years

Laura Hougaz

Springer-Verlag, 2015

La cultura d’impresa è ovunque e nasce ovunque. Non si tratta di un concetto buonista, ma della constatazione della realtà storica che si coglie guardando allo sviluppo economico così come alle storie di singole – tante -, imprese. Poter sapere di più e meglio dell’evoluzione di queste ultime, quindi, è utile e importante per comprendere più a fondo  tutto il resto. E’ bello e interessante, per esempio, leggere “Entrepreneurs in Family Business Dynasties” che racconta che cosa è accaduto fra l’Italia e l’Australia dal secolo scorso fino ad oggi in tema di imprese, famiglie imprenditoriali e immigrazione. Perché, come si è detto poco sopra, l’impresa e la sua cultura sono e nascono ovunque. Anche dagli immigrati, anche nell’altro capo del globo.

Il libro – scritto da Laura Hougaz impegnata nel National Senior Researcher e responsabile del Journal for Private Higher Education with the Australian Council for Private Education and Training (ACPET) -, racconta la storia e l’evoluzione di sette dinastie di imprenditori italiani emigrati in Australia lungo circa 100 anni e attraverso tre generazioni ed a partire dalla generazione fondatrice nella prima metà del XX secolo. Tempi eroici e gesta eroiche anche se impersonate da figure di normali emigranti, che tuttavia spiegano bene come alla fine dei conti l’impresa può nascere in modi inaspettati. Tutto partendo dall’Australia che è stata una delle mete d’eccellenza della emigrazione italiana dello scorso secolo.

“Con un duro lavoro e sacrifici – spiega l’autrice -, queste famiglie hanno posto le basi di una cultura di lunga durata e di valori che costituiscono il collante” di un atteggiamento imprenditoriale familiare multigenerazionale. Il libro quindi si concentra sui valori personali, della famiglia e del business che hanno consentito, attraverso le generazioni, la crescita di imprese di successo.

Fra i temi trattati: la complessità della famiglia imprenditoriale italiana emigrata, i valori messi in pratica (l’affarismo, l’altruismo e la fedeltà), alcune storie familiari,  le fasi della creazione delle singole imprese italiane in Australia, gli aspetti legati alla ereditarietà delle conoscenze, alla formazione d’impresa familiare.

Racconto e analisi attenta, il volume prende per mano il lettore e lo conduce per davvero attraverso la storia generale dell’emigrazione e dell’economia italiana in Australia ma anche dentro alle storie di generazioni di emigranti. Emergono così dalle circa 200 pagine del libro le vicende dei Carazza, dei Costa, dei Genovese e dei Grollo, dei Piedimonte, dei Pizzini e ancora dei Vaccari, tutti imprenditori a tutto tondo, migranti per dovere di sopravvivenza e uomini d’impresa per vocazione.

Entrepreneurs in Family Business Dynasties. Stories of Italian-Australian businesses over 100 years

Laura Hougaz

Springer-Verlag, 2015

Italiani esploratori d’impresa

Bravi imprenditori italiani nel mondo, ma anche manager, ricercatori, pensatori e creativi. Ma come? E perché? Domande apparentemente retoriche e scontate, ma, invece, molto importanti per capire come lo spirito imprenditoriale nazionale abbia vinto e vinca ancora davvero globalmente. Si dice infatti che l’impresa italiana – intesa non solo coma fabbrica ma in senso più vasto di “capacità di fare”  – abbia caratteristiche uniche e vincenti. Una cultura d’impresa che tutti ci invidiano. Eppure, l’Italia stenta a crescere, zoppica a camminare verso lo sviluppo, appare ammaccata, stanca e confusa. Eppure – ancora – questa stessa Italia continua a sfornare talenti, imprese d’eccellenza, profitti, campioni d’imprenditoria. Che vanno in tutto il mondo. Ma a volte tornano.

Proprio per comprendere l’assurdità vincente della maestria italiana nel mondo e ritorno, Roberto Bonzio – ex-giornalista dell’agenzia Reuters ma nato alla Gazzetta  di Venezia, adesso esploratore globale della creatività nazionale -, ha avviato qualche anno fa una iniziativa – Italiani di frontiera – adesso finita in un omonimo libro in corso di pubblicazione.

Che cosa siano il volume e il progetto che lo ha generato, lo spiega lo stesso Bonzio. “Com’è possibile? – dice -, Com’è possibile che il Paese che ha generato il Rinascimento e oggi continua a sfornare talenti, capaci di immaginare il futuro e primeggiare in campo globale dalla scienza, all’innovazione, all’impresa, sembri livido, diffidente del domani e votato alla decadenza?”. Da qui, quindi Italiani di Frontiera cioè “un progetto multimediale dal West al Web, ‘Dall’Italia alla California e ritorno’, che inseguendo lo spirito d’impresa degli italiani, questa contraddizione la vuol sfidare. Con un giornalismo creativo”. Adesso finito tutto in un libro.

Il volume, quindi, racconta un lungo viaggio di Bonzio in California ma anche le storie di italiani che dal’Italia sono partiti per affrontare sfide che, poi, hanno vinto, soprattutto nella Silicon Valley assunta ad esempio di terra nella quale l’iniziativa, se valida, vince, e qualche volta può anche provocare “ritorni” all’origine importanti e di successo.

Bonzio, però, non si limita a questo ma unisce le esperienze di lavoro e d’impresa scoperte con la più generale esperienza del viaggio e della scoperta, del sacrificio e dei valori nei quali si crede per davvero. Per questo, come una sorta di suggello che chiarisce e spiega, l’ex cronista della Reuters ha come guida la letteratura di Jospeh Conrand nella spiegazione data da Claudio Magris in un articolo sul Corriere della Sera di qualche anno fa che in un passaggio dice: “Il mare, per Conrad, è come la vita; incanto e orrore, abbandono e naufragio, consunzione, immortalità, distruzione. Nascere, dice Stein in Lord Jim, è come cadere in mare e bisogna farsi sostenere dal mare senza fondo. Non c’è un fondamento saldo su cui poggiare; non ci sono fedi o filosofie precise che garantiscano la scelta e la bontà delle azioni. Come Conrad, forse noi non sappiamo perché sia giusto essere fedeli e leali, combattere piuttosto che disertare, ma, come lui, in qualche modo sappiamo che è giusto”.

“Italiani di frontiera”, è la sintesi su carta di tutto questo: da leggere e meditare.

Bravi imprenditori italiani nel mondo, ma anche manager, ricercatori, pensatori e creativi. Ma come? E perché? Domande apparentemente retoriche e scontate, ma, invece, molto importanti per capire come lo spirito imprenditoriale nazionale abbia vinto e vinca ancora davvero globalmente. Si dice infatti che l’impresa italiana – intesa non solo coma fabbrica ma in senso più vasto di “capacità di fare”  – abbia caratteristiche uniche e vincenti. Una cultura d’impresa che tutti ci invidiano. Eppure, l’Italia stenta a crescere, zoppica a camminare verso lo sviluppo, appare ammaccata, stanca e confusa. Eppure – ancora – questa stessa Italia continua a sfornare talenti, imprese d’eccellenza, profitti, campioni d’imprenditoria. Che vanno in tutto il mondo. Ma a volte tornano.

Proprio per comprendere l’assurdità vincente della maestria italiana nel mondo e ritorno, Roberto Bonzio – ex-giornalista dell’agenzia Reuters ma nato alla Gazzetta  di Venezia, adesso esploratore globale della creatività nazionale -, ha avviato qualche anno fa una iniziativa – Italiani di frontiera – adesso finita in un omonimo libro in corso di pubblicazione.

Che cosa siano il volume e il progetto che lo ha generato, lo spiega lo stesso Bonzio. “Com’è possibile? – dice -, Com’è possibile che il Paese che ha generato il Rinascimento e oggi continua a sfornare talenti, capaci di immaginare il futuro e primeggiare in campo globale dalla scienza, all’innovazione, all’impresa, sembri livido, diffidente del domani e votato alla decadenza?”. Da qui, quindi Italiani di Frontiera cioè “un progetto multimediale dal West al Web, ‘Dall’Italia alla California e ritorno’, che inseguendo lo spirito d’impresa degli italiani, questa contraddizione la vuol sfidare. Con un giornalismo creativo”. Adesso finito tutto in un libro.

Il volume, quindi, racconta un lungo viaggio di Bonzio in California ma anche le storie di italiani che dal’Italia sono partiti per affrontare sfide che, poi, hanno vinto, soprattutto nella Silicon Valley assunta ad esempio di terra nella quale l’iniziativa, se valida, vince, e qualche volta può anche provocare “ritorni” all’origine importanti e di successo.

Bonzio, però, non si limita a questo ma unisce le esperienze di lavoro e d’impresa scoperte con la più generale esperienza del viaggio e della scoperta, del sacrificio e dei valori nei quali si crede per davvero. Per questo, come una sorta di suggello che chiarisce e spiega, l’ex cronista della Reuters ha come guida la letteratura di Jospeh Conrand nella spiegazione data da Claudio Magris in un articolo sul Corriere della Sera di qualche anno fa che in un passaggio dice: “Il mare, per Conrad, è come la vita; incanto e orrore, abbandono e naufragio, consunzione, immortalità, distruzione. Nascere, dice Stein in Lord Jim, è come cadere in mare e bisogna farsi sostenere dal mare senza fondo. Non c’è un fondamento saldo su cui poggiare; non ci sono fedi o filosofie precise che garantiscano la scelta e la bontà delle azioni. Come Conrad, forse noi non sappiamo perché sia giusto essere fedeli e leali, combattere piuttosto che disertare, ma, come lui, in qualche modo sappiamo che è giusto”.

“Italiani di frontiera”, è la sintesi su carta di tutto questo: da leggere e meditare.

Imprenditori cattolici per davvero

Etica e impresa possono andare di pari passo. Basta volerlo. Anche se non è facile. E, in effetti, l’esplorazione dei percorsi di che avvicinano la gestione d’impresa con una visione etica della vita, è attività non solo oggi. Quando, poi, alla “semplice” generica etica si sostituisce l’approccio cristiano e cattolico e li si avvicina all’essere imprenditori, la questione si fa più complessa e, forse, ancora più interessante. 

E’ quanto ha provato a fare Antonio Argandoña (dello IESE, Business School, Università della Navarra, Barcellona, Spagna), in un articolo pubblicato da Humanism in Economics and Business appena qualche settimana fa. 

Argandoña affronta dalle prime righe il tema più che impegnativo: un cattolico, spiega, è una persona che, al di là del senso di vita o di pratiche morali o spirituali, dovrebbe seguire l’insegnamento della Chiesa cattolica anche nell’operato di tutti i giorni. Anche se imprenditore e quindi anche se legato dalla logica economica all’ottenimento del profotti alla fine del suo lavoro. 

Insomma, per Argandoña non solo imprenditoria ed etica possono essere collegate, ma questo collegamento è in qualche modo obbligatorio quando chi è imprenditore si ritrova pure ad essere cristiano e  cattolico. Precisazione d’obbligo, come si sa, visto che l’etica cattolica dell’economia può  differire da quella cristiana ma protestante (non farebbe male, a questo proposito, tornare a scorrere le pagine dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber). 

Il cristiano – è quindi l’idea di base dell’articolo -, è visto come una persona con una visione peculiare della vita e dei suoi obiettivi. Ma spesso, molto spesso, la volontà dell’etica cattolica dell’economia deve fare i conti con una realtà più pesante, stringente e spesso vincente. “Eppure – dice infatti l’autore -, quando vediamo il cristiano, e più in particolare la Chiesa cattolica, come un imprenditore o manager, cioè impegnato nel compito di creare e gestire imprese, la sua attività verso l’esterno non sembra diversa da quella di altri imprenditori, non cristiane”. E’ l’esplicitarsi del conflitto – eterno per certi versi – fra spinte della morale cristiana e provocazioni materiali. Conflitto apparente in molti casi, reale e concreto in molti altri. 

Lo scopo dell’articolo è quello di capire quindi ciò che rende il cattolico che lavora un “imprenditore diverso”, attento all’altro, concentrato sul profitto ma anche sul percorso più eticamente cristiano per raggiungerlo.  L’obiettivo di Argandoña è anche quello di rispondere alle domande che ci si può porre circa i vantaggi e gli svantaggi di essere un cattolico. 

“Noi sosteniamo – viene spiegato -, che la religione fornisce ai manager una visione più ampia della loro attività e li aiuta a comprendere le ragioni del comportamento etico”. Con un traguardo possibile da raggiungere: profitto ed etica cristiana cattolica non sono incompatibili.

Percorrere un tratto di strada lungo il ragionamento che unisce etica cattolica ed azione imprenditoriale, è utile a tutti. Anche a chi cristiano e cattolico non è. E, naturalmente, anche a chi dice essere tale. 

Download pdf

Why Is a Catholic Manager Different?

Antonio Argandoña (IESE, Business School, Università della Navarra, Barcellona, Spagna)

Humanism in Economics and Business. Issues in Business Ethics Volume 43, 2015, pp 201-214

Etica e impresa possono andare di pari passo. Basta volerlo. Anche se non è facile. E, in effetti, l’esplorazione dei percorsi di che avvicinano la gestione d’impresa con una visione etica della vita, è attività non solo oggi. Quando, poi, alla “semplice” generica etica si sostituisce l’approccio cristiano e cattolico e li si avvicina all’essere imprenditori, la questione si fa più complessa e, forse, ancora più interessante. 

E’ quanto ha provato a fare Antonio Argandoña (dello IESE, Business School, Università della Navarra, Barcellona, Spagna), in un articolo pubblicato da Humanism in Economics and Business appena qualche settimana fa. 

Argandoña affronta dalle prime righe il tema più che impegnativo: un cattolico, spiega, è una persona che, al di là del senso di vita o di pratiche morali o spirituali, dovrebbe seguire l’insegnamento della Chiesa cattolica anche nell’operato di tutti i giorni. Anche se imprenditore e quindi anche se legato dalla logica economica all’ottenimento del profotti alla fine del suo lavoro. 

Insomma, per Argandoña non solo imprenditoria ed etica possono essere collegate, ma questo collegamento è in qualche modo obbligatorio quando chi è imprenditore si ritrova pure ad essere cristiano e  cattolico. Precisazione d’obbligo, come si sa, visto che l’etica cattolica dell’economia può  differire da quella cristiana ma protestante (non farebbe male, a questo proposito, tornare a scorrere le pagine dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber). 

Il cristiano – è quindi l’idea di base dell’articolo -, è visto come una persona con una visione peculiare della vita e dei suoi obiettivi. Ma spesso, molto spesso, la volontà dell’etica cattolica dell’economia deve fare i conti con una realtà più pesante, stringente e spesso vincente. “Eppure – dice infatti l’autore -, quando vediamo il cristiano, e più in particolare la Chiesa cattolica, come un imprenditore o manager, cioè impegnato nel compito di creare e gestire imprese, la sua attività verso l’esterno non sembra diversa da quella di altri imprenditori, non cristiane”. E’ l’esplicitarsi del conflitto – eterno per certi versi – fra spinte della morale cristiana e provocazioni materiali. Conflitto apparente in molti casi, reale e concreto in molti altri. 

Lo scopo dell’articolo è quello di capire quindi ciò che rende il cattolico che lavora un “imprenditore diverso”, attento all’altro, concentrato sul profitto ma anche sul percorso più eticamente cristiano per raggiungerlo.  L’obiettivo di Argandoña è anche quello di rispondere alle domande che ci si può porre circa i vantaggi e gli svantaggi di essere un cattolico. 

“Noi sosteniamo – viene spiegato -, che la religione fornisce ai manager una visione più ampia della loro attività e li aiuta a comprendere le ragioni del comportamento etico”. Con un traguardo possibile da raggiungere: profitto ed etica cristiana cattolica non sono incompatibili.

Percorrere un tratto di strada lungo il ragionamento che unisce etica cattolica ed azione imprenditoriale, è utile a tutti. Anche a chi cristiano e cattolico non è. E, naturalmente, anche a chi dice essere tale. 

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Why Is a Catholic Manager Different?

Antonio Argandoña (IESE, Business School, Università della Navarra, Barcellona, Spagna)

Humanism in Economics and Business. Issues in Business Ethics Volume 43, 2015, pp 201-214

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