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Lavoro, ruolo maggiore per le donne, migliore sviluppo. E una bella mostra In Fondazione Pirelli

Se l’occupazione femminile salisse al 60%, secondo il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona, il Pil italiano crescerebbe del 7%. Lavoro femminile come ricchezza, dunque. Ma anche come qualità e sostenibilità dello sviluppo. Lo documenta uno studio della Banca d’Italia, lo ripete “Il potere delle donne”, un bel libro d’una giornalista acuta e competente, Maria Latella (il suo volume è pubblicato da Feltrinelli). Interessante indicazione, per la politica, l’economia, le imprese (se ne è spesso parlato, anche nelle pagine di questo blog). Con una scelta in più da fare. Come si ricava da una puntuta, incisiva dichiarazione di Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale: “In un mondo in cerca di crescita le donne potrebbero essere un valido aiuto, ma solo a patto che siano presenti condizioni di parità, invece di insidiosi complotti”.

La frase della Lagarde coglie una questione fondamentale, l’equilibrio paritario di opportunità e dunque il riequilibrio delle condizioni di partenza (spesso svantaggiate per le donne) e indica la necessità di una vera e propria svolta nella cultura d’impresa, nella governance, nella costruzione di un sistema di valori che scardini anche la tradizionale “cultura del potere” ancora predominante in chiave maschile. Ed è una scelta opportuna che quella frase apra una piccola, curatissima raccolta di cartoline su donne e lavoro organizzata dalla Fondazione Pirelli in occasione dell’8 marzo. La “Giornata internazionale della donna” è infatti interpretata non come un rito o un evento, ma come l’opportunità d’una riflessione più lunga e profonda su ruoli e contributi femminili ai processi economici e produttivi, nella storia e nell’attualità. Dunque, ecco una mostra di documenti (libretti di lavoro lungo il corso del Novecento, certificati, schede, leggi, disposizioni amministrative, contratti, etc.) e di immagini, che vanno dai luoghi e dai processi di lavoro alle pubblicità Pirelli, dai prodotti di prevalente uso femminile alle fotografie firmate da grandi autori (Ugo Mulas, per fare un solo nome). Grande, l’interesse del pubblico interno all’azienda. Un centinaio di persone al giorno, in Fondazione, nell’intervallo di pranzo, per prendere un caffè e guardare carte, foto e pubblicità. Uno stimolante contributo alla memoria e alla contemporaneità, un gioco di identità che rafforza senso d’appartenenza e spessore del capitale umano (sta anche qui la buona cultura d’impresa, no?).

Tra le iniziative in Fondazione, c’è anche una rassegna di film e una serie di incontri con registe e attrici: si comincia il 18 marzo con Alina Marazzi e il suo “Vogliamo anche le rose”, si continua con “Come l’ombra” di Marina Spada il 25 marzo e “Scialla” di Francesco Bruni intepretato anche da Arianna Scommegna il 15 aprile, per concludere con “Quando la notte” di Cristina Comencini il 24 aprile. Gioco di immagini, racconti, riflessioni, responsabilità, progetti. Un’altra importante incrinatura nell’acronistico ma ancora incombente “soffitto di cristallo”.

Se l’occupazione femminile salisse al 60%, secondo il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona, il Pil italiano crescerebbe del 7%. Lavoro femminile come ricchezza, dunque. Ma anche come qualità e sostenibilità dello sviluppo. Lo documenta uno studio della Banca d’Italia, lo ripete “Il potere delle donne”, un bel libro d’una giornalista acuta e competente, Maria Latella (il suo volume è pubblicato da Feltrinelli). Interessante indicazione, per la politica, l’economia, le imprese (se ne è spesso parlato, anche nelle pagine di questo blog). Con una scelta in più da fare. Come si ricava da una puntuta, incisiva dichiarazione di Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale: “In un mondo in cerca di crescita le donne potrebbero essere un valido aiuto, ma solo a patto che siano presenti condizioni di parità, invece di insidiosi complotti”.

La frase della Lagarde coglie una questione fondamentale, l’equilibrio paritario di opportunità e dunque il riequilibrio delle condizioni di partenza (spesso svantaggiate per le donne) e indica la necessità di una vera e propria svolta nella cultura d’impresa, nella governance, nella costruzione di un sistema di valori che scardini anche la tradizionale “cultura del potere” ancora predominante in chiave maschile. Ed è una scelta opportuna che quella frase apra una piccola, curatissima raccolta di cartoline su donne e lavoro organizzata dalla Fondazione Pirelli in occasione dell’8 marzo. La “Giornata internazionale della donna” è infatti interpretata non come un rito o un evento, ma come l’opportunità d’una riflessione più lunga e profonda su ruoli e contributi femminili ai processi economici e produttivi, nella storia e nell’attualità. Dunque, ecco una mostra di documenti (libretti di lavoro lungo il corso del Novecento, certificati, schede, leggi, disposizioni amministrative, contratti, etc.) e di immagini, che vanno dai luoghi e dai processi di lavoro alle pubblicità Pirelli, dai prodotti di prevalente uso femminile alle fotografie firmate da grandi autori (Ugo Mulas, per fare un solo nome). Grande, l’interesse del pubblico interno all’azienda. Un centinaio di persone al giorno, in Fondazione, nell’intervallo di pranzo, per prendere un caffè e guardare carte, foto e pubblicità. Uno stimolante contributo alla memoria e alla contemporaneità, un gioco di identità che rafforza senso d’appartenenza e spessore del capitale umano (sta anche qui la buona cultura d’impresa, no?).

Tra le iniziative in Fondazione, c’è anche una rassegna di film e una serie di incontri con registe e attrici: si comincia il 18 marzo con Alina Marazzi e il suo “Vogliamo anche le rose”, si continua con “Come l’ombra” di Marina Spada il 25 marzo e “Scialla” di Francesco Bruni intepretato anche da Arianna Scommegna il 15 aprile, per concludere con “Quando la notte” di Cristina Comencini il 24 aprile. Gioco di immagini, racconti, riflessioni, responsabilità, progetti. Un’altra importante incrinatura nell’acronistico ma ancora incombente “soffitto di cristallo”.

L’utile cultura territoriale d’impresa

Le imprese creative spesso vanno a braccetto di territori creativi. Le prime complementari ai secondi, in un nodo di rapporti complessi fatti di comunicazione, storie, movimenti sociali, spunti produttivi, occasioni di mercato. E capire come possono nascere nuove imprese e in quali territori è importante, così come lo è comprendere il modo con cui quelle esistenti si devono trasformare, a partire dalla propria cultura, per stare al passo con i mercati e le richieste dell’ambiente in cui sono immerse. Tutto sulla base dell’innovazione assunta a “motore” di cambiamento insieme al mercato.

Leggere “Creatività, innovazione e attrattività dei territori” di Andrea Salvatore Antonio Barbieri è utile per capire proprio l’intreccio fra innovazione, creatività, imprese e territori.

Appena pubblicata dal CNR (e in particolare dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali), la ricerca parte da una serie di considerazioni. “Negli ultimi decenni la scienza ha fatto passi da gigante – spiega l’autore -. Le scoperte di primaria importanza si sono moltiplicate, soprattutto grazie ai progressi considerevoli nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Oggi la principale questione è riuscire a trarre partito da questo stock di conoscenze, a trasformarle in prodotti, in servizi, in fattori della qualità della vita. Ed è in questa attività di passaggio, di trasformazione, di adattamento, cioè in innovazione, nel senso stretto del termine, che si situano le più importanti «poste in gioco» per la nostra prosperità, il nostro comfort e per l’«armonia sociale» alla quale aspira la società europea e, in generale, quella occidentale”. Una partita nella quale proprio le imprese, le fabbriche, le manifatture, gli uomini e le donne che in queste vivono e lavorano giocano un ruolo importante.

Si tratta di creare le condizioni adatte perché in un determinato territorio personaggi innovativi e creativi abbiano modo di diventare imprenditori partendo da una cultura che si fa d’impresa.

Barbieri quindi, elenca “nove raccomandazioni per l’azione” in maniera da far diventare i “creatori” imprenditori, oltre che alcuni dettagliati punti determinanti per la nascita e lo sviluppo delle imprese. “Alcuni di questi numerosi fattori e modelli dell’innovare – scrive ancora l’autore -, sono legati all’high– tech (ad esempio gli usi, molteplici ed inventivi, di Internet). Altri richiamano al buon senso e alla convivialità nelle diverse reti sociali. E suggeriscono di far dialogare organismi pubblici e privati che, abitualmente, si ignorano, a mobilitarli in favore di micro–progetti, alcuni dei quali assumo una dimensione regionale – se non nazionale”.

Da qui una serie di esempi che suggeriscono alcune strade di sviluppo come l’innovazione partecipativa nelle imprese, le regioni e i grandi progetti pubblici o il management del sistema sociale e sanitario.

Scritta in maniera chiara e scorrevole, questa ricerca fornisce un’immagine diversa del come cultura del territorio e cultura d’impresa possono utilmente unirsi per far nascere realtà prima assenti.

Creatività, innovazione e attrattività dei territori

Andrea Salvatore Antonio Barbieri (CNR ‐ Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali)

IRPPS, Monografie, 2015

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Le imprese creative spesso vanno a braccetto di territori creativi. Le prime complementari ai secondi, in un nodo di rapporti complessi fatti di comunicazione, storie, movimenti sociali, spunti produttivi, occasioni di mercato. E capire come possono nascere nuove imprese e in quali territori è importante, così come lo è comprendere il modo con cui quelle esistenti si devono trasformare, a partire dalla propria cultura, per stare al passo con i mercati e le richieste dell’ambiente in cui sono immerse. Tutto sulla base dell’innovazione assunta a “motore” di cambiamento insieme al mercato.

Leggere “Creatività, innovazione e attrattività dei territori” di Andrea Salvatore Antonio Barbieri è utile per capire proprio l’intreccio fra innovazione, creatività, imprese e territori.

Appena pubblicata dal CNR (e in particolare dall’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali), la ricerca parte da una serie di considerazioni. “Negli ultimi decenni la scienza ha fatto passi da gigante – spiega l’autore -. Le scoperte di primaria importanza si sono moltiplicate, soprattutto grazie ai progressi considerevoli nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Oggi la principale questione è riuscire a trarre partito da questo stock di conoscenze, a trasformarle in prodotti, in servizi, in fattori della qualità della vita. Ed è in questa attività di passaggio, di trasformazione, di adattamento, cioè in innovazione, nel senso stretto del termine, che si situano le più importanti «poste in gioco» per la nostra prosperità, il nostro comfort e per l’«armonia sociale» alla quale aspira la società europea e, in generale, quella occidentale”. Una partita nella quale proprio le imprese, le fabbriche, le manifatture, gli uomini e le donne che in queste vivono e lavorano giocano un ruolo importante.

Si tratta di creare le condizioni adatte perché in un determinato territorio personaggi innovativi e creativi abbiano modo di diventare imprenditori partendo da una cultura che si fa d’impresa.

Barbieri quindi, elenca “nove raccomandazioni per l’azione” in maniera da far diventare i “creatori” imprenditori, oltre che alcuni dettagliati punti determinanti per la nascita e lo sviluppo delle imprese. “Alcuni di questi numerosi fattori e modelli dell’innovare – scrive ancora l’autore -, sono legati all’high– tech (ad esempio gli usi, molteplici ed inventivi, di Internet). Altri richiamano al buon senso e alla convivialità nelle diverse reti sociali. E suggeriscono di far dialogare organismi pubblici e privati che, abitualmente, si ignorano, a mobilitarli in favore di micro–progetti, alcuni dei quali assumo una dimensione regionale – se non nazionale”.

Da qui una serie di esempi che suggeriscono alcune strade di sviluppo come l’innovazione partecipativa nelle imprese, le regioni e i grandi progetti pubblici o il management del sistema sociale e sanitario.

Scritta in maniera chiara e scorrevole, questa ricerca fornisce un’immagine diversa del come cultura del territorio e cultura d’impresa possono utilmente unirsi per far nascere realtà prima assenti.

Creatività, innovazione e attrattività dei territori

Andrea Salvatore Antonio Barbieri (CNR ‐ Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali)

IRPPS, Monografie, 2015

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Buon clima, buona produzione

Si lavora meglio in un ambiente sereno. E si produce meglio in luoghi in cui impresa e lavoro vanno di pari passo, dove c’è una comunanza di idee che va al di là del profitto e del salario. Assunti che dovrebbero essere scontati, quelli che spiegano il valore del creare un “buon clima” in azienda, sono in realtà non sempre applicati e, qualche volta, nemmeno ben conosciuti e ragionati. Eppure, in fabbrica come negli uffici, passa proprio dal “clima aziendale” una certa parte – importante -, del risultato d’impresa. E della forma che la cultura d’azienda riesce ad assumere.

Per capire meglio, anche in questo caso servono buone guide. E lo è “Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone”, fatica di Stefano Basaglia e Chiara Paolino che riesce in poche pagine a dare il senso ad una materia spesso astratta oppure infarcita di grande retorica buonista.

Lo spirito del libro viene spiegato molto bene dalla prefazione di Giuseppe Sodà (Direttore del Dipartimento di Management e Tecnologia, Università Bocconi e SDA Professor di Organizzazione e Personale), che dice: “Troppo spesso questo delicatissimo e cruciale legame viene studiato con metodologie approssimative, aneddotica, processi inefficaci e analisi superficiali. Infatti, non è così raro vedere circolare, tra esterrefatti dipendenti di grandi e medie aziende, questionari con domande come: «Ti senti coinvolto nella nostra azienda?» seguite da risposte Sì/No, per poi entusiasticamente comunicare che l’engagement dei collaboratori è al 94 per cento!”.

Il testo di Basaglia e Paolino è tutto il contrario della retorica. Spiega e affronta il tema cercando di stare con i piedi per terra. E ci riesce.

Due sono gli aspetti che convivono nelle circa 240 pagine del volume. Da una parte si tratta di un “manuale tecnico capace di illustrare, con dovizia di dettagli, una metodologia di analisi del clima che risponde ai criteri di rigore necessari ad aiutare i capi del personale e i manager a prendere decisioni e intraprendere azioni che possano davvero innescare un processo virtuoso di partecipazione attiva e contribuzione delle persone”. Dall’altra però il volume è anche “una guida attenta e dettagliata alle molteplici dimensioni in cui si articola il clima”.

Nel testo quindi si parla di contesto organizzativo (e quindi di rapporto con “il capo” e con “i pari”), ma anche di gestione della routine così come degli eventi straordinari, di soddisfazione del lavoro, di diversità e identità individuali e infine di come progettare e realizzare indagini sul tipo di clima presente in azienda.  Chiude il tutto l’approfondimento di un caso studio, quello di Telecom Italia.

“Clima aziendale” è quindi una lettura da fare con attenzione. Con l’idea di trovare spunti utili per ogni organizzazione e per ogni “aria d’azienda”.

Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone

Stefano Basaglia, Chiara Paolino

Egea, 2015

Si lavora meglio in un ambiente sereno. E si produce meglio in luoghi in cui impresa e lavoro vanno di pari passo, dove c’è una comunanza di idee che va al di là del profitto e del salario. Assunti che dovrebbero essere scontati, quelli che spiegano il valore del creare un “buon clima” in azienda, sono in realtà non sempre applicati e, qualche volta, nemmeno ben conosciuti e ragionati. Eppure, in fabbrica come negli uffici, passa proprio dal “clima aziendale” una certa parte – importante -, del risultato d’impresa. E della forma che la cultura d’azienda riesce ad assumere.

Per capire meglio, anche in questo caso servono buone guide. E lo è “Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone”, fatica di Stefano Basaglia e Chiara Paolino che riesce in poche pagine a dare il senso ad una materia spesso astratta oppure infarcita di grande retorica buonista.

Lo spirito del libro viene spiegato molto bene dalla prefazione di Giuseppe Sodà (Direttore del Dipartimento di Management e Tecnologia, Università Bocconi e SDA Professor di Organizzazione e Personale), che dice: “Troppo spesso questo delicatissimo e cruciale legame viene studiato con metodologie approssimative, aneddotica, processi inefficaci e analisi superficiali. Infatti, non è così raro vedere circolare, tra esterrefatti dipendenti di grandi e medie aziende, questionari con domande come: «Ti senti coinvolto nella nostra azienda?» seguite da risposte Sì/No, per poi entusiasticamente comunicare che l’engagement dei collaboratori è al 94 per cento!”.

Il testo di Basaglia e Paolino è tutto il contrario della retorica. Spiega e affronta il tema cercando di stare con i piedi per terra. E ci riesce.

Due sono gli aspetti che convivono nelle circa 240 pagine del volume. Da una parte si tratta di un “manuale tecnico capace di illustrare, con dovizia di dettagli, una metodologia di analisi del clima che risponde ai criteri di rigore necessari ad aiutare i capi del personale e i manager a prendere decisioni e intraprendere azioni che possano davvero innescare un processo virtuoso di partecipazione attiva e contribuzione delle persone”. Dall’altra però il volume è anche “una guida attenta e dettagliata alle molteplici dimensioni in cui si articola il clima”.

Nel testo quindi si parla di contesto organizzativo (e quindi di rapporto con “il capo” e con “i pari”), ma anche di gestione della routine così come degli eventi straordinari, di soddisfazione del lavoro, di diversità e identità individuali e infine di come progettare e realizzare indagini sul tipo di clima presente in azienda.  Chiude il tutto l’approfondimento di un caso studio, quello di Telecom Italia.

“Clima aziendale” è quindi una lettura da fare con attenzione. Con l’idea di trovare spunti utili per ogni organizzazione e per ogni “aria d’azienda”.

Clima aziendale. Crescere dando voce alle persone

Stefano Basaglia, Chiara Paolino

Egea, 2015

Ecco perché studiare all’estero aiuta a crescere meglio e trovare un buon lavoro

Radici. E sguardo lungo sul mondo. E’ l’antica lezione di Ernesto De Martino, grande antopologo: “Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”. Ma anche l’indicazione stategica dello storico Carlo Maria Cipolla, sull’espansione delle imprese italiane, facendo lega sull’”attitudine, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Identità di territorio, manifattura, capacità di cogliere la domanda internazionale. Vale dunque la pena, ricordando queste lezioni, riproporre ai giovani italiani un’indicazione che viene da una recente ricerca pubblicata dal SPPS Journal (la sigla sta per Social Psycological and Personality Science) e segnalata dall’Huffington Post Italia: “Studiando all’estero le persone sono in grado di pensare in maniera più complessa e creativa e di conseguenza hanno più possibilità di avere successo nel mondo del lavoro”. Lo studio è stato condotto da William Maddux, professore di sociologia associativa all’Insead.

Gli studenti presi in considerazione dalla ricerca hanno partecipato a uno scambio culturale internazionale. E si è scoperto che dopo il viaggio “la loro capacità di adattarsi a culture diverse li ha resi inclini ad effettuare associazioni d’idee molto più complesse. Non solo: l’esperienza internazionale ha influito in maniera considerevole sul numero di offerte di lavoro ricevute al termine del programma”.

Commenta Maddux: “Generalmente, le persone che hanno vissuto un’esperienza in ambito internazionale sono in grado di risolvere i problemi più velocemente e dimostrano un senso creativo più spiccato. Inoltre queste persone risultano più inclini a creare nuove attività e beni di consumo innovativi”.

Angela Leung, autrice di un altro studio, sempre citato dall’Huffington Post, sui vantaggi del vivere all’estero e delle esperienze multinazionali, aggiunge: “La piacevole e inattesa scoperta dell’effetto benefico sulla creatività delle esperienze multiculturali può dipendere da quanto e in che modo le persone riescono ad aprirsi alle culture straniere, dalla tolleranza per l’ambiguità e la diversità, dall’apertura mentale e dal sapersi rapportare al diverso”.

E’ anche possibile che le persone che decidono di studiare o lavorare all’estero siano già più aperte mentalmente? David Therriault, ricercatore sociale, ha valutato questa ipotesi. Scrive l’Huffington Post: “Paragonando gli studenti che avevano già avuto un’esperienza all’estero con quelli che programmavano di averla e quelli che non avevano mai preso in considerazione l’idea e non erano intenzionati a partire, sono stati raccolti dati sorprendenti: il primo gruppo superava di gran lunga le perfomance creative degli altri due.

Studiare o lavorare in altri paesi, quindi, può renderci pensatori più creativi, flessibili e capaci di associazioni d’idee più complesse. A patto, però, che siamo disposti ad apprendere dagli altri e ad adattarci ad altre culture”. La sintesi è di Maddux: “Se sei a Roma impara quello che fanno i romani, ma soprattutto perché lo fanno”. O, per dirla con una formula cara in Pirelli, “essere brasiliani in Brasile, tedeschi in Germania, cinesi in Cina…”

Radici. E sguardo lungo sul mondo. E’ l’antica lezione di Ernesto De Martino, grande antopologo: “Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”. Ma anche l’indicazione stategica dello storico Carlo Maria Cipolla, sull’espansione delle imprese italiane, facendo lega sull’”attitudine, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Identità di territorio, manifattura, capacità di cogliere la domanda internazionale. Vale dunque la pena, ricordando queste lezioni, riproporre ai giovani italiani un’indicazione che viene da una recente ricerca pubblicata dal SPPS Journal (la sigla sta per Social Psycological and Personality Science) e segnalata dall’Huffington Post Italia: “Studiando all’estero le persone sono in grado di pensare in maniera più complessa e creativa e di conseguenza hanno più possibilità di avere successo nel mondo del lavoro”. Lo studio è stato condotto da William Maddux, professore di sociologia associativa all’Insead.

Gli studenti presi in considerazione dalla ricerca hanno partecipato a uno scambio culturale internazionale. E si è scoperto che dopo il viaggio “la loro capacità di adattarsi a culture diverse li ha resi inclini ad effettuare associazioni d’idee molto più complesse. Non solo: l’esperienza internazionale ha influito in maniera considerevole sul numero di offerte di lavoro ricevute al termine del programma”.

Commenta Maddux: “Generalmente, le persone che hanno vissuto un’esperienza in ambito internazionale sono in grado di risolvere i problemi più velocemente e dimostrano un senso creativo più spiccato. Inoltre queste persone risultano più inclini a creare nuove attività e beni di consumo innovativi”.

Angela Leung, autrice di un altro studio, sempre citato dall’Huffington Post, sui vantaggi del vivere all’estero e delle esperienze multinazionali, aggiunge: “La piacevole e inattesa scoperta dell’effetto benefico sulla creatività delle esperienze multiculturali può dipendere da quanto e in che modo le persone riescono ad aprirsi alle culture straniere, dalla tolleranza per l’ambiguità e la diversità, dall’apertura mentale e dal sapersi rapportare al diverso”.

E’ anche possibile che le persone che decidono di studiare o lavorare all’estero siano già più aperte mentalmente? David Therriault, ricercatore sociale, ha valutato questa ipotesi. Scrive l’Huffington Post: “Paragonando gli studenti che avevano già avuto un’esperienza all’estero con quelli che programmavano di averla e quelli che non avevano mai preso in considerazione l’idea e non erano intenzionati a partire, sono stati raccolti dati sorprendenti: il primo gruppo superava di gran lunga le perfomance creative degli altri due.

Studiare o lavorare in altri paesi, quindi, può renderci pensatori più creativi, flessibili e capaci di associazioni d’idee più complesse. A patto, però, che siamo disposti ad apprendere dagli altri e ad adattarci ad altre culture”. La sintesi è di Maddux: “Se sei a Roma impara quello che fanno i romani, ma soprattutto perché lo fanno”. O, per dirla con una formula cara in Pirelli, “essere brasiliani in Brasile, tedeschi in Germania, cinesi in Cina…”

La prima in “Rosa”. Racconti di donne tra i documenti dell’Archivo Storico Pirelli

In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, la Fondazione Pirelli ripercorre oltre 140 anni di storia aziendale “al femminile” attraverso i documenti dell’Archivio Storico.

La prima fu Rosa. Rosa Navoni fu la prima donna assunta alla Pirelli di via Ponte Seveso nell’agosto del 1873: aveva solo 15 anni. Sono i documenti che parlano: libri matricola, rubriche, fascicoli del personale, fotografie che raccontano, tra le righe, la sua storia e quella di molte altre donne e che identificano volti, documentano il lavoro, testimoniano i cambiamenti avvenuti prima della guerra, durante la guerra e dopo. I racconti continuano negli anni della ricostruzione tra le pagine delle riviste aziendali, dalla Rivista Pirelli a Fatti e Notizie, con spunti di riflessione sul nuovo ruolo della donna e sulla sua emancipazione. Un universo femminile tratteggiato anche attraverso la comunicazione visiva: bozzetti, manifesti e servizi fotografici.

E lunedì 9 marzo alle ore 15 la Fondazione Pirelli ha ospitato l’ultima lezione del corso di aggiornamento per docenti:Cinema & Storia 2014-2015| La Grande Guerracon l’intervento della Dott.ssa Barbara Curli dell’Università degli Studi di Torino sul tema “Il fronte interno: mobilitazione e lavoro femminile”.

Tutti i documenti saranno esposti in Fondazione durante la settimana dedicata alla donna e per questa occasione sono state realizzate 12 nuove promocard tutte a tema femminile.

Per la comunità interna di Pirelli nei mesi di marzo e aprile nell’Auditorium dell’Headquarter sarà organizzata una rassegna cinematografica sull’universo femminile. Ogni proiezione verrà introdotta da alcune protagoniste del mondo del cinema.

In occasione dell’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, la Fondazione Pirelli ripercorre oltre 140 anni di storia aziendale “al femminile” attraverso i documenti dell’Archivio Storico.

La prima fu Rosa. Rosa Navoni fu la prima donna assunta alla Pirelli di via Ponte Seveso nell’agosto del 1873: aveva solo 15 anni. Sono i documenti che parlano: libri matricola, rubriche, fascicoli del personale, fotografie che raccontano, tra le righe, la sua storia e quella di molte altre donne e che identificano volti, documentano il lavoro, testimoniano i cambiamenti avvenuti prima della guerra, durante la guerra e dopo. I racconti continuano negli anni della ricostruzione tra le pagine delle riviste aziendali, dalla Rivista Pirelli a Fatti e Notizie, con spunti di riflessione sul nuovo ruolo della donna e sulla sua emancipazione. Un universo femminile tratteggiato anche attraverso la comunicazione visiva: bozzetti, manifesti e servizi fotografici.

E lunedì 9 marzo alle ore 15 la Fondazione Pirelli ha ospitato l’ultima lezione del corso di aggiornamento per docenti:Cinema & Storia 2014-2015| La Grande Guerracon l’intervento della Dott.ssa Barbara Curli dell’Università degli Studi di Torino sul tema “Il fronte interno: mobilitazione e lavoro femminile”.

Tutti i documenti saranno esposti in Fondazione durante la settimana dedicata alla donna e per questa occasione sono state realizzate 12 nuove promocard tutte a tema femminile.

Per la comunità interna di Pirelli nei mesi di marzo e aprile nell’Auditorium dell’Headquarter sarà organizzata una rassegna cinematografica sull’universo femminile. Ogni proiezione verrà introdotta da alcune protagoniste del mondo del cinema.

Fabbriche di cultura sociale

La fabbrica è da sempre luogo sociale oltre che produttivo. E’ per questo che la cultura d’impresa nasce anche dai luoghi della produzione, dagli ambienti, dagli uomini che mettono per davvero mano alla manifattura, oltre che dall’imprenditore che le dà forma. Capire cosa accade negli spazi fisici della produzione, quindi, è capire anche la cultura che da essa si sviluppa: insieme di sentimenti di uomini e donne e idee d’impresa.

Alice Brombin (Dottoranda in Scienze sociali, Università degli Studi di Padova), ha provato ad aggiornare proprio l’idea della fabbrica come luogo sociale e di cultura guardando all’oggi e  quindi al convivere, nelle fabbriche appunto, di operai di diversa origine, espressione del mondo globale non solo dei mercati finanziari ma delle persone. Una situazione, a ben vedere, simile a quella che decenni fa si era già creata nelle fabbriche del Nord animate dalla manodopera del Mezzorgiorno e prima ancora nelle fabbriche oltreoceano rese produttive dai migranti europei.

L’articolo – uscito qualche settimana fa nell’Archivio di Studi Urbani e Regionali -, è un po’ ricerca sociale, un po’ indagine antropologica, un po’ analisi economica; leggerlo è come fare un viaggio a ritroso nel tempo ma anche nell’oggi complesso e variegato.

“La fabbrica è  qui analizzata – dice l’autrice -, come spazio sociale dove vulnerabilità collettive si traducono in confini simbolici e spaziali”. Ma non solo. Il senso del testo si capisce bene qualche riga più sotto. La fabbrica è “intesa come spazio fisico di azione e di senso in cui agiscono individui e gruppi che intersecano habitat di significato distinti, talvolta condivisi talvolta incomprensibili ed estranei”. E ancora: “Nella fabbrica si riproducono le tensioni che attraversano la città moderna, dove la frammentazione sociale genera segregazione spaziale e gli individui creano legami e rapporti di convenienza più che di affinità o solidarietà reciproca”. Il luogo della produzione, quindi, come specchio della società nella quale l’impresa è collocata e come fonte proprio di una cultura d’impresa che si forma con contributi diversi che si influenzano gli uni con gli altri. 

Alice Brombin, quindi, esplora l’argomento conducendo chi legge da un inquadramento teorico ad un caso pratico, quello delle aziende del distretto conciario di Arzignano nel vicentino. Mettendo in evidenza come la conceria non solo “sia il luogo in cui le identità di lavoratori nazionali e stranieri vengono reciprocamente costruite, ma come la fabbrica divenga progressivamente principio interiorizzato di senso e giustificazione della presenza dei lavoratori migranti”. 

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La fabbrica: lo spazio del migrante. Il caso del distretto vicentino della concia

Alice Brombin 

Archivio di studi urbani e regionali

2014, fascicolo 110

La fabbrica è da sempre luogo sociale oltre che produttivo. E’ per questo che la cultura d’impresa nasce anche dai luoghi della produzione, dagli ambienti, dagli uomini che mettono per davvero mano alla manifattura, oltre che dall’imprenditore che le dà forma. Capire cosa accade negli spazi fisici della produzione, quindi, è capire anche la cultura che da essa si sviluppa: insieme di sentimenti di uomini e donne e idee d’impresa.

Alice Brombin (Dottoranda in Scienze sociali, Università degli Studi di Padova), ha provato ad aggiornare proprio l’idea della fabbrica come luogo sociale e di cultura guardando all’oggi e  quindi al convivere, nelle fabbriche appunto, di operai di diversa origine, espressione del mondo globale non solo dei mercati finanziari ma delle persone. Una situazione, a ben vedere, simile a quella che decenni fa si era già creata nelle fabbriche del Nord animate dalla manodopera del Mezzorgiorno e prima ancora nelle fabbriche oltreoceano rese produttive dai migranti europei.

L’articolo – uscito qualche settimana fa nell’Archivio di Studi Urbani e Regionali -, è un po’ ricerca sociale, un po’ indagine antropologica, un po’ analisi economica; leggerlo è come fare un viaggio a ritroso nel tempo ma anche nell’oggi complesso e variegato.

“La fabbrica è  qui analizzata – dice l’autrice -, come spazio sociale dove vulnerabilità collettive si traducono in confini simbolici e spaziali”. Ma non solo. Il senso del testo si capisce bene qualche riga più sotto. La fabbrica è “intesa come spazio fisico di azione e di senso in cui agiscono individui e gruppi che intersecano habitat di significato distinti, talvolta condivisi talvolta incomprensibili ed estranei”. E ancora: “Nella fabbrica si riproducono le tensioni che attraversano la città moderna, dove la frammentazione sociale genera segregazione spaziale e gli individui creano legami e rapporti di convenienza più che di affinità o solidarietà reciproca”. Il luogo della produzione, quindi, come specchio della società nella quale l’impresa è collocata e come fonte proprio di una cultura d’impresa che si forma con contributi diversi che si influenzano gli uni con gli altri. 

Alice Brombin, quindi, esplora l’argomento conducendo chi legge da un inquadramento teorico ad un caso pratico, quello delle aziende del distretto conciario di Arzignano nel vicentino. Mettendo in evidenza come la conceria non solo “sia il luogo in cui le identità di lavoratori nazionali e stranieri vengono reciprocamente costruite, ma come la fabbrica divenga progressivamente principio interiorizzato di senso e giustificazione della presenza dei lavoratori migranti”. 

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La fabbrica: lo spazio del migrante. Il caso del distretto vicentino della concia

Alice Brombin 

Archivio di studi urbani e regionali

2014, fascicolo 110

Il passato nel futuro presente

Imprese nuove accanto a fabbriche vecchie. Manifatture cariche di storia vicino a moderni laboratori carichi di tecnologia. In Italia il confronto fra le “tute blu” e i “colletti bianchi”, diventati spesso “camici bianchi”, non è finito ma si è trasformato. Così come è accaduto in molte altre aree industriali europee. Il passato non è stato cancellato del tutto: convive con il futuro passando per il presente. Così è anche della cultura d’impresa. E’ per questo che vale sempre porsi una domanda: come cambia un’area di vecchia industrializzazione sottoposta ai colpi e contraccolpi della crisi e alle spinte dello globalizzazione?

A Torino hanno provato a dare risposte alcuni ricercatori (Moneyba Gonzalez-Médina, Monica Patrizio, Nicoletta Torichio, Diletta Valentini, coordinati da Erica Melloni dell’Istituto per la ricerca sociale con la consulenza di Bruno Dente del Politecnico di Torino, nell’ambito delle iniziative di Torino Strategica), che, in un volume unico, hanno preso in considerazione i diversi aspetti legati all’internazionalizzazione dell’area metropolitana piemontese, cioè di uno dei territori più travagliati dal punto di vista industriale ed economico e quindi anche sotto il profilo della cultura d’impresa, passato dalla “fabbrica dell’auto” a quella della “manifattura d’alto livello”, ma anche a quella dei servizi, dell’ICT e della cultura a tutto tondo.

La ricerca che ha dato vita al libro “Torino Metropoli 2025. Internazionalizzazione  dell’area metropolitana  di Torino”, è stata realizzata nella seconda metà del 2014 anche con una serie di interviste ad attori del territorio. Nel volume, viene condotta una indagine accurata di Torino al cospetto del mondo. Si parte quindi dall’esame dei diversi attori economici e sociali presenti, si passa all’analisi del quadro geografico, all’approfondimento dei diversi elementi utili all’internazionalizzazione del territorio, per arrivare ad una condivisione con i personaggi intervistati. Tre gli ambiti specifici di approfondimento: “Torino nel mondo”, “Il mondo a Torino”, “Torinesi internazionali”. E’ il racconto di imprese e persone che dal locale partono per il globale oppure da questo atterrano nel territorio torinese. Con il risultato di creare, come si diceva prima, un presente in cui il passato vive già un po’ nel futuro. Senza nascondere però i problemi del cambiamento: le fabbriche abbandonate, una cultura della produzione e della convivenza che deve cambiare, le tensioni create dalla coesistenza di persone dalle origini diverse.

Leggere “Torino Metropoli 2025”, è fare una buona lettura (fra l’altro agevolata da una serie di schemi concettuali che aiutano a capire), che serve anche per chi a Torino non vive e non lavora.

Torino Metropoli 2025. Internazionalizzazione  dell’area metropolitana  di Torino 

AA.VV.

IRS, Istituto per la ricerca sociale, 2015

Imprese nuove accanto a fabbriche vecchie. Manifatture cariche di storia vicino a moderni laboratori carichi di tecnologia. In Italia il confronto fra le “tute blu” e i “colletti bianchi”, diventati spesso “camici bianchi”, non è finito ma si è trasformato. Così come è accaduto in molte altre aree industriali europee. Il passato non è stato cancellato del tutto: convive con il futuro passando per il presente. Così è anche della cultura d’impresa. E’ per questo che vale sempre porsi una domanda: come cambia un’area di vecchia industrializzazione sottoposta ai colpi e contraccolpi della crisi e alle spinte dello globalizzazione?

A Torino hanno provato a dare risposte alcuni ricercatori (Moneyba Gonzalez-Médina, Monica Patrizio, Nicoletta Torichio, Diletta Valentini, coordinati da Erica Melloni dell’Istituto per la ricerca sociale con la consulenza di Bruno Dente del Politecnico di Torino, nell’ambito delle iniziative di Torino Strategica), che, in un volume unico, hanno preso in considerazione i diversi aspetti legati all’internazionalizzazione dell’area metropolitana piemontese, cioè di uno dei territori più travagliati dal punto di vista industriale ed economico e quindi anche sotto il profilo della cultura d’impresa, passato dalla “fabbrica dell’auto” a quella della “manifattura d’alto livello”, ma anche a quella dei servizi, dell’ICT e della cultura a tutto tondo.

La ricerca che ha dato vita al libro “Torino Metropoli 2025. Internazionalizzazione  dell’area metropolitana  di Torino”, è stata realizzata nella seconda metà del 2014 anche con una serie di interviste ad attori del territorio. Nel volume, viene condotta una indagine accurata di Torino al cospetto del mondo. Si parte quindi dall’esame dei diversi attori economici e sociali presenti, si passa all’analisi del quadro geografico, all’approfondimento dei diversi elementi utili all’internazionalizzazione del territorio, per arrivare ad una condivisione con i personaggi intervistati. Tre gli ambiti specifici di approfondimento: “Torino nel mondo”, “Il mondo a Torino”, “Torinesi internazionali”. E’ il racconto di imprese e persone che dal locale partono per il globale oppure da questo atterrano nel territorio torinese. Con il risultato di creare, come si diceva prima, un presente in cui il passato vive già un po’ nel futuro. Senza nascondere però i problemi del cambiamento: le fabbriche abbandonate, una cultura della produzione e della convivenza che deve cambiare, le tensioni create dalla coesistenza di persone dalle origini diverse.

Leggere “Torino Metropoli 2025”, è fare una buona lettura (fra l’altro agevolata da una serie di schemi concettuali che aiutano a capire), che serve anche per chi a Torino non vive e non lavora.

Torino Metropoli 2025. Internazionalizzazione  dell’area metropolitana  di Torino 

AA.VV.

IRS, Istituto per la ricerca sociale, 2015

Investimenti internazionali, l’Italia torna attraente: i diversi volti d’una sfida di sviluppo

Tornano gli investimenti esteri in Italia, dopo gli anni peggiori della Grande Crisi. Gli ultimi, la scorsa settimana, sono quelli del Fondo sovrano del Qatar sui grattacieli di Porta Nuova a Milano (l’emirato ha adesso in Italia asset per 3 miliardi) e quelli dei giapponesi di Hitachi per Ansaldo Breda (i treni superveloci) e Sts, 1,9 miliardi pagati a Finmeccanica (pochi, per gioielli di eccellente tecnologia industriale? O sufficienti? Il dibattito politico ed economico impazza). Ma nel corso degli ultimi due anni ce ne sono stati tanti altri: cinesi, russi, americani, francesi (soprattutto nella moda e nel lusso), tedeschi (Audi per le moto Ducati, Volkswagen per le Mv), indiani, turchi, algerini…

L’Italia svende i gioielli di famiglia, dice una certa polemica. L’Italia è di nuovo attrattiva per investimenti che portano ricchezza e sviluppo, ribatte un’altra corrente di opinione. I dati raccontano che gli Ide in entrata (Investimenti diretti esteri) erano 45,5 miliardi nel 2006 e 48 nel 2007, poi erano precipitati a 7,1 nel 2010, a zero nel 2012 e poi finalmente tornati a crescere, a 15 sia nel 2013 che nel 2014 (Fonte: Centro Studi Confindustria). A questi, vanno aggiunti gli investimenti puramente finanziari (anche questi in ripresa).

Sempre i dati testimoniano che l’Italia, nonostante tutto, resta fanalino di coda nella Ue per investimenti internazionali, un fatto negativo che deprime la nostra economia. E a renderci poco attraenti sono la pessima, eccessiva (e corrotta) burocrazia, l’inquinamento del mercato derivante dall’intreccio tra mafia e corruzione, il fisco esoso e complicato, il cattivo funzionamento della giustizia (soprattutto civile e amministrativa), le scadenti infrastrutture (specie quelle digitali), le farraginosità del mercato del lavoro (adesso in parte rimediate dal Jobs Act). E’ una tendenza da investire. Ricostruendo la fiducia nell’Italia.

Dunque, più investimenti esteri, più sviluppo. Una sfida aperta per rendere l’Italia attraente. Il governo Renzi dichiara di impegnarsi in questa direzione.

Certo, gli investimenti non sono tutti uguali. Ci sono quelli speculativi. E quelli che guardano solo a rilevare marchi famosi, con atteggiamento imprenditoriale “neo-coloniale”. Ci sono logiche da “cherry picking”, la scelta fior da fiore senza preoccuparsi di posti di lavoro, identità territoriali, storie d’impresa e faticose ristrutturazioni. E ci sono invece investimenti che valorizzano le nostre capacità industriali, le competenze, le conoscenze, la qualità: come i tedeschi sulle moto, di cui abbiamo detto o la General Electric che compra Aero Avio e ne rafforza, nello stabilimento novarese di Cameri, la competitività internazionale. O, ancora, come l’alleanza tra Sorin e l’azienda Usa Cyberonics per dare vita a un colosso farmaceutico internazionale (“Siamo due eccellenze, la cardiochirurgia resta in Italia”, spiega Rosario Bifulco,  presidente Sorin).

Gli investimenti internazionali nell’industria, insomma, migliorano il nostro livello d’innovazione, la ricerca, la formazione di qualità del capitale umano. Sono una ricchezza, non solo finanziaria, ma complessiva. E rafforzano la nostra cultura d’impresa. “Creatività italiana, metodo e qualità tedeschi, una leva vincente da primato manifatturiero internazionale”, si disse a proposito dell’acquisto di Ducati da Audi. Un buon paradigma. Da valorizzare.

Tornano gli investimenti esteri in Italia, dopo gli anni peggiori della Grande Crisi. Gli ultimi, la scorsa settimana, sono quelli del Fondo sovrano del Qatar sui grattacieli di Porta Nuova a Milano (l’emirato ha adesso in Italia asset per 3 miliardi) e quelli dei giapponesi di Hitachi per Ansaldo Breda (i treni superveloci) e Sts, 1,9 miliardi pagati a Finmeccanica (pochi, per gioielli di eccellente tecnologia industriale? O sufficienti? Il dibattito politico ed economico impazza). Ma nel corso degli ultimi due anni ce ne sono stati tanti altri: cinesi, russi, americani, francesi (soprattutto nella moda e nel lusso), tedeschi (Audi per le moto Ducati, Volkswagen per le Mv), indiani, turchi, algerini…

L’Italia svende i gioielli di famiglia, dice una certa polemica. L’Italia è di nuovo attrattiva per investimenti che portano ricchezza e sviluppo, ribatte un’altra corrente di opinione. I dati raccontano che gli Ide in entrata (Investimenti diretti esteri) erano 45,5 miliardi nel 2006 e 48 nel 2007, poi erano precipitati a 7,1 nel 2010, a zero nel 2012 e poi finalmente tornati a crescere, a 15 sia nel 2013 che nel 2014 (Fonte: Centro Studi Confindustria). A questi, vanno aggiunti gli investimenti puramente finanziari (anche questi in ripresa).

Sempre i dati testimoniano che l’Italia, nonostante tutto, resta fanalino di coda nella Ue per investimenti internazionali, un fatto negativo che deprime la nostra economia. E a renderci poco attraenti sono la pessima, eccessiva (e corrotta) burocrazia, l’inquinamento del mercato derivante dall’intreccio tra mafia e corruzione, il fisco esoso e complicato, il cattivo funzionamento della giustizia (soprattutto civile e amministrativa), le scadenti infrastrutture (specie quelle digitali), le farraginosità del mercato del lavoro (adesso in parte rimediate dal Jobs Act). E’ una tendenza da investire. Ricostruendo la fiducia nell’Italia.

Dunque, più investimenti esteri, più sviluppo. Una sfida aperta per rendere l’Italia attraente. Il governo Renzi dichiara di impegnarsi in questa direzione.

Certo, gli investimenti non sono tutti uguali. Ci sono quelli speculativi. E quelli che guardano solo a rilevare marchi famosi, con atteggiamento imprenditoriale “neo-coloniale”. Ci sono logiche da “cherry picking”, la scelta fior da fiore senza preoccuparsi di posti di lavoro, identità territoriali, storie d’impresa e faticose ristrutturazioni. E ci sono invece investimenti che valorizzano le nostre capacità industriali, le competenze, le conoscenze, la qualità: come i tedeschi sulle moto, di cui abbiamo detto o la General Electric che compra Aero Avio e ne rafforza, nello stabilimento novarese di Cameri, la competitività internazionale. O, ancora, come l’alleanza tra Sorin e l’azienda Usa Cyberonics per dare vita a un colosso farmaceutico internazionale (“Siamo due eccellenze, la cardiochirurgia resta in Italia”, spiega Rosario Bifulco,  presidente Sorin).

Gli investimenti internazionali nell’industria, insomma, migliorano il nostro livello d’innovazione, la ricerca, la formazione di qualità del capitale umano. Sono una ricchezza, non solo finanziaria, ma complessiva. E rafforzano la nostra cultura d’impresa. “Creatività italiana, metodo e qualità tedeschi, una leva vincente da primato manifatturiero internazionale”, si disse a proposito dell’acquisto di Ducati da Audi. Un buon paradigma. Da valorizzare.

Per la buona impresa, comprendere culture diverse non basta più

L’impresa moderna si sviluppa meglio se sa approfittare delle occasioni fornite dalla globalizzazione e dalla multiculturalità delle relazioni possibili. Ma non basta saper comprendere gli altri. Occorre anche saperci lavorare insieme, cogliere l’occasione della differenza di esperienze, di modalità di vita, di storie, per arrivare a  creare qualcosa che prima non c’era e che, appunto, consente all’azienda di “fare il salto”.

Luciara Nardon (della Carleton University di Ottawa), e Richard M. Steers (del Lundquist College of Business University of Oregon), sono partiti da queste considerazioni per effettuare un analisi approfondita di quali siano gli strumenti migliori da usare in situazioni come queste.

“Managing cross-cultural encounters:putting things in context” – pubblicato recentemente in Organizational Dynamics -, è un articolo che parte da un assunto: “La comprensione delle differenze culturali e utile ma è insufficiente per guidare i manager attraverso le sfide date dagli incontri interculturali nei quali un’impresa può trovarsi”. Vale quello che si diceva sopra: occorre capire gli altri, ma capire non basta. Bisogna saper fare con gli altri.

“La cultura è importante – spiegano ancora i due autori -, ma è importante in modi diversi in situazioni diverse”. Il testo, quindi, esplora le interrelazioni “tra cultura, contesto e comportamento manageriale e illustra alcune potenziali lezioni per i manager” che hanno a che fare con culture differenti.

L’articolo, quindi, fornisce uno schema d’azione per la comprensione delle culture diverse dalla nostra e indica tre passi fondamentali: attenzione all’altra cultura, interpretazione della stessa, azione in base all’interpretazione. Nardon e Steers, quindi, indicano alcune possibili strategie da applicare che si basano sulla “gestione dei contesti oggettivi”, ma anche su quella dei “contesti percepiti” fino ad arrivare “all’improvvisazione”.

Tutto per arrivare ad una conclusione. “Noi sosteniamo – è l’idea degli autori -, che i manager hanno bisogno di ripensare alcuni principi comunemente citati di gestione globale”. L’esempio più chiaro è quello posto all’inizio della ricerca. Oggi sarebbe sbagliato e fuorviante applicare una vecchia massima dei viaggiatori: “Quando si è a Roma, occorre fare come i Romani”.

Managing cross-cultural encounters: putting things in context

Luciara Nardon (Carleton University), Richard M. Steers (University of Oregon)

Organizational Dynamics (2014) 43, 138—145

L’impresa moderna si sviluppa meglio se sa approfittare delle occasioni fornite dalla globalizzazione e dalla multiculturalità delle relazioni possibili. Ma non basta saper comprendere gli altri. Occorre anche saperci lavorare insieme, cogliere l’occasione della differenza di esperienze, di modalità di vita, di storie, per arrivare a  creare qualcosa che prima non c’era e che, appunto, consente all’azienda di “fare il salto”.

Luciara Nardon (della Carleton University di Ottawa), e Richard M. Steers (del Lundquist College of Business University of Oregon), sono partiti da queste considerazioni per effettuare un analisi approfondita di quali siano gli strumenti migliori da usare in situazioni come queste.

“Managing cross-cultural encounters:putting things in context” – pubblicato recentemente in Organizational Dynamics -, è un articolo che parte da un assunto: “La comprensione delle differenze culturali e utile ma è insufficiente per guidare i manager attraverso le sfide date dagli incontri interculturali nei quali un’impresa può trovarsi”. Vale quello che si diceva sopra: occorre capire gli altri, ma capire non basta. Bisogna saper fare con gli altri.

“La cultura è importante – spiegano ancora i due autori -, ma è importante in modi diversi in situazioni diverse”. Il testo, quindi, esplora le interrelazioni “tra cultura, contesto e comportamento manageriale e illustra alcune potenziali lezioni per i manager” che hanno a che fare con culture differenti.

L’articolo, quindi, fornisce uno schema d’azione per la comprensione delle culture diverse dalla nostra e indica tre passi fondamentali: attenzione all’altra cultura, interpretazione della stessa, azione in base all’interpretazione. Nardon e Steers, quindi, indicano alcune possibili strategie da applicare che si basano sulla “gestione dei contesti oggettivi”, ma anche su quella dei “contesti percepiti” fino ad arrivare “all’improvvisazione”.

Tutto per arrivare ad una conclusione. “Noi sosteniamo – è l’idea degli autori -, che i manager hanno bisogno di ripensare alcuni principi comunemente citati di gestione globale”. L’esempio più chiaro è quello posto all’inizio della ricerca. Oggi sarebbe sbagliato e fuorviante applicare una vecchia massima dei viaggiatori: “Quando si è a Roma, occorre fare come i Romani”.

Managing cross-cultural encounters: putting things in context

Luciara Nardon (Carleton University), Richard M. Steers (University of Oregon)

Organizational Dynamics (2014) 43, 138—145

Educazione d’impresa

Ogni buon imprenditorie è anche un buon cittadino, così come ogni suo operaio e impiegato. E’ una “legge” non scritta ma chiara. L’impresa vive in un contesto sociale e politico ben definito. E’ essa stessa elemento sociale e politico, oltre che produttivo ed economico; la sua attività ha forti e importanti riflessi all’esterno, così come è influenzata da umori, sollecitazioni, idee, istanze che arrivano dal di fuori delle mura della fabbrica e degli uffici. Da qui, l’importanza dell’attenzione alla responsabilità sociale d’impresa, all’agire politico della stessa, ai ruoli che imprenditori, manager, impiegati  e operai possono avere al di fuori del tempo di lavoro. Occorre per tutto questo un’educazione alla società, ai rapporti corretti, all’intelligente ingegno della produzione e della vita nell’ambito di un sistema di uomini e donne ben definito.

Scuola e impresa, quindi, sono intimamente legate. Per questo sono importanti letture come “Educare alla cittadinanza, al lavoro ed all’innovazione”, appena pubblicato dalla Associazione Treelle e dalla Fondazione Rocca. Si tratta di un ragionamento a più voci sui sistemi di educazione e formazioni in Italia e in Germania. Due economie e due modi di fare industria a confronto. Dopo un esame della situazione tedesca, quindi, il volume prendere in considerazione l’aspetto particolare dell’apprendistato per ottenere una qualifica professionale e poi gli altri sistemi di educazione per arrivare a livelli più alti di studio e di collocazione lavorativa. Chiude il volume un approfondimento sui canali di finanziamento della ricerca collegata all’industria. Ma non manca nemmeno una valida appendice statistica di confronto fra i due Paesi.

L’idea di partenza del volume è particolare. Italia e Germania avevano molti tratti in comune, ma adesso stanno seguendo percorsi di sviluppo notevolmente differenziati. Perché? Una delle risposte starebbe proprio nei diversi sistemi di formazione alla produzione. E dal confronto fra quanto accade in Italia e quanto accade in Germania, possono derivare proprio indicazione utili per migliorare il nostro sistema educativo e formativo.

“Educare alla cittadinanza, al lavoro ed all’innovazione” non è una storia d’impresa, ma il racconto di come molte storie d’impresa possano anche oggi cambiare verso, attraverso una formazione e un’educazione diverse.

Educare alla cittadinanza, al lavoro ed all’innovazione

AA.VV.

Treelle – Fondazione Rocca, 2015

Ogni buon imprenditorie è anche un buon cittadino, così come ogni suo operaio e impiegato. E’ una “legge” non scritta ma chiara. L’impresa vive in un contesto sociale e politico ben definito. E’ essa stessa elemento sociale e politico, oltre che produttivo ed economico; la sua attività ha forti e importanti riflessi all’esterno, così come è influenzata da umori, sollecitazioni, idee, istanze che arrivano dal di fuori delle mura della fabbrica e degli uffici. Da qui, l’importanza dell’attenzione alla responsabilità sociale d’impresa, all’agire politico della stessa, ai ruoli che imprenditori, manager, impiegati  e operai possono avere al di fuori del tempo di lavoro. Occorre per tutto questo un’educazione alla società, ai rapporti corretti, all’intelligente ingegno della produzione e della vita nell’ambito di un sistema di uomini e donne ben definito.

Scuola e impresa, quindi, sono intimamente legate. Per questo sono importanti letture come “Educare alla cittadinanza, al lavoro ed all’innovazione”, appena pubblicato dalla Associazione Treelle e dalla Fondazione Rocca. Si tratta di un ragionamento a più voci sui sistemi di educazione e formazioni in Italia e in Germania. Due economie e due modi di fare industria a confronto. Dopo un esame della situazione tedesca, quindi, il volume prendere in considerazione l’aspetto particolare dell’apprendistato per ottenere una qualifica professionale e poi gli altri sistemi di educazione per arrivare a livelli più alti di studio e di collocazione lavorativa. Chiude il volume un approfondimento sui canali di finanziamento della ricerca collegata all’industria. Ma non manca nemmeno una valida appendice statistica di confronto fra i due Paesi.

L’idea di partenza del volume è particolare. Italia e Germania avevano molti tratti in comune, ma adesso stanno seguendo percorsi di sviluppo notevolmente differenziati. Perché? Una delle risposte starebbe proprio nei diversi sistemi di formazione alla produzione. E dal confronto fra quanto accade in Italia e quanto accade in Germania, possono derivare proprio indicazione utili per migliorare il nostro sistema educativo e formativo.

“Educare alla cittadinanza, al lavoro ed all’innovazione” non è una storia d’impresa, ma il racconto di come molte storie d’impresa possano anche oggi cambiare verso, attraverso una formazione e un’educazione diverse.

Educare alla cittadinanza, al lavoro ed all’innovazione

AA.VV.

Treelle – Fondazione Rocca, 2015

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?