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Brand Milano, metropoli aperta all’innovazione, alla cultura e all’accoglienza

Qual è, oggi, il racconto di Milano? Come definirne anima, tensioni, funzioni, speranze? E come costruire un “brand” che ne sia simbolo? Se ne è discusso per un’intera giornata, venerdì scorso, all’Università Statale, per iniziativa del “Forum Brand Milano”, coordinato da Stefano Rolando, analizzando i risultati di oltre un anno di lavoro, tra analisi, ricerche, discussioni, pubblicazioni e rilanciando il dibattito sul futuro della Milano metropoli.

Città molteplice e complessa. Densa anche di contrasti e contraddizioni. Un incrocio felix, fertile cioè, tra radici storiche (il carattere dei luoghi) e contemporaneità. Tra un’anima e un progetto. Una città è, infatti, un’identità orgogliosa ma aperta. La “Milano grande” che sa guardarsi oltre la cerchia storica delle Mura Spagnole e intende riscoprire una pur controversa centralità come “mid land”, nel cuore d’un territorio tra il Mediterraneo e l’Europa continentale. E’ una scelta che ha sapore di storia. E di trasformazioni. Metropoli comunque aperta. E attiva, vivace, internazionale. Densa di buona cultura. Anche di cultura d’impresa.

Una Milano “hub della conoscenza”, dunque, nell’incrocio tra manifattura, servizi, ricerca & innovazione, formazione di alto livello (otto università, 180mila studenti, di cui 13mila stranieri), editoria e comunicazione, luoghi della cultura e dell’arte. Milano cuore d’un territorio, tra Nord Italia e Germania, che è cardine della migliore industria europea. Milano capitale d’una metamorfosi produttiva che lavora sulle ibridazioni tra l’attitudine “a fare cose belle che piacciono al mondo” e la ricerca di qualità dello “sviluppo sostenibile”. Milano, insomma, laboratorio e neo-fabbrica.

Sono utili, in questa ricerca di senso e destino d’una metropoli che vuole fare da “locomotiva d’Italia” ma anche da pilastro della crescita economica e sociale europea, le riflessioni di due leader d’impresa.

Sostiene Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli, nella sua testimonianza al “Forum Brand Milano”: “Il cuore industriale dell’Europa ha Milano, tra i suoi pilastri. E lo sviluppo dell’Italia in chiave europea non può non passare da una metropoli in cui si concentrano tutte le leve essenziali della crescita economica: la manifattura più competitiva e orientata all’export, i servizi più sofisticati per l’impresa, i centri qualificati di ricerca e innovazione, le università di prestigio internazionale, la comunicazione e la cultura. Una Grande Milano, nonostante tutto, creativa, attiva, aperta e intraprendente, consapevole della sua storia ma anche proiettata verso un futuro sostenibile da costruire. E l’Expo ne valorizza le qualità migliori: un’energia vitale, un forte senso di responsabilità generale”.

Spiega Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, sempre per il “Forum Brand Milano”: “Per secoli la città dove l’Italia si faceva mondo è stata Milano, aperta agli sviluppi industriali, sociali e culturali dei paesi più avanzati. Ora la sfida è opposta: Milano deve essere sempre più la grande città metropolitana in cui il mondo diventa Italia. Ciò significa essenzialmente quattro cose. Deve offrire sempre più attrattività economica, a idee d’impresa, capitali e multinazionali che da fuori Italia identifichino qui l’ambiente ideale per svilupparsi e crescere. Attrattività del capitale umano, diventando sempre più “il” centro che attira nelle sue otto università un numero crescente di talenti dall’estero. Attrattività del suo modello sociale, fondato su una forza senza eguali in Italia di privato sociale, dalla ricerca all’assistenza sanitaria fino al social housing, e con una forte presenza di non profit. Attrattività verso le altre culture, valorizzando il particolare mix di Milano citta S.T.E.A.M. che integra le eccellenze di scienza, tecnologia, ingegneria e meccanica con l’arte”. “Milano – conclude Rocca- dove il mondo diventa Italia. Sarà un brand di successo se tutti i milanesi avvertiranno intorno a sé che, con il loro impegno, Milano ha ripreso a volare”.

Qual è, oggi, il racconto di Milano? Come definirne anima, tensioni, funzioni, speranze? E come costruire un “brand” che ne sia simbolo? Se ne è discusso per un’intera giornata, venerdì scorso, all’Università Statale, per iniziativa del “Forum Brand Milano”, coordinato da Stefano Rolando, analizzando i risultati di oltre un anno di lavoro, tra analisi, ricerche, discussioni, pubblicazioni e rilanciando il dibattito sul futuro della Milano metropoli.

Città molteplice e complessa. Densa anche di contrasti e contraddizioni. Un incrocio felix, fertile cioè, tra radici storiche (il carattere dei luoghi) e contemporaneità. Tra un’anima e un progetto. Una città è, infatti, un’identità orgogliosa ma aperta. La “Milano grande” che sa guardarsi oltre la cerchia storica delle Mura Spagnole e intende riscoprire una pur controversa centralità come “mid land”, nel cuore d’un territorio tra il Mediterraneo e l’Europa continentale. E’ una scelta che ha sapore di storia. E di trasformazioni. Metropoli comunque aperta. E attiva, vivace, internazionale. Densa di buona cultura. Anche di cultura d’impresa.

Una Milano “hub della conoscenza”, dunque, nell’incrocio tra manifattura, servizi, ricerca & innovazione, formazione di alto livello (otto università, 180mila studenti, di cui 13mila stranieri), editoria e comunicazione, luoghi della cultura e dell’arte. Milano cuore d’un territorio, tra Nord Italia e Germania, che è cardine della migliore industria europea. Milano capitale d’una metamorfosi produttiva che lavora sulle ibridazioni tra l’attitudine “a fare cose belle che piacciono al mondo” e la ricerca di qualità dello “sviluppo sostenibile”. Milano, insomma, laboratorio e neo-fabbrica.

Sono utili, in questa ricerca di senso e destino d’una metropoli che vuole fare da “locomotiva d’Italia” ma anche da pilastro della crescita economica e sociale europea, le riflessioni di due leader d’impresa.

Sostiene Marco Tronchetti Provera, presidente Pirelli, nella sua testimonianza al “Forum Brand Milano”: “Il cuore industriale dell’Europa ha Milano, tra i suoi pilastri. E lo sviluppo dell’Italia in chiave europea non può non passare da una metropoli in cui si concentrano tutte le leve essenziali della crescita economica: la manifattura più competitiva e orientata all’export, i servizi più sofisticati per l’impresa, i centri qualificati di ricerca e innovazione, le università di prestigio internazionale, la comunicazione e la cultura. Una Grande Milano, nonostante tutto, creativa, attiva, aperta e intraprendente, consapevole della sua storia ma anche proiettata verso un futuro sostenibile da costruire. E l’Expo ne valorizza le qualità migliori: un’energia vitale, un forte senso di responsabilità generale”.

Spiega Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, sempre per il “Forum Brand Milano”: “Per secoli la città dove l’Italia si faceva mondo è stata Milano, aperta agli sviluppi industriali, sociali e culturali dei paesi più avanzati. Ora la sfida è opposta: Milano deve essere sempre più la grande città metropolitana in cui il mondo diventa Italia. Ciò significa essenzialmente quattro cose. Deve offrire sempre più attrattività economica, a idee d’impresa, capitali e multinazionali che da fuori Italia identifichino qui l’ambiente ideale per svilupparsi e crescere. Attrattività del capitale umano, diventando sempre più “il” centro che attira nelle sue otto università un numero crescente di talenti dall’estero. Attrattività del suo modello sociale, fondato su una forza senza eguali in Italia di privato sociale, dalla ricerca all’assistenza sanitaria fino al social housing, e con una forte presenza di non profit. Attrattività verso le altre culture, valorizzando il particolare mix di Milano citta S.T.E.A.M. che integra le eccellenze di scienza, tecnologia, ingegneria e meccanica con l’arte”. “Milano – conclude Rocca- dove il mondo diventa Italia. Sarà un brand di successo se tutti i milanesi avvertiranno intorno a sé che, con il loro impegno, Milano ha ripreso a volare”.

Imprese coraggiose

L’impresa agisce in un ambiente complesso. Appaiono quasi come dati scontati – che in realtà non sono -, ma dinamismo, complicazione, velocità e cambiamento sono caratteristiche comuni a tutti i sistemi produttivi e sociali occidentali (e non solo). C’è però da chiedersi chi davvero riesce a tenere il passo con il mutamento delle cose. Domanda da fare anche alle imprese. E anche tenendo conto che gli elementi da mettere in fila per capire meglio cosa sta accadendo sono molti.

Paola Paniccia –  Ordinario di economia e gestione delle imprese all’Università di Tor Vergata – ragiona in “L’industria manifatturiera italiana: le sfide e il coraggio” partendo proprio dalla complessità per chiedersi come le imprese manifatturiere hanno reagito.

“Produttori e consumatori che cambiano – spiega nell’articolo uscito sull’ultimo numero di Sinergie -, nuovi paesi e nuove economie che conquistano quote sempre più ampie del mercato manifatturiero internazionale, emergenti molteplici forme di offerta e ruolo sempre più determinate della tecnologia nel produrre e nel consumare manufatti e servizi, costituiscono una evidenza della complessità che viviamo. Contestualmente, la competitività sollecita giochi sinergici attraverso la cooperazione a molteplici livelli (imprese, territori, paesi)”. E non basta, perché il ragionamento prosegue spiegando che tutto questo “ha messo a dura prova le imprese manifatturiere e in primis la loro capacità imprenditoriale di mettere in campo nuove sfide. In Italia ancor più”.

L’autrice quindi cerca di rispondere a due quesiti un po’ trascurati. Prima di tutto su chi si assume la responsabilità delle decisioni fondamentali da cui, in un modo o nell’altro, dipende la vita o la morte di una impresa. Poi, su quali siano le qualità di cui occorre dotarsi e quali i valori di fondo cui ancorare il ruolo dell’imprenditore e dell’imprenditorialità.

Domande cruciali, alle quali Paniccia risponde esplorando l’evoluzione dell’economia e della società delle imprese in questi ultimi anni, le sfide intraprese, i passi compiuti. Uno dei casi presi in considerazione è quello della Fiat.

La conclusione è che “l’imprenditorialità deve fornirsi di particolari qualità e soprattutto manifestarsi nell’esercizio di capacità sempre più elevate”. Vince – è uno dei passaggi cruciali del tutto -, la consapevolezza delle “capacità cognitive” e dei “diversi aspetti della personalità dell’individuo, così come i suoi valori culturali e morali” che “giocano tutti un ruolo fondamentale nel prendere decisioni”.

Ma Paniccia va anche oltre  e aggiunge: “Tra le virtù necessarie e indispensabili per ‘ben fare’ noi mettiamo la virtù del coraggio. Da non confondere con la temerarietà (…)”.

L’articolo di Paola Paniccia può non trovare sempre tutti d’accordo, ma è da leggere fino in fondo.

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L’industria manifatturiera italiana: le sfide e il coraggio

Paola Paniccia

Sinergie, Italian Journal of Management n. 95, settembre-dicembre 2014

L’impresa agisce in un ambiente complesso. Appaiono quasi come dati scontati – che in realtà non sono -, ma dinamismo, complicazione, velocità e cambiamento sono caratteristiche comuni a tutti i sistemi produttivi e sociali occidentali (e non solo). C’è però da chiedersi chi davvero riesce a tenere il passo con il mutamento delle cose. Domanda da fare anche alle imprese. E anche tenendo conto che gli elementi da mettere in fila per capire meglio cosa sta accadendo sono molti.

Paola Paniccia –  Ordinario di economia e gestione delle imprese all’Università di Tor Vergata – ragiona in “L’industria manifatturiera italiana: le sfide e il coraggio” partendo proprio dalla complessità per chiedersi come le imprese manifatturiere hanno reagito.

“Produttori e consumatori che cambiano – spiega nell’articolo uscito sull’ultimo numero di Sinergie -, nuovi paesi e nuove economie che conquistano quote sempre più ampie del mercato manifatturiero internazionale, emergenti molteplici forme di offerta e ruolo sempre più determinate della tecnologia nel produrre e nel consumare manufatti e servizi, costituiscono una evidenza della complessità che viviamo. Contestualmente, la competitività sollecita giochi sinergici attraverso la cooperazione a molteplici livelli (imprese, territori, paesi)”. E non basta, perché il ragionamento prosegue spiegando che tutto questo “ha messo a dura prova le imprese manifatturiere e in primis la loro capacità imprenditoriale di mettere in campo nuove sfide. In Italia ancor più”.

L’autrice quindi cerca di rispondere a due quesiti un po’ trascurati. Prima di tutto su chi si assume la responsabilità delle decisioni fondamentali da cui, in un modo o nell’altro, dipende la vita o la morte di una impresa. Poi, su quali siano le qualità di cui occorre dotarsi e quali i valori di fondo cui ancorare il ruolo dell’imprenditore e dell’imprenditorialità.

Domande cruciali, alle quali Paniccia risponde esplorando l’evoluzione dell’economia e della società delle imprese in questi ultimi anni, le sfide intraprese, i passi compiuti. Uno dei casi presi in considerazione è quello della Fiat.

La conclusione è che “l’imprenditorialità deve fornirsi di particolari qualità e soprattutto manifestarsi nell’esercizio di capacità sempre più elevate”. Vince – è uno dei passaggi cruciali del tutto -, la consapevolezza delle “capacità cognitive” e dei “diversi aspetti della personalità dell’individuo, così come i suoi valori culturali e morali” che “giocano tutti un ruolo fondamentale nel prendere decisioni”.

Ma Paniccia va anche oltre  e aggiunge: “Tra le virtù necessarie e indispensabili per ‘ben fare’ noi mettiamo la virtù del coraggio. Da non confondere con la temerarietà (…)”.

L’articolo di Paola Paniccia può non trovare sempre tutti d’accordo, ma è da leggere fino in fondo.

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L’industria manifatturiera italiana: le sfide e il coraggio

Paola Paniccia

Sinergie, Italian Journal of Management n. 95, settembre-dicembre 2014

L’avventura dell’industria italiana

La cultura delle imprese si fa anche per mezzo della loro storia. Anzi, l’insieme della cultura – cioè del sentire, dei principi, dei vincoli e delle aspirazioni -, del complesso dell’industria di un Paese, si fonda anche sull’evoluzione, sui passi fatti e anche sugli errori commessi in precedenza. Per l’impresa, capire il passato è altrettanto fondamentale che comprendere il presente e programmare il futuro.Per questo serve leggere (o rileggere), “L’Italia delle fabbriche” di Giuseppe Berta.  Si tratta di un volume scritto bene, un racconto della storia dell’industria italiana nel Novecento, la vicenda di (come dice lo stesso autore nel sottotitolo), della parabola di fabbriche, uomini e macchine che hanno fatto tanta parte dell’Italia del secolo scorso. E che sono alla base dell’Italia di oggi e della sua industria.

Il libro ha accompagnato Berta lungo diversi anni e adesso si presenta in una quarta edizione con un epilogo aggiornato quasi a ieri e molti inserimenti lungo tutto il testo. “L’Italia delle fabbriche – scrive all’inizio del volume l’autore -, era stata, nell’esperienza di chi l’aveva abitata, essenzialmente questo: linearità di comportamenti collettivi scanditi da un ritmo interno continuo e regolare, che assegnava loro una condizione di certezza e di prevedibilità su cui costruire consuetudini di vita, relazioni di appartenenza, sfere di azione pubblica. Ma per molti di essi aveva significato anche un modo d’intendere e di realizzare una società moderna (…)”.   Alla fine del secolo scorso, però, questa Italia “delle fabbriche non esisteva più”. Proprio per capire come si è arrivati all’oggi, Berta racconta l’evoluzione di quell’Italia per mezzo dei suoi protagonisti (imprenditori, sindacati, operai, associazioni d’impresa), spiegando i passaggi cruciali, gli errori commessi, le conquiste fatte.  E’ la storia dell’industrialismo all’italiana, cioè, come spiega lo stesso Berta, di quella “spinta a fare dell’industria la chiave di volta dello sviluppo e a mobilitare e incanalare nella sua direzione tutte le risorse e le energie disponibili (…)”. Suddiviso in tre parti (gli archetipi dell’industrialismo, la sua stagione matura e lo sfaldarsi del tutto), il volume non è un freddo manuale universitario ma qualcosa di molto di più. Dalle parole di Berta  tornano in vita gli albori dell’industria italiana con protagonisti fieri come Giovanni Agnelli e Adriano Olivetti alle prese con il fordismo e con le provocazioni provenienti dagli Usa; ma sono in primo piano anche i concetti di fabbrica e organizzazione aziendale viste non come “macchine” ma come “organismi biologici” e quelli di sindacato come “impresa”. Si delineano, poi, le figure d’impresa milanesi e quelle torinesi (Pirelli e ancora Agnelli). Ed emerge, poi, la figura di Angelo Costa che vede l’imprenditore “sempre proteso verso l’avvenire” e l’operaio, per sua natura, “preoccupato soprattutto dell’oggi”; e quella di Enrico Mattei  con la sua visione delle attività industriali pubbliche come “battistrada nello sviluppo italiano”.  Berta non rinuncia, fra l’altro, a scavare negli errori commessi, nei travagli attraversati negli anni dall’industrialismo nazionale, nei dibattiti all’interno di Confindustria (il Rapporto Pirelli), e nelle più importanti aziende italiane, nelle amarezze dei protagonisti all’indomani dell’Autunno Caldo del ’69.

Da buon storico, l’autore arriva a delineare bene il declino dell’industrialismo nostrano ma anche a dire “eppure , nonostante tutto, l’Italia industriale e produttiva , pur anomala, continuava a esistere”. E non solo, perché pur trasformata in qualcosa di diverso, l’industria italiana di oggi – secondo Berta -, può ancora rappresentare una risorsa per il Paese vivendo una sorta di “nuova rivoluzione industriale” fatta di flessibilità , duttilità e paradigmi tecnologici diversi da prima. Con nuove sfide da affrontare ma che è assolutamente  possibile vincere.

Il volume di poco più di 270 pagine si legge quasi d’un fiato e vale la pena farlo.

L’Italia delle fabbriche. La parabola dell’industrialismo nel Novecento

Giuseppe Berta

Il Mulino, 2013

La cultura delle imprese si fa anche per mezzo della loro storia. Anzi, l’insieme della cultura – cioè del sentire, dei principi, dei vincoli e delle aspirazioni -, del complesso dell’industria di un Paese, si fonda anche sull’evoluzione, sui passi fatti e anche sugli errori commessi in precedenza. Per l’impresa, capire il passato è altrettanto fondamentale che comprendere il presente e programmare il futuro.Per questo serve leggere (o rileggere), “L’Italia delle fabbriche” di Giuseppe Berta.  Si tratta di un volume scritto bene, un racconto della storia dell’industria italiana nel Novecento, la vicenda di (come dice lo stesso autore nel sottotitolo), della parabola di fabbriche, uomini e macchine che hanno fatto tanta parte dell’Italia del secolo scorso. E che sono alla base dell’Italia di oggi e della sua industria.

Il libro ha accompagnato Berta lungo diversi anni e adesso si presenta in una quarta edizione con un epilogo aggiornato quasi a ieri e molti inserimenti lungo tutto il testo. “L’Italia delle fabbriche – scrive all’inizio del volume l’autore -, era stata, nell’esperienza di chi l’aveva abitata, essenzialmente questo: linearità di comportamenti collettivi scanditi da un ritmo interno continuo e regolare, che assegnava loro una condizione di certezza e di prevedibilità su cui costruire consuetudini di vita, relazioni di appartenenza, sfere di azione pubblica. Ma per molti di essi aveva significato anche un modo d’intendere e di realizzare una società moderna (…)”.   Alla fine del secolo scorso, però, questa Italia “delle fabbriche non esisteva più”. Proprio per capire come si è arrivati all’oggi, Berta racconta l’evoluzione di quell’Italia per mezzo dei suoi protagonisti (imprenditori, sindacati, operai, associazioni d’impresa), spiegando i passaggi cruciali, gli errori commessi, le conquiste fatte.  E’ la storia dell’industrialismo all’italiana, cioè, come spiega lo stesso Berta, di quella “spinta a fare dell’industria la chiave di volta dello sviluppo e a mobilitare e incanalare nella sua direzione tutte le risorse e le energie disponibili (…)”. Suddiviso in tre parti (gli archetipi dell’industrialismo, la sua stagione matura e lo sfaldarsi del tutto), il volume non è un freddo manuale universitario ma qualcosa di molto di più. Dalle parole di Berta  tornano in vita gli albori dell’industria italiana con protagonisti fieri come Giovanni Agnelli e Adriano Olivetti alle prese con il fordismo e con le provocazioni provenienti dagli Usa; ma sono in primo piano anche i concetti di fabbrica e organizzazione aziendale viste non come “macchine” ma come “organismi biologici” e quelli di sindacato come “impresa”. Si delineano, poi, le figure d’impresa milanesi e quelle torinesi (Pirelli e ancora Agnelli). Ed emerge, poi, la figura di Angelo Costa che vede l’imprenditore “sempre proteso verso l’avvenire” e l’operaio, per sua natura, “preoccupato soprattutto dell’oggi”; e quella di Enrico Mattei  con la sua visione delle attività industriali pubbliche come “battistrada nello sviluppo italiano”.  Berta non rinuncia, fra l’altro, a scavare negli errori commessi, nei travagli attraversati negli anni dall’industrialismo nazionale, nei dibattiti all’interno di Confindustria (il Rapporto Pirelli), e nelle più importanti aziende italiane, nelle amarezze dei protagonisti all’indomani dell’Autunno Caldo del ’69.

Da buon storico, l’autore arriva a delineare bene il declino dell’industrialismo nostrano ma anche a dire “eppure , nonostante tutto, l’Italia industriale e produttiva , pur anomala, continuava a esistere”. E non solo, perché pur trasformata in qualcosa di diverso, l’industria italiana di oggi – secondo Berta -, può ancora rappresentare una risorsa per il Paese vivendo una sorta di “nuova rivoluzione industriale” fatta di flessibilità , duttilità e paradigmi tecnologici diversi da prima. Con nuove sfide da affrontare ma che è assolutamente  possibile vincere.

Il volume di poco più di 270 pagine si legge quasi d’un fiato e vale la pena farlo.

L’Italia delle fabbriche. La parabola dell’industrialismo nel Novecento

Giuseppe Berta

Il Mulino, 2013

Torna la voglia di fare impresa: ecco le start up dei giovani intraprendenti

E’ una stagione di passaggio, quella che stiamo vivendo: tra la coda lunga della crisi, con gli effetti negativi su lavoro, redditi e consumi, e i segnali, pur timidi, di ripresa. Stagione di selezioni: la crisi, rispettando la sua etimologia, sceglie e separa. E stagione di opportunità: chi ha retto, crescerà più forte. Di sicuro si sa che “rispunta la voglia di fare impresa”, per dirla con il titolo che Il Sole 24Ore (4 febbraio) dedica alle rilevazioni di Unioncamere sull’andamento delle imprese, registrando le differenze tra aperture e chiusure. Il saldo, infatti, è positivo, per 30.718 unità (370.979 le nuove iscrizioni, 340.261 le cessazioni). Un’impennata, dopo le 12mila del 2013. “I segnali che vengono dall’economia reale indicano che, a differenza delle tante false partenze registrate negli ani scorsi, stavolta forse siamo davanti a una reale opportunità di invertire la rotta”, commenta Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere.

Più imprese. E più solide, visto che aumentano le società di capitali (il saldo attivo è di 47.500 imprese) e diminuiscono le società di persone e le imprese individuali. Un buon segno di maturità imprenditoriale, un maggior legame con una più sofisticata cultura d’impresa di mercato. Le società di capitali, infatti, possono attrarre più facilmente nuovi investitori finanziari e rivelano una propensione all’intraprendere fuori dai vecchi costumi d’un capitalismo molto individualista e, quando familiare, con venature di familismo (la famiglia che si chiude nei riti e dei miti della proprietà assoluta…).

Imprese di giovani intraprendenti, in gran parte. O di tecnici, manager e professionisti che, espulsi o usciti dalla dimensione del lavoro dipendente o della consulenza strutturata in grandi società, sperimentano (con tutti i rischi connessi) le possibilità del fare gli imprenditori. Società in movimento, comunque. Un buon segno. Cui fa eco anche l’Espresso, con una inchiesta sul mondo delle start up italiane. “Chi riaccende l’Italia”, è il titolo: “Centinaia di start up che mescolano creatività e tecnologia. Nate in tutto il paese, da Nord a Sud. Grazie a ragazze e ragazzi che hanno deciso di non andare all’estero. E già danno lavoro a tantissimi coetanei. Una sfida per loro, una speranza per tutti”. Anche questo è un buon segnale sulla strada che porta alla ripresa.

E’ una stagione di passaggio, quella che stiamo vivendo: tra la coda lunga della crisi, con gli effetti negativi su lavoro, redditi e consumi, e i segnali, pur timidi, di ripresa. Stagione di selezioni: la crisi, rispettando la sua etimologia, sceglie e separa. E stagione di opportunità: chi ha retto, crescerà più forte. Di sicuro si sa che “rispunta la voglia di fare impresa”, per dirla con il titolo che Il Sole 24Ore (4 febbraio) dedica alle rilevazioni di Unioncamere sull’andamento delle imprese, registrando le differenze tra aperture e chiusure. Il saldo, infatti, è positivo, per 30.718 unità (370.979 le nuove iscrizioni, 340.261 le cessazioni). Un’impennata, dopo le 12mila del 2013. “I segnali che vengono dall’economia reale indicano che, a differenza delle tante false partenze registrate negli ani scorsi, stavolta forse siamo davanti a una reale opportunità di invertire la rotta”, commenta Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere.

Più imprese. E più solide, visto che aumentano le società di capitali (il saldo attivo è di 47.500 imprese) e diminuiscono le società di persone e le imprese individuali. Un buon segno di maturità imprenditoriale, un maggior legame con una più sofisticata cultura d’impresa di mercato. Le società di capitali, infatti, possono attrarre più facilmente nuovi investitori finanziari e rivelano una propensione all’intraprendere fuori dai vecchi costumi d’un capitalismo molto individualista e, quando familiare, con venature di familismo (la famiglia che si chiude nei riti e dei miti della proprietà assoluta…).

Imprese di giovani intraprendenti, in gran parte. O di tecnici, manager e professionisti che, espulsi o usciti dalla dimensione del lavoro dipendente o della consulenza strutturata in grandi società, sperimentano (con tutti i rischi connessi) le possibilità del fare gli imprenditori. Società in movimento, comunque. Un buon segno. Cui fa eco anche l’Espresso, con una inchiesta sul mondo delle start up italiane. “Chi riaccende l’Italia”, è il titolo: “Centinaia di start up che mescolano creatività e tecnologia. Nate in tutto il paese, da Nord a Sud. Grazie a ragazze e ragazzi che hanno deciso di non andare all’estero. E già danno lavoro a tantissimi coetanei. Una sfida per loro, una speranza per tutti”. Anche questo è un buon segnale sulla strada che porta alla ripresa.

Nascita, crescita e trasformazione di un’impresa italiana

Oggi – spesso –, le imprese per sopravvivere e tornare a crescere devono compiere operazioni di riduzione del personale e guardare intanto ai mercati esteri. Applicare regole dure con attenzione a tutti gli aspetti del fare impresa, non è facile. Ristrutturare è sempre più il termine più usato nei corridoi aziendali. Ma spesso rappresenta la strada obbligata per tornare, dopo, a gestioni aziendali che possano spingersi più in là del contingente.

Federico Togni – laureato in Economia delle imprese e dei mercati all’Università Cattolica del Sacro Cuore – ha affrontato il tema delle trasformazioni aziendali in un lavoro sia dal punto di vista teorico che da quello operativo con l’analisi del caso di Candy Group.

La ricerca analizza quindi il cambiamento organizzativo di un’impresa toccata da due aspetti della ristrutturazione dell’attività: la riduzione pianificata del personale (downsizing) e l’internazionalizzazione. Il caso, come si è detto,  è quello di Candy che viene usato per illustrare la teoria con la concretezza delle trasformazioni aziendali di uno dei marchi storici dell’industria italiana.

“La Candy Group – spiega Togni –,  nascendo come piccola impresa frutto dell’intuito di un imprenditore e della creatività e perseveranza dei propri figli e nipoti, ha attraversato i vari stadi che compongono il ciclo di vita di un’impresa fino a diventare una multinazionale di dimensioni notevoli”. È l’esempio che serve per capire tante vite d’imprese italiane.

Togni quindi affronta le diverse fasi evolutive aziendali: l’idea iniziale, lo sviluppo, la conquista di nuovi mercati, l’arrivo delle difficoltà, la necessità di rinnovamento e rivitalizzazione, le difficoltà importate dall’esterno, la necessità di ripensare la propria organizzazione, il significato umano della produzione, le scelte coraggiose da compiere. Il lavoro quindi guarda più da vicino alle operazioni di riduzione di personale e alle alternative possibili, oltre che all’arrivo prepotente della necessità di andare oltre confine.

È la storia di una grande azienda al cospetto del mondo che cambia. Un lavoro da leggere con attenzione.

Cambiamento organizzativo, internazionalizzazione e downsizing: il caso Candy Group

Federico Togni

Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano, Facoltà di Economia, Corso di Laurea in Economia delle Imprese e dei Mercati

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Oggi – spesso –, le imprese per sopravvivere e tornare a crescere devono compiere operazioni di riduzione del personale e guardare intanto ai mercati esteri. Applicare regole dure con attenzione a tutti gli aspetti del fare impresa, non è facile. Ristrutturare è sempre più il termine più usato nei corridoi aziendali. Ma spesso rappresenta la strada obbligata per tornare, dopo, a gestioni aziendali che possano spingersi più in là del contingente.

Federico Togni – laureato in Economia delle imprese e dei mercati all’Università Cattolica del Sacro Cuore – ha affrontato il tema delle trasformazioni aziendali in un lavoro sia dal punto di vista teorico che da quello operativo con l’analisi del caso di Candy Group.

La ricerca analizza quindi il cambiamento organizzativo di un’impresa toccata da due aspetti della ristrutturazione dell’attività: la riduzione pianificata del personale (downsizing) e l’internazionalizzazione. Il caso, come si è detto,  è quello di Candy che viene usato per illustrare la teoria con la concretezza delle trasformazioni aziendali di uno dei marchi storici dell’industria italiana.

“La Candy Group – spiega Togni –,  nascendo come piccola impresa frutto dell’intuito di un imprenditore e della creatività e perseveranza dei propri figli e nipoti, ha attraversato i vari stadi che compongono il ciclo di vita di un’impresa fino a diventare una multinazionale di dimensioni notevoli”. È l’esempio che serve per capire tante vite d’imprese italiane.

Togni quindi affronta le diverse fasi evolutive aziendali: l’idea iniziale, lo sviluppo, la conquista di nuovi mercati, l’arrivo delle difficoltà, la necessità di rinnovamento e rivitalizzazione, le difficoltà importate dall’esterno, la necessità di ripensare la propria organizzazione, il significato umano della produzione, le scelte coraggiose da compiere. Il lavoro quindi guarda più da vicino alle operazioni di riduzione di personale e alle alternative possibili, oltre che all’arrivo prepotente della necessità di andare oltre confine.

È la storia di una grande azienda al cospetto del mondo che cambia. Un lavoro da leggere con attenzione.

Cambiamento organizzativo, internazionalizzazione e downsizing: il caso Candy Group

Federico Togni

Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano, Facoltà di Economia, Corso di Laurea in Economia delle Imprese e dei Mercati

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Conoscenza per crescere e svilupparsi, anche nelle imprese

L’impresa cresce con il capitale umano giusto. Ma così accade anche per la società nel suo insieme, per il vivere civile a tutto tondo. Affermazioni apparentemente scontate che, tuttavia, oggi spesso appaiono in bilico, fragili, non ovvie. Per questo, le imprese avvedute hanno accentuato la loro attenzione sugli “aspetti umani”; del loro agire. E’ dato sempre di più spazio alla responsabilità sociale d’impresa, al ruolo che – dentro e fuori dell’azienda -, hanno le persone con i loro singoli sentire e la loro specifica preparazione non solo tecnica ma complessiva.

Per capire e agire al meglio possibile in questi ambiti, tuttavia, occorrono come al solito buoni maestri e guide affidabili. E’ interessante allora leggere la seconda edizione, pubblicata recentemente, di “Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXI secolo” di Ignazio Visco.

Attuale Governatore di Banca d’Italia ma soprattutto grande conoscitore delle dinamiche finanziarie e d’impresa, Visco spiega chiaramente l’importanza del livello di conoscenza del capitale umano per lo sviluppo aziendale e della società in generale. “Investire in istruzione, capitale umano, conoscenza costituisce oggi un fattore essenziale di crescita della produttività e dell’economia”, dice Visco, che continua aggiungendo: “Ma è riduttivo pensare che l’investimento in conoscenza sia importante solo per l’impatto positivo sulla crescita. Esso può contribuire in modo profondo all’innalzamento del senso civico e del capitale sociale, valori in sè, indipendentemente dai loro effetti sul sistema economico, fattori importanti di coesione sociale e di benessere dei cittadini”.

Imprese e società, dunque, intimamente legate dalla conoscenza e dalla qualità di questa. Con tutto ciò che ne consegue.

Visco, ovviamente, non manca di puntare il dito sui mali che affliggono lo stato della conoscenza nel nostro Paese. “Pesano – dice il Governatore della Banca Centrale -, soprattutto le carenze nella dotazione, qualitativa e quantitativa, del capitale umano, oggi più che mai fattore essenziale non solo per lo sviluppo economico ma anche per la crescita del senso civico e del capitale sociale di una comunità”. Lo stesso poi si interroga su cosa occorra fare enunciando gli stretti legami fra scuola e impresa, fra istruzione e democrazia, fra conoscenza globale e sviluppo della società e quindi delle imprese che operano in essa. La società e le imprese che hanno al loro interno un adeguato livello di conoscenza – non solamente tecnica o meccanicistica ma a tutto tondo -, hanno maggiori possibilità di resistere alle intemperie globali. Visco racconta come ed è un racconto tutto da leggere quello che si sviluppa nella circa duecento pagine del volume.

Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXI secolo

Ignazio Visco

Il Mulino, 2014

L’impresa cresce con il capitale umano giusto. Ma così accade anche per la società nel suo insieme, per il vivere civile a tutto tondo. Affermazioni apparentemente scontate che, tuttavia, oggi spesso appaiono in bilico, fragili, non ovvie. Per questo, le imprese avvedute hanno accentuato la loro attenzione sugli “aspetti umani”; del loro agire. E’ dato sempre di più spazio alla responsabilità sociale d’impresa, al ruolo che – dentro e fuori dell’azienda -, hanno le persone con i loro singoli sentire e la loro specifica preparazione non solo tecnica ma complessiva.

Per capire e agire al meglio possibile in questi ambiti, tuttavia, occorrono come al solito buoni maestri e guide affidabili. E’ interessante allora leggere la seconda edizione, pubblicata recentemente, di “Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXI secolo” di Ignazio Visco.

Attuale Governatore di Banca d’Italia ma soprattutto grande conoscitore delle dinamiche finanziarie e d’impresa, Visco spiega chiaramente l’importanza del livello di conoscenza del capitale umano per lo sviluppo aziendale e della società in generale. “Investire in istruzione, capitale umano, conoscenza costituisce oggi un fattore essenziale di crescita della produttività e dell’economia”, dice Visco, che continua aggiungendo: “Ma è riduttivo pensare che l’investimento in conoscenza sia importante solo per l’impatto positivo sulla crescita. Esso può contribuire in modo profondo all’innalzamento del senso civico e del capitale sociale, valori in sè, indipendentemente dai loro effetti sul sistema economico, fattori importanti di coesione sociale e di benessere dei cittadini”.

Imprese e società, dunque, intimamente legate dalla conoscenza e dalla qualità di questa. Con tutto ciò che ne consegue.

Visco, ovviamente, non manca di puntare il dito sui mali che affliggono lo stato della conoscenza nel nostro Paese. “Pesano – dice il Governatore della Banca Centrale -, soprattutto le carenze nella dotazione, qualitativa e quantitativa, del capitale umano, oggi più che mai fattore essenziale non solo per lo sviluppo economico ma anche per la crescita del senso civico e del capitale sociale di una comunità”. Lo stesso poi si interroga su cosa occorra fare enunciando gli stretti legami fra scuola e impresa, fra istruzione e democrazia, fra conoscenza globale e sviluppo della società e quindi delle imprese che operano in essa. La società e le imprese che hanno al loro interno un adeguato livello di conoscenza – non solamente tecnica o meccanicistica ma a tutto tondo -, hanno maggiori possibilità di resistere alle intemperie globali. Visco racconta come ed è un racconto tutto da leggere quello che si sviluppa nella circa duecento pagine del volume.

Investire in conoscenza. Crescita economica e competenze per il XXI secolo

Ignazio Visco

Il Mulino, 2014

L’energia dell’Expo e l’abitudine italiana “a produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”

Energie per la vita”, dice il programma di Expo 2015 approfondendo l’idea di “nutrire il pianeta”. Energie nel senso più ampio del termine. Compresa quella creatività che traduce in prodotti e servizi le idee legate al senso di comunità, alla partecipazione, alla sostenibilità ambientale e sociale, alla responsabilità civile (ricordandone l’etimologia: civis, cittadino), alla qualità della vita per il maggior numero di persone. Il 2015 sarà “un anno felix”, nel doppio senso di felice ma anche di “fertile”, ha detto il premier Matteo Renzi concludendo, sabato pomeriggio, all’HangarBicocca di Pirelli, la giornata dedicata alle “Idee per Expo” e alla “Carta di Milano”, elaborata con il contributo attivo di 500 esperti riuniti in 42 “tavoli tematici”. Fertile di buone intenzioni, di ipotesi di “buona economia”, ma anche di progetti concreti e iniziative che leghino politica, economia, corrette pratiche sociali. “La sostenibilità è il capitalismo che incorpora il concetto del limite”, sostiene il sociologo Aldo Bonomi, coordinatore d’uno dei “tavoli”, su industria e qualità dello sviluppo.

L’Italia, sulla strada dell’ “anno felix”, può dare un ottimo contributo, innervando l’ospitalità dell’Expo, in una Milano accogliente e vitale (la tradizione di “città aperta” si rinnova…) con la “fertilità” di un ricco bagaglio di idee appunto sullo “sviluppo sostenibile”. Portando a esempio le “best practice” della sua industria, per esempio. “L’Italia è leader in Europa per eco-efficienza del suo sistema produttivo”, ha ricordato a uno dei tavoli del dibattito Ermete Realacci, presidente di Symbola e della Commissione Ambiente della Camera: abbattimento delle emissioni nocive, energie rinnovabili, altissimo livello di riciclo dei rifiuti. E’ la forza della “green economy” diventata uno degli asset principali della competitività italiana. Buona cultura d’impresa sostenibile, appunto.

C’è la “green economy”, infatti, tra “le dieci eccellenze per rilanciare l’Italia”, il dossier preparato da Symbola “L’Italia in 10 selfie”, sulle strade per sfruttare bene l’avvio ancora incerto della ripresa economica e costruire robuste ipotesi non solo di crescita economica ma di sviluppo più in generale: cultura, turismo, industria meccanica e agro-alimentare, agricoltura biologica e “green”. “L’Italia è quinta al mondo per surplus commerciale manifatturiero, con 113 miliardi di dollari nel 2012, che sono diventati più di 130 nel 2014”, sostiene Realacci, parlando di 935 prodotti, sui 5.100 su cui è analizzato il commercio mondiale, in cui l’Italia occupa una delle prime tre posizioni. Orgoglio industriale del bello e ben fatto, appunto. Grazie anche a fertili incroci: l’industria del cibo (da primato internazionale) ma anche quella delle macchine agricole, delle macchine per produrre la pasta, delle macchine per l’inscatolamento e l’imbottigliamento. Macchine per fare macchine. L’Italia meccanica si lega virtuosamente con l’Italia alimentare. L’industria è un’eccellenza italiana sulla platea del mondo. E l’Expo ne offrirà straordinarie testimonianze.

E’ un’attitudine antica, che si rinnova, legando il radicamento nei territori densi di cultura e capacità manifatturiere alle propensioni internazionali. Tornano in mente le parole di Carlo M. Cipolla sull’Italia “abituata fin dal Medio Evo a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Un lungimirante viatico.

Energie per la vita”, dice il programma di Expo 2015 approfondendo l’idea di “nutrire il pianeta”. Energie nel senso più ampio del termine. Compresa quella creatività che traduce in prodotti e servizi le idee legate al senso di comunità, alla partecipazione, alla sostenibilità ambientale e sociale, alla responsabilità civile (ricordandone l’etimologia: civis, cittadino), alla qualità della vita per il maggior numero di persone. Il 2015 sarà “un anno felix”, nel doppio senso di felice ma anche di “fertile”, ha detto il premier Matteo Renzi concludendo, sabato pomeriggio, all’HangarBicocca di Pirelli, la giornata dedicata alle “Idee per Expo” e alla “Carta di Milano”, elaborata con il contributo attivo di 500 esperti riuniti in 42 “tavoli tematici”. Fertile di buone intenzioni, di ipotesi di “buona economia”, ma anche di progetti concreti e iniziative che leghino politica, economia, corrette pratiche sociali. “La sostenibilità è il capitalismo che incorpora il concetto del limite”, sostiene il sociologo Aldo Bonomi, coordinatore d’uno dei “tavoli”, su industria e qualità dello sviluppo.

L’Italia, sulla strada dell’ “anno felix”, può dare un ottimo contributo, innervando l’ospitalità dell’Expo, in una Milano accogliente e vitale (la tradizione di “città aperta” si rinnova…) con la “fertilità” di un ricco bagaglio di idee appunto sullo “sviluppo sostenibile”. Portando a esempio le “best practice” della sua industria, per esempio. “L’Italia è leader in Europa per eco-efficienza del suo sistema produttivo”, ha ricordato a uno dei tavoli del dibattito Ermete Realacci, presidente di Symbola e della Commissione Ambiente della Camera: abbattimento delle emissioni nocive, energie rinnovabili, altissimo livello di riciclo dei rifiuti. E’ la forza della “green economy” diventata uno degli asset principali della competitività italiana. Buona cultura d’impresa sostenibile, appunto.

C’è la “green economy”, infatti, tra “le dieci eccellenze per rilanciare l’Italia”, il dossier preparato da Symbola “L’Italia in 10 selfie”, sulle strade per sfruttare bene l’avvio ancora incerto della ripresa economica e costruire robuste ipotesi non solo di crescita economica ma di sviluppo più in generale: cultura, turismo, industria meccanica e agro-alimentare, agricoltura biologica e “green”. “L’Italia è quinta al mondo per surplus commerciale manifatturiero, con 113 miliardi di dollari nel 2012, che sono diventati più di 130 nel 2014”, sostiene Realacci, parlando di 935 prodotti, sui 5.100 su cui è analizzato il commercio mondiale, in cui l’Italia occupa una delle prime tre posizioni. Orgoglio industriale del bello e ben fatto, appunto. Grazie anche a fertili incroci: l’industria del cibo (da primato internazionale) ma anche quella delle macchine agricole, delle macchine per produrre la pasta, delle macchine per l’inscatolamento e l’imbottigliamento. Macchine per fare macchine. L’Italia meccanica si lega virtuosamente con l’Italia alimentare. L’industria è un’eccellenza italiana sulla platea del mondo. E l’Expo ne offrirà straordinarie testimonianze.

E’ un’attitudine antica, che si rinnova, legando il radicamento nei territori densi di cultura e capacità manifatturiere alle propensioni internazionali. Tornano in mente le parole di Carlo M. Cipolla sull’Italia “abituata fin dal Medio Evo a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Un lungimirante viatico.

Cinema & Storia 2015 – La Grande Guerra

La Fondazione Pirelli ospiterà da oggi lunedì 9 febbraio fino a mercoledì 11 marzo 2015 un ciclo di lezioni rivolto agli insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado di Milano e provincia sul tema della Prima Guerra Mondiale. Il corso di aggiornamento per docenti, dal titolo: “Cinema & Storia 2015 La Grande Guerra. Immagini, racconto e interpretazione tra cinema e storia”, è organizzato dalla Fondazione Isec e l’Istituto lombardo di storia dell’età contemporanea, in collaborazione con Fondazione Pirelli e Fondazione Cineteca Italiana.

Il corso si propone di offrire una panoramica aggiornata della storiografia sulla Grande Guerra approfondendo aspetti meno noti come il ruolo delle donne, il racconto della guerra nel suo farsi attraverso le immagini, il problema dei prigionieri e dei profughi.

Nell’ambito del corso le lezioni frontali, che si terranno presso Fondazione Pirelli, e le attività di tipo seminariale, tenute da docenti universitari e rivolti ai docenti iscritti, sono abbinate alla proiezione di film introdotti e commentati da studiosi di storia del cinema. Le proiezioni si svolgeranno presso il MIC al mattino e sono aperte alle classi. Gruppi di studenti dell’ultimo anno delle superiori potranno partecipare alle lezioni fino a esaurimento dei posti disponibili.

La partecipazione al ciclo di incontri e alle proiezioni è gratuita.

La Fondazione Pirelli ospiterà da oggi lunedì 9 febbraio fino a mercoledì 11 marzo 2015 un ciclo di lezioni rivolto agli insegnanti delle scuole secondarie di primo e secondo grado di Milano e provincia sul tema della Prima Guerra Mondiale. Il corso di aggiornamento per docenti, dal titolo: “Cinema & Storia 2015 La Grande Guerra. Immagini, racconto e interpretazione tra cinema e storia”, è organizzato dalla Fondazione Isec e l’Istituto lombardo di storia dell’età contemporanea, in collaborazione con Fondazione Pirelli e Fondazione Cineteca Italiana.

Il corso si propone di offrire una panoramica aggiornata della storiografia sulla Grande Guerra approfondendo aspetti meno noti come il ruolo delle donne, il racconto della guerra nel suo farsi attraverso le immagini, il problema dei prigionieri e dei profughi.

Nell’ambito del corso le lezioni frontali, che si terranno presso Fondazione Pirelli, e le attività di tipo seminariale, tenute da docenti universitari e rivolti ai docenti iscritti, sono abbinate alla proiezione di film introdotti e commentati da studiosi di storia del cinema. Le proiezioni si svolgeranno presso il MIC al mattino e sono aperte alle classi. Gruppi di studenti dell’ultimo anno delle superiori potranno partecipare alle lezioni fino a esaurimento dei posti disponibili.

La partecipazione al ciclo di incontri e alle proiezioni è gratuita.

Umanità d’impresa

Si produce con le materie prime ma anche con le idee. E anche la manifattura esiste e vive sulla base del capitale umano che la anima. Uomini e donne, dunque, sono – da sempre -, alla base dell’economia. Almeno quella vera, naturalmente. Ogni buon imprenditore, d’altra parte, lo sa: curare il capitale umano della propria impresa equivale a far crescere da subito la qualità della produzione, il senso della stessa, significa spingere più in là il confine dello sviluppo.

Ragionare sul significato del capitale umano, quindi, è sempre utile e importante. E lo è ancora di più quando a farlo è il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, com’è accaduto recentemente alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore che ha celebrato i 15 anni di attività presso la sede di Roma.

Visco parla chiaro e dice subito: “Il termine ‘capitale umano’, di cui da lungo tempo fanno uso gli economisti, in particolare gli economisti del lavoro, è ormai entrato nel linguaggio comune, anche se è spesso abusato ed esprime un’idea forse eccessivamente meccanicistica. Ci si sofferma soprattutto sull’istruzione e sulla formazione, ma il concetto è ampio. Vi concorrono molte dimensioni dell’individuo: non solo le capacità cognitive derivanti dal patrimonio di conoscenze, competenze e abilità tecniche, ma anche quelle non cognitive, come la motivazione o le attitudini verso il futuro e le condizioni di salute. Il capitale umano comprende tutto ciò che influenza la capacità degli individui di produrre e creare reddito, oltre alla forza delle loro braccia: la salute fisica e mentale ne è una determinante fondamentale”. È da queste affermazioni che Visco dipana un ragionamento mettendo insieme gli ultimi numeri sul mercato del lavoro, l’alta teoria dell’occupazione e i problemi italiani in fatto di valorizzazione dell’occupazione e dei lavoratori. “Il patrimonio di conoscenze, competenze e abilità di cui le persone sono dotate – dice Visco -, si associa a più elevati livelli di crescita del reddito e di sviluppo economico e sociale. Esso contribuisce ad aumentare la produttività sia direttamente (…),sia indirettamente (..)”. Il Governatore della Banca centrale italiana, quindi, discute dei legami fra capitale umano, progresso tecnologico, rivoluzione digitale e domanda di lavoro arrivando però a precisare “che il progresso tecnico innescato dalla rivoluzione digitale potrebbe avere finora manifestato solo una piccola parte delle sue potenzialità e potrebbe essere ancora lontano dall’avere pienamente dispiegato i suoi effetti sull’occupazione e sulla produttività”. E poi avverte però come le tecnologie sempre più spinte accrescano il rischio di “polarizzare le professioni” e di accrescere eccessivamente l’automazione, svilendo pericolosamente in alcuni casi il ruolo e il significato proprio del capitale umano che è alla base dell’impresa e, in altri, cancellando vecchie occupazioni per dar vita a nuove attività.

Equilibrio, dunque, e capacità di valutazione costituiscono due degli elementi di una nuova cultura d’impresa che, di fronte alle nuove tecnologie, sappia valorizzare comunque il capitale umano senza perdere i vantaggi delle stesse nuove tecnologie. Ma Visco non si ferma qui e allarga ancora l’orizzonte chiedendosi quale sia la situazione del nostro Paese di fronte a temi così importanti e quali possano essere le nuove competenze che è necessario sviluppare.

Conclude poi così il Governatore della Banca d’Italia: “(…) i benefici dell’investimento in capitale umano non si esauriscono con quelli di natura materiale (…). Investire in conoscenza è importante anche ‘oltre l’economia’, contribuisce all’innalzamento del senso civico e del capitale sociale, valori in sé, indipendentemente dai loro effetti positivi sulla crescita economica, e fattori importanti di coesione sociale e di benessere dei cittadini”.

Capitale umano e crescita

Ignazio Visco

Intervento del Governatore della Banca d’Italia, Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di Economia, 30 gennaio 2015

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Si produce con le materie prime ma anche con le idee. E anche la manifattura esiste e vive sulla base del capitale umano che la anima. Uomini e donne, dunque, sono – da sempre -, alla base dell’economia. Almeno quella vera, naturalmente. Ogni buon imprenditore, d’altra parte, lo sa: curare il capitale umano della propria impresa equivale a far crescere da subito la qualità della produzione, il senso della stessa, significa spingere più in là il confine dello sviluppo.

Ragionare sul significato del capitale umano, quindi, è sempre utile e importante. E lo è ancora di più quando a farlo è il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, com’è accaduto recentemente alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore che ha celebrato i 15 anni di attività presso la sede di Roma.

Visco parla chiaro e dice subito: “Il termine ‘capitale umano’, di cui da lungo tempo fanno uso gli economisti, in particolare gli economisti del lavoro, è ormai entrato nel linguaggio comune, anche se è spesso abusato ed esprime un’idea forse eccessivamente meccanicistica. Ci si sofferma soprattutto sull’istruzione e sulla formazione, ma il concetto è ampio. Vi concorrono molte dimensioni dell’individuo: non solo le capacità cognitive derivanti dal patrimonio di conoscenze, competenze e abilità tecniche, ma anche quelle non cognitive, come la motivazione o le attitudini verso il futuro e le condizioni di salute. Il capitale umano comprende tutto ciò che influenza la capacità degli individui di produrre e creare reddito, oltre alla forza delle loro braccia: la salute fisica e mentale ne è una determinante fondamentale”. È da queste affermazioni che Visco dipana un ragionamento mettendo insieme gli ultimi numeri sul mercato del lavoro, l’alta teoria dell’occupazione e i problemi italiani in fatto di valorizzazione dell’occupazione e dei lavoratori. “Il patrimonio di conoscenze, competenze e abilità di cui le persone sono dotate – dice Visco -, si associa a più elevati livelli di crescita del reddito e di sviluppo economico e sociale. Esso contribuisce ad aumentare la produttività sia direttamente (…),sia indirettamente (..)”. Il Governatore della Banca centrale italiana, quindi, discute dei legami fra capitale umano, progresso tecnologico, rivoluzione digitale e domanda di lavoro arrivando però a precisare “che il progresso tecnico innescato dalla rivoluzione digitale potrebbe avere finora manifestato solo una piccola parte delle sue potenzialità e potrebbe essere ancora lontano dall’avere pienamente dispiegato i suoi effetti sull’occupazione e sulla produttività”. E poi avverte però come le tecnologie sempre più spinte accrescano il rischio di “polarizzare le professioni” e di accrescere eccessivamente l’automazione, svilendo pericolosamente in alcuni casi il ruolo e il significato proprio del capitale umano che è alla base dell’impresa e, in altri, cancellando vecchie occupazioni per dar vita a nuove attività.

Equilibrio, dunque, e capacità di valutazione costituiscono due degli elementi di una nuova cultura d’impresa che, di fronte alle nuove tecnologie, sappia valorizzare comunque il capitale umano senza perdere i vantaggi delle stesse nuove tecnologie. Ma Visco non si ferma qui e allarga ancora l’orizzonte chiedendosi quale sia la situazione del nostro Paese di fronte a temi così importanti e quali possano essere le nuove competenze che è necessario sviluppare.

Conclude poi così il Governatore della Banca d’Italia: “(…) i benefici dell’investimento in capitale umano non si esauriscono con quelli di natura materiale (…). Investire in conoscenza è importante anche ‘oltre l’economia’, contribuisce all’innalzamento del senso civico e del capitale sociale, valori in sé, indipendentemente dai loro effetti positivi sulla crescita economica, e fattori importanti di coesione sociale e di benessere dei cittadini”.

Capitale umano e crescita

Ignazio Visco

Intervento del Governatore della Banca d’Italia, Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di Economia, 30 gennaio 2015

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Nuove strategie d’impresa

Ogni impresa deve avere una strategia. Concetto facile a dirsi, più difficile a definirsi, più difficile ancora in quanto a realizzazione pratica. Eppure, oltre allo spirito d’impresa che deve per forza esserci, ogni azienda che vuole guardare in avanti in maniera adeguata, deve dotarsi anche di uno schema d’azione, una successione definita di passi da compiere, un percorso da seguire. Strategia dunque, cioè il farsi programmato di  un’idea imprenditoriale.

L’ultima edizione del manuale di Giorgio Pellicelli serve per costruire correttamente una strategia aziendale, metterla in pratica, condurla fino al traguardo. Tenendo conto dei tempi che cambiano. L’ultima edizione di “Strategie d’impresa”  – manuale classico sulla materia -, inizia proprio dalla constatazione del cambiamento del contesto nel quale un’impresa agisce.  “Negli ultimi anni – scrive Pellicelli -, il management delle imprese ha dovuto affrontare problemi che per complessità forse non hanno precedenti nella storia. La caduta di molte barriere agli scambi ha portato più paesi e più imprese nell’arena competitiva, la tecnologia ha travolto i confini tra settori mentre i progressi delle comunicazioni e Internet, in particolare, hanno distribuito in modo nuovo il potere tra i protagonisti dell’economia”. E poi ancora: “È quindi sempre più evidente che le imprese non possono pianificare nel lungo termine e controllare il loro cammino verso il futuro. Per sopravvivere, le imprese devono avere strategie flessibili in grado di fronteggiare le minacce che emergono continuamente e in grado di catturare le opportunità sempre più rare e sempre più contese che si presentano. Il futuro appartiene alle imprese che sanno interpretare il cambiamento (…)”.

Il problema è saper interpretare un mondo che cambia in tempo reale. Pellicelli, quindi, fornisce i concetti fondamentali di una nuova cultura d’impresa strategica; quella che serve per cambiare nella direzione giusta. E lo fa con una serie di esempi dai quali da discendere la teoria. Lungo le circa 500 pagine del libro, quindi, si snodano i casi di Microsoft-Nokia, Toyota Prius, Honda, Novartis, IBM, Luxottica e Google ma anche di Encyclopaedia Britannica, Rover, General Electric, Glaxo e molti altri ancora che sono altrettanti spunti per capire meglio la realtà e verificare con essa la validità della teoria.

Pellicelli così, ha costruito una guida per manager e imprenditori avveduti, un testo non noioso ma per certi versi addirittura avvincente  e però esatto nei contenuti, rigoroso nelle argomentazioni. Tutto da leggere.

Strategie d’impresa

Giorgio Pellicelli

Egea, 2014

Ogni impresa deve avere una strategia. Concetto facile a dirsi, più difficile a definirsi, più difficile ancora in quanto a realizzazione pratica. Eppure, oltre allo spirito d’impresa che deve per forza esserci, ogni azienda che vuole guardare in avanti in maniera adeguata, deve dotarsi anche di uno schema d’azione, una successione definita di passi da compiere, un percorso da seguire. Strategia dunque, cioè il farsi programmato di  un’idea imprenditoriale.

L’ultima edizione del manuale di Giorgio Pellicelli serve per costruire correttamente una strategia aziendale, metterla in pratica, condurla fino al traguardo. Tenendo conto dei tempi che cambiano. L’ultima edizione di “Strategie d’impresa”  – manuale classico sulla materia -, inizia proprio dalla constatazione del cambiamento del contesto nel quale un’impresa agisce.  “Negli ultimi anni – scrive Pellicelli -, il management delle imprese ha dovuto affrontare problemi che per complessità forse non hanno precedenti nella storia. La caduta di molte barriere agli scambi ha portato più paesi e più imprese nell’arena competitiva, la tecnologia ha travolto i confini tra settori mentre i progressi delle comunicazioni e Internet, in particolare, hanno distribuito in modo nuovo il potere tra i protagonisti dell’economia”. E poi ancora: “È quindi sempre più evidente che le imprese non possono pianificare nel lungo termine e controllare il loro cammino verso il futuro. Per sopravvivere, le imprese devono avere strategie flessibili in grado di fronteggiare le minacce che emergono continuamente e in grado di catturare le opportunità sempre più rare e sempre più contese che si presentano. Il futuro appartiene alle imprese che sanno interpretare il cambiamento (…)”.

Il problema è saper interpretare un mondo che cambia in tempo reale. Pellicelli, quindi, fornisce i concetti fondamentali di una nuova cultura d’impresa strategica; quella che serve per cambiare nella direzione giusta. E lo fa con una serie di esempi dai quali da discendere la teoria. Lungo le circa 500 pagine del libro, quindi, si snodano i casi di Microsoft-Nokia, Toyota Prius, Honda, Novartis, IBM, Luxottica e Google ma anche di Encyclopaedia Britannica, Rover, General Electric, Glaxo e molti altri ancora che sono altrettanti spunti per capire meglio la realtà e verificare con essa la validità della teoria.

Pellicelli così, ha costruito una guida per manager e imprenditori avveduti, un testo non noioso ma per certi versi addirittura avvincente  e però esatto nei contenuti, rigoroso nelle argomentazioni. Tutto da leggere.

Strategie d’impresa

Giorgio Pellicelli

Egea, 2014

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?