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Nuove strategie d’impresa

Ogni impresa deve avere una strategia. Concetto facile a dirsi, più difficile a definirsi, più difficile ancora in quanto a realizzazione pratica. Eppure, oltre allo spirito d’impresa che deve per forza esserci, ogni azienda che vuole guardare in avanti in maniera adeguata, deve dotarsi anche di uno schema d’azione, una successione definita di passi da compiere, un percorso da seguire. Strategia dunque, cioè il farsi programmato di  un’idea imprenditoriale.

L’ultima edizione del manuale di Giorgio Pellicelli serve per costruire correttamente una strategia aziendale, metterla in pratica, condurla fino al traguardo. Tenendo conto dei tempi che cambiano. L’ultima edizione di “Strategie d’impresa”  – manuale classico sulla materia -, inizia proprio dalla constatazione del cambiamento del contesto nel quale un’impresa agisce.  “Negli ultimi anni – scrive Pellicelli -, il management delle imprese ha dovuto affrontare problemi che per complessità forse non hanno precedenti nella storia. La caduta di molte barriere agli scambi ha portato più paesi e più imprese nell’arena competitiva, la tecnologia ha travolto i confini tra settori mentre i progressi delle comunicazioni e Internet, in particolare, hanno distribuito in modo nuovo il potere tra i protagonisti dell’economia”. E poi ancora: “È quindi sempre più evidente che le imprese non possono pianificare nel lungo termine e controllare il loro cammino verso il futuro. Per sopravvivere, le imprese devono avere strategie flessibili in grado di fronteggiare le minacce che emergono continuamente e in grado di catturare le opportunità sempre più rare e sempre più contese che si presentano. Il futuro appartiene alle imprese che sanno interpretare il cambiamento (…)”.

Il problema è saper interpretare un mondo che cambia in tempo reale. Pellicelli, quindi, fornisce i concetti fondamentali di una nuova cultura d’impresa strategica; quella che serve per cambiare nella direzione giusta. E lo fa con una serie di esempi dai quali da discendere la teoria. Lungo le circa 500 pagine del libro, quindi, si snodano i casi di Microsoft-Nokia, Toyota Prius, Honda, Novartis, IBM, Luxottica e Google ma anche di Encyclopaedia Britannica, Rover, General Electric, Glaxo e molti altri ancora che sono altrettanti spunti per capire meglio la realtà e verificare con essa la validità della teoria.

Pellicelli così, ha costruito una guida per manager e imprenditori avveduti, un testo non noioso ma per certi versi addirittura avvincente  e però esatto nei contenuti, rigoroso nelle argomentazioni. Tutto da leggere.

Strategie d’impresa

Giorgio Pellicelli

Egea, 2014

Ogni impresa deve avere una strategia. Concetto facile a dirsi, più difficile a definirsi, più difficile ancora in quanto a realizzazione pratica. Eppure, oltre allo spirito d’impresa che deve per forza esserci, ogni azienda che vuole guardare in avanti in maniera adeguata, deve dotarsi anche di uno schema d’azione, una successione definita di passi da compiere, un percorso da seguire. Strategia dunque, cioè il farsi programmato di  un’idea imprenditoriale.

L’ultima edizione del manuale di Giorgio Pellicelli serve per costruire correttamente una strategia aziendale, metterla in pratica, condurla fino al traguardo. Tenendo conto dei tempi che cambiano. L’ultima edizione di “Strategie d’impresa”  – manuale classico sulla materia -, inizia proprio dalla constatazione del cambiamento del contesto nel quale un’impresa agisce.  “Negli ultimi anni – scrive Pellicelli -, il management delle imprese ha dovuto affrontare problemi che per complessità forse non hanno precedenti nella storia. La caduta di molte barriere agli scambi ha portato più paesi e più imprese nell’arena competitiva, la tecnologia ha travolto i confini tra settori mentre i progressi delle comunicazioni e Internet, in particolare, hanno distribuito in modo nuovo il potere tra i protagonisti dell’economia”. E poi ancora: “È quindi sempre più evidente che le imprese non possono pianificare nel lungo termine e controllare il loro cammino verso il futuro. Per sopravvivere, le imprese devono avere strategie flessibili in grado di fronteggiare le minacce che emergono continuamente e in grado di catturare le opportunità sempre più rare e sempre più contese che si presentano. Il futuro appartiene alle imprese che sanno interpretare il cambiamento (…)”.

Il problema è saper interpretare un mondo che cambia in tempo reale. Pellicelli, quindi, fornisce i concetti fondamentali di una nuova cultura d’impresa strategica; quella che serve per cambiare nella direzione giusta. E lo fa con una serie di esempi dai quali da discendere la teoria. Lungo le circa 500 pagine del libro, quindi, si snodano i casi di Microsoft-Nokia, Toyota Prius, Honda, Novartis, IBM, Luxottica e Google ma anche di Encyclopaedia Britannica, Rover, General Electric, Glaxo e molti altri ancora che sono altrettanti spunti per capire meglio la realtà e verificare con essa la validità della teoria.

Pellicelli così, ha costruito una guida per manager e imprenditori avveduti, un testo non noioso ma per certi versi addirittura avvincente  e però esatto nei contenuti, rigoroso nelle argomentazioni. Tutto da leggere.

Strategie d’impresa

Giorgio Pellicelli

Egea, 2014

Capitale umano di qualità e digital manifacturing: la buona cultura del Nord Est

Persone ben formate e digital manifacturing. Un’industria che si rinnova usando la leva delle competenze hi tech, la produzione su misura, le opportunità offerte dalle stampanti 3D che innovano radicalmente la fabbrica. È la lezione di cultura d’impresa che viene ancora una volta dal Nord Est. “Dai capannoni al capitale umano“, sintetizza Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 30 gennaio. Dando spazio alle indagini e alle considerazioni della Fondazione Nord Est, legata alle Confindustrie venete e diretta da Stefano Micelli.

Sostiene Micelli: “Le imprese stanno imparando a convivere con un nuovo modello di manifattura in cui lavoro e tecnologia sono l’abbinata vincente. Il digital manifacturing, appunto. Anziché produrre e poi cercare di vendere, si produce su misura per soddisfare la richiesta, quanto più personalizzata, di chi acquista”. Sul mercato del consumo finale, ma anche su quello dei beni intermedi. È un cambiamento radicale, rispetto alla stagione dell’industria rampante diffusa, del proliferare disordinato dei capannoni, della competizione sul prezzo, dell’ideologia del “piccolo è bello”. Si lavora sulla qualità. E sull’estrema flessibilità rispetto ai mercati e alle loro nicchie di grande specializzazione (con il vantaggio del potersi dedicare a produzioni ad alto valore aggiunto).

Cambia anche la forma dell’impresa: “I modelli organizzativi sono sempre più agili. Gli imprenditori hanno imparato come gestire la varietà senza costruire organizzazioni burocratiche che potrebbero appesantire i processi decisionali e rendere troppo oneroso il costo dei singoli prodotti. Hanno mutuato la lezione giapponese dell’organizzazione snella, non tanto per fare prodotti seriali di sempre maggiore qualità ma per affrontare la varietà della produzione senza sprechi e appesantimenti”.

Il buon capitale umano, in questa strategia, è fondamentale. È di buon livello, nel Nord Est, “con competenze linguistiche e matematiche degli studenti delle scuole superiori più alte della media delle regioni più di maniche del’Europa”. Il guaio è che buona parte dei giovani va via (nel 2013 ne sono emigrati 7.800, un quarto dei quali con laurea in tasca). Vanno invece trattenuti. Appunto in imprese che innovano e si rinnovano e che da qualche tempo – notano i ricercatori della Fondazione Nord Est – hanno ricominciato a investire. “Umori positivi”, riconosce Micelli, legati anche alla oramai raggiunta consapevolezza dell’esigenza di ” cambiare passo” e di mettere al centro della nuova manifattura proprio quel capitale umano che, altrimenti, emigra. Rendendo l’area, in prospettiva, più povera di buone competenze e dunque meno capace di sviluppo.

Persone ben formate e digital manifacturing. Un’industria che si rinnova usando la leva delle competenze hi tech, la produzione su misura, le opportunità offerte dalle stampanti 3D che innovano radicalmente la fabbrica. È la lezione di cultura d’impresa che viene ancora una volta dal Nord Est. “Dai capannoni al capitale umano“, sintetizza Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 30 gennaio. Dando spazio alle indagini e alle considerazioni della Fondazione Nord Est, legata alle Confindustrie venete e diretta da Stefano Micelli.

Sostiene Micelli: “Le imprese stanno imparando a convivere con un nuovo modello di manifattura in cui lavoro e tecnologia sono l’abbinata vincente. Il digital manifacturing, appunto. Anziché produrre e poi cercare di vendere, si produce su misura per soddisfare la richiesta, quanto più personalizzata, di chi acquista”. Sul mercato del consumo finale, ma anche su quello dei beni intermedi. È un cambiamento radicale, rispetto alla stagione dell’industria rampante diffusa, del proliferare disordinato dei capannoni, della competizione sul prezzo, dell’ideologia del “piccolo è bello”. Si lavora sulla qualità. E sull’estrema flessibilità rispetto ai mercati e alle loro nicchie di grande specializzazione (con il vantaggio del potersi dedicare a produzioni ad alto valore aggiunto).

Cambia anche la forma dell’impresa: “I modelli organizzativi sono sempre più agili. Gli imprenditori hanno imparato come gestire la varietà senza costruire organizzazioni burocratiche che potrebbero appesantire i processi decisionali e rendere troppo oneroso il costo dei singoli prodotti. Hanno mutuato la lezione giapponese dell’organizzazione snella, non tanto per fare prodotti seriali di sempre maggiore qualità ma per affrontare la varietà della produzione senza sprechi e appesantimenti”.

Il buon capitale umano, in questa strategia, è fondamentale. È di buon livello, nel Nord Est, “con competenze linguistiche e matematiche degli studenti delle scuole superiori più alte della media delle regioni più di maniche del’Europa”. Il guaio è che buona parte dei giovani va via (nel 2013 ne sono emigrati 7.800, un quarto dei quali con laurea in tasca). Vanno invece trattenuti. Appunto in imprese che innovano e si rinnovano e che da qualche tempo – notano i ricercatori della Fondazione Nord Est – hanno ricominciato a investire. “Umori positivi”, riconosce Micelli, legati anche alla oramai raggiunta consapevolezza dell’esigenza di ” cambiare passo” e di mettere al centro della nuova manifattura proprio quel capitale umano che, altrimenti, emigra. Rendendo l’area, in prospettiva, più povera di buone competenze e dunque meno capace di sviluppo.

Individui innovatori e imprese felici

L’impresa è anche il lavoro che in essa si esprime e produce. Capire come creare le migliori condizioni perché il lavoro arrivi a dare il meglio se’ stesso, è da tempo uno degli argomenti fondamentali per una buona gestione. Campo di battaglia di teorie opposte, periodico tema di scontro e ribellione, quello del lavoro è insieme a quello dell’imprenditore, l’argomento fondamentale per capire la natura della cultura che anima ogni impresa.

“Capacitare l’innovazione nei contesti organizzativi” di Massimiliano Costa (Università Ca’ Foscari di Venezia), è un tassello in più per approfondire soprattutto un aspetto del rapporto lavoro-impresa: quello dei legami fra organizzazione e miglior risultato del lavoro. L’articolo – apparso su Formazione & Insegnamento -, ragiona di fatto su cosa accade quando il lavoro viene lasciato libero di agire ed esprimersi in un contesto organizzativo innovativo. “Nelle organizzazioni – dice l’autore  -, diventa centrale la libertà per il lavoratore di accedere ad un ventaglio di alternative per realizzare i propri funzionamenti”. L’idea è quella che se si lascia libertà d’espressione al lavoratore, questo crea valore aggiunto e in questo modo può “risolvere problemi, cogliere opportunità, esprimere le potenzialità creativa dell’azienda, genera innovazione”. Ci sarebbe una  sorta di alleanza d’azione fra innovazione, lavoro posto nelle condizioni più consone per esprimersi e progresso d’impresa.

E non solo. Perché l’innovazione non avrebbe ne’ capo ne’ coda, un inizio e una fine  (“Il ciclo di innovazione  – dice l’articolo -, non ha un punto di inizio e un fine definito a cui tendere, è una spirale che risulta contemporaneamente generativa, espansiva e ricorsiva”), e si nutre  e viene spinta anche dalla capacità dei singoli di condividere, trovare, inventare soluzioni nuove.  E’ l’eterno confronto fra individuo e organizzazione che, alla fine, indica il risultato. “Spesso – spiega Costa parlando delle situazioni reali d’impresa -, la resistenza al cambiamento è tale da non consentire un modificarsi degli schemi di azione consueti e da non permettere, quindi, che i collaboratori assumano un’apertura e un atteggiamento che favoriscano l’ingresso di nuove idee e opportunità”.

È una situazione in cui tutti gli attori d’impresa sono chiamati a partecipare. “La responsabilità di innovare – viene quindi sottolineato -, è divenuta oggi una responsabilità diffusa, posta non più, come nel passato, solo nelle mani di alcune funzioni: indipendentemente dal ruolo funzionale, dalle competenze o dalle conoscenze in ingresso, è importante, quindi, che l’organizzazione metta costantemente i suoi membri in condizione di apprendimento”. Costa quindi indica con chiarezza “i luoghi dell’innovazione e della creatività” e le condizioni per la creazione della “capacità di innovare”.

Scritto in maniera non sempre facilissima, “Capacitare l’innovazione nei contesti organizzativi” deve essere letto attentamente  e può contribuire e definire quegli schemi d’azione che in molte realtà aziendali ancora mancano.

Capacitare l’innovazione nei contesti organizzativi

Massimiliano Costa

Università Ca’ Foscari di Venezia

Formazione & Insegnamento XII – 3 – 2014

Download pdf

L’impresa è anche il lavoro che in essa si esprime e produce. Capire come creare le migliori condizioni perché il lavoro arrivi a dare il meglio se’ stesso, è da tempo uno degli argomenti fondamentali per una buona gestione. Campo di battaglia di teorie opposte, periodico tema di scontro e ribellione, quello del lavoro è insieme a quello dell’imprenditore, l’argomento fondamentale per capire la natura della cultura che anima ogni impresa.

“Capacitare l’innovazione nei contesti organizzativi” di Massimiliano Costa (Università Ca’ Foscari di Venezia), è un tassello in più per approfondire soprattutto un aspetto del rapporto lavoro-impresa: quello dei legami fra organizzazione e miglior risultato del lavoro. L’articolo – apparso su Formazione & Insegnamento -, ragiona di fatto su cosa accade quando il lavoro viene lasciato libero di agire ed esprimersi in un contesto organizzativo innovativo. “Nelle organizzazioni – dice l’autore  -, diventa centrale la libertà per il lavoratore di accedere ad un ventaglio di alternative per realizzare i propri funzionamenti”. L’idea è quella che se si lascia libertà d’espressione al lavoratore, questo crea valore aggiunto e in questo modo può “risolvere problemi, cogliere opportunità, esprimere le potenzialità creativa dell’azienda, genera innovazione”. Ci sarebbe una  sorta di alleanza d’azione fra innovazione, lavoro posto nelle condizioni più consone per esprimersi e progresso d’impresa.

E non solo. Perché l’innovazione non avrebbe ne’ capo ne’ coda, un inizio e una fine  (“Il ciclo di innovazione  – dice l’articolo -, non ha un punto di inizio e un fine definito a cui tendere, è una spirale che risulta contemporaneamente generativa, espansiva e ricorsiva”), e si nutre  e viene spinta anche dalla capacità dei singoli di condividere, trovare, inventare soluzioni nuove.  E’ l’eterno confronto fra individuo e organizzazione che, alla fine, indica il risultato. “Spesso – spiega Costa parlando delle situazioni reali d’impresa -, la resistenza al cambiamento è tale da non consentire un modificarsi degli schemi di azione consueti e da non permettere, quindi, che i collaboratori assumano un’apertura e un atteggiamento che favoriscano l’ingresso di nuove idee e opportunità”.

È una situazione in cui tutti gli attori d’impresa sono chiamati a partecipare. “La responsabilità di innovare – viene quindi sottolineato -, è divenuta oggi una responsabilità diffusa, posta non più, come nel passato, solo nelle mani di alcune funzioni: indipendentemente dal ruolo funzionale, dalle competenze o dalle conoscenze in ingresso, è importante, quindi, che l’organizzazione metta costantemente i suoi membri in condizione di apprendimento”. Costa quindi indica con chiarezza “i luoghi dell’innovazione e della creatività” e le condizioni per la creazione della “capacità di innovare”.

Scritto in maniera non sempre facilissima, “Capacitare l’innovazione nei contesti organizzativi” deve essere letto attentamente  e può contribuire e definire quegli schemi d’azione che in molte realtà aziendali ancora mancano.

Capacitare l’innovazione nei contesti organizzativi

Massimiliano Costa

Università Ca’ Foscari di Venezia

Formazione & Insegnamento XII – 3 – 2014

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Chiarezza di idee per far crescere la buona cultura d’impresa

Una buona cultura d’impresa si nutre anche di una buona conoscenza del mondo nel quale l’impresa si muove. Corpo non impermeabile nella società, l’impresa si muove comunicando costantemente con l’esterno, assorbendo istanze e tensioni, indicazioni operative e spunti produttivi, così come, a sua volta, diffonde ai soggetti esterni l’impronta di se’, il proprio modo di intendere il prodotto, il lavoro, il profitto.

Da qui, la necessità – per l’imprenditore così come per il manager avveduto -, di conoscere cosa accade al di là dei confini aziendali. Ed è da qui che si capisce la bontà e l’utilità di libri come “Contro gli opposti estremismi. Per uscire dal declino e dalla crisi” che raccoglie gli interventi di Luigi Spaventa pubblicati principalmente sul Corriere della Sera e su Repubblica dal 2003 al 2011.

Economista, parlamentare, ministro, dirigente d’azienda, Spaventa è stato tutto questo ma, soprattutto, è stato un osservatore attento di decenni di economia italiana. E’ da questo ruolo che sono nati i suoi articoli che, messi in fila, raccontano bene l’evoluzione dell’economia e delle imprese industriali del Paese. Lungo le pagine di Spaventa, quindi, si possono ripercorrere tutti i temi della politica economica italiana, gli interventi dei Governi, i riflessi dei mercati internazionali, l’evoluzione dei grandi gruppi industriali e della rete delle piccole e medie imprese, il ruolo dell’euro, l’importanza dell’Europa, le dinamiche di Borsa. Tutto raccontato con un linguaggio piano, accattivante, giornalisticamente vivace ma tecnicamente ineccepibile. Spaventa, fra l’altro, riesce a unire nella stessa pagina teoria economica e pratica d’impresa, racconto storico e istantanea d’attualità con una tecnica di scrittura non comune.

E’ d’esempio di tutto questo, un passaggio che si trova proprio nelle prime pagine del volume. “La luce iridescente della gran bolla dei mercati (quando ogni anno gli utili dovevano crescere a due cifre e a tre cifre le quotazioni), aveva indotto un sonno della ragione: negli investitori; ma anche nei regolatori e in alcuni studiosi del governo d’impresa. Gli occhi si sono riaperti su una realtà di insospettato squallore”, scriveva spaventa sulle “Mele marce della finanza”.

Non sempre e non tutti possono essere d’accordo con quanto Spaventa ha scritto, ma certamente nelle pagine di “Contro gli opposti pessimismi”, si trova ampio materiale per ragionare., per far crescere la cultura della propria impresa e quella personale. Un libro denso di idee, un’avventura leggerlo e gustarlo.

Contro gli opposti pessimismi. Per uscire dal declino e dalla crisi

Luigi Spaventa

Castelvecchi, 2015

Una buona cultura d’impresa si nutre anche di una buona conoscenza del mondo nel quale l’impresa si muove. Corpo non impermeabile nella società, l’impresa si muove comunicando costantemente con l’esterno, assorbendo istanze e tensioni, indicazioni operative e spunti produttivi, così come, a sua volta, diffonde ai soggetti esterni l’impronta di se’, il proprio modo di intendere il prodotto, il lavoro, il profitto.

Da qui, la necessità – per l’imprenditore così come per il manager avveduto -, di conoscere cosa accade al di là dei confini aziendali. Ed è da qui che si capisce la bontà e l’utilità di libri come “Contro gli opposti estremismi. Per uscire dal declino e dalla crisi” che raccoglie gli interventi di Luigi Spaventa pubblicati principalmente sul Corriere della Sera e su Repubblica dal 2003 al 2011.

Economista, parlamentare, ministro, dirigente d’azienda, Spaventa è stato tutto questo ma, soprattutto, è stato un osservatore attento di decenni di economia italiana. E’ da questo ruolo che sono nati i suoi articoli che, messi in fila, raccontano bene l’evoluzione dell’economia e delle imprese industriali del Paese. Lungo le pagine di Spaventa, quindi, si possono ripercorrere tutti i temi della politica economica italiana, gli interventi dei Governi, i riflessi dei mercati internazionali, l’evoluzione dei grandi gruppi industriali e della rete delle piccole e medie imprese, il ruolo dell’euro, l’importanza dell’Europa, le dinamiche di Borsa. Tutto raccontato con un linguaggio piano, accattivante, giornalisticamente vivace ma tecnicamente ineccepibile. Spaventa, fra l’altro, riesce a unire nella stessa pagina teoria economica e pratica d’impresa, racconto storico e istantanea d’attualità con una tecnica di scrittura non comune.

E’ d’esempio di tutto questo, un passaggio che si trova proprio nelle prime pagine del volume. “La luce iridescente della gran bolla dei mercati (quando ogni anno gli utili dovevano crescere a due cifre e a tre cifre le quotazioni), aveva indotto un sonno della ragione: negli investitori; ma anche nei regolatori e in alcuni studiosi del governo d’impresa. Gli occhi si sono riaperti su una realtà di insospettato squallore”, scriveva spaventa sulle “Mele marce della finanza”.

Non sempre e non tutti possono essere d’accordo con quanto Spaventa ha scritto, ma certamente nelle pagine di “Contro gli opposti pessimismi”, si trova ampio materiale per ragionare., per far crescere la cultura della propria impresa e quella personale. Un libro denso di idee, un’avventura leggerlo e gustarlo.

Contro gli opposti pessimismi. Per uscire dal declino e dalla crisi

Luigi Spaventa

Castelvecchi, 2015

Il cuore innovativo dell’industria Ue batte tra Italia e Germania

L’industria resta cardine dello sviluppo, nonostante la crisi faccia ancora sentire i suoi effetti. E il cuore industriale europeo batte soprattutto in un’area che comprende il Nord dell’Italia e l’Ovest della Germania, con una cultura d’impresa incardinata sui valori dell’innovazione, della ricerca delle migliori tecnologie produttive, della qualità d’una manifattura d’avanguardia internazionale. Metodo tedesco, creatività italiana, come motore di crescita per tutta la Ue.

Il giudizio emerge con chiarezza da una indagine della Fondazione Edison e di Confindustria Bergamo sulle province manifatturiere europee (quelle che hanno una quota di valore aggiunto e di occupati nell’industria superiori al 30%, un’occupazione industriale di almeno 20mila addetti e un valore aggiunto per addetto superiore ai 50mila euro) e cioè su 53 province sulle 1300 di tutta la Ue. Sono quasi tutte italiane e tedesche. E se si guarda alle prime 23, in testa ci sono Brescia e Bergamo, poi Wolfsburg (la patria della Wolkswagen) e poi nell’ordine Vicenza, Boblingen (nei pressi di Stoccarda, area della Daimler), Monza e Brianza, Treviso, Modena, Ingolstadt (Audi), Ludwigshafen (sede della chimica Basf), Varese, etc. 10 province italiane e 13 tedesche, non contando, in questa classifica, le città metropolitane (Milano, Monaco, Francoforte) che fanno da hub di servizi (finanza, logistica, creatività, attività commerciali, formazione, ricerca, etc.) per una manifattura evoluta da “economia della conoscenza).

L’industria ha un cuore italo-tedesco“, ha commentato “Il Sole24Ore” pubblicando la ricerca alla vigilia del vertice del 22 e 23 gennaio tra il premier Renzi e la Cancelliera Merkel a Firenze.

Un patrimonio di cultura manifatturiera “politecnica” da valorizzare, rafforzare, usare come leva di crescita di un’Europa che conferma l’obiettivo di portare, entra il 2020, il peso della manifattura sul Pil al 20%. Per l’Italia, il cuore di questa capacità industriale è la metalmeccanica, seguita da chimica d’avanguardia, gomma-plastica, arredamento e componentistica, per la Germania è l’industria dell’auto (con il supporto di una qualificatissima supply chain italiana).

La Ue sta ragionando su misure da “Industrial compact“. E anche i recenti provvedimenti del governo Renzi sulle piccole e medie imprese innovative (vantaggi fiscali, credito più facile, finanziamento più robusto alla legge Sabatini per chi rinnova macchinari e attrezzature produttive) vanno in questa direzione.

Industria come riscatto e strumento anticrisi, insomma. Con una Ue che finalmente stabilisce priorità di sviluppo e strategie. Una buona strada.

L’industria resta cardine dello sviluppo, nonostante la crisi faccia ancora sentire i suoi effetti. E il cuore industriale europeo batte soprattutto in un’area che comprende il Nord dell’Italia e l’Ovest della Germania, con una cultura d’impresa incardinata sui valori dell’innovazione, della ricerca delle migliori tecnologie produttive, della qualità d’una manifattura d’avanguardia internazionale. Metodo tedesco, creatività italiana, come motore di crescita per tutta la Ue.

Il giudizio emerge con chiarezza da una indagine della Fondazione Edison e di Confindustria Bergamo sulle province manifatturiere europee (quelle che hanno una quota di valore aggiunto e di occupati nell’industria superiori al 30%, un’occupazione industriale di almeno 20mila addetti e un valore aggiunto per addetto superiore ai 50mila euro) e cioè su 53 province sulle 1300 di tutta la Ue. Sono quasi tutte italiane e tedesche. E se si guarda alle prime 23, in testa ci sono Brescia e Bergamo, poi Wolfsburg (la patria della Wolkswagen) e poi nell’ordine Vicenza, Boblingen (nei pressi di Stoccarda, area della Daimler), Monza e Brianza, Treviso, Modena, Ingolstadt (Audi), Ludwigshafen (sede della chimica Basf), Varese, etc. 10 province italiane e 13 tedesche, non contando, in questa classifica, le città metropolitane (Milano, Monaco, Francoforte) che fanno da hub di servizi (finanza, logistica, creatività, attività commerciali, formazione, ricerca, etc.) per una manifattura evoluta da “economia della conoscenza).

L’industria ha un cuore italo-tedesco“, ha commentato “Il Sole24Ore” pubblicando la ricerca alla vigilia del vertice del 22 e 23 gennaio tra il premier Renzi e la Cancelliera Merkel a Firenze.

Un patrimonio di cultura manifatturiera “politecnica” da valorizzare, rafforzare, usare come leva di crescita di un’Europa che conferma l’obiettivo di portare, entra il 2020, il peso della manifattura sul Pil al 20%. Per l’Italia, il cuore di questa capacità industriale è la metalmeccanica, seguita da chimica d’avanguardia, gomma-plastica, arredamento e componentistica, per la Germania è l’industria dell’auto (con il supporto di una qualificatissima supply chain italiana).

La Ue sta ragionando su misure da “Industrial compact“. E anche i recenti provvedimenti del governo Renzi sulle piccole e medie imprese innovative (vantaggi fiscali, credito più facile, finanziamento più robusto alla legge Sabatini per chi rinnova macchinari e attrezzature produttive) vanno in questa direzione.

Industria come riscatto e strumento anticrisi, insomma. Con una Ue che finalmente stabilisce priorità di sviluppo e strategie. Una buona strada.

Un Montecarlo di quarant’anni fa: inno alla Stratos

Nel triennio 1975-76-77, sulle strade del Principato trionfa Sandro Munari con la Lancia Stratos gommata Pirelli P7. Lui probabilmente è stato il più grande rallista di tutti i tempi: Sandro Munari. La macchina: la splendida potentissima Lancia Stratos per cui gli ingegneri Pirelli si erano inventati il super-ribassato Pirelli P7. La gara, quella basta dire che è il Montecarlo:  dal 1911 la più classica delle Classiche.

Il 23 gennaio 1975, giusto quarant’anni fa, al traguardo del 43° Rally di Montecarlo stravinse quel mix di potenza, tecnologia, fantasia e “made in Italy” costituito dalla coppia Munari/Mannucci, dalla Stratos numero 14 in livrea Alitalia e dai Pirelli P7. Il Drago non sbagliò nulla in quel Montecarlo di quarant’anni fa, la vettura si dimostrò un miracolo di affidabilità, il comportamento dei pneumatici ricordò a tutto il mondo che Pirelli stava facendo la storia dei rally. Perchè era chiaro che se l’equipaggiamento della Stratos rappresentava la punta di diamante dell’impegno Pirelli nei rally, altrettanto chiaro era che questo sapere tecnologico era disponibile per gran parte dell’industria automobilistica. Dietro la Stratos numero 14, infatti, al Rally di Montecarlo del 1975 si piazzò un terzetto di Fiat 124 Abarth, tutte equipaggiate Pirelli: la numero 2 di Mikkola/Todt, la numero 10 di Alen/Kivimaki, la numero 12 di Bacchelli/Scabini.

L’anno dopo, 1976, è di nuovo Munari  -questa volta in coppia con Maiga– a portare la Stratos alla vittoria. La sua numero 10 è la prima di una tripletta Lancia/Pirelli: seconda la Stratos di Waldegaard-Thorzelius, terza quella di Darniche-Mahé. E per non lasciare nulla di intentato, ecco al quarto posto un’altra vettura gommata Pirelli P7: la Opel Kadett di Rohrl-Berger.

“Abbiamo sbancato Montecarlo” dirà la pubblicità del 1977, quando ancora una volta la storia si ripete: nella Piazza del Casinò è ancora prima la Stratos di Munari e Maiga. Al secondo posto, un altro gioiello “made in Italy” destinato a sua volta e entrare nella storia dei rally: la Fiat 131 Abarth di Andruet-Biche.
Pirelli era ormai protagonista assoluta nella storia dei rally.

Nel triennio 1975-76-77, sulle strade del Principato trionfa Sandro Munari con la Lancia Stratos gommata Pirelli P7. Lui probabilmente è stato il più grande rallista di tutti i tempi: Sandro Munari. La macchina: la splendida potentissima Lancia Stratos per cui gli ingegneri Pirelli si erano inventati il super-ribassato Pirelli P7. La gara, quella basta dire che è il Montecarlo:  dal 1911 la più classica delle Classiche.

Il 23 gennaio 1975, giusto quarant’anni fa, al traguardo del 43° Rally di Montecarlo stravinse quel mix di potenza, tecnologia, fantasia e “made in Italy” costituito dalla coppia Munari/Mannucci, dalla Stratos numero 14 in livrea Alitalia e dai Pirelli P7. Il Drago non sbagliò nulla in quel Montecarlo di quarant’anni fa, la vettura si dimostrò un miracolo di affidabilità, il comportamento dei pneumatici ricordò a tutto il mondo che Pirelli stava facendo la storia dei rally. Perchè era chiaro che se l’equipaggiamento della Stratos rappresentava la punta di diamante dell’impegno Pirelli nei rally, altrettanto chiaro era che questo sapere tecnologico era disponibile per gran parte dell’industria automobilistica. Dietro la Stratos numero 14, infatti, al Rally di Montecarlo del 1975 si piazzò un terzetto di Fiat 124 Abarth, tutte equipaggiate Pirelli: la numero 2 di Mikkola/Todt, la numero 10 di Alen/Kivimaki, la numero 12 di Bacchelli/Scabini.

L’anno dopo, 1976, è di nuovo Munari  -questa volta in coppia con Maiga– a portare la Stratos alla vittoria. La sua numero 10 è la prima di una tripletta Lancia/Pirelli: seconda la Stratos di Waldegaard-Thorzelius, terza quella di Darniche-Mahé. E per non lasciare nulla di intentato, ecco al quarto posto un’altra vettura gommata Pirelli P7: la Opel Kadett di Rohrl-Berger.

“Abbiamo sbancato Montecarlo” dirà la pubblicità del 1977, quando ancora una volta la storia si ripete: nella Piazza del Casinò è ancora prima la Stratos di Munari e Maiga. Al secondo posto, un altro gioiello “made in Italy” destinato a sua volta e entrare nella storia dei rally: la Fiat 131 Abarth di Andruet-Biche.
Pirelli era ormai protagonista assoluta nella storia dei rally.

Reti di persone e quindi d’imprese

L’impresa da sola fa poco, l’impresa in rete fa molto. Se questo assunto pare ormai entrato a far parte dell’universo dei concetti che industria e sistema produttivo hanno ormai digerito, altra cosa è mettere in pratica le modalità necessarie per dare vita per davvero ad una rete d’imprese. Perché – anche se pochi forse lo ammettono – imprenditori e imprese serbano una dose di riservatezza e gelosia del proprio essere tali, spesso, da ostacolare percorsi di questo genere. Ma nelle reti, soprattutto, contano le persone. Che devono lavorare insieme, unire le forze, comunicare in modo diverso da prima. Deve cambiare, cioè, la cultura dell’impresa e della gestione del personale.

“La gestione delle risorse umane nelle reti di impresa” – scritto da Fulvio D’Alvia e Anna Vaiasicca per l’Osservatorio Isfol -, è un’utile lettura per capire meglio cosa deve mutare nelle imprese di fronte alla necessità di creare una rete che funzioni per davvero.

La ricerca prende quindi in considerazione il cambiamento delle modalità di gestione delle risorse umane “in rete”. Niente di teorico, occorre dirlo subito. D’Alvia, infatti, è dal  2010 è Direttore di RetImpresa, l’Agenzia di Confindustria che promuove l’aggregazione delle imprese, mentre Vaiasicca è psicologa del lavoro e delle organizzazioni e lavora presso il Dipartimento Sistemi formativi dell’Isfol. L’approccio è quindi quello dell’analisi pratica e del confronto fra le varie tipologie di aggregazione d’impresa, viste sotto il profilo del personale. “L’aggregazione in rete – viene spiegato  –,  ha aperto una nuova stagione per le imprese perché consente di ampliare l’offerta dei prodotti, di collaborare per investire in innovazione tecnologica e nella creazione di nuovi prodotti, di realizzare progetti congiunti di sviluppo delle risorse umane”. Il nocciolo del successo, tuttavia, sta proprio nella “formazione delle risorse umane” e il segreto consiste nel fatto che “know-how strategico posseduto dalle singole imprese potrebbe costituire al contempo un’occasione di apprendimento e di ingegnerizzazione della produzione della rete”. È attorno alle tecniche per “mettere in comune” le conoscenze dei singoli, quindi, che si svolge lo studio di D’Alvia e Vaiasicca che arrivano anche a delineare le modalità operative e contrattuali per una buona gestione del personale in rete. Un meccanismo in cui, dicono ancora gli autori, un ruolo determinante viene giocato dagli stessi imprenditori “e dalle nuove funzioni che essi dovranno svolgere”.

È significativo un passaggio: “L’assunzione di commesse e la loro gestione all’interno della rete incrementa l’azione del management al di là del sistema organizzativo della singola impresa. I compiti svolti fuori dal perimetro organizzativo dell’impresa sono quindi altro rispetto al ruolo di amministratore normalmente inteso e sono finalizzati a dare struttura al funzionamento complessivo della rete in funzione degli impegni presi con la committenza e tra gli attori della stessa rete. Ciò apre un ambito di osservazione del tutto nuovo sulle competenze necessarie a svolgere il ruolo dell’imprenditore in rete”.

Insomma, le reti aziendali sono sostanzialmente l’espressione della nascita di una nuova cultura d’impresa. Probabilmente ancora in buona parte da esplorare.

 
 

La gestione delle risorse umane nelle reti di impresa

Fulvio D’Alvia e Anna Vaiasicca

Osservatorio Isfol, IV (2014), n. 1-2, pp. 191-204

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L’impresa da sola fa poco, l’impresa in rete fa molto. Se questo assunto pare ormai entrato a far parte dell’universo dei concetti che industria e sistema produttivo hanno ormai digerito, altra cosa è mettere in pratica le modalità necessarie per dare vita per davvero ad una rete d’imprese. Perché – anche se pochi forse lo ammettono – imprenditori e imprese serbano una dose di riservatezza e gelosia del proprio essere tali, spesso, da ostacolare percorsi di questo genere. Ma nelle reti, soprattutto, contano le persone. Che devono lavorare insieme, unire le forze, comunicare in modo diverso da prima. Deve cambiare, cioè, la cultura dell’impresa e della gestione del personale.

“La gestione delle risorse umane nelle reti di impresa” – scritto da Fulvio D’Alvia e Anna Vaiasicca per l’Osservatorio Isfol -, è un’utile lettura per capire meglio cosa deve mutare nelle imprese di fronte alla necessità di creare una rete che funzioni per davvero.

La ricerca prende quindi in considerazione il cambiamento delle modalità di gestione delle risorse umane “in rete”. Niente di teorico, occorre dirlo subito. D’Alvia, infatti, è dal  2010 è Direttore di RetImpresa, l’Agenzia di Confindustria che promuove l’aggregazione delle imprese, mentre Vaiasicca è psicologa del lavoro e delle organizzazioni e lavora presso il Dipartimento Sistemi formativi dell’Isfol. L’approccio è quindi quello dell’analisi pratica e del confronto fra le varie tipologie di aggregazione d’impresa, viste sotto il profilo del personale. “L’aggregazione in rete – viene spiegato  –,  ha aperto una nuova stagione per le imprese perché consente di ampliare l’offerta dei prodotti, di collaborare per investire in innovazione tecnologica e nella creazione di nuovi prodotti, di realizzare progetti congiunti di sviluppo delle risorse umane”. Il nocciolo del successo, tuttavia, sta proprio nella “formazione delle risorse umane” e il segreto consiste nel fatto che “know-how strategico posseduto dalle singole imprese potrebbe costituire al contempo un’occasione di apprendimento e di ingegnerizzazione della produzione della rete”. È attorno alle tecniche per “mettere in comune” le conoscenze dei singoli, quindi, che si svolge lo studio di D’Alvia e Vaiasicca che arrivano anche a delineare le modalità operative e contrattuali per una buona gestione del personale in rete. Un meccanismo in cui, dicono ancora gli autori, un ruolo determinante viene giocato dagli stessi imprenditori “e dalle nuove funzioni che essi dovranno svolgere”.

È significativo un passaggio: “L’assunzione di commesse e la loro gestione all’interno della rete incrementa l’azione del management al di là del sistema organizzativo della singola impresa. I compiti svolti fuori dal perimetro organizzativo dell’impresa sono quindi altro rispetto al ruolo di amministratore normalmente inteso e sono finalizzati a dare struttura al funzionamento complessivo della rete in funzione degli impegni presi con la committenza e tra gli attori della stessa rete. Ciò apre un ambito di osservazione del tutto nuovo sulle competenze necessarie a svolgere il ruolo dell’imprenditore in rete”.

Insomma, le reti aziendali sono sostanzialmente l’espressione della nascita di una nuova cultura d’impresa. Probabilmente ancora in buona parte da esplorare.

 
 

La gestione delle risorse umane nelle reti di impresa

Fulvio D’Alvia e Anna Vaiasicca

Osservatorio Isfol, IV (2014), n. 1-2, pp. 191-204

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Quando la produzione è uguale alla conoscenza

L’impresa produce anche cultura, lo sappiamo. Ma è forse meno chiaro il fatto che con il cambiamento culturale si può migliorare la produttività dell’impresa, la sua efficienza, i suoi bilanci e, prima ancora, il clima e la soddisfazione di chi vi lavora. Anzi di più: migliorando e cambiando il metodo con cui si affronta la produzione – che ha, appunto, un tratto spiccatamente culturale -, l’impresa acquisisce competitività, risponde meglio alla congiuntura difficile, si trasforma e cresce.

E’ importante, tuttavia, capire a fondo come fare. Per questo sevono libri come “L’arte di migliorare. Made in Lean Italy per tornare a competere” di Arnaldo Camuffo da poco pubblicato da Marsilio. Camuffo è attualmente ordinario alla Università Boccone di Lean managemet ed applica appunto questo metodo alle organizzazioni d’impresa, ma non in maniera accademica. Partendo da una considerazione. Il lean management non si cala dall’alto nelle imprese, ma nasce dal basso, dalla trasformazione silenziosa che, spiega l’autore, “sta cambiando l’industria del nostro Paese”.

Il senso del volume è in un passaggio nelle sue pagine iniziali. Tutto, è basato sulla conoscenza. Per questo il lean thinking e il lean management conseguente “è anche e soprattutto una trasformazione sociale e culturale che richiede un profondo adattamento nei comportamenti e che determina resistenze e costi all’interno delle imprese e presso gli attori che costituiscono il contesto in cui operano. La trasformazione si traduce anche in un linguaggio nuovo e in una diversa forma mentis con grandi potenzialità e grandi rischi”.

Occorre quindi capire come fare per fare meglio e più in fretta. Da qui l’utilità del volume di Camuffo che riesce a conciliare teoria e pratica aziendale con un linguaggio scorrevole e chiaro che, tuttavia, non lascia nulla all’incertezza. Il lean management, quindi, viene descritto nelle sue componenti principali (l’osservazione, la variabilità, l’attenzione allo spreco, la persona come centro del tutto, la conoscenza), ma anche attraverso una serie di esempi importanti dalla Fiat alla Toyota passando per una serie di aziende medie e piccole che hanno fatto e fanno la storia e l’attualità del sistema industriale nazionale.

Camuffo, indaga così le caratteristiche e i punti di forza del sistema industriale italiano che possono consentirgli di ritornare ad essere pianamente competitivo senza delocalizzare né ridurre l’occupazione ulteriormente. Ne nasce una sorta di viaggio attraverso la migliore industria nazionale, che tocca i più bei nomi della produzione degli ultimi decenni ma anche della scienza e della tecnica del Paese. Un percorso ricco di riflessioni e spunti non solo per le imprese, ma per chiunque voglia capire a fondo cosa significhino competitività e valore d’impresa, occupazione e benessere dei lavoratori al giorno d’oggi.

L’arte di migliorare. Made in Lean Italy per tornare a competere

Arnaldo Camuffo

Marsilio, 2014

L’impresa produce anche cultura, lo sappiamo. Ma è forse meno chiaro il fatto che con il cambiamento culturale si può migliorare la produttività dell’impresa, la sua efficienza, i suoi bilanci e, prima ancora, il clima e la soddisfazione di chi vi lavora. Anzi di più: migliorando e cambiando il metodo con cui si affronta la produzione – che ha, appunto, un tratto spiccatamente culturale -, l’impresa acquisisce competitività, risponde meglio alla congiuntura difficile, si trasforma e cresce.

E’ importante, tuttavia, capire a fondo come fare. Per questo sevono libri come “L’arte di migliorare. Made in Lean Italy per tornare a competere” di Arnaldo Camuffo da poco pubblicato da Marsilio. Camuffo è attualmente ordinario alla Università Boccone di Lean managemet ed applica appunto questo metodo alle organizzazioni d’impresa, ma non in maniera accademica. Partendo da una considerazione. Il lean management non si cala dall’alto nelle imprese, ma nasce dal basso, dalla trasformazione silenziosa che, spiega l’autore, “sta cambiando l’industria del nostro Paese”.

Il senso del volume è in un passaggio nelle sue pagine iniziali. Tutto, è basato sulla conoscenza. Per questo il lean thinking e il lean management conseguente “è anche e soprattutto una trasformazione sociale e culturale che richiede un profondo adattamento nei comportamenti e che determina resistenze e costi all’interno delle imprese e presso gli attori che costituiscono il contesto in cui operano. La trasformazione si traduce anche in un linguaggio nuovo e in una diversa forma mentis con grandi potenzialità e grandi rischi”.

Occorre quindi capire come fare per fare meglio e più in fretta. Da qui l’utilità del volume di Camuffo che riesce a conciliare teoria e pratica aziendale con un linguaggio scorrevole e chiaro che, tuttavia, non lascia nulla all’incertezza. Il lean management, quindi, viene descritto nelle sue componenti principali (l’osservazione, la variabilità, l’attenzione allo spreco, la persona come centro del tutto, la conoscenza), ma anche attraverso una serie di esempi importanti dalla Fiat alla Toyota passando per una serie di aziende medie e piccole che hanno fatto e fanno la storia e l’attualità del sistema industriale nazionale.

Camuffo, indaga così le caratteristiche e i punti di forza del sistema industriale italiano che possono consentirgli di ritornare ad essere pianamente competitivo senza delocalizzare né ridurre l’occupazione ulteriormente. Ne nasce una sorta di viaggio attraverso la migliore industria nazionale, che tocca i più bei nomi della produzione degli ultimi decenni ma anche della scienza e della tecnica del Paese. Un percorso ricco di riflessioni e spunti non solo per le imprese, ma per chiunque voglia capire a fondo cosa significhino competitività e valore d’impresa, occupazione e benessere dei lavoratori al giorno d’oggi.

L’arte di migliorare. Made in Lean Italy per tornare a competere

Arnaldo Camuffo

Marsilio, 2014

Bilancio sociale sulla giustizia “aperta al pubblico”: le indicazioni del Tribunale di Milano

Aperti al pubblico”. Un’ovvietà, se si pensa a un ufficio statale. Un impegno sociale, un’originale mescolanza di etica pubblica e spirito di servizio, se si lega quella frase a un Palazzo di Giustizia. “Aperti al pubblico” è infatti il titolo del Bilancio Sociale del Tribunale di Milano, presentato sabato mattina dalla presidente Livia Pomodoro, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e di tutti gli stakeholders del Tribunale, a cominciare dalle imprese.

Il titolo del Bilancio sociale 2013 era “Fare giustizia”, con una bella immagine in copertina, quella di un cantiere, elemento simbolico di un’attività in costruzione e conferma di un’attitidine molto milanese, quella di “fare, e fare bene” (ne abbiamo parlato in un blog del 21 gennaio 2014). Adesso, il cantiere della giustizia ha fatto passi avanti. E proprio quell’”aperti al pubblico” vuole dare il senso di una attività giudiziaria che, nel suo modo di operare in tutti i suoi stadi è trasparente, chiara, pronta a essere giudicata come un servizio e dunque pronta a sottoporsi a una valutazione “pubblica” sulla sua efficienza e sull’efficacia dei provvedimenti che vengono presi. Una indicazione di responsabilità. E una bella sfida.

Il Bilancio Sociale 2014 è stato predisposto dalla Sda Bocconi (con una equipe guidata dal professor Giovanni Valotti). E realizzato con il sostegno dell’Assolombarda, un’importante scelta di buona cultura d’impresa. Guarda all’interno del Palazzo, ai servizi di giustizia resi ai cittadini e alle imprese. Imposta un confronto, un benchmark, con altri Tribunali in Italia e nei paesi europei che ci sono vicini (e concorrenti, in termini di economia e servizi). Documenta i miglioramenti fatti. Indica tutto quel che resta da fare, non in termini di nuove norme, ma in chiave di migliore utilizzo delle norme attuali e dei servizi disponibili. Il tutto sotto gli occhi dei cittadini. “Aperti al pubblico”, appunto.

Giudizi e aspettative delle imprese sono chiariti da Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, che ha fatto della “legalità”  e della giustizia “efficiente ed efficace” un asset fondamentale della competitività di Milano: “La giustizia che serve alle imprese, soggetti attivi e responsabili dello sviluppo economico e sociale del paese, deve sicuramente essere celere. La giustizia lenta non dà certezza del diritto. E, senza certezza del diritto, non funzionano i mercati, non si costruiscono catene del valore e del merito, non si danno risposte corrette all’intraprendenza degli attori economici né infine è possibile attrarre investimenti internazionali”.

Ma la “rapidità” delle sentenze è solo uno degli aspetti essenziali:  “Sono necessarie anche qualità ed efficacia delle sentenze stesse, rispondendo così in modo congruo e puntuale alle esigenze degli operatori”.

Che fare? Rocca sostiene che “per realizzare degli effettivi passi in avanti, occorre, su un primo versante, semplificare e rendere più trasparente il sistema normativo, snellendo anche la selva regolatoria e burocratica che blocca la macchina pubblica, ostacola il dinamismo corretto delle forze sociali e, in molti casi, agevola fenomeni di corruzione, contro cui Assolombarda ha preso con forza posizione.

Ma risulta altrettanto importante far funzionare bene l’attuale macchina della giustizia, improntandola a princìpi e metodi di soddisfazione degli utenti, di miglioramento continuo, di responsabilità, da misurare in base a opportuni parametri. La buona cultura d’impresa può essere, in quest’opera, di sicuro supporto”. E proprio in una logica di benchmarking, “il nostro riferimento per un fruttuoso e stimolante confronto dovrebbero essere anche le aree “forti” dell’Europa, caratterizzate, tra l’altro, da un’alta efficienza della giustizia: Baviera, Baden-Württemberg, Rhône-Alpes, Catalogna, ma anche Svizzera e Austria”.

Il progetto “Giustizia Efficiente” di Assolombarda è appunto finalizzato a intensificare la collaborazione con il Tribunale di Milano, “svolgendo in particolare un ruolo attivo nella sua indagine sulla valutazione della giustizia da parte delle imprese, nonché ad approfondire, anche con benchmark internazionali, il monitoraggio sulla sua rispondenza ai bisogni di una giudizia di qualità. Vanno perciò presi in esame con attenzione i risultati della ricerca appena realizzata con l’Università Bocconi proprio per il bilancio sociale del Tribunale e relativi alla percezione dei problemi della giustizia da parte delle imprese”.

Le imprese, infatti  – conclude Rocca – si pongono tra i principali “stakeholder” del Tribunale “e Assolombarda, interpretando e rappresentando gli interessi e le esigenze delle aziende, intende essere a sua volta un autorevole e significativo interlocutore per il Tribunale e più in generale per tutti coloro che sono impegnati sui temi della giustizia e e del suo miglioramento”.

Aperti al pubblico”. Un’ovvietà, se si pensa a un ufficio statale. Un impegno sociale, un’originale mescolanza di etica pubblica e spirito di servizio, se si lega quella frase a un Palazzo di Giustizia. “Aperti al pubblico” è infatti il titolo del Bilancio Sociale del Tribunale di Milano, presentato sabato mattina dalla presidente Livia Pomodoro, alla presenza del ministro della Giustizia Andrea Orlando, del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini e di tutti gli stakeholders del Tribunale, a cominciare dalle imprese.

Il titolo del Bilancio sociale 2013 era “Fare giustizia”, con una bella immagine in copertina, quella di un cantiere, elemento simbolico di un’attività in costruzione e conferma di un’attitidine molto milanese, quella di “fare, e fare bene” (ne abbiamo parlato in un blog del 21 gennaio 2014). Adesso, il cantiere della giustizia ha fatto passi avanti. E proprio quell’”aperti al pubblico” vuole dare il senso di una attività giudiziaria che, nel suo modo di operare in tutti i suoi stadi è trasparente, chiara, pronta a essere giudicata come un servizio e dunque pronta a sottoporsi a una valutazione “pubblica” sulla sua efficienza e sull’efficacia dei provvedimenti che vengono presi. Una indicazione di responsabilità. E una bella sfida.

Il Bilancio Sociale 2014 è stato predisposto dalla Sda Bocconi (con una equipe guidata dal professor Giovanni Valotti). E realizzato con il sostegno dell’Assolombarda, un’importante scelta di buona cultura d’impresa. Guarda all’interno del Palazzo, ai servizi di giustizia resi ai cittadini e alle imprese. Imposta un confronto, un benchmark, con altri Tribunali in Italia e nei paesi europei che ci sono vicini (e concorrenti, in termini di economia e servizi). Documenta i miglioramenti fatti. Indica tutto quel che resta da fare, non in termini di nuove norme, ma in chiave di migliore utilizzo delle norme attuali e dei servizi disponibili. Il tutto sotto gli occhi dei cittadini. “Aperti al pubblico”, appunto.

Giudizi e aspettative delle imprese sono chiariti da Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, che ha fatto della “legalità”  e della giustizia “efficiente ed efficace” un asset fondamentale della competitività di Milano: “La giustizia che serve alle imprese, soggetti attivi e responsabili dello sviluppo economico e sociale del paese, deve sicuramente essere celere. La giustizia lenta non dà certezza del diritto. E, senza certezza del diritto, non funzionano i mercati, non si costruiscono catene del valore e del merito, non si danno risposte corrette all’intraprendenza degli attori economici né infine è possibile attrarre investimenti internazionali”.

Ma la “rapidità” delle sentenze è solo uno degli aspetti essenziali:  “Sono necessarie anche qualità ed efficacia delle sentenze stesse, rispondendo così in modo congruo e puntuale alle esigenze degli operatori”.

Che fare? Rocca sostiene che “per realizzare degli effettivi passi in avanti, occorre, su un primo versante, semplificare e rendere più trasparente il sistema normativo, snellendo anche la selva regolatoria e burocratica che blocca la macchina pubblica, ostacola il dinamismo corretto delle forze sociali e, in molti casi, agevola fenomeni di corruzione, contro cui Assolombarda ha preso con forza posizione.

Ma risulta altrettanto importante far funzionare bene l’attuale macchina della giustizia, improntandola a princìpi e metodi di soddisfazione degli utenti, di miglioramento continuo, di responsabilità, da misurare in base a opportuni parametri. La buona cultura d’impresa può essere, in quest’opera, di sicuro supporto”. E proprio in una logica di benchmarking, “il nostro riferimento per un fruttuoso e stimolante confronto dovrebbero essere anche le aree “forti” dell’Europa, caratterizzate, tra l’altro, da un’alta efficienza della giustizia: Baviera, Baden-Württemberg, Rhône-Alpes, Catalogna, ma anche Svizzera e Austria”.

Il progetto “Giustizia Efficiente” di Assolombarda è appunto finalizzato a intensificare la collaborazione con il Tribunale di Milano, “svolgendo in particolare un ruolo attivo nella sua indagine sulla valutazione della giustizia da parte delle imprese, nonché ad approfondire, anche con benchmark internazionali, il monitoraggio sulla sua rispondenza ai bisogni di una giudizia di qualità. Vanno perciò presi in esame con attenzione i risultati della ricerca appena realizzata con l’Università Bocconi proprio per il bilancio sociale del Tribunale e relativi alla percezione dei problemi della giustizia da parte delle imprese”.

Le imprese, infatti  – conclude Rocca – si pongono tra i principali “stakeholder” del Tribunale “e Assolombarda, interpretando e rappresentando gli interessi e le esigenze delle aziende, intende essere a sua volta un autorevole e significativo interlocutore per il Tribunale e più in generale per tutti coloro che sono impegnati sui temi della giustizia e e del suo miglioramento”.

Tecnologia ricerca e innovazione, 2011

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