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Narrare per produrre meglio

L’impresa produce e si racconta e con il racconto di se’ migliora la sua modalità produttiva. E’ il risultato – complesso e difficilmente sintetizzabile -, del divenire della cultura del produrre e della più generale cultura d’impresa. Dentro e fuori del perimetro aziendale. Guardare dentro al racconto d’impresa è, quindi, importante e utile per comprendere meglio il divenire del produrre.

Ci ha pensato anche Silvia Tommasi con una tesi chiara e leggibile discussa alla Cà Foscari di Venezia (Laurea magistrale in Marketing e Comunicazione).

“La gestione dell’intelligenza produttiva. La narrazione aziendale a servizio della conoscenza” è un lavoro che ragiona sulla funzione  della narrazione d’impresa nella gestione aziendale e in particolari dei legami con la cosiddetta “intelligenza produttiva” cioè con la capacità dell’impresa di produrre non solo oggetti e servizi in quanto tali, ma anche cultura attorno ad essi.

Il lavoro, dopo un inquadramento delle varie “intelligenze d’impresa”, prende in considerazione i diversi strumenti della narrativa aziendale e in particolare le caratteristiche che deve avere una buona storytelling d’impresa basata su più narratori, emozioni diffuse, tempo giusto di narrazione, confronto con l’esterno, fascinazione del dipanarsi del racconto. La ricerca, quindi, affronta anche il difficile rapporto fra comunicazione  e narrazione e “gelosie” aziendali in fatto di tecnicalità del produrre e del vendere.

L’autrice della ricerca, tuttavia, aggiunge alla teoria l’esempio del gruppo Carel di Padova, attivo a livello mondiale nei settori della refrigerazione a condizionamento. Della Carel viene raccontata non solo la storia ( di successo), ma anche, e soprattutto, l’approccio particolare alla comunicazione e al racconto d’azienda sia nei confronti del personale che dell’esterno. La sintesi dell’approccio aziendale alla comunicazione è in una frase: “Si narra per conoscere e si conosce per poter accrescere il bagaglio culturale di ognuno e trasmetterlo agli altri”.

La gestione dell’intelligenza produttiva. La narrazione aziendale a servizio della conoscenza

Silvia Tommasi

Corso di Laurea magistrale in Marketing e Comunicazione, Università Cà Foscari, 2014

L’impresa produce e si racconta e con il racconto di se’ migliora la sua modalità produttiva. E’ il risultato – complesso e difficilmente sintetizzabile -, del divenire della cultura del produrre e della più generale cultura d’impresa. Dentro e fuori del perimetro aziendale. Guardare dentro al racconto d’impresa è, quindi, importante e utile per comprendere meglio il divenire del produrre.

Ci ha pensato anche Silvia Tommasi con una tesi chiara e leggibile discussa alla Cà Foscari di Venezia (Laurea magistrale in Marketing e Comunicazione).

“La gestione dell’intelligenza produttiva. La narrazione aziendale a servizio della conoscenza” è un lavoro che ragiona sulla funzione  della narrazione d’impresa nella gestione aziendale e in particolari dei legami con la cosiddetta “intelligenza produttiva” cioè con la capacità dell’impresa di produrre non solo oggetti e servizi in quanto tali, ma anche cultura attorno ad essi.

Il lavoro, dopo un inquadramento delle varie “intelligenze d’impresa”, prende in considerazione i diversi strumenti della narrativa aziendale e in particolare le caratteristiche che deve avere una buona storytelling d’impresa basata su più narratori, emozioni diffuse, tempo giusto di narrazione, confronto con l’esterno, fascinazione del dipanarsi del racconto. La ricerca, quindi, affronta anche il difficile rapporto fra comunicazione  e narrazione e “gelosie” aziendali in fatto di tecnicalità del produrre e del vendere.

L’autrice della ricerca, tuttavia, aggiunge alla teoria l’esempio del gruppo Carel di Padova, attivo a livello mondiale nei settori della refrigerazione a condizionamento. Della Carel viene raccontata non solo la storia ( di successo), ma anche, e soprattutto, l’approccio particolare alla comunicazione e al racconto d’azienda sia nei confronti del personale che dell’esterno. La sintesi dell’approccio aziendale alla comunicazione è in una frase: “Si narra per conoscere e si conosce per poter accrescere il bagaglio culturale di ognuno e trasmetterlo agli altri”.

La gestione dell’intelligenza produttiva. La narrazione aziendale a servizio della conoscenza

Silvia Tommasi

Corso di Laurea magistrale in Marketing e Comunicazione, Università Cà Foscari, 2014

L’impresa condivisa

L’impresa cresce e si finanzia anche con l’aiuto di molti, piccoli finanziatori. E’ il crowdfunding che in Italia assume modalità proprie, diverse da quelle di altri Paesi. Ciò che più conta, però, è quanto e come il crowdfunding incida sugli assetti d’impresa e sulla sua cultura, sull’anima che accende un’azienda e la trasforma in un’impresa.

E’  interessante a questo proposito leggere “Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità” di Ivana Pais, Paola Peretti e Chiara Spinelli che cerca di inquadrare il tema sia dal punto di vista teorico che pratico.

La constatazione dalla quale partono le tre autrici è semplice: il crowdfunding comporta un ripensamento strutturale dei rapporti tra economia e società imperniato sui concetti di collaborazione e condivisione. Ma non solo. “Analizzare l’innovativa modalità di raccolta fondi che si muove tra la folla e lo spazio della rete – spiegano -,  significa oggi aprire una finestra sull’Italia che investe per uscire dalla crisi”.

Il libro analizza quindi il concetto e l’uso del crowdfunding con un metodo sistematico, tenendo conto di tutti gli “ingredienti” che entrano in gioco “abilitati dalle tecnologie della rete: apertura, progettualità, partecipazione, connessione, reputazione, fiducia, trasparenza, ecc.”.

Il volume prende in considerazione i differenti modelli di crowdfunding e le norme che li regolano, le diverse piattaforme che possono essere usate e le loro specificità, la costruzione della proposta e del modello di business, la strategia digitale e il piano di marketing, la misurazione dei risultati e le relazioni con i sostenitori: ogni aspetto è spiegato, dal concepimento dell’idea alla fase che segue la chiusura della campagna.

Tutto è poi arricchito da oltre cinquanta storie d’impresa nate con questa modalità di reperimento di fondi.

Dietro tutto questo, l’implicito o esplicito cambiamento della cultura d’impresa moderna che passa dall’essere tesoro di un imprenditore a patrimonio di una comunità.

Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità

Ivana Pais, Paola Peretti, Chiara Spinelli

Egea, 2014

L’impresa cresce e si finanzia anche con l’aiuto di molti, piccoli finanziatori. E’ il crowdfunding che in Italia assume modalità proprie, diverse da quelle di altri Paesi. Ciò che più conta, però, è quanto e come il crowdfunding incida sugli assetti d’impresa e sulla sua cultura, sull’anima che accende un’azienda e la trasforma in un’impresa.

E’  interessante a questo proposito leggere “Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità” di Ivana Pais, Paola Peretti e Chiara Spinelli che cerca di inquadrare il tema sia dal punto di vista teorico che pratico.

La constatazione dalla quale partono le tre autrici è semplice: il crowdfunding comporta un ripensamento strutturale dei rapporti tra economia e società imperniato sui concetti di collaborazione e condivisione. Ma non solo. “Analizzare l’innovativa modalità di raccolta fondi che si muove tra la folla e lo spazio della rete – spiegano -,  significa oggi aprire una finestra sull’Italia che investe per uscire dalla crisi”.

Il libro analizza quindi il concetto e l’uso del crowdfunding con un metodo sistematico, tenendo conto di tutti gli “ingredienti” che entrano in gioco “abilitati dalle tecnologie della rete: apertura, progettualità, partecipazione, connessione, reputazione, fiducia, trasparenza, ecc.”.

Il volume prende in considerazione i differenti modelli di crowdfunding e le norme che li regolano, le diverse piattaforme che possono essere usate e le loro specificità, la costruzione della proposta e del modello di business, la strategia digitale e il piano di marketing, la misurazione dei risultati e le relazioni con i sostenitori: ogni aspetto è spiegato, dal concepimento dell’idea alla fase che segue la chiusura della campagna.

Tutto è poi arricchito da oltre cinquanta storie d’impresa nate con questa modalità di reperimento di fondi.

Dietro tutto questo, l’implicito o esplicito cambiamento della cultura d’impresa moderna che passa dall’essere tesoro di un imprenditore a patrimonio di una comunità.

Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità

Ivana Pais, Paola Peretti, Chiara Spinelli

Egea, 2014

“Utopia pragmatica e umanistica”, la lezione ancora attuale di Mendini

Empatie. Un viaggio da Proust a Cattelan”. E’ questo il titolo della mostra di Alessandro Mendini, uno dei più grandi designer italiani (accanto a Magistretti e ai fratelli Mari, a Sottsass e a Munari, a Gio Ponti e a Castiglioni), che s’è aperta ai primi di dicembre al Centro Saint-Bénin ad Aosta e durerà sino al 26 aprile. Realizzata dall’Assessorato alla Cultura della Val d’Aosta e curata da Alberto Fiz, espone 80 opere tra dipinti, disegni, progetti, sculture, mobili e oggetti d’arredamento creati dall’inizio degli anni 70 a oggi e pensati “in dialogo” con grandi esponenti della letteratura, dell’arte e del design.

E’ una presenza importante anche nella storia della cultura Pirelli, quella di Mendini. Sue, infatti, le illustrazioni di parecchie campagne pubblicitarie, tra il 1957 e il 1962, e molte immagini per la Rivista “Pirelli”, con quei disegni leggeri e ironici, fantasiosi e colorati, capaci, in pochi tratti originali, di raccontare un pneumatico e un materasso di gomma, un impermeabile e una maschera subacquea (gli originali di quei disegni sono custoditi nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli: ecco il link per accedere alla photogallery://goo.gl/OlkX4M ).

Empatie. E utopie. In che senso? “La mia utopia umanistica è pensare che i miei oggetti e le mie architetture possano essere immaginati e progettati così come la natura aveva creato e disegnato i fiori… Ma come posso permettermi questa ambizione? … Faccio così, anche se so che non riuscirò. Ma è questa una mia tensione, un mio destino, una mia testimonianza. Una mia utopia”. Le parole di Mendini sull’ ”utopia umanistica” stanno nel catalogo della mostra di Aosta. E danno bene il senso di una creatività che è ancora oggi vivace e vitale.

Milanese di colte radici borghesi, Mendini (la casa di famiglia era stata progettata dall’architetto Portaluppi) aveva cominciato a lavorare nell’Italia aperta, curiosa e creativa degli anni Cinquanta e Sessanta, la stagione del boom economico, dell’industria, dell’irrompere sulla scena di nuovi modelli di consumi e costumi. E il design è stato anche per lui un approdo felice, come anche i suoi disegni pubblicitari e i suoi oggetti dimostrano. Un’attitudine costante nel tempo. La rassegna di Aosta ne offre esemplari testimonianze. Tre, soprattutto: la celebre “Poltrona di Proust”, dipinta a mano, ironicamente “barocca”, la caffettiera Moka lunga lunga e coloratissima (esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1980) e “Anna G.” e “Alessandro M.”, i due cavatappi antropomorfi creati per Alessi, oramai due icone del migliore design italiano del Novecento. Anche negli anni Settanta della crisi e negli Ottanta della ripresa e dell’euforia, Mendini non smarrisce la strada della fantasia e dell’ironia. Progetta. E àncora il suo lavoro alla concretezza dell’esecuzione, appunto da sapiente designer. La direzione di riviste come “Modo” e soprattutto “Domus” (dal 1979 al 1985) lo aiuta sia a esplorare nuovi orizzonti sia a tenere i pieni ben saldi nella cultura del progetto e in quella del prodotto. Suggestioni artistiche e buona cultura d’impresa si saldano in una sintesi che ha ancora oggi molto da dire.

“Utopia pragmatica”, è la sua, oltre che “umanistica”, per “la capacità di raggiungere realmente un obiettivo pratico”, la definizione di un oggetto che abbia funzioni, utilità, servizio, che incida non solo sulla fantasia delle persone, ma anche e soprattutto sulla loro vita quotidiana, stabilendo però un forte rapporto con l’immaginazione.

Spiega Mendini: “Le definizioni del design oscillano tra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo c’è ‘l’utopia pragmatica’ del design inteso esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è ‘l’utopia umanistica’ del design inteso come espressione poetica, come sentimento, addirittura come arte. Tecnologia contro emozione? Prodotto elettronico contro oggetto fatto a mano? Industria contro artigianato? In realtà il percorso avanti e indietro del pendolo dà luogo a infinite interpretazioni del design e a infiniti atteggiamenti e professioni. E così gli utenti che comprano gli oggetti possono scegliere tra infinite possibilità, secondo le loro ‘utopie personali’, le loro esigenze, il loro carattere, la loro attitudine razionale oppure romantica”.

C’è ancora una lezione di Mendini da non dimenticare: quella della semplicità: “L’emozione che un oggetto può contenere è inversamente proporzionale alla complessità del suo uso. Più l’oggetto è complesso, meno conterrà la libera e antica espressione dello spirito. Per esempio, tutta l’estetica del design informatico è giustamente concentrata nella sua funzionalità, limitata al progetto grafico. E all’opposto più l’oggetto è elementare e semplice, meno vincoli avrà l’estetica della sua forma. Un vaso è come un fiore tra i fiori. L’obiettivo della sua esistenza è proprio la ricerca della sua bellezza artistica”. Dunque, “in questo caso il design parte dalla forma invece che dalla funzione perché il suo obiettivo è quello di provocare emozione e la sua utopia è tutta simbolica. E allora in questi due punti limite del moto del pendolo, in questa dialettica tra ‘utopia tecnologica’ e ‘utopia poetica’ si concentra oggi la principale discussione tra noi designer. E, a pensarci bene, in questa dialettica è contenuto il futuro dell’umanità”.

Empatie. Un viaggio da Proust a Cattelan”. E’ questo il titolo della mostra di Alessandro Mendini, uno dei più grandi designer italiani (accanto a Magistretti e ai fratelli Mari, a Sottsass e a Munari, a Gio Ponti e a Castiglioni), che s’è aperta ai primi di dicembre al Centro Saint-Bénin ad Aosta e durerà sino al 26 aprile. Realizzata dall’Assessorato alla Cultura della Val d’Aosta e curata da Alberto Fiz, espone 80 opere tra dipinti, disegni, progetti, sculture, mobili e oggetti d’arredamento creati dall’inizio degli anni 70 a oggi e pensati “in dialogo” con grandi esponenti della letteratura, dell’arte e del design.

E’ una presenza importante anche nella storia della cultura Pirelli, quella di Mendini. Sue, infatti, le illustrazioni di parecchie campagne pubblicitarie, tra il 1957 e il 1962, e molte immagini per la Rivista “Pirelli”, con quei disegni leggeri e ironici, fantasiosi e colorati, capaci, in pochi tratti originali, di raccontare un pneumatico e un materasso di gomma, un impermeabile e una maschera subacquea (gli originali di quei disegni sono custoditi nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli: ecco il link per accedere alla photogallery://goo.gl/OlkX4M ).

Empatie. E utopie. In che senso? “La mia utopia umanistica è pensare che i miei oggetti e le mie architetture possano essere immaginati e progettati così come la natura aveva creato e disegnato i fiori… Ma come posso permettermi questa ambizione? … Faccio così, anche se so che non riuscirò. Ma è questa una mia tensione, un mio destino, una mia testimonianza. Una mia utopia”. Le parole di Mendini sull’ ”utopia umanistica” stanno nel catalogo della mostra di Aosta. E danno bene il senso di una creatività che è ancora oggi vivace e vitale.

Milanese di colte radici borghesi, Mendini (la casa di famiglia era stata progettata dall’architetto Portaluppi) aveva cominciato a lavorare nell’Italia aperta, curiosa e creativa degli anni Cinquanta e Sessanta, la stagione del boom economico, dell’industria, dell’irrompere sulla scena di nuovi modelli di consumi e costumi. E il design è stato anche per lui un approdo felice, come anche i suoi disegni pubblicitari e i suoi oggetti dimostrano. Un’attitudine costante nel tempo. La rassegna di Aosta ne offre esemplari testimonianze. Tre, soprattutto: la celebre “Poltrona di Proust”, dipinta a mano, ironicamente “barocca”, la caffettiera Moka lunga lunga e coloratissima (esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1980) e “Anna G.” e “Alessandro M.”, i due cavatappi antropomorfi creati per Alessi, oramai due icone del migliore design italiano del Novecento. Anche negli anni Settanta della crisi e negli Ottanta della ripresa e dell’euforia, Mendini non smarrisce la strada della fantasia e dell’ironia. Progetta. E àncora il suo lavoro alla concretezza dell’esecuzione, appunto da sapiente designer. La direzione di riviste come “Modo” e soprattutto “Domus” (dal 1979 al 1985) lo aiuta sia a esplorare nuovi orizzonti sia a tenere i pieni ben saldi nella cultura del progetto e in quella del prodotto. Suggestioni artistiche e buona cultura d’impresa si saldano in una sintesi che ha ancora oggi molto da dire.

“Utopia pragmatica”, è la sua, oltre che “umanistica”, per “la capacità di raggiungere realmente un obiettivo pratico”, la definizione di un oggetto che abbia funzioni, utilità, servizio, che incida non solo sulla fantasia delle persone, ma anche e soprattutto sulla loro vita quotidiana, stabilendo però un forte rapporto con l’immaginazione.

Spiega Mendini: “Le definizioni del design oscillano tra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo c’è ‘l’utopia pragmatica’ del design inteso esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è ‘l’utopia umanistica’ del design inteso come espressione poetica, come sentimento, addirittura come arte. Tecnologia contro emozione? Prodotto elettronico contro oggetto fatto a mano? Industria contro artigianato? In realtà il percorso avanti e indietro del pendolo dà luogo a infinite interpretazioni del design e a infiniti atteggiamenti e professioni. E così gli utenti che comprano gli oggetti possono scegliere tra infinite possibilità, secondo le loro ‘utopie personali’, le loro esigenze, il loro carattere, la loro attitudine razionale oppure romantica”.

C’è ancora una lezione di Mendini da non dimenticare: quella della semplicità: “L’emozione che un oggetto può contenere è inversamente proporzionale alla complessità del suo uso. Più l’oggetto è complesso, meno conterrà la libera e antica espressione dello spirito. Per esempio, tutta l’estetica del design informatico è giustamente concentrata nella sua funzionalità, limitata al progetto grafico. E all’opposto più l’oggetto è elementare e semplice, meno vincoli avrà l’estetica della sua forma. Un vaso è come un fiore tra i fiori. L’obiettivo della sua esistenza è proprio la ricerca della sua bellezza artistica”. Dunque, “in questo caso il design parte dalla forma invece che dalla funzione perché il suo obiettivo è quello di provocare emozione e la sua utopia è tutta simbolica. E allora in questi due punti limite del moto del pendolo, in questa dialettica tra ‘utopia tecnologica’ e ‘utopia poetica’ si concentra oggi la principale discussione tra noi designer. E, a pensarci bene, in questa dialettica è contenuto il futuro dell’umanità”.

Pirelli: un racconto d’inverno

Abbiamo vestito di bianco la Fondazione Pirelli, per poter raccontare una storia di arte, ricerca e tecnologia.

Dal pneumatico Artiglio che negli anni Cinquanta diventò Inverno, aiutato dalla sperimentazione sul BS nei primi rally, passando per l’internazionalizzazione del mercato dei pneumatici negli anni Ottanta che ne fecero crescere la gamma, portando alla realizzazione del Winter, fino al Sottozero 3, la più recente tappa di questa costante ricerca, il cui filo conduttore è la qualità e l’innovazione.

Le fotografie e le pubblicità degli anni Cinquanta e Sessanta ci raccontano la storia del BS e dell’Inverno: dalle pattinatrici ritratte da Scopinich a Cortina, all’ironia dei personaggi di Riccardo Manzi e Alessandro Mendini, fino alle astrazioni di Confalonieri e Negri e Bob Noorda.

Proseguiamo camminando sicuri sulla neve, qua e là illuminata da complessi segni grafici, calcoli, tabelle: sono i disegni tecnici che hanno guidato la progettazione dei pneumatici Winter nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Recuperati e ricondizionati, questi lucidi ora costituiscono un nuovo importante fondo archivistico acquisito dalla Fondazione Pirelli, che va dunque ad arricchire il proprio patrimonio di sapere tecnologico.

Infine la sperimentazione sulle mescole di F1 ci porta ad Oggi: il Sottozero 3, che corre sotto la neve di un paesaggio montano è qui per narrarci un nuovo racconto d’inverno.

Abbiamo vestito di bianco la Fondazione Pirelli, per poter raccontare una storia di arte, ricerca e tecnologia.

Dal pneumatico Artiglio che negli anni Cinquanta diventò Inverno, aiutato dalla sperimentazione sul BS nei primi rally, passando per l’internazionalizzazione del mercato dei pneumatici negli anni Ottanta che ne fecero crescere la gamma, portando alla realizzazione del Winter, fino al Sottozero 3, la più recente tappa di questa costante ricerca, il cui filo conduttore è la qualità e l’innovazione.

Le fotografie e le pubblicità degli anni Cinquanta e Sessanta ci raccontano la storia del BS e dell’Inverno: dalle pattinatrici ritratte da Scopinich a Cortina, all’ironia dei personaggi di Riccardo Manzi e Alessandro Mendini, fino alle astrazioni di Confalonieri e Negri e Bob Noorda.

Proseguiamo camminando sicuri sulla neve, qua e là illuminata da complessi segni grafici, calcoli, tabelle: sono i disegni tecnici che hanno guidato la progettazione dei pneumatici Winter nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Recuperati e ricondizionati, questi lucidi ora costituiscono un nuovo importante fondo archivistico acquisito dalla Fondazione Pirelli, che va dunque ad arricchire il proprio patrimonio di sapere tecnologico.

Infine la sperimentazione sulle mescole di F1 ci porta ad Oggi: il Sottozero 3, che corre sotto la neve di un paesaggio montano è qui per narrarci un nuovo racconto d’inverno.

Anima di gomma, a spasso con la moda, mostra Triennale, 2011

Milano e la sua cultura d’impresa, come definirne e raccontarne l’identità?

Quale cultura d’impresa serve, per Milano? E quali simboli valorizzare, per parlare della città? “Essere stati è una condizione per essere”, ha insegnato Fernand Braudel, storico tra i maggiori del Novecento. Memoria e futuro, dunque, radici e innovazione. “Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”, ha scritto Ernesto De Martino, grande etnologo. Le radici, ancora. E lo sguardo aperto verso il mondo. Giocando a sfogliare pagine di buoni libri, ecco un paio di suggerimenti utili per chi, proprio in epoche di grandi trasformazioni, di globalizzazione, di radicali cambiamenti delle categorie di tempo e spazio, si pone la domanda dell’identità.

Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di Milano? Alla Carver, la questione sta al centro del dibattito sollevato da un bel libro, “Citytelling – Raccontare identità urbane. Il caso Milano”. L’ha scritto Stefano Rolando, milanese con lunga esperienza romana, uomo di sofisticata cultura dell’amministrazione pubblica e della comunicazione istituzionale. L’ha pubblicato Egea, la casa editrice dell’università Bocconi. E se ne è discusso a lungo a metà della scorsa settimana, alla Triennale. Aria molto milanese, dunque. E ambizioni generali, nella consapevolezza diffusa che parlare di Milano non significhi affatto coltivare l’amarcord del borgo (della città chiusa, cioè, nella cerchia delle “mura spagnole”) ma trovare chiavi di lettura e, naturalmente, d’azione, con l’occhio attento alla metropoli, al territorio ampio che tocca Torino e Genova, Brescia e Verona, e giù sino a Bologna e che soprattutto guarda a tutto il sistema Paese. “Far volare Milano per far volare l’Italia”, sostiene appunto Assolombarda come slogan di sintesi dei suoi 50 progetti di sviluppo.

Che cultura? Quella del “fare, e fare bene”, sapienza d’una manifattura “medium tech” forte d’una innovazione adattativa che modifica e rende più competitivi processi produttivi e prodotti. Quella della ricerca, con punte d’eccellenza nelle “life sciences”. Quella della formazione, tipica d’una città universitaria con 180mila studenti, 13mila dei quali stranieri, attratti non solo dalla “qualità della vita” ma anche dall’eccellenza dei processi culturali della metropoli più internazionale d’Italia. Milano, insomma, come città d’impresa che costruisce un ruolo e un’identità come “hub della conoscenza”, il vero vantaggio competitivo. Tratti, questi, che non esauriscono, naturalmente, né l’identità né la “narrazione” di Milano. Ma ne sono comunque elementi di forte connotazione.

E i simboli?  Il Duomo, innanzitutto, che segna la forza della centralità della piazza, spazio pubblico aperto, ricettivo, accogliente (come Milano è sempre stata, nella sua storia), ma anche l’ambizione dello sguardo verso l’alto, un’altra costante (“la città che sale” cara ai futuristi, segno non provinciale d’avanguardia, d’innovazione di ricerca e linguaggi). Simbolo sacro, d’una religiosità originale. Ma anche emblema laico d’una comunità impegnata, battagliera. Simbolo, ancora, d’attivismo: la “fabbrica del Duomo” in cui non si smette mai di lavorare.

Regge, il Duomo, come simbolo storico. Reggerà, la sfida del futuro? Il dibattito è aperto.

Quale cultura d’impresa serve, per Milano? E quali simboli valorizzare, per parlare della città? “Essere stati è una condizione per essere”, ha insegnato Fernand Braudel, storico tra i maggiori del Novecento. Memoria e futuro, dunque, radici e innovazione. “Solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”, ha scritto Ernesto De Martino, grande etnologo. Le radici, ancora. E lo sguardo aperto verso il mondo. Giocando a sfogliare pagine di buoni libri, ecco un paio di suggerimenti utili per chi, proprio in epoche di grandi trasformazioni, di globalizzazione, di radicali cambiamenti delle categorie di tempo e spazio, si pone la domanda dell’identità.

Di cosa parliamo, dunque, quando parliamo di Milano? Alla Carver, la questione sta al centro del dibattito sollevato da un bel libro, “Citytelling – Raccontare identità urbane. Il caso Milano”. L’ha scritto Stefano Rolando, milanese con lunga esperienza romana, uomo di sofisticata cultura dell’amministrazione pubblica e della comunicazione istituzionale. L’ha pubblicato Egea, la casa editrice dell’università Bocconi. E se ne è discusso a lungo a metà della scorsa settimana, alla Triennale. Aria molto milanese, dunque. E ambizioni generali, nella consapevolezza diffusa che parlare di Milano non significhi affatto coltivare l’amarcord del borgo (della città chiusa, cioè, nella cerchia delle “mura spagnole”) ma trovare chiavi di lettura e, naturalmente, d’azione, con l’occhio attento alla metropoli, al territorio ampio che tocca Torino e Genova, Brescia e Verona, e giù sino a Bologna e che soprattutto guarda a tutto il sistema Paese. “Far volare Milano per far volare l’Italia”, sostiene appunto Assolombarda come slogan di sintesi dei suoi 50 progetti di sviluppo.

Che cultura? Quella del “fare, e fare bene”, sapienza d’una manifattura “medium tech” forte d’una innovazione adattativa che modifica e rende più competitivi processi produttivi e prodotti. Quella della ricerca, con punte d’eccellenza nelle “life sciences”. Quella della formazione, tipica d’una città universitaria con 180mila studenti, 13mila dei quali stranieri, attratti non solo dalla “qualità della vita” ma anche dall’eccellenza dei processi culturali della metropoli più internazionale d’Italia. Milano, insomma, come città d’impresa che costruisce un ruolo e un’identità come “hub della conoscenza”, il vero vantaggio competitivo. Tratti, questi, che non esauriscono, naturalmente, né l’identità né la “narrazione” di Milano. Ma ne sono comunque elementi di forte connotazione.

E i simboli?  Il Duomo, innanzitutto, che segna la forza della centralità della piazza, spazio pubblico aperto, ricettivo, accogliente (come Milano è sempre stata, nella sua storia), ma anche l’ambizione dello sguardo verso l’alto, un’altra costante (“la città che sale” cara ai futuristi, segno non provinciale d’avanguardia, d’innovazione di ricerca e linguaggi). Simbolo sacro, d’una religiosità originale. Ma anche emblema laico d’una comunità impegnata, battagliera. Simbolo, ancora, d’attivismo: la “fabbrica del Duomo” in cui non si smette mai di lavorare.

Regge, il Duomo, come simbolo storico. Reggerà, la sfida del futuro? Il dibattito è aperto.

Litigi, imprese e famiglie. Come uscirne

L’impresa funziona se al suo interno non si litiga. Affermazione apparentemente banale, questa, vale per le piccole aziende come per le multinazionali. Con accenti e sfumature diverse, il tasso di efficienza ed efficacia di un’organizzazione produttiva si misura anche dal suo grado di conflittualità. Questione, naturalmente, anche di cultura produttiva e industriale, qualità che vanno coltivate con cura e, se possibile, misurate.

L’articolo di Juan Ortín García (del Dipartimento di marketing, Facoltà di Economia dell’Università della Murcia in Spagna), Pedro Juan Martín Castejón (Ddipartimento di sociologia della stessa università), e di Carmina Pérez Pérezb (ancora del Dipartimento di marketing dell’Università Iberica), va a fondo proprio del tema del conflitto nelle imprese familiari. Con un approccio particolare.

“Il conflitto – viene spiegato nel testo apparso sulla Revista de Empresa Familiar -, è parte della condizione umana. Pertanto, non è un fenomeno positivo, né negativo, ma naturale. Le connotazioni negative tradizionalmente attribuite al conflitto sono in contrasto con le attuali teorie. E’ possibile quindi spiegare il conflitto visto come motore di cambiamento e generatore di vantaggi competitivi”.

Che è come dire: dal litigio non solo si può far pace, ma si può anche crescere.

I tre autori, quindi, dopo aver analizzato il tema dal punto di vista teorico, lo affrontano con una ricerca su 500 aziende medio-piccole connotate da una imprenditorialità familiare. L’indagine è stata condotta somministrando al telefono un questionario alle posizioni di vertice delle imprese stesse.

L’unione di azienda e famiglia, spiegano gli autori alla conclusione dell’indagine, può produrre forme di cultura aziendale che possono risultare negative o, peggio, distruttive, nei confronti dell’impresa. Secondo l’indagine, si tratta di risultati derivanti da una mancanza di formalizzazione nella gestione e nella struttura decisionale d’impresa, oppure di conflitti di interessi personali e professionali tra i membri della famiglia, oppure ancora dalla definizione di processi di delega di responsabilità individuati in base alla “vicinanza” alla famiglia piuttosto che alla capacità professionale.

La conclusione dello studio è solo apparentemente semplice e scontata: “Il fatto – viene spiegato -, che l’azienda di famiglia sia articolata in due sistemi diversi, la famiglia e il business, può portare alla nascita di molti conflitti, ma può anche aiutare lo sviluppo di un business di successo, se si sa distinguere correttamente tra i due. A tal fine, entrambe le parti, la famiglia e la società dovrebbero tenere fuori i loro interessi e concentrarsi su interessi e obiettivi comuni”. Insomma, bene d’impresa e bene di famiglia sono due cose diverse: per farle crescere entrambe occorre tenerle separate.

The culture of conflict in family business

Juan Ortín García, Pedro Juan Martín Castejón, Carmina Pérez Pérezb

Revista de Empresa Familiar, 4(2), 25-35, 2014.

L’impresa funziona se al suo interno non si litiga. Affermazione apparentemente banale, questa, vale per le piccole aziende come per le multinazionali. Con accenti e sfumature diverse, il tasso di efficienza ed efficacia di un’organizzazione produttiva si misura anche dal suo grado di conflittualità. Questione, naturalmente, anche di cultura produttiva e industriale, qualità che vanno coltivate con cura e, se possibile, misurate.

L’articolo di Juan Ortín García (del Dipartimento di marketing, Facoltà di Economia dell’Università della Murcia in Spagna), Pedro Juan Martín Castejón (Ddipartimento di sociologia della stessa università), e di Carmina Pérez Pérezb (ancora del Dipartimento di marketing dell’Università Iberica), va a fondo proprio del tema del conflitto nelle imprese familiari. Con un approccio particolare.

“Il conflitto – viene spiegato nel testo apparso sulla Revista de Empresa Familiar -, è parte della condizione umana. Pertanto, non è un fenomeno positivo, né negativo, ma naturale. Le connotazioni negative tradizionalmente attribuite al conflitto sono in contrasto con le attuali teorie. E’ possibile quindi spiegare il conflitto visto come motore di cambiamento e generatore di vantaggi competitivi”.

Che è come dire: dal litigio non solo si può far pace, ma si può anche crescere.

I tre autori, quindi, dopo aver analizzato il tema dal punto di vista teorico, lo affrontano con una ricerca su 500 aziende medio-piccole connotate da una imprenditorialità familiare. L’indagine è stata condotta somministrando al telefono un questionario alle posizioni di vertice delle imprese stesse.

L’unione di azienda e famiglia, spiegano gli autori alla conclusione dell’indagine, può produrre forme di cultura aziendale che possono risultare negative o, peggio, distruttive, nei confronti dell’impresa. Secondo l’indagine, si tratta di risultati derivanti da una mancanza di formalizzazione nella gestione e nella struttura decisionale d’impresa, oppure di conflitti di interessi personali e professionali tra i membri della famiglia, oppure ancora dalla definizione di processi di delega di responsabilità individuati in base alla “vicinanza” alla famiglia piuttosto che alla capacità professionale.

La conclusione dello studio è solo apparentemente semplice e scontata: “Il fatto – viene spiegato -, che l’azienda di famiglia sia articolata in due sistemi diversi, la famiglia e il business, può portare alla nascita di molti conflitti, ma può anche aiutare lo sviluppo di un business di successo, se si sa distinguere correttamente tra i due. A tal fine, entrambe le parti, la famiglia e la società dovrebbero tenere fuori i loro interessi e concentrarsi su interessi e obiettivi comuni”. Insomma, bene d’impresa e bene di famiglia sono due cose diverse: per farle crescere entrambe occorre tenerle separate.

The culture of conflict in family business

Juan Ortín García, Pedro Juan Martín Castejón, Carmina Pérez Pérezb

Revista de Empresa Familiar, 4(2), 25-35, 2014.

Uomini, donne e imprese

Le imprese sono fatte di persone e vivono in un ben determinato contesto sociale. Imprese uguali a uomini e donne, quindi, e non semplicemente uguali a macchine. E’, insomma, sempre valida e importante la differenza, dettata dall’economia, fra azienda e impresa. Anche se, spesso, proprio questa differenza, con tutte le conseguenza del caso, viene dimenticata. Eppure, proprio in tempi complessi come questi, il senso vero del fare impresa, la propria particolare cultura e l’attenzione al sociale della stessa, trovano nuovi spazi di rivalutazione.

“Valore dei valori. La governance nell’impresa socialmente orientata” pubblicato da Giuseppe Argiolas, aiuta a capire meglio l’intreccio fra ruolo produttivo dell’impresa e suoi aspetti umani e sociali.

Il volume affronta il tema della teoria manageriale dell’impresa dalla prospettiva della persona guardandola come uno degli aspetti fondamentali per una “crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva”. In altri termini, l’autore – che è ricercatore confermato di Economia e Gestione delle Imprese presso il Dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’Università di Cagliari -, parte dall’idea che l’uomo debba essere posto al centro del ragionamento imprenditoriale.

“La crisi in cui versa la società occidentale – dice la presentazione -, è, prima ancora di essere economica, una crisi culturale, sociale e relazionale. Tale situazione spinge anche il mondo delle imprese ad un radicale ripensamento di sé come soggetto sociale”. Da qui parte il cammino indicato dal volume. Secondo Argiolas occorre un ripensamento profondo che “andando alle radici della propria cultura spinga l’impresa a riflettere su se stessa non come oggetto astratto, bensì come soggetto plurale concretamente ‘inserito in’, ed al tempo stesso, ‘espressione di’ uno o più contesti sociali”. Alla base di tutto, come si è detto, le persone, con la loro capacità e intelligenza per una impresa che vuole investire sul capitale umano, rispettare l’ambiente sviluppando processi produttivi ecocompatibili, curando qualità, sicurezza e affidabilità dei prodotti, sicurezza e stabilità dell’ambiente di lavoro, investendo nella comunità e nei rapporti con il territorio.

Argiolas dipana il suo ragionamento sulla base di questi concetti, senza però farsi prendere dal “romanticismo” di un’economia che non può esistere, cioè avulsa dai vincoli di razionalità e di conto.

Descrive bene lo spirito che anima il volume la prefazione di Benedetto Gui (Ordinario di Economia politica dell’Università di Padova), che scrive: “Pensare che un’impresa guidata dalla ricerca del profitto renda comunque un buon servizio alla società è un po’ come illudersi che il prodotto a prezzo più basso sia comunque conveniente per chi compra. (…) A volte dietro il buon risultato economico di un’azienda, oltre alla buona gestione e a una buona fortuna, si nascondono pratiche indebite, materiali scadenti, ingredienti nocivi, risparmio sui costi per la sicurezza ecc. (…)”.

Valore dei valori. La governance nell’impresa socialmente orientata

Giuseppe Argiolas

Città Nuova, 2014

Le imprese sono fatte di persone e vivono in un ben determinato contesto sociale. Imprese uguali a uomini e donne, quindi, e non semplicemente uguali a macchine. E’, insomma, sempre valida e importante la differenza, dettata dall’economia, fra azienda e impresa. Anche se, spesso, proprio questa differenza, con tutte le conseguenza del caso, viene dimenticata. Eppure, proprio in tempi complessi come questi, il senso vero del fare impresa, la propria particolare cultura e l’attenzione al sociale della stessa, trovano nuovi spazi di rivalutazione.

“Valore dei valori. La governance nell’impresa socialmente orientata” pubblicato da Giuseppe Argiolas, aiuta a capire meglio l’intreccio fra ruolo produttivo dell’impresa e suoi aspetti umani e sociali.

Il volume affronta il tema della teoria manageriale dell’impresa dalla prospettiva della persona guardandola come uno degli aspetti fondamentali per una “crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva”. In altri termini, l’autore – che è ricercatore confermato di Economia e Gestione delle Imprese presso il Dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’Università di Cagliari -, parte dall’idea che l’uomo debba essere posto al centro del ragionamento imprenditoriale.

“La crisi in cui versa la società occidentale – dice la presentazione -, è, prima ancora di essere economica, una crisi culturale, sociale e relazionale. Tale situazione spinge anche il mondo delle imprese ad un radicale ripensamento di sé come soggetto sociale”. Da qui parte il cammino indicato dal volume. Secondo Argiolas occorre un ripensamento profondo che “andando alle radici della propria cultura spinga l’impresa a riflettere su se stessa non come oggetto astratto, bensì come soggetto plurale concretamente ‘inserito in’, ed al tempo stesso, ‘espressione di’ uno o più contesti sociali”. Alla base di tutto, come si è detto, le persone, con la loro capacità e intelligenza per una impresa che vuole investire sul capitale umano, rispettare l’ambiente sviluppando processi produttivi ecocompatibili, curando qualità, sicurezza e affidabilità dei prodotti, sicurezza e stabilità dell’ambiente di lavoro, investendo nella comunità e nei rapporti con il territorio.

Argiolas dipana il suo ragionamento sulla base di questi concetti, senza però farsi prendere dal “romanticismo” di un’economia che non può esistere, cioè avulsa dai vincoli di razionalità e di conto.

Descrive bene lo spirito che anima il volume la prefazione di Benedetto Gui (Ordinario di Economia politica dell’Università di Padova), che scrive: “Pensare che un’impresa guidata dalla ricerca del profitto renda comunque un buon servizio alla società è un po’ come illudersi che il prodotto a prezzo più basso sia comunque conveniente per chi compra. (…) A volte dietro il buon risultato economico di un’azienda, oltre alla buona gestione e a una buona fortuna, si nascondono pratiche indebite, materiali scadenti, ingredienti nocivi, risparmio sui costi per la sicurezza ecc. (…)”.

Valore dei valori. La governance nell’impresa socialmente orientata

Giuseppe Argiolas

Città Nuova, 2014

Buone Feste dalla Fondazione Pirelli

Tutto lo staff della Fondazione Pirelli vi augura buone feste e un felice inizio d’anno, dandovi appuntamento al 7 gennaio 2015.

Ma prima di salutarvi vogliamo ringraziarvi per avere condiviso con noi un anno ricco di eventi e di soddisfazioni. Ecco qualche numero: 4900 le persone che hanno fatto visita alla Fondazione Pirelli e all’Archivio Storico, 45 le scuole che hanno partecipato ai laboratori di Fondazione Pirelli Educational con più di 1000 studenti di ogni ordine e grado, più di 500 le persone che hanno partecipato ai nostri eventi pensati durante la Settimana della Cultura d’Impresa.

Continuate a seguirci anche nel 2015.

Auguri a tutti.

Tutto lo staff della Fondazione Pirelli vi augura buone feste e un felice inizio d’anno, dandovi appuntamento al 7 gennaio 2015.

Ma prima di salutarvi vogliamo ringraziarvi per avere condiviso con noi un anno ricco di eventi e di soddisfazioni. Ecco qualche numero: 4900 le persone che hanno fatto visita alla Fondazione Pirelli e all’Archivio Storico, 45 le scuole che hanno partecipato ai laboratori di Fondazione Pirelli Educational con più di 1000 studenti di ogni ordine e grado, più di 500 le persone che hanno partecipato ai nostri eventi pensati durante la Settimana della Cultura d’Impresa.

Continuate a seguirci anche nel 2015.

Auguri a tutti.

Corruzione, una “zavorra” da 60 miliardi sulla fragile economia

Incidenze e coincidenze, per usare una felice espressione di Leonardo Sciascia. Ovvero involontarie ma felici sintonie lessicali. Tra la Cgil e Confindustria. Sui temi della corruzione e della necessità della legalità. “Togliere la zavorra al mercato” e cioè “creare sviluppo e occupazione attraverso la legalità” era il titolo d’un interessante convegno organizzato il 14 novembre scorso dalla Cgil lombarda e dall’università Bocconi (il Dipartimento di Studi Giuridici “Angelo Sraffa”) per discutere del peso sull’economia di corruzione e mafia. “La corruzione zavorra dello sviluppo” è il titolo della presentazione degli “Scenari economici” del Centro Studi Confindustria, mercoledì 17 dicembre, a Roma. Illegalità come “zavorra”, appunto. “Zavorra” è la parola comune: ostacolo per una buona cultura di mercato (è la Cgil, a usare il termine “mercato”), distorsione d’una equilibrata crescita economica e sociale, frattura nel mondo delle imprese, del lavoro, del miglioramento della società. E legalità, invece, vissuta come asset della competitività d’un territorio, oltre che naturalmente come condizione essenziale dell’etica della comunità e della convivenza civile.

Sono concordanze importanti, in chiave di positiva cultura d’impresa. Da sottolineare con soddisfazione. Perché pesa, la corruzione, sulla già fragile economia italiana. Quanto? “60 miliardi all’anno, la metà del totale europeo”, documenta il primo Rapporto della Commissione Ue sul tema, presentato ai primi di febbraio 2014 a Bruxelles da Cecilia Malström, Commissaria agli Affari Interni. Il 75% dei cittadini europei, ma addirittura il 97% degli italiani, tutti cioè, secondo un  sondaggio di Eurobarometro, considerano “dilagante” la corruzione  a casa propria. Dunque, un degrado politico e sociale con cui fare severamente i conti. Da parte della politica, della società civile e degli attori economici. 60 miliardi era la stima contenuta nella relazione della Corte dei Conti, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Nel febbraio 2012, quasi tre anni fa, dunque. E già allora la magistratura contabile denunciava: “Illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolente presenti nel Paese”, mentre il Procuratore Generale della Corte Maria Teresa Arganelli sottolineava che a questi livelli “la corruzione minaccia la libertà delle imprese e mina la fiducia degli investitori stranieri”. Tre anni persi, potremmo dire adesso, visto che il problema si ripropone, in modi e forme ancora più gravi.

Una conferma della crisi di legalità e dunque delle alterazioni dell’economia arriva da Trasparency International, che nella classifica 2014, pone l’Italia al 69° posto su 175 paesi esaminati: la posizione peggiore d’Europa, accanto a Romania, Bulgaria e Grecia. L’indice misura “la percezione della corruzione” paese per paese e dice dunque quanto gli italiani avvertano come pervasiva la “cattiva economia delle tangenti” e in difficoltà la ripresa, la crescita della ricchezza “regolare” e del lavoro.

Tema gravissimo, dunque. Non solo italiano. Ma qui da noi, come documenta appunto Trasparency, più pesante che altrove. Per capire meglio, vale la pena leggere un buon libro, “Corruption – Economic Analysis and International Law”, scritto da due economisti italiani, Marco Arnone e Leonardo S. Borlini e pubblicato da Edward Elgar, con prefazioni di Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia e Gabrio Forti, professore di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano. “Là dove proliferano corruzione pubblica e privata, i mercati sono dominati da distorsioni e inefficienze” e “il malfunzionamento dei mercati genera vantaggi solo per lobby di privilegiati, interni alle strutture corrotte”, sostiene Padoan. Zavorra, appunto. E limiti allo sviluppo.

“Italia, meno burocrazia per rilanciare la crescita”, notava un documento del Centro Studi Confindustria (l’indagine è di Loredana Scaperrotta) di cui avevamo parlato, su questo blog, il 25 febbraio, sostenendo, appunto in chiave di sviluppo del sistema Paese, che “un aumento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione dell’1% genera un incremento del Pil pro capite dello 0,9%” ma anche una crescita degli investimenti internazionali, con effetti positivi sull’occupazione. L’indicazione sinterica è chiara: “Occorre sciogliere i nodi della burocrazia: troppe e complesse regole, tempi di risposta lunghi e incerti, costi insostenibili della macchina pubblica, anche della politica, imbrigliano lo sviluppo soprattutto delle aziende più dinamiche”.

Come avere un minor livello di corruzione? Repressione giudiziaria e sanzioni sociali a parte (troppo a lungo vaste aree del mondo politico e dell’opinione pubblica hanno avuto atteggiamenti indifferenti o maliziosamente ammiccanti o addirittura complici con corrotti e corruttori, evasori fiscali e “amici degli amici” legati ai mafiosi), servono minori intermediazioni pubbliche, politiche e amministrative. E giustizia efficiente ed efficace. E trasparenza (anche attraverso un severo impegno dei media). Ricordando anche alcune antiche buone lezioni. Quella di Max Weber (“La burocrazia è tra le strutture sociali più difficili da distruggere”) e quella di Gaetano Salvemini (“L’albero mortifero della burocrazia, lenta, complicatissima, non rispondente affatto ai bisogni delle popolazioni perché risponde esclusivamente ai propri”. Moniti d’un secolo fa. Attualissimi.

Incidenze e coincidenze, per usare una felice espressione di Leonardo Sciascia. Ovvero involontarie ma felici sintonie lessicali. Tra la Cgil e Confindustria. Sui temi della corruzione e della necessità della legalità. “Togliere la zavorra al mercato” e cioè “creare sviluppo e occupazione attraverso la legalità” era il titolo d’un interessante convegno organizzato il 14 novembre scorso dalla Cgil lombarda e dall’università Bocconi (il Dipartimento di Studi Giuridici “Angelo Sraffa”) per discutere del peso sull’economia di corruzione e mafia. “La corruzione zavorra dello sviluppo” è il titolo della presentazione degli “Scenari economici” del Centro Studi Confindustria, mercoledì 17 dicembre, a Roma. Illegalità come “zavorra”, appunto. “Zavorra” è la parola comune: ostacolo per una buona cultura di mercato (è la Cgil, a usare il termine “mercato”), distorsione d’una equilibrata crescita economica e sociale, frattura nel mondo delle imprese, del lavoro, del miglioramento della società. E legalità, invece, vissuta come asset della competitività d’un territorio, oltre che naturalmente come condizione essenziale dell’etica della comunità e della convivenza civile.

Sono concordanze importanti, in chiave di positiva cultura d’impresa. Da sottolineare con soddisfazione. Perché pesa, la corruzione, sulla già fragile economia italiana. Quanto? “60 miliardi all’anno, la metà del totale europeo”, documenta il primo Rapporto della Commissione Ue sul tema, presentato ai primi di febbraio 2014 a Bruxelles da Cecilia Malström, Commissaria agli Affari Interni. Il 75% dei cittadini europei, ma addirittura il 97% degli italiani, tutti cioè, secondo un  sondaggio di Eurobarometro, considerano “dilagante” la corruzione  a casa propria. Dunque, un degrado politico e sociale con cui fare severamente i conti. Da parte della politica, della società civile e degli attori economici. 60 miliardi era la stima contenuta nella relazione della Corte dei Conti, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Nel febbraio 2012, quasi tre anni fa, dunque. E già allora la magistratura contabile denunciava: “Illegalità, corruzione e malaffare sono fenomeni ancora notevolente presenti nel Paese”, mentre il Procuratore Generale della Corte Maria Teresa Arganelli sottolineava che a questi livelli “la corruzione minaccia la libertà delle imprese e mina la fiducia degli investitori stranieri”. Tre anni persi, potremmo dire adesso, visto che il problema si ripropone, in modi e forme ancora più gravi.

Una conferma della crisi di legalità e dunque delle alterazioni dell’economia arriva da Trasparency International, che nella classifica 2014, pone l’Italia al 69° posto su 175 paesi esaminati: la posizione peggiore d’Europa, accanto a Romania, Bulgaria e Grecia. L’indice misura “la percezione della corruzione” paese per paese e dice dunque quanto gli italiani avvertano come pervasiva la “cattiva economia delle tangenti” e in difficoltà la ripresa, la crescita della ricchezza “regolare” e del lavoro.

Tema gravissimo, dunque. Non solo italiano. Ma qui da noi, come documenta appunto Trasparency, più pesante che altrove. Per capire meglio, vale la pena leggere un buon libro, “Corruption – Economic Analysis and International Law”, scritto da due economisti italiani, Marco Arnone e Leonardo S. Borlini e pubblicato da Edward Elgar, con prefazioni di Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia e Gabrio Forti, professore di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano. “Là dove proliferano corruzione pubblica e privata, i mercati sono dominati da distorsioni e inefficienze” e “il malfunzionamento dei mercati genera vantaggi solo per lobby di privilegiati, interni alle strutture corrotte”, sostiene Padoan. Zavorra, appunto. E limiti allo sviluppo.

“Italia, meno burocrazia per rilanciare la crescita”, notava un documento del Centro Studi Confindustria (l’indagine è di Loredana Scaperrotta) di cui avevamo parlato, su questo blog, il 25 febbraio, sostenendo, appunto in chiave di sviluppo del sistema Paese, che “un aumento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione dell’1% genera un incremento del Pil pro capite dello 0,9%” ma anche una crescita degli investimenti internazionali, con effetti positivi sull’occupazione. L’indicazione sinterica è chiara: “Occorre sciogliere i nodi della burocrazia: troppe e complesse regole, tempi di risposta lunghi e incerti, costi insostenibili della macchina pubblica, anche della politica, imbrigliano lo sviluppo soprattutto delle aziende più dinamiche”.

Come avere un minor livello di corruzione? Repressione giudiziaria e sanzioni sociali a parte (troppo a lungo vaste aree del mondo politico e dell’opinione pubblica hanno avuto atteggiamenti indifferenti o maliziosamente ammiccanti o addirittura complici con corrotti e corruttori, evasori fiscali e “amici degli amici” legati ai mafiosi), servono minori intermediazioni pubbliche, politiche e amministrative. E giustizia efficiente ed efficace. E trasparenza (anche attraverso un severo impegno dei media). Ricordando anche alcune antiche buone lezioni. Quella di Max Weber (“La burocrazia è tra le strutture sociali più difficili da distruggere”) e quella di Gaetano Salvemini (“L’albero mortifero della burocrazia, lenta, complicatissima, non rispondente affatto ai bisogni delle popolazioni perché risponde esclusivamente ai propri”. Moniti d’un secolo fa. Attualissimi.

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