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L’impresa raccontata forma l’impresa reale

L’impresa comunica dentro e fuori di essa. Certo, lo si è detto molte volte. Ma vale la pena tornare sui legami fra buona produzione e buona comunicazione, fra l’organizzazione che funziona e l’informazione che circola dentro e fuori di essa. L’ideale è una sorta di “impresa trasparente”, talmente efficace ed efficiente da non temere alcuna intrusione. Ma, al di là dell’utopia, certo è che una certa parte della cultura d’impresa si fa nel racconto di essa.

E’ utile e interessante, allora, leggere “La comunicazione organizzativa come narrazione collettiva” di Andrea Volterrani: una sorta di sintesi delle idee e dei metodi che uniscono la comunicazione con l’organizzazione e  la cultura d’impresa. Una lettura di poco meno di 50 pagine che parte con una frase netta: “Comunicazione, organizzazione e narrazione”. E’ infatti attorno a questi tre vocaboli che si dipana l’intero lavoro che prende in considerazione prima i legami fra processi comunicativi e modalità organizzative, poi approfondisce il tema del come “narrare l’organizzazione” e, infine, affronta in maniera analitica tutti gli strumenti della comunicazione organizzativa (dalle relazioni interpersonali alle riunioni e alle assemblea, passando per le tecniche di ascolto).

Al di là dell’aspetto manualistico della ricerca, è significativo un passaggio: “Adottare un approccio narrativo alla comunicazione organizzativa significa innanzitutto esaltare il ruolo che le storie, tutte le storie che nascono dentro e fuori l’organizzazione, fra le persone che fanno parte strutturalmente dell’organizzazione e quelle che ne fanno parte solo per un certo periodo di tempo, fra l’organizzazione e le altre istituzioni pubbliche, le altre organizzazioni della società civile e del mercato presenti sul territorio. Esaltare il ruolo di tutte queste storie non solo per rendere visibile l’organizzazione e comunicarne meglio gli obiettivi, le azioni, gli eventuali ostacoli, ma per riconoscere che oltre ad essere un insieme di metodi e di strumenti di lavoro, è un inestimabile patrimonio da valorizzare e da condividere con l’intera comunità territoriale di riferimento”.

E’ così dal racconto d’impresa che si forma non solo l’immagine dell’impresa stessa ma anche il suo spirito, il senso del produrre correttamente e con attenzione all’uomo che, a ben vedere, dovrebbe uniformare di se’ ogni buona azienda.

La comunicazione organizzativa come narrazione collettiva

Andrea Volterrani, 2014

L’impresa comunica dentro e fuori di essa. Certo, lo si è detto molte volte. Ma vale la pena tornare sui legami fra buona produzione e buona comunicazione, fra l’organizzazione che funziona e l’informazione che circola dentro e fuori di essa. L’ideale è una sorta di “impresa trasparente”, talmente efficace ed efficiente da non temere alcuna intrusione. Ma, al di là dell’utopia, certo è che una certa parte della cultura d’impresa si fa nel racconto di essa.

E’ utile e interessante, allora, leggere “La comunicazione organizzativa come narrazione collettiva” di Andrea Volterrani: una sorta di sintesi delle idee e dei metodi che uniscono la comunicazione con l’organizzazione e  la cultura d’impresa. Una lettura di poco meno di 50 pagine che parte con una frase netta: “Comunicazione, organizzazione e narrazione”. E’ infatti attorno a questi tre vocaboli che si dipana l’intero lavoro che prende in considerazione prima i legami fra processi comunicativi e modalità organizzative, poi approfondisce il tema del come “narrare l’organizzazione” e, infine, affronta in maniera analitica tutti gli strumenti della comunicazione organizzativa (dalle relazioni interpersonali alle riunioni e alle assemblea, passando per le tecniche di ascolto).

Al di là dell’aspetto manualistico della ricerca, è significativo un passaggio: “Adottare un approccio narrativo alla comunicazione organizzativa significa innanzitutto esaltare il ruolo che le storie, tutte le storie che nascono dentro e fuori l’organizzazione, fra le persone che fanno parte strutturalmente dell’organizzazione e quelle che ne fanno parte solo per un certo periodo di tempo, fra l’organizzazione e le altre istituzioni pubbliche, le altre organizzazioni della società civile e del mercato presenti sul territorio. Esaltare il ruolo di tutte queste storie non solo per rendere visibile l’organizzazione e comunicarne meglio gli obiettivi, le azioni, gli eventuali ostacoli, ma per riconoscere che oltre ad essere un insieme di metodi e di strumenti di lavoro, è un inestimabile patrimonio da valorizzare e da condividere con l’intera comunità territoriale di riferimento”.

E’ così dal racconto d’impresa che si forma non solo l’immagine dell’impresa stessa ma anche il suo spirito, il senso del produrre correttamente e con attenzione all’uomo che, a ben vedere, dovrebbe uniformare di se’ ogni buona azienda.

La comunicazione organizzativa come narrazione collettiva

Andrea Volterrani, 2014

Anche l’industria italiana cambia. Ma come?

Capire il cambiamento che c’è stato e che c’è, serve per comprendere meglio come agire e, in qualche modo, capire come potrà essere il prossimo futuro. Ovvio: non è questione di preveggenza. Ancor più in economia dove, di fatto, il calcolo lascia molto spazio all’accadere improvviso, all’irrazionalità delle scelte (con buona pace degli economisti), e all’improvvisazione umana. Ma, comunque, aver presente la storia dell’evoluzione dell’industria e della produzione – soprattutto italiane -, serve all’imprenditore e al manager avveduto.

La fatica di Alessandro Arrighetti e Augusto Ninni – “La trasformazione ‘silenziosa’. Cambiamento strutturale e strategie d’impresa nell’industria italiana” -, da pochissimo messa a disposizione nella Rete, arriva giusto a questo proposito: aiutare a comprendere cosa è accaduto all’industria nazionale negli ultimi anni (in particolare dal 1990).

Pubblicato dal Dipartimento di Economia Università di Parma, nella Collana di Economia Industriale e Applicata, il volume di oltre 450 pagine è composto da 11 interventi a più mani fra cui sono da segnalare quelli sul cambiamento dei sistemi manifatturieri, sulla interpretazione del divario innovativo dell’industria italiana, sui cambiamenti dei paradigmi produttivi e organizzativi, sul miglioramento qualitativo della produzione nazionale e sulla domanda sull’esistenza o meno oggi dei distretti industriali. A scrivere, 22 studiosi che hanno composto, di fatto, un manuale per interpretare  meglio la storia economica industriale di vent’anni..

“Le forze che in molti paesi hanno modificato il paesaggio manifatturiero nell’ultimo ventennio – spiegano i due curatori nel saggio introduttivi -,  hanno dato luogo in Italia a trasformazioni e dinamiche inedite, con caratteri e processi originali e talvolta contraddittori”. E ancora: “Il quadro che emerge dall’insieme delle evidenze empiriche disponibili – spiegano -, rivela come il sistema manifatturiero nazionale non sia rimasto ingessato all’interno di uno schema uniforme. All’opposto i segnali raccolti indicano come le imprese abbiano scelto percorsi evolutivi fortemente differenziati con intensità di cambiamento variabile e strategie diverse”.

Cambiamento avvenuto e in corso, dunque, ma anche consolidamento dell’approccio nazionale ai mutamenti dei mercati e della concorrenza.

Il lavoro messo insieme da Arrighetti e Ninni non è certo di facile lettura, ma è completo, approfondisce le questioni in campo, fornisce uno strumento importante di conoscenza del passato recente per – come si è detto all’inizio -, essere in grado di valutare meglio l’oggi e affrontare con più avvedutezza il domani.

La trasformazione ‘silenziosa’. Cambiamento strutturale e strategie d’impresa nell’industria italiana

A cura di Alessando Arrighetti, Augusto Ninni

Dipartimento di Economia Università di Parma, Collana di Economia Industriale e Applicata, Novembre 2014

Capire il cambiamento che c’è stato e che c’è, serve per comprendere meglio come agire e, in qualche modo, capire come potrà essere il prossimo futuro. Ovvio: non è questione di preveggenza. Ancor più in economia dove, di fatto, il calcolo lascia molto spazio all’accadere improvviso, all’irrazionalità delle scelte (con buona pace degli economisti), e all’improvvisazione umana. Ma, comunque, aver presente la storia dell’evoluzione dell’industria e della produzione – soprattutto italiane -, serve all’imprenditore e al manager avveduto.

La fatica di Alessandro Arrighetti e Augusto Ninni – “La trasformazione ‘silenziosa’. Cambiamento strutturale e strategie d’impresa nell’industria italiana” -, da pochissimo messa a disposizione nella Rete, arriva giusto a questo proposito: aiutare a comprendere cosa è accaduto all’industria nazionale negli ultimi anni (in particolare dal 1990).

Pubblicato dal Dipartimento di Economia Università di Parma, nella Collana di Economia Industriale e Applicata, il volume di oltre 450 pagine è composto da 11 interventi a più mani fra cui sono da segnalare quelli sul cambiamento dei sistemi manifatturieri, sulla interpretazione del divario innovativo dell’industria italiana, sui cambiamenti dei paradigmi produttivi e organizzativi, sul miglioramento qualitativo della produzione nazionale e sulla domanda sull’esistenza o meno oggi dei distretti industriali. A scrivere, 22 studiosi che hanno composto, di fatto, un manuale per interpretare  meglio la storia economica industriale di vent’anni..

“Le forze che in molti paesi hanno modificato il paesaggio manifatturiero nell’ultimo ventennio – spiegano i due curatori nel saggio introduttivi -,  hanno dato luogo in Italia a trasformazioni e dinamiche inedite, con caratteri e processi originali e talvolta contraddittori”. E ancora: “Il quadro che emerge dall’insieme delle evidenze empiriche disponibili – spiegano -, rivela come il sistema manifatturiero nazionale non sia rimasto ingessato all’interno di uno schema uniforme. All’opposto i segnali raccolti indicano come le imprese abbiano scelto percorsi evolutivi fortemente differenziati con intensità di cambiamento variabile e strategie diverse”.

Cambiamento avvenuto e in corso, dunque, ma anche consolidamento dell’approccio nazionale ai mutamenti dei mercati e della concorrenza.

Il lavoro messo insieme da Arrighetti e Ninni non è certo di facile lettura, ma è completo, approfondisce le questioni in campo, fornisce uno strumento importante di conoscenza del passato recente per – come si è detto all’inizio -, essere in grado di valutare meglio l’oggi e affrontare con più avvedutezza il domani.

La trasformazione ‘silenziosa’. Cambiamento strutturale e strategie d’impresa nell’industria italiana

A cura di Alessando Arrighetti, Augusto Ninni

Dipartimento di Economia Università di Parma, Collana di Economia Industriale e Applicata, Novembre 2014

Buona reputazione, l’indice Top 100 premia sei imprese italiane

Godono di buona reputazione nel mondo, alcune delle principali imprese italiane. Nella nuova classifica 2014 del Reputation Institute, tra le “Top 100”, ce ne sono sei: Ferrero (al 34° posto) e poi Armani (44°), Pirelli (47°), Lavazza (60°), Barilla (73°) e Benetton (76°). Sono tante, sei, considerato il fatto che la classifica è compilata tenendo conto di 15 paesi. E sono, vale la pena sottolineare, sei imprese manifatturiere, simboli dell’eccellenza italiana, di quella nostra attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”, per riprendere la pertinente definizione di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia: l’industria agro-alimentare, innanzitutto, ma anche il lusso e l’abbigliamento e la gomma e l’automotive, settore in cui noi italiani continuiamo ad avere una solida reputazione internazionale.

Nella classifica internazionale, al primo posto c’è Google (a quanto pare, poco toccata dalle accuse che vengono dalla Ue, sul suo “eccesso di potere” e ben difesa dalla grande politica e dall’opinione pubblica Usa). Poi, ecco Microsoft e Walt Disney. Apple è quinta, dopo l’europea BMW. Seguono Lego, Volkswagen, Intel, Rolex e Daimler. Internet company, insomma. E automobili, al centro del giudizio positivo. Società leader di mercato, a livello internazionale. E solidissime sull’immagine. Reputazione e business camminano bene insieme, commentano gli osservatori.

Cosa misura il Reputation Institute? Il capitale di “stima, fiducia, ammirazione e rispetto” accumulato nel corso degli anni. E si aggiunge: “Chi sei è più importante del ‘cosa fai’”. Dunque, spazio ai cosiddetti “intangibles”, i valori intangibili che sono il prodotto della buona cultura d’impresa, d’una storia di cui essere fieri, d’una attualità intessuta di “responsabilità sociale d’impresa”, empatia con il pubblico, qualità, sostenibilità, orgoglio d’appartenenza da parte dei propri dipendenti, ma anche orgoglio di relazione, per tutti gli stakeholders. Identità aziendali forti, chiare, ben raccontate e percepite. Un patrimonio solido. Da non disperdere, ma da incrementare. Nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” e della radicale ridiscussione dei paradigmi della crescita, della produzione e del consumo, gli “intangibles” che riflettono valori (di comportamento e posizione, ma anche culturali, estetici e, perché no? morali) si traducono in valore economico (determinano un “premio”, da parte degli investitori internazionali, per le aziende quotate). E viceversa. Una virtuosa sintonia.

Godono di buona reputazione nel mondo, alcune delle principali imprese italiane. Nella nuova classifica 2014 del Reputation Institute, tra le “Top 100”, ce ne sono sei: Ferrero (al 34° posto) e poi Armani (44°), Pirelli (47°), Lavazza (60°), Barilla (73°) e Benetton (76°). Sono tante, sei, considerato il fatto che la classifica è compilata tenendo conto di 15 paesi. E sono, vale la pena sottolineare, sei imprese manifatturiere, simboli dell’eccellenza italiana, di quella nostra attitudine a “fare cose belle che piacciono al mondo”, per riprendere la pertinente definizione di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia: l’industria agro-alimentare, innanzitutto, ma anche il lusso e l’abbigliamento e la gomma e l’automotive, settore in cui noi italiani continuiamo ad avere una solida reputazione internazionale.

Nella classifica internazionale, al primo posto c’è Google (a quanto pare, poco toccata dalle accuse che vengono dalla Ue, sul suo “eccesso di potere” e ben difesa dalla grande politica e dall’opinione pubblica Usa). Poi, ecco Microsoft e Walt Disney. Apple è quinta, dopo l’europea BMW. Seguono Lego, Volkswagen, Intel, Rolex e Daimler. Internet company, insomma. E automobili, al centro del giudizio positivo. Società leader di mercato, a livello internazionale. E solidissime sull’immagine. Reputazione e business camminano bene insieme, commentano gli osservatori.

Cosa misura il Reputation Institute? Il capitale di “stima, fiducia, ammirazione e rispetto” accumulato nel corso degli anni. E si aggiunge: “Chi sei è più importante del ‘cosa fai’”. Dunque, spazio ai cosiddetti “intangibles”, i valori intangibili che sono il prodotto della buona cultura d’impresa, d’una storia di cui essere fieri, d’una attualità intessuta di “responsabilità sociale d’impresa”, empatia con il pubblico, qualità, sostenibilità, orgoglio d’appartenenza da parte dei propri dipendenti, ma anche orgoglio di relazione, per tutti gli stakeholders. Identità aziendali forti, chiare, ben raccontate e percepite. Un patrimonio solido. Da non disperdere, ma da incrementare. Nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” e della radicale ridiscussione dei paradigmi della crescita, della produzione e del consumo, gli “intangibles” che riflettono valori (di comportamento e posizione, ma anche culturali, estetici e, perché no? morali) si traducono in valore economico (determinano un “premio”, da parte degli investitori internazionali, per le aziende quotate). E viceversa. Una virtuosa sintonia.

Come sta l’impresa responsabile?

La responsabilità sociale d’impresa fa parte a tutto tondo della cultura d’impresa. Perché ci vuole una certa consapevolezza culturale nel comprendere, nella propria attività aziendale, anche l’attenzione ai risvolti esterni della propria attività. Così come a trasformare l’impresa in qualcosa che non solo produce reddito e profitto, ma anche benessere per il territorio in cui è collocata.

Servono, per capire meglio la RSI, approfondimenti locali e di comparto che indaghino sui risvolti operativi e sui risultati dell’attività di RSI. “Responsabilità Sociale d’Impresa. Policy e Pratiche” dell’ISFOL è un volume che va in questa direzione. Ed è quindi utile per chi – imprenditore o manager – voglia capire di più dell’argomento.

Il volume raccoglie i risultati di una ricerca realizzata dalla Struttura sistemi e servizi formativi dell’ISFOL. Si tratta di un’indagine sul campo che indaga lo stato dell’arte della responsabilità sociale d’impresa in Italia sia nelle imprese grandi che in quelle medio-piccole. Viene valutata anche l’incidenza della crisi sulla RSI. Il comparto sotto esame è quello della formazione e della “filiera formativa”. Il testo individua alcune esperienze significative adottate nel nostro Paese, sia nelle multinazionali e nelle grandi imprese, che nelle imprese di dimensioni minori, che si sono sviluppate anche grazie a un articolato e complesso sistema di indicazioni condivise e linee guida internazionali di gestione sociale e ambientale.

Dopo una introduzione teorica alla RSI, il lavoro – frutto di una serie corposa di interviste ad associazione d’azienda e singole aziende -, esamina quindi le strategie pubbliche di responsabilità sociale, le mosse delle grandi imprese e quelle delle PMI.

E’ significativo l’incipit della conclusioni. “Il top management dei sistemi associativi imprenditoriali e delle imprese italiane più evolute, come si evince da questa ricerca e anche da altri studi, ritiene che il futuro della CSR si fondi su uno stretto rapporto etico, culturale, progettuale e di corresponsabilità tra i diversi protagonisti pubblici e privati che concorrono alla sostenibilità  ambientale, sociale ed economica in un’ottica infra e intergenerazionale”. In particolare, i campi della RSI nel futuro vengono colti nel coinvolgimento dei dipendenti, nell’ambiente e nella tutela dei consumatori. Ma lo studio va più in là e spiega: “Da uno sguardo complessivo sui molteplici ambiti di riferimento della CSR analizzati, la ricerca pone in luce come il futuro della Corporate Social Responsibility si fondi sul mettere al centro delle diverse iniziative, oltre che naturalmente le imprese come protagoniste anche di innovazione sociale, le persone. La centralità della persona riguarda svariati aspetti, che vanno dal rispetto della dignità del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali, all’assicurare buone condizioni di lavoro e di vita, alla promozione della formazione per la crescita del capitale umano, garantendo a tutti pari opportunità”. Un’attenzione che non viene meno nemmeno di fronte alla crisi e che anzi, ne emerge potenziata. “Esiste – è la conclusione dell’indagine di ISFOL -, uno spazio assai ampio per l’innovazione sociale, che la crisi ha reso ancora più evidente, dando maggiore risalto e valorizzazione al welfare privato e alle sue potenzialità”.

Responsabilità Sociale d’Impresa. Policy e Pratiche

A cura di Paola Nicoletti

Isfol, Roma, 2014

La responsabilità sociale d’impresa fa parte a tutto tondo della cultura d’impresa. Perché ci vuole una certa consapevolezza culturale nel comprendere, nella propria attività aziendale, anche l’attenzione ai risvolti esterni della propria attività. Così come a trasformare l’impresa in qualcosa che non solo produce reddito e profitto, ma anche benessere per il territorio in cui è collocata.

Servono, per capire meglio la RSI, approfondimenti locali e di comparto che indaghino sui risvolti operativi e sui risultati dell’attività di RSI. “Responsabilità Sociale d’Impresa. Policy e Pratiche” dell’ISFOL è un volume che va in questa direzione. Ed è quindi utile per chi – imprenditore o manager – voglia capire di più dell’argomento.

Il volume raccoglie i risultati di una ricerca realizzata dalla Struttura sistemi e servizi formativi dell’ISFOL. Si tratta di un’indagine sul campo che indaga lo stato dell’arte della responsabilità sociale d’impresa in Italia sia nelle imprese grandi che in quelle medio-piccole. Viene valutata anche l’incidenza della crisi sulla RSI. Il comparto sotto esame è quello della formazione e della “filiera formativa”. Il testo individua alcune esperienze significative adottate nel nostro Paese, sia nelle multinazionali e nelle grandi imprese, che nelle imprese di dimensioni minori, che si sono sviluppate anche grazie a un articolato e complesso sistema di indicazioni condivise e linee guida internazionali di gestione sociale e ambientale.

Dopo una introduzione teorica alla RSI, il lavoro – frutto di una serie corposa di interviste ad associazione d’azienda e singole aziende -, esamina quindi le strategie pubbliche di responsabilità sociale, le mosse delle grandi imprese e quelle delle PMI.

E’ significativo l’incipit della conclusioni. “Il top management dei sistemi associativi imprenditoriali e delle imprese italiane più evolute, come si evince da questa ricerca e anche da altri studi, ritiene che il futuro della CSR si fondi su uno stretto rapporto etico, culturale, progettuale e di corresponsabilità tra i diversi protagonisti pubblici e privati che concorrono alla sostenibilità  ambientale, sociale ed economica in un’ottica infra e intergenerazionale”. In particolare, i campi della RSI nel futuro vengono colti nel coinvolgimento dei dipendenti, nell’ambiente e nella tutela dei consumatori. Ma lo studio va più in là e spiega: “Da uno sguardo complessivo sui molteplici ambiti di riferimento della CSR analizzati, la ricerca pone in luce come il futuro della Corporate Social Responsibility si fondi sul mettere al centro delle diverse iniziative, oltre che naturalmente le imprese come protagoniste anche di innovazione sociale, le persone. La centralità della persona riguarda svariati aspetti, che vanno dal rispetto della dignità del lavoratore e dei suoi diritti fondamentali, all’assicurare buone condizioni di lavoro e di vita, alla promozione della formazione per la crescita del capitale umano, garantendo a tutti pari opportunità”. Un’attenzione che non viene meno nemmeno di fronte alla crisi e che anzi, ne emerge potenziata. “Esiste – è la conclusione dell’indagine di ISFOL -, uno spazio assai ampio per l’innovazione sociale, che la crisi ha reso ancora più evidente, dando maggiore risalto e valorizzazione al welfare privato e alle sue potenzialità”.

Responsabilità Sociale d’Impresa. Policy e Pratiche

A cura di Paola Nicoletti

Isfol, Roma, 2014

Segnali dal mondo per una buona cultura d’impresa

Una buona cultura d’impresa si alimenta anche delle informazioni che all’azienda arrivano dall’esterno. Sollecitazioni, provocazioni, attenzioni, spinte e freni  che costituiscono per l’impresa altrettanti spunti di riflessione e di innovazione, dati utili per la migliore gestione della produzione, per un più elevato rapporto con il personale. Giusto per questo scopo arriva, come ormai consuetudine da quasi 15 anni, “Nomos & Khaos”, il Rapporto Nomisma 2013-2014 sulle prospettive economico-stretegiche appena presentato al pubblico.

Si tratta di un vero compendio di quanto è accaduto: non una cronologia, ma un ragionamento attorno ai principali temi e problemi che hanno toccato l’Italia e il mondo negli ultimi 12 mesi.  Quanto serve per l’impresa avveduta, che guarda al di là della propria produzione e gestione.

Il Rapporto è suddiviso in sette parti . Prima di tutto una visione d’insieme del mondo, poi un esame delle principali scelte  fatte dai maggiori attori internazionali, poi ancora un approfondimento sull’Europa, successivamente lo sguardo si allarga agli altri nodi internazionali.  La quinta parte prende invece in considerazione il futuro: il ruolo degli accordi internazionali e del progresso tecnico, gli usi della cibernetica politica, le illusione della democrazia via web. La sesta parte si concentra su alcuni problemi emersi recentemente come quello della alimentazione, della ripresa debole, della transizione demografica. Una settima parte contiene le conclusioni dell’intero gruppo di studio che ha redatto il Rapporto.  Lungo tutto il percorso del volume, sono disseminate presenze come l’America di Obama, la Germania che diventa prim’attore internazionale, i Paesi Arabi che conoscono nuove tormentate fasi di cambiamento, l’Italia sola e preziosa in un mondo sempre più complesso.

L’intero volume – frutto del lavoro di 25 penne diverse coordinate da Giuseppe Cucchi e Germano Dottori -, non è sempre facile da leggere, ma nell’indice ha uno strumento di grande utilità: il titolo di ogni capitolo viene seguito da un riassunto dello stesso.

“Nomos & Khaos” è un volume da leggere con attenzione: serve agli imprenditori per capire meglio dove si muovono le loro aziende (anche quelle che esportano poco e voglio non farlo di più), ed è utile al management che attraverso le pagine può comprendere meglio  il significato delle decisioni prese.

Nomos & Khaos. Rapporto Nomisma 2013-2014 sulle prospettive economico-strategiche

A cura di G. Cucchi e G. Dottori

Agra, settembre 2014

Una buona cultura d’impresa si alimenta anche delle informazioni che all’azienda arrivano dall’esterno. Sollecitazioni, provocazioni, attenzioni, spinte e freni  che costituiscono per l’impresa altrettanti spunti di riflessione e di innovazione, dati utili per la migliore gestione della produzione, per un più elevato rapporto con il personale. Giusto per questo scopo arriva, come ormai consuetudine da quasi 15 anni, “Nomos & Khaos”, il Rapporto Nomisma 2013-2014 sulle prospettive economico-stretegiche appena presentato al pubblico.

Si tratta di un vero compendio di quanto è accaduto: non una cronologia, ma un ragionamento attorno ai principali temi e problemi che hanno toccato l’Italia e il mondo negli ultimi 12 mesi.  Quanto serve per l’impresa avveduta, che guarda al di là della propria produzione e gestione.

Il Rapporto è suddiviso in sette parti . Prima di tutto una visione d’insieme del mondo, poi un esame delle principali scelte  fatte dai maggiori attori internazionali, poi ancora un approfondimento sull’Europa, successivamente lo sguardo si allarga agli altri nodi internazionali.  La quinta parte prende invece in considerazione il futuro: il ruolo degli accordi internazionali e del progresso tecnico, gli usi della cibernetica politica, le illusione della democrazia via web. La sesta parte si concentra su alcuni problemi emersi recentemente come quello della alimentazione, della ripresa debole, della transizione demografica. Una settima parte contiene le conclusioni dell’intero gruppo di studio che ha redatto il Rapporto.  Lungo tutto il percorso del volume, sono disseminate presenze come l’America di Obama, la Germania che diventa prim’attore internazionale, i Paesi Arabi che conoscono nuove tormentate fasi di cambiamento, l’Italia sola e preziosa in un mondo sempre più complesso.

L’intero volume – frutto del lavoro di 25 penne diverse coordinate da Giuseppe Cucchi e Germano Dottori -, non è sempre facile da leggere, ma nell’indice ha uno strumento di grande utilità: il titolo di ogni capitolo viene seguito da un riassunto dello stesso.

“Nomos & Khaos” è un volume da leggere con attenzione: serve agli imprenditori per capire meglio dove si muovono le loro aziende (anche quelle che esportano poco e voglio non farlo di più), ed è utile al management che attraverso le pagine può comprendere meglio  il significato delle decisioni prese.

Nomos & Khaos. Rapporto Nomisma 2013-2014 sulle prospettive economico-strategiche

A cura di G. Cucchi e G. Dottori

Agra, settembre 2014

L’orgoglioso “Manifesto della meccanica” e i primati internazionali per marchi e disegno industriale

Orgoglio industriale, nonostante tutto. Anzi, più esattamente, “orgoglio meccanico”, se si pensa al Manifesto di Federmeccanica su “una nuova politica per la manifattura” presentato giovedì scorso, a Roma, alla manifestazione “Uniti per il rilancio dell’industria”, con la partecipazione di imprenditori di più di sessanta associazioni territoriali di Confindustria (con i distretti, le filiere, le buone imprese più dinamiche), dando così un forte segnale d’allarme a governo e classe politica (“Senza investimenti il paese è destinato a finire nel baratro: serve una politica industriale che favorisca l’innovazione e permetta alle imprese di affrontare la sfida della quarta rivoluzione industriale, Industry 4.0”) e contemporaneamente ribadendo un segno di capacità imprenditoriale e di impegno per la ripresa. Ma, guardando al mondo delle imprese che producono bene ed esportano, potremmo anche parlare di orgoglio chimico e agroalimentare, domotico e farmaceutico, di orgoglio della gomma e del cemento, del legno e del tessile, delle auto, delle moto e delle bici e così via continuando, con tutti i comparti della manifattura che, nonostante la crisi, tengono in piedi il sistema Paese, guadagnano punti in competitività, garantiscono posti di lavoro, innovano e crescono. Il settore meccanico vale, da solo, l’8% del Pil e il 45,9% del valore aggiunto di tutta l’industria manifatturiera, anche se avverte ancora la pesantezza della caduta della capacità produttiva, -32,6% dal periodo pre-crisi, dal 2007 a oggi (in gran parte per asfissia del mercato interno). E nelle sue varie articolazioni, rappresenta la parte più attiva dell’export italiano, più delle tradizionali “3A” del buon made in Italy (arredamento, abbigliamento e agroindustria). Italia “granaio meccanico”, insomma, per riprendere la suggestiva antica definizione data nei primi anni Cinquanta da Vittorio Valletta, presidente della Fiat, quando era l’industria dell’auto a fare da cardine dello sviluppo industriale e dunque sociale dell’intero Paese.

Tradizione meccanica, dunque. E apertura al futuro, se è vero che i moduli della stazione Spaziale Internazionale, proprio quella su cui naviga nello spazio l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, sono stati in bona parte realizzati in Italia, “un primato che rappresenta bene l’eccellenza meccanica e il suo ruolo nell’economia del Paese”, ha scritto Carlo Andrea Finotto su “Il Sole24Ore” del 25 novembre.

Dalla sofisticata crescita della cultura d’impresa meccanica (innovazione, ricerca, automazione sempre più avanzata) dipende in gran parte un altro primato italiano, che suona confortante, proprio in tempi ancora difficili per tutta la nostra economia: “L’Italia aumenta i brevetti europei” e dunque “innovando è più viva che mai”, per dirla con “Il Sole 24Ore” del 26 novembre. La notizia è che manteniamo anche nel 2014 il secondo posto nella “Top 20” internazionale delle domande di brevetti per il “design industriale”, con il 10,15% di tutte le domande di brevetti del mondo, alle spalle della Germania (il 22,7%) ma ben prima di Regno Unito (6,96%), Francia e Spagna e restiamo saldamente quarti per “marchi”, dopo Germania, Usa e Regno Unito. Si innova, dunque, e molto. Si brevetta. Si fa politica distintiva di qualità e brand. Si compete. Nelle grandi imprese. Ma anche nelle piccole e medie. E nei distretti rilanciati a nuova vita, grazie a originali sinergie tra il forte radicamento territoriale in aree di straordinaria capacità manifatturiera e la capacità di espansione internazionale in nicchie specializzate e ad alto valore aggiunto (ne ha scritto efficacemente Paola Dubini, docente alla Bocconi, su “Nova” de “Il Sole 24Ore” del 26 novembre: “L’innovazione che sorge da territori e reti”). Peccato che il pubblico investa ancora troppo poco in ricerca e innovazione, se è vero che “nel 2011, ultima rilevazione disponibile, l’unico settore a mostrare una crescita della spesa per ricerca e sviluppo è quello delle imprese, +2,3%, con un arretramento, invece, delle istituzioni pubbliche, -1,3%”, dichiara Confindustria. E comunque l’Italia ha investito nel 2012 in ricerca e sviluppo appena l’1,27% del Pil, molto meno del 2,98% della Germania e del 2,29% della Francia.

Imprese attive, dunque, ma lasciate sole, sul fronte dell’innovazione. Proprio la conferma della forza di brevetti e marchi testimonia di un robusto miglioramento della cultura d’impresa italiana, d’un “quarto capitalismo” diffuso tra Nord Ovest e Nord Est, familiare per tradizione e cultura, ma capace di reggere la sfida della gestione manageriale e dei mercati globali sempre più aperti e competitivi. L’Italia industriale del “bello e ben fatto” ha un futuro, nonostante tutto.

Orgoglio industriale, nonostante tutto. Anzi, più esattamente, “orgoglio meccanico”, se si pensa al Manifesto di Federmeccanica su “una nuova politica per la manifattura” presentato giovedì scorso, a Roma, alla manifestazione “Uniti per il rilancio dell’industria”, con la partecipazione di imprenditori di più di sessanta associazioni territoriali di Confindustria (con i distretti, le filiere, le buone imprese più dinamiche), dando così un forte segnale d’allarme a governo e classe politica (“Senza investimenti il paese è destinato a finire nel baratro: serve una politica industriale che favorisca l’innovazione e permetta alle imprese di affrontare la sfida della quarta rivoluzione industriale, Industry 4.0”) e contemporaneamente ribadendo un segno di capacità imprenditoriale e di impegno per la ripresa. Ma, guardando al mondo delle imprese che producono bene ed esportano, potremmo anche parlare di orgoglio chimico e agroalimentare, domotico e farmaceutico, di orgoglio della gomma e del cemento, del legno e del tessile, delle auto, delle moto e delle bici e così via continuando, con tutti i comparti della manifattura che, nonostante la crisi, tengono in piedi il sistema Paese, guadagnano punti in competitività, garantiscono posti di lavoro, innovano e crescono. Il settore meccanico vale, da solo, l’8% del Pil e il 45,9% del valore aggiunto di tutta l’industria manifatturiera, anche se avverte ancora la pesantezza della caduta della capacità produttiva, -32,6% dal periodo pre-crisi, dal 2007 a oggi (in gran parte per asfissia del mercato interno). E nelle sue varie articolazioni, rappresenta la parte più attiva dell’export italiano, più delle tradizionali “3A” del buon made in Italy (arredamento, abbigliamento e agroindustria). Italia “granaio meccanico”, insomma, per riprendere la suggestiva antica definizione data nei primi anni Cinquanta da Vittorio Valletta, presidente della Fiat, quando era l’industria dell’auto a fare da cardine dello sviluppo industriale e dunque sociale dell’intero Paese.

Tradizione meccanica, dunque. E apertura al futuro, se è vero che i moduli della stazione Spaziale Internazionale, proprio quella su cui naviga nello spazio l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, sono stati in bona parte realizzati in Italia, “un primato che rappresenta bene l’eccellenza meccanica e il suo ruolo nell’economia del Paese”, ha scritto Carlo Andrea Finotto su “Il Sole24Ore” del 25 novembre.

Dalla sofisticata crescita della cultura d’impresa meccanica (innovazione, ricerca, automazione sempre più avanzata) dipende in gran parte un altro primato italiano, che suona confortante, proprio in tempi ancora difficili per tutta la nostra economia: “L’Italia aumenta i brevetti europei” e dunque “innovando è più viva che mai”, per dirla con “Il Sole 24Ore” del 26 novembre. La notizia è che manteniamo anche nel 2014 il secondo posto nella “Top 20” internazionale delle domande di brevetti per il “design industriale”, con il 10,15% di tutte le domande di brevetti del mondo, alle spalle della Germania (il 22,7%) ma ben prima di Regno Unito (6,96%), Francia e Spagna e restiamo saldamente quarti per “marchi”, dopo Germania, Usa e Regno Unito. Si innova, dunque, e molto. Si brevetta. Si fa politica distintiva di qualità e brand. Si compete. Nelle grandi imprese. Ma anche nelle piccole e medie. E nei distretti rilanciati a nuova vita, grazie a originali sinergie tra il forte radicamento territoriale in aree di straordinaria capacità manifatturiera e la capacità di espansione internazionale in nicchie specializzate e ad alto valore aggiunto (ne ha scritto efficacemente Paola Dubini, docente alla Bocconi, su “Nova” de “Il Sole 24Ore” del 26 novembre: “L’innovazione che sorge da territori e reti”). Peccato che il pubblico investa ancora troppo poco in ricerca e innovazione, se è vero che “nel 2011, ultima rilevazione disponibile, l’unico settore a mostrare una crescita della spesa per ricerca e sviluppo è quello delle imprese, +2,3%, con un arretramento, invece, delle istituzioni pubbliche, -1,3%”, dichiara Confindustria. E comunque l’Italia ha investito nel 2012 in ricerca e sviluppo appena l’1,27% del Pil, molto meno del 2,98% della Germania e del 2,29% della Francia.

Imprese attive, dunque, ma lasciate sole, sul fronte dell’innovazione. Proprio la conferma della forza di brevetti e marchi testimonia di un robusto miglioramento della cultura d’impresa italiana, d’un “quarto capitalismo” diffuso tra Nord Ovest e Nord Est, familiare per tradizione e cultura, ma capace di reggere la sfida della gestione manageriale e dei mercati globali sempre più aperti e competitivi. L’Italia industriale del “bello e ben fatto” ha un futuro, nonostante tutto.

Locale, multinazionale, globale. Com’è cambiata la cultura d’impresa?

La globalizzazione cambia la cultura d’impresa e questa, a sua volta, cambia strategie, organizzazioni, rapporti sociali all’interno delle fabbriche. Anche nei casi in cui l’impresa, in qualche modo, può già dirsi “multinazionale”. Perché, a ben vedere, un conto è parlare di “multinazionali”, un altro è parlare di “imprese globali”. Accade così che globalizzazione, innovazione, competizione  e meccanismi di imitazione creino una sorta di coacervo di provocazioni al cambiamento che danno vita ad altro rispetto a prima: imprese globali radicate in territori determinati, che traggono linfa dalla propria cultura, si appoggiano a partner localissimi ma guardano al mondo perché inserite in reti molto ampie.

E’ su tutto ciò che si sono esercitati Silvio M. Brondoni, Margherita Corniani (dell’ISTEI-DEMS Università di Milano-Bicocca), con il loro “Network globali e partner locali. I processi di imitazione e di innovazione nello sviluppo delle imprese globali di USA, Cina, Giappone e Sud Corea” apparso qualche settimana fa in un volume più ampio sulle reti, i nuovi settori e le prospettive regionali di sviluppo.

Quanto scritto dai due ricercatori milanesi è una ricerca che prende in considerazione i rapporti fra, appunto, innovazione, competizione e imitazione fra imprese globalizzate in quattro Paesi diversi: USA, Cina, Giappone e Sud Corea.

Il metodo di lavoro guarda quindi alle culture d’impresa dei diversi Paesi partendo dal punto di vista dei primati in fatto di innovazione prima e di imitazione poi e ragionando sulle relazioni e sui cambiamenti di queste fra i diversi Paesi. Cosa è accaduto quando la globalizzazione ha toccato nel profondo la cultura d’impresa dei singoli Paesi? “I global network – spiegano Brondoni e Corniani -, hanno modificato notevolmente i confini competitivi di innovazione e di imitazione ed inoltre hanno trasformato la posizione competitiva di numerosi Stati-Nazionale e le relazioni tra imprese globali e aziende locali”. Ma non solo, perché la cultura d’impresa ha dovuto fare i conti con la riduzione drastica della leadeship di innovazione dei principali paesi europei. In altre parole, le culture aziendali, l’impostazione economica, lo stesso modo di intendere l’essere imprenditore propri di Paesi come il Regno Unito, la Germania ma anche l’Italia e naturalmente gli USA, hanno dovuto lasciare spazio ad altre culture d’impresa definite dagli autori “ad altissima propensione all’innovazione”, ma anche capaci di approfittare di condizioni di mercato favorevoli e con grandi capacità di imitazione come quelle di Sud Corea, India e Taiwan.

L’articolo di Brondi e Corniani racconta bene quanto è accaduto ed è da leggere per capire ciò che sta ancora accadendo oggi.

Network globali e partner locali. I processi di imitazione e di innovazione nello sviluppo delle imprese globali di USA, Cina, Giappone e Sud Corea

Silvio M. Brondoni, Margherita Corniani

in Reti, nuovi settori e sostenibilità. Prospettive per l’analisi e le politiche regionali

a cura di F. Mazzola, D. Musolino, V. Provenzano

Franco Angeli, 2014

Download pdf

La globalizzazione cambia la cultura d’impresa e questa, a sua volta, cambia strategie, organizzazioni, rapporti sociali all’interno delle fabbriche. Anche nei casi in cui l’impresa, in qualche modo, può già dirsi “multinazionale”. Perché, a ben vedere, un conto è parlare di “multinazionali”, un altro è parlare di “imprese globali”. Accade così che globalizzazione, innovazione, competizione  e meccanismi di imitazione creino una sorta di coacervo di provocazioni al cambiamento che danno vita ad altro rispetto a prima: imprese globali radicate in territori determinati, che traggono linfa dalla propria cultura, si appoggiano a partner localissimi ma guardano al mondo perché inserite in reti molto ampie.

E’ su tutto ciò che si sono esercitati Silvio M. Brondoni, Margherita Corniani (dell’ISTEI-DEMS Università di Milano-Bicocca), con il loro “Network globali e partner locali. I processi di imitazione e di innovazione nello sviluppo delle imprese globali di USA, Cina, Giappone e Sud Corea” apparso qualche settimana fa in un volume più ampio sulle reti, i nuovi settori e le prospettive regionali di sviluppo.

Quanto scritto dai due ricercatori milanesi è una ricerca che prende in considerazione i rapporti fra, appunto, innovazione, competizione e imitazione fra imprese globalizzate in quattro Paesi diversi: USA, Cina, Giappone e Sud Corea.

Il metodo di lavoro guarda quindi alle culture d’impresa dei diversi Paesi partendo dal punto di vista dei primati in fatto di innovazione prima e di imitazione poi e ragionando sulle relazioni e sui cambiamenti di queste fra i diversi Paesi. Cosa è accaduto quando la globalizzazione ha toccato nel profondo la cultura d’impresa dei singoli Paesi? “I global network – spiegano Brondoni e Corniani -, hanno modificato notevolmente i confini competitivi di innovazione e di imitazione ed inoltre hanno trasformato la posizione competitiva di numerosi Stati-Nazionale e le relazioni tra imprese globali e aziende locali”. Ma non solo, perché la cultura d’impresa ha dovuto fare i conti con la riduzione drastica della leadeship di innovazione dei principali paesi europei. In altre parole, le culture aziendali, l’impostazione economica, lo stesso modo di intendere l’essere imprenditore propri di Paesi come il Regno Unito, la Germania ma anche l’Italia e naturalmente gli USA, hanno dovuto lasciare spazio ad altre culture d’impresa definite dagli autori “ad altissima propensione all’innovazione”, ma anche capaci di approfittare di condizioni di mercato favorevoli e con grandi capacità di imitazione come quelle di Sud Corea, India e Taiwan.

L’articolo di Brondi e Corniani racconta bene quanto è accaduto ed è da leggere per capire ciò che sta ancora accadendo oggi.

Network globali e partner locali. I processi di imitazione e di innovazione nello sviluppo delle imprese globali di USA, Cina, Giappone e Sud Corea

Silvio M. Brondoni, Margherita Corniani

in Reti, nuovi settori e sostenibilità. Prospettive per l’analisi e le politiche regionali

a cura di F. Mazzola, D. Musolino, V. Provenzano

Franco Angeli, 2014

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Imprenditori fatti in casa

Per capire chi è e come lavora un imprenditore occorre conoscerne uno, anzi più di uno. Perché la teoria dei libri serve, ma la pratica della produzione e della gestione è – alla fine -, tutta un’altra cosa. Anche, e forse soprattutto, in tempi complessi come quelli che si stanno attraversando. Avere cognizione, quindi, delle storie d’impresa è determinante per comprendere le imprese stesse.

A questo serve l’ultima fatica di Eugenio Dal Pane (scrittore e insegnante oltre che editore), che con “Il lampo. Storia di genti meccaniche” appena pubblicato, ha voluto raccontare per davvero una storia aziendale.

Si tratta della vicenda della CM, azienda metalmeccanica nata nel ’74 a San Potito frazione di Lugo di Romagna e cresciuta nel tempo con un percorso comune a molte altre aziende romagnole e italiane. Oggi, la CM produce macchine come elevatori e rovesciatori idraulici, esporta in 35 Paesi, ha collezionato tre brevetti. Dal Pane ne racconta la storia iniziando con semplice chiarezza: “È il 20 marzo 1974. Due giovani di ventiquattro e ventisei anni, Domenico Calonaci e Gabriele Calini, si presentano davanti al notaio per costituire la CM”. E così va avanti cercando di rispondere ad una serie di domande: “Ma chi è l’imprenditore? Cosa muove un uomo, una donna a investire il talento ricevuto e a sacrificarsi per costruire qualcosa di buono per sé e per tutti, in mezzo alle gioie e ai dolori, alle speranze e ai drammi propri del vivere? Quali sono i fattori che permettono all’impresa di crescere e di durare nel tempo?”.

Il racconto della CM serve per arrivare alle risposte giuste. La vicenda, quindi, si dipana partendo dalla fondazione dell’azienda davanti al notaio, passando per le innovazioni escogitate in officina, proseguendo  con le iniziali esplorazioni alle fiere di settore, con le prime assunzioni arrivate a sorpresa e raccontate con animo da romanzo –  (“Davanti a quell’officina dalla porta stretta passava ogni giorno una ragazza di sedici anni per accompagnare all’asilo con la bicicletta i due nipotini, ignara di ciò che il destino stava preparando per lei”) -, per giungere al primo brevetto conquistato. Dal Pane, poi, racconta, anzi fa raccontare ai protagonisti della storia, come nascono le idee di nuovi prodotti, come ci si organizza fra produzione e vendite, cosa accade quando nella vita aziendale irrompono i fatti della vita di fuori, come avviene quella “ripresa” che spinge avanti l’imprenditore nonostante tutto. E poi ancora le fasi di passaggio comuni a tutte le imprese, il consolidamento dell’attività, le sconfitte accanto ai successi, l’individuazione dei valori aziendali (la “correttezza”, per esempio), l’uso dei nuovi strumenti di produzione e di conoscenza, il valore dei collaboratori, il senso vero della squadra.

Il libro di Dal Pane si legge in un mattino. E’ denso quanto basta, scorrevole il giusto. Ed è anche bella la postfazione di Paolo Preti (che insegna Organizzazione delle Piccole e Medie Imprese alla Bocconi), che a proposito degli imprenditori scrive qualcosa solo apparentemente scontato: “Non eroi, né moderni miti, ma uomini e donne di cui la nostra società ha particolarmente bisogno e a cui essere riconoscenti per la funzione che assolvono, anche se questa, almeno quando le cose vanno bene, risulta essere ben retribuita”.

Il lampo. Storia di genti meccaniche

Eugenio Dal Pane

Itaca, 2014

Per capire chi è e come lavora un imprenditore occorre conoscerne uno, anzi più di uno. Perché la teoria dei libri serve, ma la pratica della produzione e della gestione è – alla fine -, tutta un’altra cosa. Anche, e forse soprattutto, in tempi complessi come quelli che si stanno attraversando. Avere cognizione, quindi, delle storie d’impresa è determinante per comprendere le imprese stesse.

A questo serve l’ultima fatica di Eugenio Dal Pane (scrittore e insegnante oltre che editore), che con “Il lampo. Storia di genti meccaniche” appena pubblicato, ha voluto raccontare per davvero una storia aziendale.

Si tratta della vicenda della CM, azienda metalmeccanica nata nel ’74 a San Potito frazione di Lugo di Romagna e cresciuta nel tempo con un percorso comune a molte altre aziende romagnole e italiane. Oggi, la CM produce macchine come elevatori e rovesciatori idraulici, esporta in 35 Paesi, ha collezionato tre brevetti. Dal Pane ne racconta la storia iniziando con semplice chiarezza: “È il 20 marzo 1974. Due giovani di ventiquattro e ventisei anni, Domenico Calonaci e Gabriele Calini, si presentano davanti al notaio per costituire la CM”. E così va avanti cercando di rispondere ad una serie di domande: “Ma chi è l’imprenditore? Cosa muove un uomo, una donna a investire il talento ricevuto e a sacrificarsi per costruire qualcosa di buono per sé e per tutti, in mezzo alle gioie e ai dolori, alle speranze e ai drammi propri del vivere? Quali sono i fattori che permettono all’impresa di crescere e di durare nel tempo?”.

Il racconto della CM serve per arrivare alle risposte giuste. La vicenda, quindi, si dipana partendo dalla fondazione dell’azienda davanti al notaio, passando per le innovazioni escogitate in officina, proseguendo  con le iniziali esplorazioni alle fiere di settore, con le prime assunzioni arrivate a sorpresa e raccontate con animo da romanzo –  (“Davanti a quell’officina dalla porta stretta passava ogni giorno una ragazza di sedici anni per accompagnare all’asilo con la bicicletta i due nipotini, ignara di ciò che il destino stava preparando per lei”) -, per giungere al primo brevetto conquistato. Dal Pane, poi, racconta, anzi fa raccontare ai protagonisti della storia, come nascono le idee di nuovi prodotti, come ci si organizza fra produzione e vendite, cosa accade quando nella vita aziendale irrompono i fatti della vita di fuori, come avviene quella “ripresa” che spinge avanti l’imprenditore nonostante tutto. E poi ancora le fasi di passaggio comuni a tutte le imprese, il consolidamento dell’attività, le sconfitte accanto ai successi, l’individuazione dei valori aziendali (la “correttezza”, per esempio), l’uso dei nuovi strumenti di produzione e di conoscenza, il valore dei collaboratori, il senso vero della squadra.

Il libro di Dal Pane si legge in un mattino. E’ denso quanto basta, scorrevole il giusto. Ed è anche bella la postfazione di Paolo Preti (che insegna Organizzazione delle Piccole e Medie Imprese alla Bocconi), che a proposito degli imprenditori scrive qualcosa solo apparentemente scontato: “Non eroi, né moderni miti, ma uomini e donne di cui la nostra società ha particolarmente bisogno e a cui essere riconoscenti per la funzione che assolvono, anche se questa, almeno quando le cose vanno bene, risulta essere ben retribuita”.

Il lampo. Storia di genti meccaniche

Eugenio Dal Pane

Itaca, 2014

Manager alla Mozart, tutto genio e carisma, o metodico alla Salieri? Meglio pensare al gioco di squadra

Che tipo di manager serve, in tempi di così intensi cambiamenti? “Wall Street stronca Mozart, al comando in azienda meglio Salieri”, scrive Ettore Livini su “la Repubblica” (5 novembre), sintetizzando così una ricerca della Harvard Business Review che sostiene  che sia oramai al tramonto la figura dell’innovatore di genio, leader trascinatore forte di una grande carica di “intelligenza emotiva” (alla Steve Jobs, per capirci), per lasciare invece spazio a gestori di processi complessi, a ingegneri in grado di guidare sistemi aziendali con grande concretezza, determinazione, linearità di sviluppo. E’, appunto, “la vendetta di Salieri”, come nota Herminia Barra, docente all’Insead di Parigi, rivalutando il ruolo d’un musicista abile compositore ed esecutore, grigio ma metodico e rassicurante, messo però in ombra, nella Vienna dei primi dell’Ottocento, dal genio stravolgente di Mozart. In altri termini, adesso serve meno carisma e più metodo. “E non a caso 24 dei 100 manager più redditizi d’America – calcola la Harvard Business Review – sono ingegneri, magari meno spumeggianti dei loro predecessori creatori d’impresa ma capaci di un approccio pragmatico e pratico che determina bilanci in forte utile e piace tanto agli azionisti”.

“Il leader gestisce il potere, il manager l’organizzazione”, ha sempre sostenuto, come regola di guida aziendale, Jack Welch, ex numero uno d’una grande multinazionale Usa come General Electric, a lungo riferimento per ogni buon manager. Conferma James Citrin, ai vertici di Spencer & Stuart, una delle principali società di “cacciatori di teste”: “Il tempo della retorica rivoluzionaria è finito, oggi vanno per la maggiore gli ingegneri capaci di risolvere i problemi con la logica e il ‘pensiero architettonico’”, una costruzione ordinata di processi, relazioni, competenze.

Sarà davvero così, pure in Italia? La cultura manageriale ha sempre risentito, anche in Europa, della forte influenza Usa (in grado di costruire nel tempo, grazie anche a un tipo di capitalismo da “public company”, una sofisticata e ricca teoria della gestione aziendale, ma anche una generica retorica). Quello italiano, però, nel bene e nel male, è un capitalismo ancora con forte impronta familiare. E con un’originale mescolanza di azionisti-gestori eredi della famiglia del fondatore (caratteri eretici, forti, spregiudicatamente innovativi, “mozartiani”) e di manager forti d’una cultura tutta italiana della bellezza, della complessità, della “resilienza” (l’intelligente adattabilità).

Vale forse la pena, dunque, sottrarsi alle formule made in Usa. Ricordarsi che anche nel mondo delle imprese si continua ad avvertire il fascino, tutto euromediterraneo, di Napoleone (“Ei fu, anche un manager: univa alla progettazione la rapidità d’azione, conosceva e motivava le persone, valorizzava la cultura“, nota Ernesto Ferrero su “La Lettura” del Corriere della Sera, del 2 marzo 2014, sottolineandone la doppia qualità di innovatore e legislatore, dunque di costruttore di nuovi processi e di regolatore del loro sviluppo: un creativo e un ingegnere delle istituzioni). E magari leggere con attenzione un’originale lezione che viene proprio dagli Usa, quella di Walter Isaacson (direttore di “Time”, poi presidente e amministratore delegato della Cnn e adesso presidente dell’Aspen Institute).

Sua la firma sotto la biografia di Steve Jobs, un best seller internazionale. E sempre sua la firma per “The Innovators: how a Group of Hackers, Geniuses and Geeks created the Digital Revolution”, edito in ottobre da Simon & Schuster e, per l’Italia, da Mondadori. Cosa si sostiene? Che l’innovazione, nel mondo della tecnologia, non dipende da singoli geni ma è il risultato di un lavoro d’equipe. “Il nuovo Steve Jobs sarà una squadra. Il singolo individuo che produce innovazione è un’illusione, il genio funziona collaborando”, ha sintetizzato Serena Danna su “La Lettura” del Corriere della Sera (12 ottobre 2014). A conferma, ecco il parere di Keith Sawyer, professore d’innovazione e creatività alla North Carolina University. “Quando collaboriamo, la creatività si diffonde tra le persone e funziona meglio: il tutto è molto di più della somma delle singole parti”.

Che tipo di manager serve, in tempi di così intensi cambiamenti? “Wall Street stronca Mozart, al comando in azienda meglio Salieri”, scrive Ettore Livini su “la Repubblica” (5 novembre), sintetizzando così una ricerca della Harvard Business Review che sostiene  che sia oramai al tramonto la figura dell’innovatore di genio, leader trascinatore forte di una grande carica di “intelligenza emotiva” (alla Steve Jobs, per capirci), per lasciare invece spazio a gestori di processi complessi, a ingegneri in grado di guidare sistemi aziendali con grande concretezza, determinazione, linearità di sviluppo. E’, appunto, “la vendetta di Salieri”, come nota Herminia Barra, docente all’Insead di Parigi, rivalutando il ruolo d’un musicista abile compositore ed esecutore, grigio ma metodico e rassicurante, messo però in ombra, nella Vienna dei primi dell’Ottocento, dal genio stravolgente di Mozart. In altri termini, adesso serve meno carisma e più metodo. “E non a caso 24 dei 100 manager più redditizi d’America – calcola la Harvard Business Review – sono ingegneri, magari meno spumeggianti dei loro predecessori creatori d’impresa ma capaci di un approccio pragmatico e pratico che determina bilanci in forte utile e piace tanto agli azionisti”.

“Il leader gestisce il potere, il manager l’organizzazione”, ha sempre sostenuto, come regola di guida aziendale, Jack Welch, ex numero uno d’una grande multinazionale Usa come General Electric, a lungo riferimento per ogni buon manager. Conferma James Citrin, ai vertici di Spencer & Stuart, una delle principali società di “cacciatori di teste”: “Il tempo della retorica rivoluzionaria è finito, oggi vanno per la maggiore gli ingegneri capaci di risolvere i problemi con la logica e il ‘pensiero architettonico’”, una costruzione ordinata di processi, relazioni, competenze.

Sarà davvero così, pure in Italia? La cultura manageriale ha sempre risentito, anche in Europa, della forte influenza Usa (in grado di costruire nel tempo, grazie anche a un tipo di capitalismo da “public company”, una sofisticata e ricca teoria della gestione aziendale, ma anche una generica retorica). Quello italiano, però, nel bene e nel male, è un capitalismo ancora con forte impronta familiare. E con un’originale mescolanza di azionisti-gestori eredi della famiglia del fondatore (caratteri eretici, forti, spregiudicatamente innovativi, “mozartiani”) e di manager forti d’una cultura tutta italiana della bellezza, della complessità, della “resilienza” (l’intelligente adattabilità).

Vale forse la pena, dunque, sottrarsi alle formule made in Usa. Ricordarsi che anche nel mondo delle imprese si continua ad avvertire il fascino, tutto euromediterraneo, di Napoleone (“Ei fu, anche un manager: univa alla progettazione la rapidità d’azione, conosceva e motivava le persone, valorizzava la cultura“, nota Ernesto Ferrero su “La Lettura” del Corriere della Sera, del 2 marzo 2014, sottolineandone la doppia qualità di innovatore e legislatore, dunque di costruttore di nuovi processi e di regolatore del loro sviluppo: un creativo e un ingegnere delle istituzioni). E magari leggere con attenzione un’originale lezione che viene proprio dagli Usa, quella di Walter Isaacson (direttore di “Time”, poi presidente e amministratore delegato della Cnn e adesso presidente dell’Aspen Institute).

Sua la firma sotto la biografia di Steve Jobs, un best seller internazionale. E sempre sua la firma per “The Innovators: how a Group of Hackers, Geniuses and Geeks created the Digital Revolution”, edito in ottobre da Simon & Schuster e, per l’Italia, da Mondadori. Cosa si sostiene? Che l’innovazione, nel mondo della tecnologia, non dipende da singoli geni ma è il risultato di un lavoro d’equipe. “Il nuovo Steve Jobs sarà una squadra. Il singolo individuo che produce innovazione è un’illusione, il genio funziona collaborando”, ha sintetizzato Serena Danna su “La Lettura” del Corriere della Sera (12 ottobre 2014). A conferma, ecco il parere di Keith Sawyer, professore d’innovazione e creatività alla North Carolina University. “Quando collaboriamo, la creatività si diffonde tra le persone e funziona meglio: il tutto è molto di più della somma delle singole parti”.

La complessità che semplifica la gestione d’impresa

Rendersi conto che gestire un’impresa è affare complesso, può aiutare a gestire l’impresa stessa. La consapevolezza della complessità non complica la vita del manager e dell’imprenditore, la semplifica. Chiarisce  il punto di partenza, aiuta a delineare con maggior precisione ciò che si deve affrontare. Soprattutto oggi, nel momento in cui le imprese sono sempre di più chiamate a risolvere la complessità sia al loro interno che verso l’esterno.

Proprio pensando a quest’ordine di considerazioni, Gianluca Colombo (Ordinario di Economia aziendale, Università dell’Insubria, Varese), ha scritto il suo “Dialogo sulla complessità, sul management ed altro”, pubblicato da poco online su Economia Aziendale, partendo da una affermazione: “L’organizzazione e il management sarebbero più efficienti se adottassero la prospettiva della complessità come metodo per costruire interattivamente il significato della realtà interna ed esterna all’impresa”.

Da qui, appunto, la ricerca che ha l’obiettivo di presentare alcune strade per la gestione dell’impresa applicando il “metodo della complessità” mettendo in luce i loro presupposti, gli assunti di base, le implicazioni e, eventualmente, le possibilità di una loro contaminazione.

Ma l’articolo di Colombo è interessante anche per altro. Le argomentazioni sulla complessità, infatti, sono presentate dall’autore sotto forma di dialogo fra personaggi (di fantasia) che sostengono particolari visioni o prospettive conoscitive, da cui derivano diverse modalità di governo delle imprese. Il primo personaggio è Melanius – che sostiene che sia possibile definire una razionalità oggettiva, anche se questa è spesso condizionata dalle circostanze -, il secondo è Salviatus  – che propone una visione sistemica dell’impresa -, il terzo attore è Valerius, guarda all’impresa come un sistema complesso “in cui – dice Colombo -, permane una dialettica fra i nodi locali sistema”.

Dialogo, quindi, per capire la complessità dell’impresa, della sua gestione, del mondo che la circonda. Il lavoro di Colombo deve essere affrontato con attenzione, ma ne vale la fatica.

Dialogo sulla complessità, sul management ed altro

Gianluca Colombo

Economia Aziendale Online, Vol. 5 1/2014

Rendersi conto che gestire un’impresa è affare complesso, può aiutare a gestire l’impresa stessa. La consapevolezza della complessità non complica la vita del manager e dell’imprenditore, la semplifica. Chiarisce  il punto di partenza, aiuta a delineare con maggior precisione ciò che si deve affrontare. Soprattutto oggi, nel momento in cui le imprese sono sempre di più chiamate a risolvere la complessità sia al loro interno che verso l’esterno.

Proprio pensando a quest’ordine di considerazioni, Gianluca Colombo (Ordinario di Economia aziendale, Università dell’Insubria, Varese), ha scritto il suo “Dialogo sulla complessità, sul management ed altro”, pubblicato da poco online su Economia Aziendale, partendo da una affermazione: “L’organizzazione e il management sarebbero più efficienti se adottassero la prospettiva della complessità come metodo per costruire interattivamente il significato della realtà interna ed esterna all’impresa”.

Da qui, appunto, la ricerca che ha l’obiettivo di presentare alcune strade per la gestione dell’impresa applicando il “metodo della complessità” mettendo in luce i loro presupposti, gli assunti di base, le implicazioni e, eventualmente, le possibilità di una loro contaminazione.

Ma l’articolo di Colombo è interessante anche per altro. Le argomentazioni sulla complessità, infatti, sono presentate dall’autore sotto forma di dialogo fra personaggi (di fantasia) che sostengono particolari visioni o prospettive conoscitive, da cui derivano diverse modalità di governo delle imprese. Il primo personaggio è Melanius – che sostiene che sia possibile definire una razionalità oggettiva, anche se questa è spesso condizionata dalle circostanze -, il secondo è Salviatus  – che propone una visione sistemica dell’impresa -, il terzo attore è Valerius, guarda all’impresa come un sistema complesso “in cui – dice Colombo -, permane una dialettica fra i nodi locali sistema”.

Dialogo, quindi, per capire la complessità dell’impresa, della sua gestione, del mondo che la circonda. Il lavoro di Colombo deve essere affrontato con attenzione, ma ne vale la fatica.

Dialogo sulla complessità, sul management ed altro

Gianluca Colombo

Economia Aziendale Online, Vol. 5 1/2014

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