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Guide giuste per far crescere l’impresa

Gestire l’impresa è affascinante ma difficile. Non bastano conoscenze tecniche ed economiche, serve anche dell’altro cone la fantasia, l’inventiva, la scintilla imprenditoriale che fa separare i veri imprenditori dagli imitatori. Ma, in ogni caso, occorrono anche schemi d’azione validi, tracce di intervento affidabili, guide per percorsi complicati. Per questo per governare bene l’impresa ci vogliono manuali che riescano a dare uno schema conoscitivo utile al manager e all’imprenditore. “Libretti d’istruzioni” efficaci, che lascino spazio all’estro d’impresa, ma che forniscano affidabili indicazioni operative.

Pietro Genco (Professore Emerito all’Università di Genova), ha scritto  un manuale che va nella direzione giusta.  “Corporate governance. Sistemi e strutture di governo dell’impresa” – appena pubblicato a Torino -, contiene in poco più di 270 pagine una un sistemazione organica di una serie di discipline e ambiti di gestione aziendale spesso scollegati fra di loro. E’ quanto può essere utile per darsi uno schema della realtà d’impresa che si sta affrontando.

Il libro, scritto in linguaggio lineare, prende quindi in considerazione i diversi aspetti del “governo d’impresa”, illustrando anche i vari approcci che dipendono dalle differenti culture nelle quali le imprese si muovono (anglosassone, renano, giapponese, latino). L’autore è attento a non dimenticare il carattere culturale della produzione accanto a quello più strettamente tecnico ed economico.

L’attività di governo di una impresa viene, inoltre, vista non solo nei suoi aspetti interni all’azienda, ma anche facendo attenzione a quelli esterni considerando quindi l’azienda non come un sistema chiuso, ma come un’entità assolutamente aperta a tutte le sollecitazioni esterne.

Il volume si divide sostanzialmente in tre parti. Prima di tutto delinea un quadro di riferimento teorico del governo d’impresa, poi ne approfondisce i modelli che derivano da diverse culture economiche, infine prende in considerazione più da vicino gli assetti proprietari e di controllo delle imprese italiane e la struttura dei modelli di governance tra governo e controllo sempre per quanto riguarda l’Italia.

Insomma, la cultura d’impresa si nutre di ispirazioni e intuizioni, ma queste deve essere sostenute da tecnicalità adeguate.

Corporate governance. Sistemi e strutture di governo dell’impresa

Pietro Genco

G. Giappichelli Editore, 2014

Gestire l’impresa è affascinante ma difficile. Non bastano conoscenze tecniche ed economiche, serve anche dell’altro cone la fantasia, l’inventiva, la scintilla imprenditoriale che fa separare i veri imprenditori dagli imitatori. Ma, in ogni caso, occorrono anche schemi d’azione validi, tracce di intervento affidabili, guide per percorsi complicati. Per questo per governare bene l’impresa ci vogliono manuali che riescano a dare uno schema conoscitivo utile al manager e all’imprenditore. “Libretti d’istruzioni” efficaci, che lascino spazio all’estro d’impresa, ma che forniscano affidabili indicazioni operative.

Pietro Genco (Professore Emerito all’Università di Genova), ha scritto  un manuale che va nella direzione giusta.  “Corporate governance. Sistemi e strutture di governo dell’impresa” – appena pubblicato a Torino -, contiene in poco più di 270 pagine una un sistemazione organica di una serie di discipline e ambiti di gestione aziendale spesso scollegati fra di loro. E’ quanto può essere utile per darsi uno schema della realtà d’impresa che si sta affrontando.

Il libro, scritto in linguaggio lineare, prende quindi in considerazione i diversi aspetti del “governo d’impresa”, illustrando anche i vari approcci che dipendono dalle differenti culture nelle quali le imprese si muovono (anglosassone, renano, giapponese, latino). L’autore è attento a non dimenticare il carattere culturale della produzione accanto a quello più strettamente tecnico ed economico.

L’attività di governo di una impresa viene, inoltre, vista non solo nei suoi aspetti interni all’azienda, ma anche facendo attenzione a quelli esterni considerando quindi l’azienda non come un sistema chiuso, ma come un’entità assolutamente aperta a tutte le sollecitazioni esterne.

Il volume si divide sostanzialmente in tre parti. Prima di tutto delinea un quadro di riferimento teorico del governo d’impresa, poi ne approfondisce i modelli che derivano da diverse culture economiche, infine prende in considerazione più da vicino gli assetti proprietari e di controllo delle imprese italiane e la struttura dei modelli di governance tra governo e controllo sempre per quanto riguarda l’Italia.

Insomma, la cultura d’impresa si nutre di ispirazioni e intuizioni, ma queste deve essere sostenute da tecnicalità adeguate.

Corporate governance. Sistemi e strutture di governo dell’impresa

Pietro Genco

G. Giappichelli Editore, 2014

Ecco come cambiano “i lavori”: addio posti di bassa qualità, è la stagione “steam”, scienza, tecnologia, engineering, arte e matematica

Spariranno i postini. E gli stenografi. I centralinisti. E i braccianti agricoli. E sarà il tempo dei biotecnologi, dei medici capaci di diagnosi e cure nanotech e soprattutto degli addetti ai social network e al marketing digitale, degli specialisti di tecnologia cloud, degli sviluppatori di app, insomma degli informatici ipertecnologici, trasversali ai bisogni di crescita dell’industria, dei servizi e dell’agricoltura stessa. Ma si allargheranno anche le opportunità per gli esperti di benessere e tempo libero, come gli “istruttori di zumba”(fitness musicale) e gli istruttori di ginnastica da spiaggia (uno dei mestieri più cresciuti nel mondo dal 2008 a oggi, di ben 3.360 volte, subito dopo gli operatori di big data: un trionfo del turismo da villaggi e lidi marittimi attrezzati per vacanze di massa).

I dati sono contenuti in una ricerca della Deloitte, una delle maggiori società di consulenza internazionale e dell’università di Oxford (La Stampa, 12 novembre). E confermano la radicalità e la profondità degli sconvolgimenti in corso. “La fine del lavoro”, aveva scritto nel 1995 Jeremy Rifkin, acuto analista dei cambiamenti economici. Era stato buon profeta. Sono poi arrivate le analisi sulla fine del fordismo e sulle “mutuazioni individualiste” anche sul versante di mestieri e professioni, sino alle elaborazioni sull’”età dei lavori” (cui si ispira anche il Job Act del governo Renzi). Addio “lavoro”, per dirla in sintesi. Benvenuti “lavori”.

Siamo in una stagione di transizione, in cui hanno ancora peso vecchi sistemi produttivi, in crisi (con tanto di proteste sociali di chi perde il posto di lavoro) ma già si costruiscono nuovi equilibri. E gli osservatori più attenti delle trasformazioni fanno notare che la rivoluzione digitale va avanti impetuosa, con esiti economici ancora imprevedibili. “Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo”, sostiene, sul filo del paradosso, Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, la maggior banca dati dei laureati in Italia (la Repubblica, 10 novembre).

C’è un conto, che viene dalla Gran Bretagna, di cui molto si discute: nell’arco dei prossimi dieci anni dieci milioni di posti di lavoro verranno persi, perché a svolgerli saranno i robot (La Stampa, 12 novembre): quelli più ripetitivi, di bassa qualità, poco pagati. Una cattiva notizia, dunque. Ma anche una buona notizia: si liberano risorse per attività più qualificate, meglio pagate, più soddisfacenti. A patto, naturalmente, di avviare robusti programmi di formazione hi tech e di riqualificazione di mano d’opera espulsa dai vecchi processi produttivi. Nell’età dell’”economia della conoscenza”, appunto, valgono le abilità digitali, ma anche le competenze più generali, per permettere alle persone di non essere “operai dell’information technology” ma esperti con consapevolezza e responsabilità.

E’ in corso, insomma, una stagione che gli esperti definiscono basata sul modello “stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica). E che, guardando all’Italia, Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e per molti anni responsabile dell’education per Confindustria, modifica e ampia in “steam”, il buon “vapore” che alimenta lo sviluppo, dove la “a” aggiunta sta per “arts”, il complesso di conoscenze umanistiche, letterarie, artistiche, appunto: una specializzazione in cui il nostro paese ha un vero e proprio primato storico, adesso naturalmente da difendere in chiave hi tech (dunque investendo sulla scuola e l’information technology collegata, superando il divario digitale che ancora ci pesa e la condizione marginale in Europa d’una scuola che ha appena 6 computer ogni 100 studenti, contro la media Ue di 16).

Intelligenza e conoscenza come chiave di sviluppo, dunque. E apertura alle trasformazioni del mondo del lavoro. Tenendo bene a mente un calcolo di Enrico Moretti, brillante economista dell’università di Berkeley, nel suo libro su “La nuova geografia del lavoro”: per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta comunque un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita.

Spariranno i postini. E gli stenografi. I centralinisti. E i braccianti agricoli. E sarà il tempo dei biotecnologi, dei medici capaci di diagnosi e cure nanotech e soprattutto degli addetti ai social network e al marketing digitale, degli specialisti di tecnologia cloud, degli sviluppatori di app, insomma degli informatici ipertecnologici, trasversali ai bisogni di crescita dell’industria, dei servizi e dell’agricoltura stessa. Ma si allargheranno anche le opportunità per gli esperti di benessere e tempo libero, come gli “istruttori di zumba”(fitness musicale) e gli istruttori di ginnastica da spiaggia (uno dei mestieri più cresciuti nel mondo dal 2008 a oggi, di ben 3.360 volte, subito dopo gli operatori di big data: un trionfo del turismo da villaggi e lidi marittimi attrezzati per vacanze di massa).

I dati sono contenuti in una ricerca della Deloitte, una delle maggiori società di consulenza internazionale e dell’università di Oxford (La Stampa, 12 novembre). E confermano la radicalità e la profondità degli sconvolgimenti in corso. “La fine del lavoro”, aveva scritto nel 1995 Jeremy Rifkin, acuto analista dei cambiamenti economici. Era stato buon profeta. Sono poi arrivate le analisi sulla fine del fordismo e sulle “mutuazioni individualiste” anche sul versante di mestieri e professioni, sino alle elaborazioni sull’”età dei lavori” (cui si ispira anche il Job Act del governo Renzi). Addio “lavoro”, per dirla in sintesi. Benvenuti “lavori”.

Siamo in una stagione di transizione, in cui hanno ancora peso vecchi sistemi produttivi, in crisi (con tanto di proteste sociali di chi perde il posto di lavoro) ma già si costruiscono nuovi equilibri. E gli osservatori più attenti delle trasformazioni fanno notare che la rivoluzione digitale va avanti impetuosa, con esiti economici ancora imprevedibili. “Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo”, sostiene, sul filo del paradosso, Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, la maggior banca dati dei laureati in Italia (la Repubblica, 10 novembre).

C’è un conto, che viene dalla Gran Bretagna, di cui molto si discute: nell’arco dei prossimi dieci anni dieci milioni di posti di lavoro verranno persi, perché a svolgerli saranno i robot (La Stampa, 12 novembre): quelli più ripetitivi, di bassa qualità, poco pagati. Una cattiva notizia, dunque. Ma anche una buona notizia: si liberano risorse per attività più qualificate, meglio pagate, più soddisfacenti. A patto, naturalmente, di avviare robusti programmi di formazione hi tech e di riqualificazione di mano d’opera espulsa dai vecchi processi produttivi. Nell’età dell’”economia della conoscenza”, appunto, valgono le abilità digitali, ma anche le competenze più generali, per permettere alle persone di non essere “operai dell’information technology” ma esperti con consapevolezza e responsabilità.

E’ in corso, insomma, una stagione che gli esperti definiscono basata sul modello “stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica). E che, guardando all’Italia, Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e per molti anni responsabile dell’education per Confindustria, modifica e ampia in “steam”, il buon “vapore” che alimenta lo sviluppo, dove la “a” aggiunta sta per “arts”, il complesso di conoscenze umanistiche, letterarie, artistiche, appunto: una specializzazione in cui il nostro paese ha un vero e proprio primato storico, adesso naturalmente da difendere in chiave hi tech (dunque investendo sulla scuola e l’information technology collegata, superando il divario digitale che ancora ci pesa e la condizione marginale in Europa d’una scuola che ha appena 6 computer ogni 100 studenti, contro la media Ue di 16).

Intelligenza e conoscenza come chiave di sviluppo, dunque. E apertura alle trasformazioni del mondo del lavoro. Tenendo bene a mente un calcolo di Enrico Moretti, brillante economista dell’università di Berkeley, nel suo libro su “La nuova geografia del lavoro”: per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta comunque un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita.

Cultura d’impresa via web

La cultura delle imprese – cioè il senso del loro essere, l’essenza del loro agire -, si può capire in molti modi. Anche guardando – ormai – alla modalità con la quale le stesse imprese si avvicinano alla Rete e si collocano su Internet. Servono, pure per raggiungere questo traguardo, gli strumenti giusti e uno schema di analisi adeguato. E’ quanto viene fornito dal lavoro di Cai-shun Zhong (del Foreign Languages College, Jiangxi Normal University, Jiangxi in Cina), apparso nel numero di agosto dell’International Journal of E-Business Development.

“Modeling the Socio-Cognitive Process of Cultural Recontextualization in E-business Web Design”, fornisce un buon esempio di come si possa studiare la cultura d’impresa partendo dall’operatività reale dell’azienda stessa e da come questa si presenta al pubblico, ai consumatori. L’articolo, infatti, analizza la “rappresentazione culturale” dell’impresa e della società nella quale è nata, partendo dall’esame dell’ e-business web design di Amazon e Taobao, due piattaforme commerciali di e-business una statunitense e l’altra cinese.

Dopo un inquadramento teorico sul metodo di analisi del web design, l’articolo procede ad un confronto fra le diverse parti dei siti: presentazione dei prodotti, modalità di acquisto, elencazione delle categorie di ricerca. L’autore, quindi, guarda ai particolari dei due siti, all’immagine fornita da ogni pagina, all’approccio grafico ad ogni tema. In questo modo, Amazon e Taobao – che hanno dietro ovviamente due rappresentazioni diverse della cultura d’impresa e della società che rappresentano -, vengono messi a confronto attraverso la comparazione del web design assunto, come si è detto prima,  come indicatore del contesto culturale nel quale agiscono.

E’ significativo un passaggio delle conclusioni: l’indagine rivela come la progettazione di questi siti deve “non solo affrontare la differenza  tra imprese e orientamenti culturali generali, ma anche interpretare come l’informazione culturale è retificata nella pagina web”, cioè come l’informazione culturale viene concretizzata da parte di chi guarda il sito.

Cultura d’impresa e cultura del consumo, quindi, vengono di volta in volta messe a confronto e marciano però anche di pari passo con un continuo scambio di informazioni e di suggestioni.

Il lavoro di Cai-shun Zhong  (di dieci pagine circa, ricco di immagini utili a capire meglio), è un articolo scritto in maniera abbordabile a tutti, che può fornire un esempio di come la cultura d’impresa si rifletta anche in ambiti inaspettati e inconsueti.

Modeling the Socio-Cognitive Process of Cultural Recontextualization in E-business Web Design 

Cai-shun Zhong

International Journal of E-Business Development Aug 2014, Vol. 4 Iss. 3, PP. 75-84

La cultura delle imprese – cioè il senso del loro essere, l’essenza del loro agire -, si può capire in molti modi. Anche guardando – ormai – alla modalità con la quale le stesse imprese si avvicinano alla Rete e si collocano su Internet. Servono, pure per raggiungere questo traguardo, gli strumenti giusti e uno schema di analisi adeguato. E’ quanto viene fornito dal lavoro di Cai-shun Zhong (del Foreign Languages College, Jiangxi Normal University, Jiangxi in Cina), apparso nel numero di agosto dell’International Journal of E-Business Development.

“Modeling the Socio-Cognitive Process of Cultural Recontextualization in E-business Web Design”, fornisce un buon esempio di come si possa studiare la cultura d’impresa partendo dall’operatività reale dell’azienda stessa e da come questa si presenta al pubblico, ai consumatori. L’articolo, infatti, analizza la “rappresentazione culturale” dell’impresa e della società nella quale è nata, partendo dall’esame dell’ e-business web design di Amazon e Taobao, due piattaforme commerciali di e-business una statunitense e l’altra cinese.

Dopo un inquadramento teorico sul metodo di analisi del web design, l’articolo procede ad un confronto fra le diverse parti dei siti: presentazione dei prodotti, modalità di acquisto, elencazione delle categorie di ricerca. L’autore, quindi, guarda ai particolari dei due siti, all’immagine fornita da ogni pagina, all’approccio grafico ad ogni tema. In questo modo, Amazon e Taobao – che hanno dietro ovviamente due rappresentazioni diverse della cultura d’impresa e della società che rappresentano -, vengono messi a confronto attraverso la comparazione del web design assunto, come si è detto prima,  come indicatore del contesto culturale nel quale agiscono.

E’ significativo un passaggio delle conclusioni: l’indagine rivela come la progettazione di questi siti deve “non solo affrontare la differenza  tra imprese e orientamenti culturali generali, ma anche interpretare come l’informazione culturale è retificata nella pagina web”, cioè come l’informazione culturale viene concretizzata da parte di chi guarda il sito.

Cultura d’impresa e cultura del consumo, quindi, vengono di volta in volta messe a confronto e marciano però anche di pari passo con un continuo scambio di informazioni e di suggestioni.

Il lavoro di Cai-shun Zhong  (di dieci pagine circa, ricco di immagini utili a capire meglio), è un articolo scritto in maniera abbordabile a tutti, che può fornire un esempio di come la cultura d’impresa si rifletta anche in ambiti inaspettati e inconsueti.

Modeling the Socio-Cognitive Process of Cultural Recontextualization in E-business Web Design 

Cai-shun Zhong

International Journal of E-Business Development Aug 2014, Vol. 4 Iss. 3, PP. 75-84

Che fare per l’industria in Italia?

In Italia l’industria esiste ma spesso langue. Le ragioni sono note. Ed è anche nota la consapevolezza dell’importanza dell’esistenza di un comparto industriale moderno e competitivo. Mentre quale possa essere la migliore politica per uscire dallo stato di difficoltà dell’oggi, è molto meno noto e chiaro. D’altra parte, occorre capire bene il presente per comprendere a fondo cosa fare. Vale oggi, seppur datata, l’affermazione di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”.

Il libro di Dario Di Vico e Gianfranco Viesti (inviato del Corriere della Sera il primo ed economista il secondo), serve proprio per capire meglio la realtà e focalizzare poi degli schemi d’azione che hanno l’obiettivo di arrivare (per strade diverse), a politiche economiche che – stando ai due autori -, potrebbero dare quella spinta che oggi l’Italia industriale cerca. “Cacciavite, robot e tablet. Come far ripartire le imprese” appena pubblicato, è diviso in due parti: due analisi della stessa realtà (osservata con gli occhi dell’economista e poi con quelli del giornalista), e due schemi di politica industriale pensati per rilanciare l’Italia. Tutto in circa 130 pagine.

Viesti (che insegna Economia internazionale all’Università di Bari), parte da un assunto: “L’industria è, e deve restare, il motore dell’economia italiana”. Per capire come raggiungere questo obiettivo, Viesti cammina lungo una strada che tocca temi come le necessità di un modello industriale diverso, la consapevolezza del “cambio” del mondo che ci circonda, il bisogno di un Paese “attrattivo” e quindi quello di avere “capitali e cervelli per crescere”. La conclusione dell’economista si basa sul rilancio di un’azione pubblica costruita sulle esigenze della globalizzazione, in grado di accrescere la dimensione delle imprese e di favorirne l’internazionalizzazione e l’innovazione.

Di Vico (che come inviato ha seguito per il quotidiano milanese prevalentemente i temi economici), compie invece una strada diversa, che passa dal ruolo delle banche, delle multinazionali, dalla necessità di ristrutturazioni profonde e importanti, dal ruolo e dalla complessità del fenomeno dei distretti industriali e, infine, dal significato e dai cambiamenti del lavoro. Il giornalista, quindi, individua altri pilastri di una politica industriale italiana che dovrebbe guardare ad uno Stato che riesca ad abbattere il peso delle tasse, a dare più spazio alle banche come fornitrici di carburante  per la crescita, così come ai fondi di investimento e alle multinazionali.

Il risultato è un libro che si legge in un giorno e che ha un obiettivo composito: chiarire la realtà, delineare politiche di crescita utili all’industria, costruire nuove culture d’impresa.

Cacciavite, robot e tablet. Come far ripartire le imprese

Dario Di Vico, Gianfranco Viesti

Il Mulino, ottobre 2014

In Italia l’industria esiste ma spesso langue. Le ragioni sono note. Ed è anche nota la consapevolezza dell’importanza dell’esistenza di un comparto industriale moderno e competitivo. Mentre quale possa essere la migliore politica per uscire dallo stato di difficoltà dell’oggi, è molto meno noto e chiaro. D’altra parte, occorre capire bene il presente per comprendere a fondo cosa fare. Vale oggi, seppur datata, l’affermazione di Luigi Einaudi: “Conoscere per deliberare”.

Il libro di Dario Di Vico e Gianfranco Viesti (inviato del Corriere della Sera il primo ed economista il secondo), serve proprio per capire meglio la realtà e focalizzare poi degli schemi d’azione che hanno l’obiettivo di arrivare (per strade diverse), a politiche economiche che – stando ai due autori -, potrebbero dare quella spinta che oggi l’Italia industriale cerca. “Cacciavite, robot e tablet. Come far ripartire le imprese” appena pubblicato, è diviso in due parti: due analisi della stessa realtà (osservata con gli occhi dell’economista e poi con quelli del giornalista), e due schemi di politica industriale pensati per rilanciare l’Italia. Tutto in circa 130 pagine.

Viesti (che insegna Economia internazionale all’Università di Bari), parte da un assunto: “L’industria è, e deve restare, il motore dell’economia italiana”. Per capire come raggiungere questo obiettivo, Viesti cammina lungo una strada che tocca temi come le necessità di un modello industriale diverso, la consapevolezza del “cambio” del mondo che ci circonda, il bisogno di un Paese “attrattivo” e quindi quello di avere “capitali e cervelli per crescere”. La conclusione dell’economista si basa sul rilancio di un’azione pubblica costruita sulle esigenze della globalizzazione, in grado di accrescere la dimensione delle imprese e di favorirne l’internazionalizzazione e l’innovazione.

Di Vico (che come inviato ha seguito per il quotidiano milanese prevalentemente i temi economici), compie invece una strada diversa, che passa dal ruolo delle banche, delle multinazionali, dalla necessità di ristrutturazioni profonde e importanti, dal ruolo e dalla complessità del fenomeno dei distretti industriali e, infine, dal significato e dai cambiamenti del lavoro. Il giornalista, quindi, individua altri pilastri di una politica industriale italiana che dovrebbe guardare ad uno Stato che riesca ad abbattere il peso delle tasse, a dare più spazio alle banche come fornitrici di carburante  per la crescita, così come ai fondi di investimento e alle multinazionali.

Il risultato è un libro che si legge in un giorno e che ha un obiettivo composito: chiarire la realtà, delineare politiche di crescita utili all’industria, costruire nuove culture d’impresa.

Cacciavite, robot e tablet. Come far ripartire le imprese

Dario Di Vico, Gianfranco Viesti

Il Mulino, ottobre 2014

Ecco perché un buon libro aiuta il manager e l’impresa a crescere meglio

Cosa leggono gli imprenditori e i manager? Libri di management, se va bene. Storie esemplari sui successi di note imprese. Manuali “how to do it”. E quasi nulla più. Il 38% di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti dedica rapidi tempi di lettura a testi strettamente professionali, documenta infatti Giovanni Solimine in “L’Italia che legge”, un saggio pubblicato da Laterza nel 2010 ma ancora attuale. Pagine d’uso, dunque. E pochissimi romanzi, poca saggistica d’attualità, storia, filosofia, perfino economia. L’opinione diffusa, nel mondo dell’impresa, è che ci sia ben altro da fare che non leggere, se non “cose tecniche, utili”. Peccato. Per loro, e naturalmente per le loro imprese. “Capire l’uomo, i suoi difetti, le sue passioni è assolutamente indispensabile per chi fa impresa. E la letteratura è tra i migliori strumenti disponibili per riuscirci”, sostiene Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria per l’education, l’imprenditore che ha profondamente rinnovato i comportamenti degli industriali siciliani, rilanciando l’impegno per la legalità e contro le collusioni mafiose. Lo Bello ne parla a Filippo Astone sulle pagine della “Domenica” de “Il Sole24Ore” (un inserto culturale che manager e imprenditori farebbero davvero bene a leggere). E insiste sull’essenzialità di una buona cultura di fondo e sulla responsabilità di chi fa impresa nell’avere un ruolo attivo, nel determinare la propria vita: “La grande letteratura è indispensabile per tutti, imprenditori e non, perché è bellezza. E la bellezza dà senso e profondità al nostro vivere. Ti fa capire che la nostra vita va inventata, che c’è sempre una possibilità di determinazione”. Insiste, sempre sulla “Domenica” de “Il Sole24Ore” Oscar Farinetti: “La capacità di narrazione per valorizzare e vendere i prodotti dei nostri territori viene proprio dal rapporto con i buoni libri”. E Severino Salvemini, professore d’organizzazione aziendale alla Bocconi e studioso di punta delle relazioni tra cultura e impresa: “Le persone d’azienda che si occupano di prodotti e di mercati contemporanei devono per forza essere in sintonia con i linguaggi contemporanei e dunque leggere. Anche buona letteratura”.

Leggere cosa? Le indicazioni possono essere infinite. I classici latini, per ragionare sulla sostanza della leadership, per esempio, cominciando proprio con il “De bello gallico” di Cesare e poi con gli ammonimenti sull’etica, la politica, la responsabilità, di Cicerone, Seneca e Tacito. O le grandi opere di teatro: c’è nulla meglio del “Re Lear” di Shakespeare per indagare sull’avidità, sulla menzogna e sull’inganno, perfino dei familiari, nei confronti del potere e sugli errori nella scelta delle persone di fiducia. “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam, per cercare nei meandri del pensiero inconsueto e, perché no? eretico, la scintilla libera della creatività innovativa, anche dell’imprenditorialità. O la buona letteratura italiana, Manzoni e Leopardi. “Il Consiglio d’Egitto” di Sciascia, sull’impostura ela verità. “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, sulla fierezza dell’identità e la malinconia del tramonto. “Bouvard e Pecuchet” di Flaubert, per avere consapevolezza delle dimensioni della stupidità quotidiana (sulla stessa scia, “Allegro ma non troppo” di Carlo M. Cipolla). “La chiave a stella” di Levi, sull’orgoglio industriale. E così via continuando, sino a “Il falò delle vanità” di Tom Wolfe o “Il cardellino” di Donna Tart, best seller che rivela cosa abiti nel profondo del cuore di noi contemporanei.

Elenco lungo, anzi lunghissimo. Ogni lettore, anzi ogni manager che per sua fortuna (e della sua impresa) sia un robusto lettore, può continuarlo a suo piacere. Qui lo si conclude solo con un suggerimento: “Curarsi con i libri” ovvero “rimedi letterari per ogni malanno” di Ella Berthoud e Susan Elderkin, Sellerio. Ogni crisi ha un libro per cercare di venirne fuori. Più esattamente: quasi ogni crisi, tranne quella della non lettura. Che non è solo una crisi. Ma una terribile scelta di povertà.

Cosa leggono gli imprenditori e i manager? Libri di management, se va bene. Storie esemplari sui successi di note imprese. Manuali “how to do it”. E quasi nulla più. Il 38% di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti dedica rapidi tempi di lettura a testi strettamente professionali, documenta infatti Giovanni Solimine in “L’Italia che legge”, un saggio pubblicato da Laterza nel 2010 ma ancora attuale. Pagine d’uso, dunque. E pochissimi romanzi, poca saggistica d’attualità, storia, filosofia, perfino economia. L’opinione diffusa, nel mondo dell’impresa, è che ci sia ben altro da fare che non leggere, se non “cose tecniche, utili”. Peccato. Per loro, e naturalmente per le loro imprese. “Capire l’uomo, i suoi difetti, le sue passioni è assolutamente indispensabile per chi fa impresa. E la letteratura è tra i migliori strumenti disponibili per riuscirci”, sostiene Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria per l’education, l’imprenditore che ha profondamente rinnovato i comportamenti degli industriali siciliani, rilanciando l’impegno per la legalità e contro le collusioni mafiose. Lo Bello ne parla a Filippo Astone sulle pagine della “Domenica” de “Il Sole24Ore” (un inserto culturale che manager e imprenditori farebbero davvero bene a leggere). E insiste sull’essenzialità di una buona cultura di fondo e sulla responsabilità di chi fa impresa nell’avere un ruolo attivo, nel determinare la propria vita: “La grande letteratura è indispensabile per tutti, imprenditori e non, perché è bellezza. E la bellezza dà senso e profondità al nostro vivere. Ti fa capire che la nostra vita va inventata, che c’è sempre una possibilità di determinazione”. Insiste, sempre sulla “Domenica” de “Il Sole24Ore” Oscar Farinetti: “La capacità di narrazione per valorizzare e vendere i prodotti dei nostri territori viene proprio dal rapporto con i buoni libri”. E Severino Salvemini, professore d’organizzazione aziendale alla Bocconi e studioso di punta delle relazioni tra cultura e impresa: “Le persone d’azienda che si occupano di prodotti e di mercati contemporanei devono per forza essere in sintonia con i linguaggi contemporanei e dunque leggere. Anche buona letteratura”.

Leggere cosa? Le indicazioni possono essere infinite. I classici latini, per ragionare sulla sostanza della leadership, per esempio, cominciando proprio con il “De bello gallico” di Cesare e poi con gli ammonimenti sull’etica, la politica, la responsabilità, di Cicerone, Seneca e Tacito. O le grandi opere di teatro: c’è nulla meglio del “Re Lear” di Shakespeare per indagare sull’avidità, sulla menzogna e sull’inganno, perfino dei familiari, nei confronti del potere e sugli errori nella scelta delle persone di fiducia. “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam, per cercare nei meandri del pensiero inconsueto e, perché no? eretico, la scintilla libera della creatività innovativa, anche dell’imprenditorialità. O la buona letteratura italiana, Manzoni e Leopardi. “Il Consiglio d’Egitto” di Sciascia, sull’impostura ela verità. “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, sulla fierezza dell’identità e la malinconia del tramonto. “Bouvard e Pecuchet” di Flaubert, per avere consapevolezza delle dimensioni della stupidità quotidiana (sulla stessa scia, “Allegro ma non troppo” di Carlo M. Cipolla). “La chiave a stella” di Levi, sull’orgoglio industriale. E così via continuando, sino a “Il falò delle vanità” di Tom Wolfe o “Il cardellino” di Donna Tart, best seller che rivela cosa abiti nel profondo del cuore di noi contemporanei.

Elenco lungo, anzi lunghissimo. Ogni lettore, anzi ogni manager che per sua fortuna (e della sua impresa) sia un robusto lettore, può continuarlo a suo piacere. Qui lo si conclude solo con un suggerimento: “Curarsi con i libri” ovvero “rimedi letterari per ogni malanno” di Ella Berthoud e Susan Elderkin, Sellerio. Ogni crisi ha un libro per cercare di venirne fuori. Più esattamente: quasi ogni crisi, tranne quella della non lettura. Che non è solo una crisi. Ma una terribile scelta di povertà.

Imprese nuove, cultura nuova

L’impresa per vivere e crescere deve innovare. Questione ormai vecchia, quella dell’innovazione, è ormai declinata con modalità diverse che, tuttavia, devono tutte confrontarsi con alcuni vincoli: la necessità della presenza di un imprenditore attento, il contesto nel quale l’impresa agisce, le prospettive del comparto. Insomma, mettere insieme aziende – italiane e magari medio-piccole -, e innovazione non è cosa facile, ma è comunque cosa necessaria.

Per capire meglio ciò che può accadere, è interessante leggere “Nuovi modelli imprenditoriali, tendenze e politiche di sostegno”, un articolo scritto da Donato Iacobucci (Professore Associato alla Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Ingegneria Informatica Gestionale e dell’Automazione), che esamina da vicino quanto è successo negli ultimi anni al sistema industriale manifatturiero delle Marche.

In particolare, la ricerca (apparsa poche settimane fa su Prisma Economia Società Lavoro), analizza la situazione che si è creata nel sistema delle imprese marchigiane a seguito della crisi internazionale del 2009 e della conseguente fase recessiva che ha interessato l’Italia nell’ultimo triennio.

Qui, la manifattura è stata colpita più che nella media nazionale. L’autore spiega questo fatto andandone a cercare le ragioni “nel peculiare modello di specializzazione della regione e nel conseguente modello di innovazione, scarsamente fondato sulle attività di ricerca”. In altre parole, l’idea di base è che le imprese delle Marche hanno sì risposto alla crisi cercando di innovare, ma l’innovazione non è passata dalla ricerca. E’ stata, in un certo senso, un’innovazione zoppa, fragile, esposta in maniera eccessiva ai venti della crisi. Da qui nascono due punti fermi che si trasformano in proposte. Per Iacobucci è importante “favorire l’avvio di nuove imprese in settori a più alto contenuto di conoscenza”, sarebbero queste, infatti, in grado di “contribuire a diversificare il sistema produttivo e a fornire maggiore contenuto di innovazione alle attività esistenti”. Un traguardo determinante per il futuro che, però, può essere raggiunto solo cambiando anche i modelli di “attivazione imprenditoriale”. Insomma, ancora una volta ciò che ci deve essere è un salto di qualità nelle menti d’impresa e nella cultura aziendale che non sempre è facile da fare.

Poi c’è il secondo punto/proposta: la necessità di agevolare i giovani imprenditori nella creazione di nuove imprese. Una strada accidentata, quest’ultima, che si trova a fare i conti con un altro freno allo sviluppo tipico del Paese: il reperimento di adeguate risorse finanziarie.

Il lavoro di Iacobucci ha il pregio di partire da una situazione reale che viene analizzata con un impianto teorico adeguato; è un articolo breve e intenso, da leggere con attenzione.

Nuovi modelli imprenditoriali, tendenze e politiche di sostegno

Donato Iacobucci

Prisma Economia Società Lavoro, 2014 Fascicolo 2

Download pdf 

L’impresa per vivere e crescere deve innovare. Questione ormai vecchia, quella dell’innovazione, è ormai declinata con modalità diverse che, tuttavia, devono tutte confrontarsi con alcuni vincoli: la necessità della presenza di un imprenditore attento, il contesto nel quale l’impresa agisce, le prospettive del comparto. Insomma, mettere insieme aziende – italiane e magari medio-piccole -, e innovazione non è cosa facile, ma è comunque cosa necessaria.

Per capire meglio ciò che può accadere, è interessante leggere “Nuovi modelli imprenditoriali, tendenze e politiche di sostegno”, un articolo scritto da Donato Iacobucci (Professore Associato alla Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Ingegneria Informatica Gestionale e dell’Automazione), che esamina da vicino quanto è successo negli ultimi anni al sistema industriale manifatturiero delle Marche.

In particolare, la ricerca (apparsa poche settimane fa su Prisma Economia Società Lavoro), analizza la situazione che si è creata nel sistema delle imprese marchigiane a seguito della crisi internazionale del 2009 e della conseguente fase recessiva che ha interessato l’Italia nell’ultimo triennio.

Qui, la manifattura è stata colpita più che nella media nazionale. L’autore spiega questo fatto andandone a cercare le ragioni “nel peculiare modello di specializzazione della regione e nel conseguente modello di innovazione, scarsamente fondato sulle attività di ricerca”. In altre parole, l’idea di base è che le imprese delle Marche hanno sì risposto alla crisi cercando di innovare, ma l’innovazione non è passata dalla ricerca. E’ stata, in un certo senso, un’innovazione zoppa, fragile, esposta in maniera eccessiva ai venti della crisi. Da qui nascono due punti fermi che si trasformano in proposte. Per Iacobucci è importante “favorire l’avvio di nuove imprese in settori a più alto contenuto di conoscenza”, sarebbero queste, infatti, in grado di “contribuire a diversificare il sistema produttivo e a fornire maggiore contenuto di innovazione alle attività esistenti”. Un traguardo determinante per il futuro che, però, può essere raggiunto solo cambiando anche i modelli di “attivazione imprenditoriale”. Insomma, ancora una volta ciò che ci deve essere è un salto di qualità nelle menti d’impresa e nella cultura aziendale che non sempre è facile da fare.

Poi c’è il secondo punto/proposta: la necessità di agevolare i giovani imprenditori nella creazione di nuove imprese. Una strada accidentata, quest’ultima, che si trova a fare i conti con un altro freno allo sviluppo tipico del Paese: il reperimento di adeguate risorse finanziarie.

Il lavoro di Iacobucci ha il pregio di partire da una situazione reale che viene analizzata con un impianto teorico adeguato; è un articolo breve e intenso, da leggere con attenzione.

Nuovi modelli imprenditoriali, tendenze e politiche di sostegno

Donato Iacobucci

Prisma Economia Società Lavoro, 2014 Fascicolo 2

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L’impresa che verrà

L’impresa per vivere deve cambiare. Condizione facilissima a dirsi, quella del cambiamento necessario del modo di produrre, dell’essere stesso dell’imprenditore è, in effetti, una delle operazioni più complesse da condurre, incerta nelle conclusioni, rischiosissima nel percorso. Di fronte alla modernità, molte imprese storiche hanno chiuso, con la prospettiva di un futuro incerto, ancora più imprese hanno aperto i battenti per poi naufragare sugli scogli della concorrenza agguerrita, dei mercati complessi e della velocità con la quale corre l’economia. Come spesso accade, servono quindi guide, tracce di percorso, indicazioni d’azione.

E’ quanto è riuscito a fare Renato Fiocca – docente dal 2002 all’Università Cattolica del Sacro Cuore -, con il suo “Impresa futura. Nuove prospettive per l’impresa e il management del domani”, pubblicato recentemente, che ha un obiettivo generale: fornire una serie di riflessioni sul ruolo dell’impresa e del management negli anni futuri.

“Le difficoltà e la crisi che hanno colpito i mercati e le imprese negli ultimi anni – dice Fiocca -, hanno lasciato segni profondi nel modo con il quale si possono gestire le imprese. Ritornare ai sistemi e ai modelli di management del passato non è pensabile. Troppi i cambiamenti che sono intervenuti. Le nuove tecnologie, le rinnovate esigenze dei clienti, l’incombente e sempre più agguerrita concorrenza internazionale non lasciano spazio a una riproposizione acritica di logiche e di management ormai superate”.

Quindi che fare? La risposta di Fiocca arriva in 13 capitoli con una serie di considerazioni, di suggerimenti, anche di provocazioni, indirizzate agli imprenditori e ai manager di oggi e di domani.

Partendo dalla constatazione che l’impresa ha in se’ un “mondo” di risorse, spesso invisibili, Fiocca affronta il tema delle risorse umane  in azienda, poi quello della qualità delle relazioni e nelle relazioni, la presenza di “altruismi ed egoismi relazionali”, il nodo della comunicazione nelle relazioni e nelle reti. L’autore passa quindi ad affrontare i temi dei rapporti fra impresa e mercato (“Rispetto d’impresa, rispetto di mercato”), e il confronto fra cooperazione e competizione fra imprese.  Il volume – di poco più di 250 pagine -, si conclude quindi con una serie di riflessioni sul significato filosofico del “decidere” imprenditoriale  e quindi sull’etica, sull’estetica e sulla matematica nelle relazioni. Ma non solo, Fiocca guarda al futuro in maniera profonda: analizza anche la situazione dell’impresa che “scivola verso il basso” e l’esigenza di “odiare lo spreco”.

Management per una buona gestione, quindi, ma anche attenzione particolare agli aspetti immateriali del fare impresa oggi in vista del domani. Il volume di Fiocca è scritto bene, con un linguaggio fresco e moderno e una profondità non comune.

Impresa futura. Nuove prospettive per l’impresa e il management del domani

Renato Fiocca

Franco Angeli, 2014

L’impresa per vivere deve cambiare. Condizione facilissima a dirsi, quella del cambiamento necessario del modo di produrre, dell’essere stesso dell’imprenditore è, in effetti, una delle operazioni più complesse da condurre, incerta nelle conclusioni, rischiosissima nel percorso. Di fronte alla modernità, molte imprese storiche hanno chiuso, con la prospettiva di un futuro incerto, ancora più imprese hanno aperto i battenti per poi naufragare sugli scogli della concorrenza agguerrita, dei mercati complessi e della velocità con la quale corre l’economia. Come spesso accade, servono quindi guide, tracce di percorso, indicazioni d’azione.

E’ quanto è riuscito a fare Renato Fiocca – docente dal 2002 all’Università Cattolica del Sacro Cuore -, con il suo “Impresa futura. Nuove prospettive per l’impresa e il management del domani”, pubblicato recentemente, che ha un obiettivo generale: fornire una serie di riflessioni sul ruolo dell’impresa e del management negli anni futuri.

“Le difficoltà e la crisi che hanno colpito i mercati e le imprese negli ultimi anni – dice Fiocca -, hanno lasciato segni profondi nel modo con il quale si possono gestire le imprese. Ritornare ai sistemi e ai modelli di management del passato non è pensabile. Troppi i cambiamenti che sono intervenuti. Le nuove tecnologie, le rinnovate esigenze dei clienti, l’incombente e sempre più agguerrita concorrenza internazionale non lasciano spazio a una riproposizione acritica di logiche e di management ormai superate”.

Quindi che fare? La risposta di Fiocca arriva in 13 capitoli con una serie di considerazioni, di suggerimenti, anche di provocazioni, indirizzate agli imprenditori e ai manager di oggi e di domani.

Partendo dalla constatazione che l’impresa ha in se’ un “mondo” di risorse, spesso invisibili, Fiocca affronta il tema delle risorse umane  in azienda, poi quello della qualità delle relazioni e nelle relazioni, la presenza di “altruismi ed egoismi relazionali”, il nodo della comunicazione nelle relazioni e nelle reti. L’autore passa quindi ad affrontare i temi dei rapporti fra impresa e mercato (“Rispetto d’impresa, rispetto di mercato”), e il confronto fra cooperazione e competizione fra imprese.  Il volume – di poco più di 250 pagine -, si conclude quindi con una serie di riflessioni sul significato filosofico del “decidere” imprenditoriale  e quindi sull’etica, sull’estetica e sulla matematica nelle relazioni. Ma non solo, Fiocca guarda al futuro in maniera profonda: analizza anche la situazione dell’impresa che “scivola verso il basso” e l’esigenza di “odiare lo spreco”.

Management per una buona gestione, quindi, ma anche attenzione particolare agli aspetti immateriali del fare impresa oggi in vista del domani. Il volume di Fiocca è scritto bene, con un linguaggio fresco e moderno e una profondità non comune.

Impresa futura. Nuove prospettive per l’impresa e il management del domani

Renato Fiocca

Franco Angeli, 2014

Le buone imprese e l’attenzione per il dubbio e l’ascolto, secondo l’esempio di Farinetti (Eataly)

In tempi di crisi, incerti, agitati da grandi trasformazioni, c’è chi va in cerca di “modelli”, di indicazioni più o meno sicure su come tenere in piedi le imprese. E ci si affida ai manuali, ai libri di management sul “come fare”, sulle “regole di successo”, sulle storie d’imprenditori e di manager da emulare (una tendenza diffusa, la manualistica, nella cultura d’impresa di stampo anglosassone). Ma, appunto in tempi di crisi, letti come carichi di pericoli ma anche d’opportunità, c’è chi invece si concentra sull’idea che l’anima di fondo del vero imprenditore sia eccentrica rispetto ai luoghi comuni e alle tendenze diffuse, anticonformista, perfino un po’ eretica (un’attitudine molto stimolante, nella cultura d’impresa italiana) e dunque, piuttosto che cercare rifugio nel porto apparentemente sicuro dei “modelli”, preferisce parlare, anche provocatoriamente, di “antimodelli”. Come fa Oscar Farinetti, forte del successo internazionale della sua Eataly e pronto a  rimettere in discussione (lo fa su “CorrierEconomia” di lunedì 27 ottobre) vecchie cattive abitudini e tradizionali atteggiamenti di gestione aziendale. Una storia, dunque, da ascoltare.

“Meglio avere più dubbi che certezze”, sostiene Farinetti. E spiega: serve un mix di leggerezza, velocità e determinazione nel raggiungere gli obiettivi, ma prima bisogna fermarsi a pensare e a capire cosa sta davvero cambiando e come. “La determinazione nel raggiungere l’obiettivo è condizione essenziale, ma non  sufficiente. Deve infatti essere accompagnata dalla capacità di ascolto degli altri e dalla predisposizione a cambiare idea”. Più dubbi e meno certezze precostituite, dunque. Abitudine a mettersi in discussione, ad avere una mente aperta, a saper giocare le carte del “contagio delle idee” e quindi dell’attenzione e della valorizzazione delle opinioni altrui, ma anche quelle dell’ironia, del distacco critico (ne abbiamo già parlato, in altri blog sulla cultura d’impresa). E impegno a costruire una leadership fondata sull’autorevolezza e non sull’autorità formale, sulla persuasione, sullo sguardo critico e poi sulla responsabilità delle scelte.

C’è una seconda grande indicazione, su cui riflettere. Valorizzare il saper fare, naturalmente. Ma concentrarsi pure sul saper raccontare. La produzione di qualità. E l’attenzione ai bisogni dei consumatori, alle loro personalità: “C’è un enorme contrasto da colmare tra le nostre ricchezze e la totale mancanza di attitudine a valorizzarle. Manca l’inclinazione al marketing”.

Fare impresa individuando e gestendo bene le priorità. Ma anche “saper gestire l’imperfezione” perché da lì nascono “cose nuove”, non prodotti standardizzati mass market (sui grandi volumi l’industria italiana è perdente, sulle nicchie pur ampie e soprattutto ad alto valore aggiunto invece è spesso imbattibile). L’Italia, insiste Farinetti, guardando soprattutto all’industria agroalimentare, è il paese con il più alto tasso di biodiversità. Un’arma vincente, sui mercati internazionali. “La bio-differenza ha creato spontaneamente una grande rete di piccole e medie imprese che, se mettessero a fattor comune gli sforzi e la distribuzione, potrebbero arrivare negli Usa, affamati di peculiarità del cibo made in Italy”. Dunque, “pensare locale e agire locale”. E costruire una narrazione non solo e non tanto del prodotto, ma dell’intero Paese, “perché il prodotto è un mix di tecnologia e storia”.

Sfida impegnativa, vista così. Ma possibile. Molto più opportuna, comunque, proprio per un paese così composito e complesso come l’Italia, dei modelli anglosassoni. Con un ultimo avvertimento, alla Farinetti: “Non arrendersi mai”. Ma con una flessibile intelligenza critica: “Mettere l’energia verso il difficile ma non perdere tempo con l’impossibile”.

In tempi di crisi, incerti, agitati da grandi trasformazioni, c’è chi va in cerca di “modelli”, di indicazioni più o meno sicure su come tenere in piedi le imprese. E ci si affida ai manuali, ai libri di management sul “come fare”, sulle “regole di successo”, sulle storie d’imprenditori e di manager da emulare (una tendenza diffusa, la manualistica, nella cultura d’impresa di stampo anglosassone). Ma, appunto in tempi di crisi, letti come carichi di pericoli ma anche d’opportunità, c’è chi invece si concentra sull’idea che l’anima di fondo del vero imprenditore sia eccentrica rispetto ai luoghi comuni e alle tendenze diffuse, anticonformista, perfino un po’ eretica (un’attitudine molto stimolante, nella cultura d’impresa italiana) e dunque, piuttosto che cercare rifugio nel porto apparentemente sicuro dei “modelli”, preferisce parlare, anche provocatoriamente, di “antimodelli”. Come fa Oscar Farinetti, forte del successo internazionale della sua Eataly e pronto a  rimettere in discussione (lo fa su “CorrierEconomia” di lunedì 27 ottobre) vecchie cattive abitudini e tradizionali atteggiamenti di gestione aziendale. Una storia, dunque, da ascoltare.

“Meglio avere più dubbi che certezze”, sostiene Farinetti. E spiega: serve un mix di leggerezza, velocità e determinazione nel raggiungere gli obiettivi, ma prima bisogna fermarsi a pensare e a capire cosa sta davvero cambiando e come. “La determinazione nel raggiungere l’obiettivo è condizione essenziale, ma non  sufficiente. Deve infatti essere accompagnata dalla capacità di ascolto degli altri e dalla predisposizione a cambiare idea”. Più dubbi e meno certezze precostituite, dunque. Abitudine a mettersi in discussione, ad avere una mente aperta, a saper giocare le carte del “contagio delle idee” e quindi dell’attenzione e della valorizzazione delle opinioni altrui, ma anche quelle dell’ironia, del distacco critico (ne abbiamo già parlato, in altri blog sulla cultura d’impresa). E impegno a costruire una leadership fondata sull’autorevolezza e non sull’autorità formale, sulla persuasione, sullo sguardo critico e poi sulla responsabilità delle scelte.

C’è una seconda grande indicazione, su cui riflettere. Valorizzare il saper fare, naturalmente. Ma concentrarsi pure sul saper raccontare. La produzione di qualità. E l’attenzione ai bisogni dei consumatori, alle loro personalità: “C’è un enorme contrasto da colmare tra le nostre ricchezze e la totale mancanza di attitudine a valorizzarle. Manca l’inclinazione al marketing”.

Fare impresa individuando e gestendo bene le priorità. Ma anche “saper gestire l’imperfezione” perché da lì nascono “cose nuove”, non prodotti standardizzati mass market (sui grandi volumi l’industria italiana è perdente, sulle nicchie pur ampie e soprattutto ad alto valore aggiunto invece è spesso imbattibile). L’Italia, insiste Farinetti, guardando soprattutto all’industria agroalimentare, è il paese con il più alto tasso di biodiversità. Un’arma vincente, sui mercati internazionali. “La bio-differenza ha creato spontaneamente una grande rete di piccole e medie imprese che, se mettessero a fattor comune gli sforzi e la distribuzione, potrebbero arrivare negli Usa, affamati di peculiarità del cibo made in Italy”. Dunque, “pensare locale e agire locale”. E costruire una narrazione non solo e non tanto del prodotto, ma dell’intero Paese, “perché il prodotto è un mix di tecnologia e storia”.

Sfida impegnativa, vista così. Ma possibile. Molto più opportuna, comunque, proprio per un paese così composito e complesso come l’Italia, dei modelli anglosassoni. Con un ultimo avvertimento, alla Farinetti: “Non arrendersi mai”. Ma con una flessibile intelligenza critica: “Mettere l’energia verso il difficile ma non perdere tempo con l’impossibile”.

Ingranaggi in cambiamento

Competitività e velocità. A voler sintetizzare le più importanti caratteristiche delle aziende “vincenti” del giorno d’oggi, certamente potrebbero essere questi due dei termini da usare. Dietro di essi, culture d’impresa diverse dal passato, che fanno, appunto, della velocità di risposta una delle basi di sviluppo. Accanto, ovviamente, alla qualità del prodotto e alla qualità dei rapporti umani che, alla fine, deve permeare il tutto se davvero l’impresa vuole darsi un orizzonte di crescita completo.

Concetti difficili, quelli di competitività, velocità e qualità d’impresa, che occorre capire a fondo, anche con esempi concreti. E’ interessante, così, leggere il lavoro di  Anna Posenato (laureata da poco all’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Tecnica e Gestione dei Sistemi Industriali, Corso di Laurea Triennale in Ingegneria Gestionale). “Analisi delle tecniche di organizzazione e gestione dei sistemi produttivi nelle imprese manifatturiere: il profilo di 3 casi studio”, dopo una parte teorica esamina tre casi aziendali con particolare attenzione al supply chain management  (la gestione della catena di distribuzione), che è diventato uno dei punti strategici per molte aziende. La ricerca ha però un aspetto particolare che la rende più interessante.  Il lavoro fa parte di un progetto internazionale indicato come “High Performance Manufacturing” (HPM) iniziato negli USA nel 1989 e attualmente condotto da gruppi di ricerca di oltre 50 università in Europa, Asia, Nord e Sud America. L’HPM project è essenzialmente un progetto di benchmarking internazionale che ha lo scopo di valutare la capacità delle aziende manifatturiere di raggiungere obiettivi di miglioramento continuo mediante le pratiche di gestione della produzione e con l’applicazione di tecniche di organizzazione e management dei sistemi produttivi, che permettono di ottenere un certo livello di competitività globale.

“E’ stato possibile – viene spiegato nel lavoro -, toccare con mano quali siano le reali conseguenze, all’interno di un’azienda, derivanti dall’implementazione più o meno efficiente di una particolare tecnica organizzativa, piuttosto di un’altra”. Un obiettivo importante anche se semplice: capire cosa accade quando in un’organizzazione complessa cambia qualcosa, un ingranaggio, un metodo, un approccio gestionale. Il confronto fra i tre casi aziendali – resi anonimi – arriva così ad indicare analogie, differenze, sacche di inefficienza, punti di forza che emergono quando, appunto, la tecnologia cambia e la cultura d’impresa si trasforma.

Analisi delle tecniche di organizzazione e gestione dei sistemi produttivi nelle imprese manifatturiere: il profilo di 3 casi studio

Anna Posenato (Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Tecnica e Gestione dei Sistemi Industriali, Corso di Laurea Triennale in Ingegneria Gestionale)

Tesi di Laurea, A.A. 2013-2014

Competitività e velocità. A voler sintetizzare le più importanti caratteristiche delle aziende “vincenti” del giorno d’oggi, certamente potrebbero essere questi due dei termini da usare. Dietro di essi, culture d’impresa diverse dal passato, che fanno, appunto, della velocità di risposta una delle basi di sviluppo. Accanto, ovviamente, alla qualità del prodotto e alla qualità dei rapporti umani che, alla fine, deve permeare il tutto se davvero l’impresa vuole darsi un orizzonte di crescita completo.

Concetti difficili, quelli di competitività, velocità e qualità d’impresa, che occorre capire a fondo, anche con esempi concreti. E’ interessante, così, leggere il lavoro di  Anna Posenato (laureata da poco all’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Tecnica e Gestione dei Sistemi Industriali, Corso di Laurea Triennale in Ingegneria Gestionale). “Analisi delle tecniche di organizzazione e gestione dei sistemi produttivi nelle imprese manifatturiere: il profilo di 3 casi studio”, dopo una parte teorica esamina tre casi aziendali con particolare attenzione al supply chain management  (la gestione della catena di distribuzione), che è diventato uno dei punti strategici per molte aziende. La ricerca ha però un aspetto particolare che la rende più interessante.  Il lavoro fa parte di un progetto internazionale indicato come “High Performance Manufacturing” (HPM) iniziato negli USA nel 1989 e attualmente condotto da gruppi di ricerca di oltre 50 università in Europa, Asia, Nord e Sud America. L’HPM project è essenzialmente un progetto di benchmarking internazionale che ha lo scopo di valutare la capacità delle aziende manifatturiere di raggiungere obiettivi di miglioramento continuo mediante le pratiche di gestione della produzione e con l’applicazione di tecniche di organizzazione e management dei sistemi produttivi, che permettono di ottenere un certo livello di competitività globale.

“E’ stato possibile – viene spiegato nel lavoro -, toccare con mano quali siano le reali conseguenze, all’interno di un’azienda, derivanti dall’implementazione più o meno efficiente di una particolare tecnica organizzativa, piuttosto di un’altra”. Un obiettivo importante anche se semplice: capire cosa accade quando in un’organizzazione complessa cambia qualcosa, un ingranaggio, un metodo, un approccio gestionale. Il confronto fra i tre casi aziendali – resi anonimi – arriva così ad indicare analogie, differenze, sacche di inefficienza, punti di forza che emergono quando, appunto, la tecnologia cambia e la cultura d’impresa si trasforma.

Analisi delle tecniche di organizzazione e gestione dei sistemi produttivi nelle imprese manifatturiere: il profilo di 3 casi studio

Anna Posenato (Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Tecnica e Gestione dei Sistemi Industriali, Corso di Laurea Triennale in Ingegneria Gestionale)

Tesi di Laurea, A.A. 2013-2014

Produrre e crescere non per profitto

Le imprese per produrre benessere hanno bisogno anche di filosofia. E gli imprenditori, per essere davvero tali, hanno necessità di essere nutriti anche con buone dosi  di umanesimo. Non sono nostalgie classiche. E non si tratta di teorie astratte, ma di necessità concrete. Anche se spesso, molto spesso, non comprese e non messe in pratica.  In altre parole, la cultura della buona impresa non è fatta solo di gestione contabile, logistica efficace e tecnologia efficiente. C’è dell’altro che deve essere considerato. Con l’esercizio di un sano equilibrio fra tecnica e arte, fra meccanica e umanesimo; che non è certo facile da raggiungere ma che deve essere l’obiettivo finale. Condizione d’altra parte resa concreta da imprenditori accorti che hanno caratterizzato di se’ la storia industriale anche italiana.

Per questo, è interessante, bello e stimolante tornare a leggere alcuni libri come “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” do Martha C. Nussbaum. Il volume – scritto nel 2010 e ripubblicato adesso -, costituisce una lettura (poco più di 150 pagine), che si dipana lungo il filo logico del ragionamento attorno alla necessità di mantenere nell’istruzione anche gli studi umanistici oltre che quelli tecnologici ed economici. I buoni cittadini e le vere democrazie – spiega l’autrice – nascono e soprattutto progrediscono quando la capacità di pensare non viene meno, quando alle persone viene insegnato a pensare con propria testa. Condizione che vale anche per la crescita e lo sviluppo delle imprese. Con tutto ciò che ne consegue.

“La spinta al profitto – spiega la Nussbaum -, induce molti leader a pensare che la scienza e la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei paesi (…). La mia preoccupazione è che altre capacità, altrettanto importanti, stiano correndo il rischio di sparire nel vortice della concorrenza…”. Il libro, quindi, ragiona sui legami fra umanesimo e democrazia, fra discipline classiche e capacità di crescita; affronta la complessità dell’oggi anche sulla base di indicazioni “non tecnologiche”, toccando la cronaca storica del momento (arrivando fino a Barack Obama), e ricorrendo in abbondanza a classici del pensiero pedagogico e letterario come Rabindranath Tagore e John Dewey. E’  fondamentale, poi, un passaggio che, a ben vedere, calza perfettamente anche per le imprese. “I cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che chiamiamo immaginazione narrativa. Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri”.  Parole che valgono tutte, come si è detto,  anche per l’imprenditore e la sua imprese.

Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica

Martha C. Nussbaum

Il Mulino, 2014

Le imprese per produrre benessere hanno bisogno anche di filosofia. E gli imprenditori, per essere davvero tali, hanno necessità di essere nutriti anche con buone dosi  di umanesimo. Non sono nostalgie classiche. E non si tratta di teorie astratte, ma di necessità concrete. Anche se spesso, molto spesso, non comprese e non messe in pratica.  In altre parole, la cultura della buona impresa non è fatta solo di gestione contabile, logistica efficace e tecnologia efficiente. C’è dell’altro che deve essere considerato. Con l’esercizio di un sano equilibrio fra tecnica e arte, fra meccanica e umanesimo; che non è certo facile da raggiungere ma che deve essere l’obiettivo finale. Condizione d’altra parte resa concreta da imprenditori accorti che hanno caratterizzato di se’ la storia industriale anche italiana.

Per questo, è interessante, bello e stimolante tornare a leggere alcuni libri come “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” do Martha C. Nussbaum. Il volume – scritto nel 2010 e ripubblicato adesso -, costituisce una lettura (poco più di 150 pagine), che si dipana lungo il filo logico del ragionamento attorno alla necessità di mantenere nell’istruzione anche gli studi umanistici oltre che quelli tecnologici ed economici. I buoni cittadini e le vere democrazie – spiega l’autrice – nascono e soprattutto progrediscono quando la capacità di pensare non viene meno, quando alle persone viene insegnato a pensare con propria testa. Condizione che vale anche per la crescita e lo sviluppo delle imprese. Con tutto ciò che ne consegue.

“La spinta al profitto – spiega la Nussbaum -, induce molti leader a pensare che la scienza e la tecnologia siano di cruciale importanza per il futuro dei paesi (…). La mia preoccupazione è che altre capacità, altrettanto importanti, stiano correndo il rischio di sparire nel vortice della concorrenza…”. Il libro, quindi, ragiona sui legami fra umanesimo e democrazia, fra discipline classiche e capacità di crescita; affronta la complessità dell’oggi anche sulla base di indicazioni “non tecnologiche”, toccando la cronaca storica del momento (arrivando fino a Barack Obama), e ricorrendo in abbondanza a classici del pensiero pedagogico e letterario come Rabindranath Tagore e John Dewey. E’  fondamentale, poi, un passaggio che, a ben vedere, calza perfettamente anche per le imprese. “I cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che chiamiamo immaginazione narrativa. Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri”.  Parole che valgono tutte, come si è detto,  anche per l’imprenditore e la sua imprese.

Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica

Martha C. Nussbaum

Il Mulino, 2014

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