Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Settimana della Cultura d’Impresa 2014: tra misteri e visite guidate

Si rinnova l’appuntamento annuale con la Settimana della Cultura d’Impresa, l’evento promosso da Confindustria in collaborazione con Museimpresa giunto alla sua XIII edizione (13-23 Novembre). Fondazione Pirelli anche quest’anno apre le porte al pubblico con iniziative pensate appositamente per l’occasione.

Si parte giovedì 20 novembre alle 19 con il gioco a squadre “Un mistero… d’aperitivo“. Sarete catapultati al 30 ottobre 1959 durante la presentazione di un nuovo pneumatico Pirelli e mentre state degustando un aperitivo, ecco un colpo di scena e un mistero da risolvere. Supportati dagli attori professionisti della compagnia about:blank, dovrete mettervi alla prova per risolvere enigmi e rompicapi, aiutati dai numerosi documenti e materiali storici d’ archivio. Serviranno doti investigative, fiuto per gli indizi e tanta voglia di divertirsi.

Sabato 22 novembre visite guidate alla Fondazione Pirelli, Bicocca degli Arcimboldi e Headquarter Pirelli. Un’opportunità unica per conoscere centoquarantadue anni di storia Pirelli attraverso l’archivio storico della Fondazione Pirelli, visitando la splendida residenza quattrocentesca della “Bicocca degli Arcimboldi” e la ex torre di raffreddamento oggi racchiusa nell’Headquarter Pirelli progettato dall’architetto Vittorio Gregotti.

In occasione della pubblicazione degli inventari dell’Archivio Storico sul sito che avverrà nei prossimi giorni, Fondazione Pirelli cambia look e si veste “d’inverno“: saranno infatti esposte storiche pubblicità aziendali, servizi  fotografici, disegni tecnici e bozzetti originali in un gioco di rimandi alla stagione invernale. Un racconto della storia di Pirelli e dei suoi prodotti, attraverso vari linguaggi di comunicazione, la cui base comune è da sempre costruita su qualità e innovazione.

Per entrambe le iniziative la prenotazione è obbligatoria (fino ad esaurimento posti).

Le visite guidate di sabato 22 novembre si svolgeranno su tre turni: 14.30-16-17.30

Per informazioni e prenotazioni scrivere a info@fondazionepirelli.org o chiamando il numero 02-64423971.

Si rinnova l’appuntamento annuale con la Settimana della Cultura d’Impresa, l’evento promosso da Confindustria in collaborazione con Museimpresa giunto alla sua XIII edizione (13-23 Novembre). Fondazione Pirelli anche quest’anno apre le porte al pubblico con iniziative pensate appositamente per l’occasione.

Si parte giovedì 20 novembre alle 19 con il gioco a squadre “Un mistero… d’aperitivo“. Sarete catapultati al 30 ottobre 1959 durante la presentazione di un nuovo pneumatico Pirelli e mentre state degustando un aperitivo, ecco un colpo di scena e un mistero da risolvere. Supportati dagli attori professionisti della compagnia about:blank, dovrete mettervi alla prova per risolvere enigmi e rompicapi, aiutati dai numerosi documenti e materiali storici d’ archivio. Serviranno doti investigative, fiuto per gli indizi e tanta voglia di divertirsi.

Sabato 22 novembre visite guidate alla Fondazione Pirelli, Bicocca degli Arcimboldi e Headquarter Pirelli. Un’opportunità unica per conoscere centoquarantadue anni di storia Pirelli attraverso l’archivio storico della Fondazione Pirelli, visitando la splendida residenza quattrocentesca della “Bicocca degli Arcimboldi” e la ex torre di raffreddamento oggi racchiusa nell’Headquarter Pirelli progettato dall’architetto Vittorio Gregotti.

In occasione della pubblicazione degli inventari dell’Archivio Storico sul sito che avverrà nei prossimi giorni, Fondazione Pirelli cambia look e si veste “d’inverno“: saranno infatti esposte storiche pubblicità aziendali, servizi  fotografici, disegni tecnici e bozzetti originali in un gioco di rimandi alla stagione invernale. Un racconto della storia di Pirelli e dei suoi prodotti, attraverso vari linguaggi di comunicazione, la cui base comune è da sempre costruita su qualità e innovazione.

Per entrambe le iniziative la prenotazione è obbligatoria (fino ad esaurimento posti).

Le visite guidate di sabato 22 novembre si svolgeranno su tre turni: 14.30-16-17.30

Per informazioni e prenotazioni scrivere a info@fondazionepirelli.org o chiamando il numero 02-64423971.

Mediobanca, ecco come cambia l’impresa italiana: manifattura batte energia

Come cambia, il capitalismo italiano? Più peso per l’industria, meno per energia e servizi, maggiore incidenza dei grandi gruppi internazionali (anche d’origine italiana) e crescita delle imprese manifatturiere medio-grandi, con capacità d’espansione all’estero. Nella crisi, insomma, reggono i gruppi esposti alla concorrenza, grande motore di competitività, e arrancano invece le aziende limitate in settori “protetti” e poco capaci di vendere i loro servizi sui mercati aperti. E’, come sempre, una fotografia complessa, quella tracciata ogni anno da Mediobanca nell’analisi annuale sulle “Principali società italiane”, arrivata all’edizione n.49, mezzo secolo di indagine sui bilanci, sui dati delle industrie, delle banche, delle assicurazioni e delle grandi e medie società di servizi.

Guardiamo dunque alle classifiche. “Exor-Fca sorpassa Eni in testa ai big dell’industria”, titola “Il Sole24Ore”, “Exor batte Eni, rivincita dell’industria”, titola il “Corriere della Sera”. Nei primi sei mesi del 2014, infatti, i ricavi della Exor guidata dalla famiglia Agnelli, grazie alla fusione Fiat-Chrysler, hanno superato quota 58 miliardi (nell’intero 2013 erano stati 113,7 miliardi) contro i 56,6 dell’Eni (a quota 114,7 miliardi nel 2013). Exor-Fca era già la prima, nel 2013, per numero di dipendenti, 306mila, la stessa ampiezza dei primi anni 80 (solo che allora l’80% degli addetti Fiat lavorava in Italia, mentre oggi solo il 26% è impiegato nel nostro Paese, dove le vendite del gruppo rappresentano appena l’8% di tutto il fatturato). Effetto Chrysler, insomma. E globalizzazione. Con cambio di nome: non sentiremo più parlare di Fiat e la F starà solo come iniziale di Fca, Fiat Chrysler Automobiles, appunto).

L’Eni si conferma campione di utili, con 13miliardi nel biennio 12-13, seguito da Enel (3,5) e poi da Exor, 2,4 miliardi.

Che altro dice, quella classifica? Nelle “Top 20”, sempre più o meno uguali da anni, adesso c’è un nuovo ingresso, quello di General Electric Italia, la ex “Nuovo Pignone” di Firenze, diventata capofila del grande gruppo americano per le attività industriali “oil and gas” (uno dei migliori esempi dell’importanza positiva degli investimenti internazionali, per fare crescere la nostra industria). GE Italia è passata dal 29° al 19° posto grazie agli investimenti in Avio.

Migliorata la posizione di Edison, Luxottica, Poste ed Esselunga (i supermarket di Bernardo Caprotti), ma anche di Salini (costruzioni) dopo l’acquisizione di Impregilo. Lavorare, insomma, per diventare grandi, competitivi, redditizi.

Sempre guardando alle prime 20 società, si vede che nove appartengono al settore energetico, sei al manifatturiero (oltre a Exor-Fca da primato e GE Italia nuova entrata, ci sono Finmeccanica, Luxottica, Prysmian, Pirelli, tutte con robusti fatturati all’estero), cinque al comparto infrastrutture e servizi. Sette gruppi sono di proprietà pubblica. Cinque a controllo estero.

Nell’elenco Mediobanca ci sono solo i gruppi che hanno sede in Italia: mancano dunque la Techint della famiglia Rocca, che con 19,1 miliardi di giro d’affari sarebbe sesta dietro Telecom, la StMicroelectronics che con 6,1 miliardi sarebbe 20°, la Ferrero, con 8,1 miliardi, cui toccherebbe il 12° posto: la loro presenza rafforzerebbe il peso del manifatturiero. Così come non ci sono le attività italiane della francese Lactalis, proprietaria di Parmalat.

Ultima nota guardando la classifica: migliorano le imprese medie manifatturiere, che in molti casi hanno mostrato incrementi di ricavi dal 20 al 55% (SimiGroup, Stevanato, Ballarini, Stefano Ricci, Uteco Converting, Casa Vinicola Botter, Ecuador, Fosber, Chimec, Euroitalia, MczGroup), vere e proprie “multinazionali tascabili” dinamiche, efficienti, competitive: la testimonianza che il buon capitalismo industriale italiano ha ancora molte buone carte da giocare.

Come cambia, il capitalismo italiano? Più peso per l’industria, meno per energia e servizi, maggiore incidenza dei grandi gruppi internazionali (anche d’origine italiana) e crescita delle imprese manifatturiere medio-grandi, con capacità d’espansione all’estero. Nella crisi, insomma, reggono i gruppi esposti alla concorrenza, grande motore di competitività, e arrancano invece le aziende limitate in settori “protetti” e poco capaci di vendere i loro servizi sui mercati aperti. E’, come sempre, una fotografia complessa, quella tracciata ogni anno da Mediobanca nell’analisi annuale sulle “Principali società italiane”, arrivata all’edizione n.49, mezzo secolo di indagine sui bilanci, sui dati delle industrie, delle banche, delle assicurazioni e delle grandi e medie società di servizi.

Guardiamo dunque alle classifiche. “Exor-Fca sorpassa Eni in testa ai big dell’industria”, titola “Il Sole24Ore”, “Exor batte Eni, rivincita dell’industria”, titola il “Corriere della Sera”. Nei primi sei mesi del 2014, infatti, i ricavi della Exor guidata dalla famiglia Agnelli, grazie alla fusione Fiat-Chrysler, hanno superato quota 58 miliardi (nell’intero 2013 erano stati 113,7 miliardi) contro i 56,6 dell’Eni (a quota 114,7 miliardi nel 2013). Exor-Fca era già la prima, nel 2013, per numero di dipendenti, 306mila, la stessa ampiezza dei primi anni 80 (solo che allora l’80% degli addetti Fiat lavorava in Italia, mentre oggi solo il 26% è impiegato nel nostro Paese, dove le vendite del gruppo rappresentano appena l’8% di tutto il fatturato). Effetto Chrysler, insomma. E globalizzazione. Con cambio di nome: non sentiremo più parlare di Fiat e la F starà solo come iniziale di Fca, Fiat Chrysler Automobiles, appunto).

L’Eni si conferma campione di utili, con 13miliardi nel biennio 12-13, seguito da Enel (3,5) e poi da Exor, 2,4 miliardi.

Che altro dice, quella classifica? Nelle “Top 20”, sempre più o meno uguali da anni, adesso c’è un nuovo ingresso, quello di General Electric Italia, la ex “Nuovo Pignone” di Firenze, diventata capofila del grande gruppo americano per le attività industriali “oil and gas” (uno dei migliori esempi dell’importanza positiva degli investimenti internazionali, per fare crescere la nostra industria). GE Italia è passata dal 29° al 19° posto grazie agli investimenti in Avio.

Migliorata la posizione di Edison, Luxottica, Poste ed Esselunga (i supermarket di Bernardo Caprotti), ma anche di Salini (costruzioni) dopo l’acquisizione di Impregilo. Lavorare, insomma, per diventare grandi, competitivi, redditizi.

Sempre guardando alle prime 20 società, si vede che nove appartengono al settore energetico, sei al manifatturiero (oltre a Exor-Fca da primato e GE Italia nuova entrata, ci sono Finmeccanica, Luxottica, Prysmian, Pirelli, tutte con robusti fatturati all’estero), cinque al comparto infrastrutture e servizi. Sette gruppi sono di proprietà pubblica. Cinque a controllo estero.

Nell’elenco Mediobanca ci sono solo i gruppi che hanno sede in Italia: mancano dunque la Techint della famiglia Rocca, che con 19,1 miliardi di giro d’affari sarebbe sesta dietro Telecom, la StMicroelectronics che con 6,1 miliardi sarebbe 20°, la Ferrero, con 8,1 miliardi, cui toccherebbe il 12° posto: la loro presenza rafforzerebbe il peso del manifatturiero. Così come non ci sono le attività italiane della francese Lactalis, proprietaria di Parmalat.

Ultima nota guardando la classifica: migliorano le imprese medie manifatturiere, che in molti casi hanno mostrato incrementi di ricavi dal 20 al 55% (SimiGroup, Stevanato, Ballarini, Stefano Ricci, Uteco Converting, Casa Vinicola Botter, Ecuador, Fosber, Chimec, Euroitalia, MczGroup), vere e proprie “multinazionali tascabili” dinamiche, efficienti, competitive: la testimonianza che il buon capitalismo industriale italiano ha ancora molte buone carte da giocare.

Come sono le imprese del Nord Europa?

Ogni Paese ha la sua impresa. Perché caratteri sociali, cultura e storia finiscono per lasciare l’impronta anche sull’organizzazione della produzione, sul concetto di profitto, sulle forme imprenditoriali che danno vita alle imprese e le fanno funzionare. Tutto questo al di là dei principi generali di organizzazione economica e della produzione. Capire dov’è l’impresa, quindi, serve per comprendere meglio la sua natura e la sua evoluzione. Anche quando si parla di aree evolute dal punto di vista economico, esempi di efficienza produttiva e attenzione sociale.

E’ utile, quindi, leggere “Comparing National and Business Culture in the Nordic Countries A Finnish Perspective” che indaga la cultura d’impresa dei Paesi Nordici (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda). L’articolo – apparso su  Arcada Working Papers (2/2014) della Arcada University of Applied Sciences in Finlandia -, è un  testo breve, semplice e chiaro, utile a capire l’approccio alla produzione e all’impresa diffuso nell’area. Scritto a più mani da Charlotta Jakobssoni, Daria Loktevaii, Angel Lawsoniii, Ville Strömbergiv, Carl-Johan Rosenbröijer (Arcada University of Applied Sciences, Finland, Department of Business Management and Analytics), l’articolo fornisce dopo un’impostazione metodologica, le linee essenziali della cultura d’impresa di ogni Paese. Ogni cultura viene esaminata prendendo a riferimento alcuni tratti: il rapporto con le istituzioni, il confronto fra individualismo e socializzazione nella produzione, le relazioni fra i sessi nell’ambito della produzione, l’approccio alle situazioni di incertezza e di rischio, il livello di pragmatismo, il livello di rigidità di fronte alle regole. Tutto, viene poi sintetizzato in una grande tabella comparativa, facile da leggere e da usare.

La conclusione è che, nonostante molto similarità, la cultura d’impresa nei Paesi Nordici presenta anche alcune importanti differenze che tuttavia non appaiono se si guarda dall’esterno all’area presa nel suo complesso. Leggere questa ricerca conduce proprio alla comprensione dei particolari che altrimenti rimarrebbero nascosti.

Comparing National and Business Culture in the Nordic Countries A Finnish Perspective

Charlotta Jakobssoni, Daria Loktevaii, Angel Lawsoniii, Ville Strömbergiv, Carl-Johan Rosenbröijer (Arcada University of Applied Sciences, Finland, Department of Business Management and Analytics)

Arcada Working Papers 2/2014, p. 8-20

Ogni Paese ha la sua impresa. Perché caratteri sociali, cultura e storia finiscono per lasciare l’impronta anche sull’organizzazione della produzione, sul concetto di profitto, sulle forme imprenditoriali che danno vita alle imprese e le fanno funzionare. Tutto questo al di là dei principi generali di organizzazione economica e della produzione. Capire dov’è l’impresa, quindi, serve per comprendere meglio la sua natura e la sua evoluzione. Anche quando si parla di aree evolute dal punto di vista economico, esempi di efficienza produttiva e attenzione sociale.

E’ utile, quindi, leggere “Comparing National and Business Culture in the Nordic Countries A Finnish Perspective” che indaga la cultura d’impresa dei Paesi Nordici (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Islanda). L’articolo – apparso su  Arcada Working Papers (2/2014) della Arcada University of Applied Sciences in Finlandia -, è un  testo breve, semplice e chiaro, utile a capire l’approccio alla produzione e all’impresa diffuso nell’area. Scritto a più mani da Charlotta Jakobssoni, Daria Loktevaii, Angel Lawsoniii, Ville Strömbergiv, Carl-Johan Rosenbröijer (Arcada University of Applied Sciences, Finland, Department of Business Management and Analytics), l’articolo fornisce dopo un’impostazione metodologica, le linee essenziali della cultura d’impresa di ogni Paese. Ogni cultura viene esaminata prendendo a riferimento alcuni tratti: il rapporto con le istituzioni, il confronto fra individualismo e socializzazione nella produzione, le relazioni fra i sessi nell’ambito della produzione, l’approccio alle situazioni di incertezza e di rischio, il livello di pragmatismo, il livello di rigidità di fronte alle regole. Tutto, viene poi sintetizzato in una grande tabella comparativa, facile da leggere e da usare.

La conclusione è che, nonostante molto similarità, la cultura d’impresa nei Paesi Nordici presenta anche alcune importanti differenze che tuttavia non appaiono se si guarda dall’esterno all’area presa nel suo complesso. Leggere questa ricerca conduce proprio alla comprensione dei particolari che altrimenti rimarrebbero nascosti.

Comparing National and Business Culture in the Nordic Countries A Finnish Perspective

Charlotta Jakobssoni, Daria Loktevaii, Angel Lawsoniii, Ville Strömbergiv, Carl-Johan Rosenbröijer (Arcada University of Applied Sciences, Finland, Department of Business Management and Analytics)

Arcada Working Papers 2/2014, p. 8-20

L’impresa, l’imprenditore e i suoi uomini

Le aziende diventano imprese quando l’imprenditore agisce. Ma le imprese non possono essere tali se non vi è anche la presenza di un’organizzazione e di uomini che le fanno funzionare con il loro lavoro. Constatazione normale e ovvia, questa porta con se’ un obbligo: se si vuole per davvero conoscere l’impresa non basta conoscerne l’imprenditore, ma occorre anche avere un’idea precisa della sua organizzazione, degli uomini che la animano e del loro lavoro.

Per questo sono utili volumi come “Persone, lavoro, organizzazione. Una lettura psicologica della vita organizzativa” apparso recentemente e ultima fatica di Pier Giorgio Gabassi (professore ordinario di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università degli Studi di Trieste) e di Maria Lisa Garzitto (dottore di ricerca in psicologia del lavoro e delle risorse umane).

Il libro – di circa 350 pagine -, ripercorre l’evoluzione dei modelli e dei concetti elaborati per descrivere e interpretare ogni realtà lavorativa e organizzativa. Si tratta di un vero “strumento di conoscenza”, una sorta di manuale di base per chi vuole conoscere di più della psicologia applicata ai contesti organizzativi. Ciò che oggi serve, quindi, soprattutto nel momento in cui si ha necessità di passare dalla tecnologia all’uomo, dalla macchina alla psicologia dei rapporti umani che formano di se’ un’impresa.

Il volume parte da un’idea di base: persone, lavoro e organizzazione costituiscono un intreccio di fenomeni complessi. Il libro poi ragiona sul fatto che la concezione antropocentrica del lavoro rimette al centro del sistema produttivo l’esperienza della persona: gli aspetti cognitivi ed emotivi riprendono spazio e considerazione umana dopo la lunga stagione di “industrialismo duro”, che aveva profondamente segnato l’esperienza umana di molti lavoratori.

Fra i temi affrontati il tempo e la soggettività lavorativa, la divisione del lavoro, la relazioni umane in azienda e le loro applicazioni gestionali, l’Organization Development, il Total Quality Management, la cultura organizzativa, il clima organizzativo, la comunicazione organizzativa, e poi ancora il leadership e management, il conflitto e il negoziato in fabbrica, la formazione, la valutazione nelle organizzazioni, ma anche la retribuzione e contratto psicologico, l’ergonomia e il lavoro, lo stress e sofferenza lavorativa, il mobbing, i comportamenti di consumo.

L’uomo e la fabbrica dunque, la persona e l’impresa in tutte le loro varie sfaccettature. Un libro che si fa leggere  e che deve essere letto.

Persone, lavoro, organizzazione. Una lettura psicologica della vita organizzativa

Piergiorgio Gabassi , Maria Luisa Garzitto

Franco Angeli, 2014

Le aziende diventano imprese quando l’imprenditore agisce. Ma le imprese non possono essere tali se non vi è anche la presenza di un’organizzazione e di uomini che le fanno funzionare con il loro lavoro. Constatazione normale e ovvia, questa porta con se’ un obbligo: se si vuole per davvero conoscere l’impresa non basta conoscerne l’imprenditore, ma occorre anche avere un’idea precisa della sua organizzazione, degli uomini che la animano e del loro lavoro.

Per questo sono utili volumi come “Persone, lavoro, organizzazione. Una lettura psicologica della vita organizzativa” apparso recentemente e ultima fatica di Pier Giorgio Gabassi (professore ordinario di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all’Università degli Studi di Trieste) e di Maria Lisa Garzitto (dottore di ricerca in psicologia del lavoro e delle risorse umane).

Il libro – di circa 350 pagine -, ripercorre l’evoluzione dei modelli e dei concetti elaborati per descrivere e interpretare ogni realtà lavorativa e organizzativa. Si tratta di un vero “strumento di conoscenza”, una sorta di manuale di base per chi vuole conoscere di più della psicologia applicata ai contesti organizzativi. Ciò che oggi serve, quindi, soprattutto nel momento in cui si ha necessità di passare dalla tecnologia all’uomo, dalla macchina alla psicologia dei rapporti umani che formano di se’ un’impresa.

Il volume parte da un’idea di base: persone, lavoro e organizzazione costituiscono un intreccio di fenomeni complessi. Il libro poi ragiona sul fatto che la concezione antropocentrica del lavoro rimette al centro del sistema produttivo l’esperienza della persona: gli aspetti cognitivi ed emotivi riprendono spazio e considerazione umana dopo la lunga stagione di “industrialismo duro”, che aveva profondamente segnato l’esperienza umana di molti lavoratori.

Fra i temi affrontati il tempo e la soggettività lavorativa, la divisione del lavoro, la relazioni umane in azienda e le loro applicazioni gestionali, l’Organization Development, il Total Quality Management, la cultura organizzativa, il clima organizzativo, la comunicazione organizzativa, e poi ancora il leadership e management, il conflitto e il negoziato in fabbrica, la formazione, la valutazione nelle organizzazioni, ma anche la retribuzione e contratto psicologico, l’ergonomia e il lavoro, lo stress e sofferenza lavorativa, il mobbing, i comportamenti di consumo.

L’uomo e la fabbrica dunque, la persona e l’impresa in tutte le loro varie sfaccettature. Un libro che si fa leggere  e che deve essere letto.

Persone, lavoro, organizzazione. Una lettura psicologica della vita organizzativa

Piergiorgio Gabassi , Maria Luisa Garzitto

Franco Angeli, 2014

Istituto Avogadro di Torino, le buone sintesi tra letteratura e saperi hi tech

“Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende”. Comincia con questa citazione di Leonardo Sciascia l’incontro di venerdì scorso, all’Istituto Tecnico Avogadro di Torino, per parlare di letteratura e industria, partendo dall’antologia “La fabbrica di cartaI libri che hanno raccontato l’Italia industriale”, curata da Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, pubblicata da Laterza e sostenuta da Assolombarda e dal film “Il libro e la fabbrica”, un bel cortometraggio realizzato dagli studenti dell’Istituto (si trova su YouTube e naturalmente sul sito dell’Istituto, www.itisavogadro.it).

E’ una citazione opportuna, quella di Sciascia, suggerita intelligentemente dal preside dell’Avogadro, Tommaso De Luca. Non perché lo scrittore sapesse d’industria (le zolfare del suo paese d’origine in Sicilia erano, ancora negli anni 50, vetero-capitalismo selvaggio, mafioso e sfruttatore spietato anche del lavoro dei bambini). Ma perché si individua proprio nella letteratura la chiave di comprensione e d’interpretazione anche della scienza, dell’economia, delle più complesse relazioni industriali. Racconti, dunque, a sostegno della cultura d’impresa. E cultura d’impresa come cultura tout court, come vera e propria “cultura politecnica” che supera le false dicotomie tra saperi umanistici e scienza (un’idea cara alla Fondazione Pirelli, che gli studenti e i professori dell’Avogadro hanno molto apprezzato).

Una bella discussione, dunque. Sull’attualità dell’industria per lo sviluppo italiano, oltre che sulla sua storia. Sulla memoria di una Torino a lungo “capitale dell’auto” e oggi metropoli in transizione, dopo il declino della company town marchiata Fiat. Sui tanti volti dell’innovazione. E sulla relazione tra formazione, capacità critica, lavoro, produttività e competitività. Questioni essenziali, per giovani studenti (in aula magna, i ragazzi e le ragazze, poche, delle quinte classi) che si avvicinano all’ingresso nel mondo del lavoro o alla scelta d’una iscrizione universitaria con forti opportunità professionali.

E’ un istituto d’eccellenza, d’altronde, l’Avogadro. Fondato nel 1805 (una delle iniziative della stagione napoleonica, nel segno d’un radicale rinnovamento dell’istruzione) per insegnare geometria, chimica e architettura, diventato poi “Istituto professionale operaio” nella Torino industriale dei primi del Novecento (con Scuola d’arti e mestieri e Scuola di disegno) e poi ancora Regia Scuola Industriale, dal 1946 è stato intitolato al grande fisico piemontese Amedeo Avogadro. Ha 1700 iscritti (350 ai corsi serali per studenti lavoratori) al Liceo delle scienze applicate e all’Istituto tecnico del settore tecnologico, con tre specializzazioni: meccanica-meccatronica, elettronica-elettrotecnica e informatica-telecomunicazioni. Metà di quegli studenti trovano lavoro subito dopo il diploma, metà vanno all’università, al Politecnico di Torino, con risultati particolarmente brillanti (“Più di metà di coloro che arrivano alla laurea magistrale al Politecnico vengono dagli istituti tecnici”, racconta il preside De Luca).

Persone di qualità, dunque. Capitale umano ben formato e adatto a fare fronte alle esigenze del mercato del lavoro sia nell’industria della “grande Torino” sia all’estero, seguendo per esempio l’espansione delle “multinazionali tascabili” piemontesi.

Sta appunto negli istituti tecnici (Confindustria lo sostiene da tempo) una delle chiavi di volta per lo sviluppo del sistema Paese: competenze di livello, ragazzi pronti a fare fronte bene all’evoluzione hi tech dell’impresa italiana. E l’Avogadro, naturalmente, da quest’anno è una delle sette scuole individuate per il “programma sperimentale di apprendistato in alta formazione” avviato dalla legge 128 del 2013 e concordato tra i ministeri dell’Università e del Lavoro, l’Enel, le Regioni e le scuole. Porte aperte nelle aziende, per gli studenti-apprendisti. Formazione d’aula e laboratorio e formazione attraverso il lavoro (“on the job”, per dirla in inglesismo manageriale, sino al 35% dell’orario annuale delle lezioni). Una via innovativa (sulla scorta delle positive esperienze già avviate da tempo, per esempio in Germania) per migliorare le persone necessarie alle imprese nella stagione dell’”economia della conoscenza”. Tecnologie avanzate, ricerca, innovazione, competenze hi tech direttamente legate al ciclo produttivo. Una buona strada. A patto di non dimenticare il pensiero critico (proprio Avogadro, nel Piemonte dei Savoia, ne fu ottimo esempio) e, perché no? la buona letteratura, chiave di comprensione degli uomini e dei cambiamenti del mondo.

“Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende”. Comincia con questa citazione di Leonardo Sciascia l’incontro di venerdì scorso, all’Istituto Tecnico Avogadro di Torino, per parlare di letteratura e industria, partendo dall’antologia “La fabbrica di cartaI libri che hanno raccontato l’Italia industriale”, curata da Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, pubblicata da Laterza e sostenuta da Assolombarda e dal film “Il libro e la fabbrica”, un bel cortometraggio realizzato dagli studenti dell’Istituto (si trova su YouTube e naturalmente sul sito dell’Istituto, www.itisavogadro.it).

E’ una citazione opportuna, quella di Sciascia, suggerita intelligentemente dal preside dell’Avogadro, Tommaso De Luca. Non perché lo scrittore sapesse d’industria (le zolfare del suo paese d’origine in Sicilia erano, ancora negli anni 50, vetero-capitalismo selvaggio, mafioso e sfruttatore spietato anche del lavoro dei bambini). Ma perché si individua proprio nella letteratura la chiave di comprensione e d’interpretazione anche della scienza, dell’economia, delle più complesse relazioni industriali. Racconti, dunque, a sostegno della cultura d’impresa. E cultura d’impresa come cultura tout court, come vera e propria “cultura politecnica” che supera le false dicotomie tra saperi umanistici e scienza (un’idea cara alla Fondazione Pirelli, che gli studenti e i professori dell’Avogadro hanno molto apprezzato).

Una bella discussione, dunque. Sull’attualità dell’industria per lo sviluppo italiano, oltre che sulla sua storia. Sulla memoria di una Torino a lungo “capitale dell’auto” e oggi metropoli in transizione, dopo il declino della company town marchiata Fiat. Sui tanti volti dell’innovazione. E sulla relazione tra formazione, capacità critica, lavoro, produttività e competitività. Questioni essenziali, per giovani studenti (in aula magna, i ragazzi e le ragazze, poche, delle quinte classi) che si avvicinano all’ingresso nel mondo del lavoro o alla scelta d’una iscrizione universitaria con forti opportunità professionali.

E’ un istituto d’eccellenza, d’altronde, l’Avogadro. Fondato nel 1805 (una delle iniziative della stagione napoleonica, nel segno d’un radicale rinnovamento dell’istruzione) per insegnare geometria, chimica e architettura, diventato poi “Istituto professionale operaio” nella Torino industriale dei primi del Novecento (con Scuola d’arti e mestieri e Scuola di disegno) e poi ancora Regia Scuola Industriale, dal 1946 è stato intitolato al grande fisico piemontese Amedeo Avogadro. Ha 1700 iscritti (350 ai corsi serali per studenti lavoratori) al Liceo delle scienze applicate e all’Istituto tecnico del settore tecnologico, con tre specializzazioni: meccanica-meccatronica, elettronica-elettrotecnica e informatica-telecomunicazioni. Metà di quegli studenti trovano lavoro subito dopo il diploma, metà vanno all’università, al Politecnico di Torino, con risultati particolarmente brillanti (“Più di metà di coloro che arrivano alla laurea magistrale al Politecnico vengono dagli istituti tecnici”, racconta il preside De Luca).

Persone di qualità, dunque. Capitale umano ben formato e adatto a fare fronte alle esigenze del mercato del lavoro sia nell’industria della “grande Torino” sia all’estero, seguendo per esempio l’espansione delle “multinazionali tascabili” piemontesi.

Sta appunto negli istituti tecnici (Confindustria lo sostiene da tempo) una delle chiavi di volta per lo sviluppo del sistema Paese: competenze di livello, ragazzi pronti a fare fronte bene all’evoluzione hi tech dell’impresa italiana. E l’Avogadro, naturalmente, da quest’anno è una delle sette scuole individuate per il “programma sperimentale di apprendistato in alta formazione” avviato dalla legge 128 del 2013 e concordato tra i ministeri dell’Università e del Lavoro, l’Enel, le Regioni e le scuole. Porte aperte nelle aziende, per gli studenti-apprendisti. Formazione d’aula e laboratorio e formazione attraverso il lavoro (“on the job”, per dirla in inglesismo manageriale, sino al 35% dell’orario annuale delle lezioni). Una via innovativa (sulla scorta delle positive esperienze già avviate da tempo, per esempio in Germania) per migliorare le persone necessarie alle imprese nella stagione dell’”economia della conoscenza”. Tecnologie avanzate, ricerca, innovazione, competenze hi tech direttamente legate al ciclo produttivo. Una buona strada. A patto di non dimenticare il pensiero critico (proprio Avogadro, nel Piemonte dei Savoia, ne fu ottimo esempio) e, perché no? la buona letteratura, chiave di comprensione degli uomini e dei cambiamenti del mondo.

Comprendere i distretti industriali

Capire la realtà non tanto per prevederne il futuro, ma soprattutto per comprendere quali misure occorrono per far sì che questo futuro sia il migliore possibile. Tutto, naturalmente, anche sulla base dell’esperienza del passato. E’ un approccio di analisi delle cose economiche che può formare di se’ anche la cultura d’impresa. Ma ci vogliono gli strumenti giusti per comprendere ciò che si ha attorno.

Un esempio di cosa si può fare arriva dall’Università degli Studi di Padova (Dipartimento di Scienze Statistiche, Corso di Laurea Magistrale in Scienze Statistiche), che ha sostenuto la ricerca contenuta nella tesi di Stefania Sorato: “I modelli evolutivi dei distretti industriali. Confronto tra letteratura ed evidenze empiriche per tre distretti veneti”.

L’autrice scrive: “Capire  le trasformazioni in atto nei distretti, saperle leggere e da queste individuare progetti più mirati per il mantenimento della competitività nel nuovo contesto globale, sono abilità sempre più preziose e richieste”.  Da qui il senso del lavoro che prende in considerazione – dopo un solido impianto di analisi teorica -, l’evoluzione di tre distretti produttivi in Veneto delineandone sia gli aspetti tecnici che quelli gestionali e culturali. Si tratta dell’analisi dell’evoluzione delle aree dello Sportsystem di Montebelluna, dell’Occhiale di Belluno e di quella dell’Oreficeria di Vicenza. “Questi  distretti – spiega la tesi -, sono specializzati in produzioni tra loro diverse ma riconducibili al più ampio settore della moda, uno tra i comparti produttivi che più ha risentito delle nuove caratteristiche del contesto economico e che più ne sta uscendo trasformato”. L’interrogativo al quale il lavoro cerca di rispondere è semplice: che cos’è cambiato in questi anni?

I risultati ottenuti sono stati frutto dell’applicazione di varie tecniche statistiche, a partire dall’analisi descrittiva ed esplorativa dei dati, passando per il calcolo di una serie di  indicatori economici, fino alle tecniche di “analisi della sopravvivenza” delle imprese. Sotto la lente cinque variabili – numero di aziende, numero di occupati, presenza di aziende leader, di aziende dinamiche e di attori istituzionali -, che permettono di descrivere le principali “dinamiche distrettuali” e quindi di capire non solo l’evoluzione ma anche le prospettive delle singole aree. Oltre ai risultati specifici per ogni distretto, ciò che conta della ricerca è però il metodo e il modo di condurre il lettore lungo un percorso non facile; utili, per esempio, sono delle tabelle riassuntive (le “traiettorie evolutive”), delle caratteristiche di ogni distretto che arrivano a segnare un indice di evoluzione sintetico, che dà il senso del tutto.

Il lavoro di Stefania Sorato è una lettura densa ma facile, che fornisce informazioni comprensibili e utili.

I modelli evolutivi dei distretti industriali. Confronto tra letteratura ed evidenze empiriche per tre distretti veneti  

Stefania Sorato (Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Statistiche, Corso di Laurea Magistrale in Scienze Statistiche)

Tesi di Laurea, A.A. 2013-2014

Capire la realtà non tanto per prevederne il futuro, ma soprattutto per comprendere quali misure occorrono per far sì che questo futuro sia il migliore possibile. Tutto, naturalmente, anche sulla base dell’esperienza del passato. E’ un approccio di analisi delle cose economiche che può formare di se’ anche la cultura d’impresa. Ma ci vogliono gli strumenti giusti per comprendere ciò che si ha attorno.

Un esempio di cosa si può fare arriva dall’Università degli Studi di Padova (Dipartimento di Scienze Statistiche, Corso di Laurea Magistrale in Scienze Statistiche), che ha sostenuto la ricerca contenuta nella tesi di Stefania Sorato: “I modelli evolutivi dei distretti industriali. Confronto tra letteratura ed evidenze empiriche per tre distretti veneti”.

L’autrice scrive: “Capire  le trasformazioni in atto nei distretti, saperle leggere e da queste individuare progetti più mirati per il mantenimento della competitività nel nuovo contesto globale, sono abilità sempre più preziose e richieste”.  Da qui il senso del lavoro che prende in considerazione – dopo un solido impianto di analisi teorica -, l’evoluzione di tre distretti produttivi in Veneto delineandone sia gli aspetti tecnici che quelli gestionali e culturali. Si tratta dell’analisi dell’evoluzione delle aree dello Sportsystem di Montebelluna, dell’Occhiale di Belluno e di quella dell’Oreficeria di Vicenza. “Questi  distretti – spiega la tesi -, sono specializzati in produzioni tra loro diverse ma riconducibili al più ampio settore della moda, uno tra i comparti produttivi che più ha risentito delle nuove caratteristiche del contesto economico e che più ne sta uscendo trasformato”. L’interrogativo al quale il lavoro cerca di rispondere è semplice: che cos’è cambiato in questi anni?

I risultati ottenuti sono stati frutto dell’applicazione di varie tecniche statistiche, a partire dall’analisi descrittiva ed esplorativa dei dati, passando per il calcolo di una serie di  indicatori economici, fino alle tecniche di “analisi della sopravvivenza” delle imprese. Sotto la lente cinque variabili – numero di aziende, numero di occupati, presenza di aziende leader, di aziende dinamiche e di attori istituzionali -, che permettono di descrivere le principali “dinamiche distrettuali” e quindi di capire non solo l’evoluzione ma anche le prospettive delle singole aree. Oltre ai risultati specifici per ogni distretto, ciò che conta della ricerca è però il metodo e il modo di condurre il lettore lungo un percorso non facile; utili, per esempio, sono delle tabelle riassuntive (le “traiettorie evolutive”), delle caratteristiche di ogni distretto che arrivano a segnare un indice di evoluzione sintetico, che dà il senso del tutto.

Il lavoro di Stefania Sorato è una lettura densa ma facile, che fornisce informazioni comprensibili e utili.

I modelli evolutivi dei distretti industriali. Confronto tra letteratura ed evidenze empiriche per tre distretti veneti  

Stefania Sorato (Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Statistiche, Corso di Laurea Magistrale in Scienze Statistiche)

Tesi di Laurea, A.A. 2013-2014

Imprenditori senza cultura?

La cultura imprenditoriale è fatta da qualcosa di impalpabile e imprescindibile, ma anche da elementi ben definibili, spesso misurabili, conoscenze e informazioni senza le quali l’essere imprenditore esiste ancora ma, in qualche modo, ne risulta mortificato. Capire gli uni e gli altri aspetti è importante ma complesso. Ci è riuscito Oscar Bernardi  – imprenditore anch’esso -, che ha scritto “Cultura d’impresa, leadership e management nella micro e piccola impresa”, un bel libro sulla base della sua pluriennale attività di consulenza a contatto con le micro e piccole imprese. Proprio in queste – asse portante, come si dice spesso, dell’economia nazionale -,  Bernardi ha molte volte riscontrato una carenza di preparazione scolastica e manageriale da parte degli imprenditori a capo delle diverse realtà. Con tutto il rispetto che si deve a uomini e donne che hanno creato imprese spesso in condizioni difficili, l’autore ha condotto una vera ricerca sul campo con la somministrazione di 9mila questionari. Dai risultati dell’indagine, emergono il livello di preparazione media dell’imprenditore, spesso carente, e i vari stili di leadership esercitati in azienda, con un focus su un momento particolarmente delicato della vita dell’impresa quale il passaggio generazionale e con un’analisi delle tensioni e dei problemi che inevitabilmente questo evento porta con sé.

L’imprenditore delineato da tutto questo, corrisponde alla figura di un uomo che fa da sé, che segue l’intuito piuttosto che la scienza, che non calcola ma “sente”. Spesso, la programmazione e la pianificazione non sono il pane quotidiano di queste persone che, rileva l’autore, fanno fatica a conciliare la loro vita lavorativa con i metodi razionali di gestione d’impresa.

Eppure, occorre dirlo, sono proprio queste imprese che, spesso, vengono assunte come portabandiera del saper fare nazionale. Ma, di fronte alle difficoltà della moderna economia,  è pur vero che lo spazio per gli imprenditori che “intuiscono e basta” è sempre più limitato.

Secondo Bernardi c’è la necessità di fare qualcosa che prima di tutto si concretizza in un percorso di avvicinamento fra scuola e azienda “in modo – si legge nel volume -, da portare all’imprenditore le informazioni che spesso gli mancano per conoscere una realtà concorrenziale internazionale, che rischia di lasciare indietro e per sempre le nostre piccole imprese”. Ma, più in generale, Bernardi invita a riflettere su un nuovo “progetto d’impresa e di imprenditore” che deve nascere dall’eredità migliore del passato ma anche da una forte iniezione di conoscenze, cultura e informazioni che riescano a creare nelle aziende “laboratori culturali” che le mettano in grado di produrre beni e servizi innovativi e di colloquiare con efficacia con l’ambiente circostante.

Cultura d’impresa, leadership e management nella micro e piccola impresa

Oscar Bernardi

CreateSpace Independent Publishing Platform, 2014

La cultura imprenditoriale è fatta da qualcosa di impalpabile e imprescindibile, ma anche da elementi ben definibili, spesso misurabili, conoscenze e informazioni senza le quali l’essere imprenditore esiste ancora ma, in qualche modo, ne risulta mortificato. Capire gli uni e gli altri aspetti è importante ma complesso. Ci è riuscito Oscar Bernardi  – imprenditore anch’esso -, che ha scritto “Cultura d’impresa, leadership e management nella micro e piccola impresa”, un bel libro sulla base della sua pluriennale attività di consulenza a contatto con le micro e piccole imprese. Proprio in queste – asse portante, come si dice spesso, dell’economia nazionale -,  Bernardi ha molte volte riscontrato una carenza di preparazione scolastica e manageriale da parte degli imprenditori a capo delle diverse realtà. Con tutto il rispetto che si deve a uomini e donne che hanno creato imprese spesso in condizioni difficili, l’autore ha condotto una vera ricerca sul campo con la somministrazione di 9mila questionari. Dai risultati dell’indagine, emergono il livello di preparazione media dell’imprenditore, spesso carente, e i vari stili di leadership esercitati in azienda, con un focus su un momento particolarmente delicato della vita dell’impresa quale il passaggio generazionale e con un’analisi delle tensioni e dei problemi che inevitabilmente questo evento porta con sé.

L’imprenditore delineato da tutto questo, corrisponde alla figura di un uomo che fa da sé, che segue l’intuito piuttosto che la scienza, che non calcola ma “sente”. Spesso, la programmazione e la pianificazione non sono il pane quotidiano di queste persone che, rileva l’autore, fanno fatica a conciliare la loro vita lavorativa con i metodi razionali di gestione d’impresa.

Eppure, occorre dirlo, sono proprio queste imprese che, spesso, vengono assunte come portabandiera del saper fare nazionale. Ma, di fronte alle difficoltà della moderna economia,  è pur vero che lo spazio per gli imprenditori che “intuiscono e basta” è sempre più limitato.

Secondo Bernardi c’è la necessità di fare qualcosa che prima di tutto si concretizza in un percorso di avvicinamento fra scuola e azienda “in modo – si legge nel volume -, da portare all’imprenditore le informazioni che spesso gli mancano per conoscere una realtà concorrenziale internazionale, che rischia di lasciare indietro e per sempre le nostre piccole imprese”. Ma, più in generale, Bernardi invita a riflettere su un nuovo “progetto d’impresa e di imprenditore” che deve nascere dall’eredità migliore del passato ma anche da una forte iniezione di conoscenze, cultura e informazioni che riescano a creare nelle aziende “laboratori culturali” che le mettano in grado di produrre beni e servizi innovativi e di colloquiare con efficacia con l’ambiente circostante.

Cultura d’impresa, leadership e management nella micro e piccola impresa

Oscar Bernardi

CreateSpace Independent Publishing Platform, 2014

“Ricomincio da 50”: ecco come non disperdere un patrimonio d’esperienze e competenze

“Ai vecchi insegnerei che la morte non viene con la vecchiaia, ma con l’oblio”. Sono parole tratte dalla “Lettera d’addio ai suoi amici” scritta da Gabriel Garcia Marquez, poco prima della sua scomparsa, nell’aprile del 2014. Una lezione importante. Non solo per gli anziani, ma soprattutto per la società che sta loro attorno. E densa di implicazioni, da parte di chi, già nel suo libro più noto, “Cent’anni di solitudine”, nel 1967, aveva scritto: “Tutti vogliono vivere in cima alla montagna, e non sospettano nemmeno che la vera felicità sta nel modo in cui si sale la china… Il segreto di una buona vecchiaia è nient’altro che la conclusione di un onorevole patto con la solitudine”. Lo sguardo forte e pacato sulla solitudine, dunque. Ma poi, la paura del ritrovarsi abbandonati, dimenticati. C’è quasi mezzo secolo di distanza, tra una frase e l’altra (Gabo aveva quarant’anni, quando scrisse l’epopea del colonnello Aureliano Buendìa a Macondo). E il cambiamento, naturale, di tono e di prospettiva, aiuta chi vuole leggere in modo più consapevole la relazione tra l’età delle persone e il cambiamento delle relazioni sociali. E’ faticoso, il trascorrere del tempo, quando le ombre del passato alle spalle sono più lunghe del cammino che ancora ci resta. Ma, appunto perché quel tempo è breve e contemporaneamente ricco di memorie e d’esperienze di rilevanza non solo personale, ma anche economico, sociale e civile, non va sprecato nell’inutilità. Gli anziani sono un patrimonio, non un peso o un limite sociale. “Una risorsa, da valorizzare e da non abbandonare”, agevolando l’intollerabile “cultura dello scarto”, ammonisce Papa Francesco, insistendo “sull’alleanza tra anziani e giovani” per un “migliore futuro”.

“Ancora troppo giovani per essere vecchi”, scrivono Giangiacomo Schiari, vicedirettore del Corriere della Sera e Carlo Vergani, gerontologo e geriatra di grande esperienza (all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano), in un libro che analizza condizioni e contraddizioni di una società fragile ed egoista, che invecchia e perde il senso della relazione tra memoria e futuro. Sfida complessa, ritrovare quel senso. Ma essenziale. Per il Paese nel suo complesso. Ma anche per il mondo del lavoro e delle imprese, stretto nella contrastante morsa di fenomeni divaricanti: l’allungamento dell’età di permanenza al lavoro e il rinvio della pensione, per giuste esigenze di equilibrio dei sistemi previdenziali e della conseguente spesa pubblica, ma anche la perdita del posto di lavoro da parte di decine di migliaia di “over 50” di difficilissima ricollocazione professionale (nella trappola, dunque, di chi non ha né stipendio né pensione) e, contemporaneamente, i problemi di inserimento al lavoro delle nuove generazioni e le fosche previsioni del loro futuro previdenziale. Un groviglio di questioni. Che chiedono soluzioni politiche, di sistema. Ma sollecitano risposte pure dalla cultura d’impresa e dalle scelte di gestione delle risorse umane da parte delle aziende. Le popolazioni delle società europee invecchiano (Germania e Italia in prima linea). E c’è molto da fare.

Quali risposte? Una sorta di “nuovo patto generazionale” che, grazie a soluzioni fiscali e contributive, utilizzi gli anziani che restano part time al lavoro per fare da maestri delle nuove generazioni in azienda e trasmettere competenze e saperi altrimenti irrecuperabili. E una politica del capitale umano più articolata e sapiente di molte pratiche di gestione del personale tutt’ora in corso.

L’età, infatti, non può essere una tagliola (via gli anziani) né naturalmente un vincolo d’esclusione (non c’è spazio per i giovani, se non con contratti precari, dato che i posti a tempo indeterminato sono tutti occupati). Se, nell’attuale fase della competizione globale e del primato dell’”economia della conoscenza”, la competitività (soprattutto per i paesi più “maturi”) si gioca sul binomio innovazione-inclusione (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana), allora la valorizzazione delle persone deve tenere in gran conto anche l’insieme delle competenze e delle esperienze, dunque il patrimonio storico legato all’età. Il diversity management (le sinergie tra le differenze di genere, scelte sessuali, culture, religioni, nazionalità) deve comprendere anche l’age management e cioè una sofisticata gestione della presenza in azienda delle diverse classi d’età. L’attenzione alle persone si può legare così, virtuosamente, al miglioramento della produttività.

Ricomincio da 50” è il brillante titolo di un convegno organizzato da Assolombarda, con il contributo della Provincia di Milano, di Aldai e Federmanager (le organizzazioni di rappresentanza dei dirigenti d’azienda e dell’Istud (istituto d’eccellenza per formazione e ricerca economica e sociale) sulla “gestione delle transizioni occupazionali dentro e fuori l’impresa”. Due i progetti di riferimento, nel contesto di un impegno crescente delle istituzioni Ue sulla gestione dell’età di chi lavora (e dunque della ricollocazione di chi il lavoro lo perde): “AiM” e cioè “Age management in Milan” e ASTrO (“Azioni di sostegno alle transizioni occupazionali”). Si parte da un dato: la crisi ha determinato una crescente disoccupazione anche tra quadri e dirigenti d’impresa (dal 2008 al 2013 i manager licenziati, 910mila, sono più numerosi dei manager che ancora lavorano, 769mila: più di uno su due, insomma, ha perso il lavoro e molti non lo hanno più ritrovato) e il fenomeno è particolarmente evidente nella Lombardia luogo centrale dell’industria e dei servizi, con 10mila persone rimaste fuori. I settori più colpiti: informatica, elettronica, telecomunicazioni, industria meccanica e siderurgica, chimica e farmaceutica.

Siamo di fronte, dunque, a un patrimonio che rischia di disperdersi. Con grave danno non solo per le persone colpite e le loro famiglie, ma anche per l’Italia e per il sistema delle imprese. Come salvare la ricchezza di esperienze e competenze? Ci sono scelte aziendali da fare (capire il fenomeno e governarlo, per non “bruciare” capitale umano) e scelte personali (uscire fuori dallo schema tradizionale studio-lavoro-pensione e abituarsi a ragionare su di sé e sul proprio futuro secondo una relazione più complessa tra studio-lavoro-ancora studio-esperienze internazionali-ricollocazione, etc.). Dai percorsi di lavoro e di carriera lineari e ascendenti ai percorsi sinuosi, complessi, densi di diversità. Un grande salto sociale e culturale, che i lavoratori non possono compiere da soli ma su cui vanno sostenuti, educati, promossi, fiscalmente e formativamente aiutati. Una grande sfida imprenditoriale (è un tratto fondamentale della responsabilità sociale d’impresa), sindacale, sociale e politica. E un impegno culturale di rilievo (sulla memoria e il dialogo generazionale la Fondazione Pirelli ha impegnato attenzione e risorse, con attività ancora in corso, come “Il tempo dell’uomo: lavoro e no”).

C’è da costruire, anche in azienda, un nuovo equilibrio tra esperienza e innovazione, dunque tra diverse generazioni. E proprio sull’innovazione l’Italia, appunto, ha un grande bisogno di impegno. Ma non ci sono cambiamenti né miglioramenti di competitività, produttività e sostenibilità sociale delle scelte economiche che possano prescindere, nel “micro” delle imprese e nel “macro” del Paese, da una profonda consapevolezza della nostra storia e delle pagine migliori dello sviluppo italiano. Proprio quel patrimonio di sapienza che gli anziani possono continuare a mettere a disposizione delle nuove generazioni. Nel tempo del lavoro. E nella società.

“Ai vecchi insegnerei che la morte non viene con la vecchiaia, ma con l’oblio”. Sono parole tratte dalla “Lettera d’addio ai suoi amici” scritta da Gabriel Garcia Marquez, poco prima della sua scomparsa, nell’aprile del 2014. Una lezione importante. Non solo per gli anziani, ma soprattutto per la società che sta loro attorno. E densa di implicazioni, da parte di chi, già nel suo libro più noto, “Cent’anni di solitudine”, nel 1967, aveva scritto: “Tutti vogliono vivere in cima alla montagna, e non sospettano nemmeno che la vera felicità sta nel modo in cui si sale la china… Il segreto di una buona vecchiaia è nient’altro che la conclusione di un onorevole patto con la solitudine”. Lo sguardo forte e pacato sulla solitudine, dunque. Ma poi, la paura del ritrovarsi abbandonati, dimenticati. C’è quasi mezzo secolo di distanza, tra una frase e l’altra (Gabo aveva quarant’anni, quando scrisse l’epopea del colonnello Aureliano Buendìa a Macondo). E il cambiamento, naturale, di tono e di prospettiva, aiuta chi vuole leggere in modo più consapevole la relazione tra l’età delle persone e il cambiamento delle relazioni sociali. E’ faticoso, il trascorrere del tempo, quando le ombre del passato alle spalle sono più lunghe del cammino che ancora ci resta. Ma, appunto perché quel tempo è breve e contemporaneamente ricco di memorie e d’esperienze di rilevanza non solo personale, ma anche economico, sociale e civile, non va sprecato nell’inutilità. Gli anziani sono un patrimonio, non un peso o un limite sociale. “Una risorsa, da valorizzare e da non abbandonare”, agevolando l’intollerabile “cultura dello scarto”, ammonisce Papa Francesco, insistendo “sull’alleanza tra anziani e giovani” per un “migliore futuro”.

“Ancora troppo giovani per essere vecchi”, scrivono Giangiacomo Schiari, vicedirettore del Corriere della Sera e Carlo Vergani, gerontologo e geriatra di grande esperienza (all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano), in un libro che analizza condizioni e contraddizioni di una società fragile ed egoista, che invecchia e perde il senso della relazione tra memoria e futuro. Sfida complessa, ritrovare quel senso. Ma essenziale. Per il Paese nel suo complesso. Ma anche per il mondo del lavoro e delle imprese, stretto nella contrastante morsa di fenomeni divaricanti: l’allungamento dell’età di permanenza al lavoro e il rinvio della pensione, per giuste esigenze di equilibrio dei sistemi previdenziali e della conseguente spesa pubblica, ma anche la perdita del posto di lavoro da parte di decine di migliaia di “over 50” di difficilissima ricollocazione professionale (nella trappola, dunque, di chi non ha né stipendio né pensione) e, contemporaneamente, i problemi di inserimento al lavoro delle nuove generazioni e le fosche previsioni del loro futuro previdenziale. Un groviglio di questioni. Che chiedono soluzioni politiche, di sistema. Ma sollecitano risposte pure dalla cultura d’impresa e dalle scelte di gestione delle risorse umane da parte delle aziende. Le popolazioni delle società europee invecchiano (Germania e Italia in prima linea). E c’è molto da fare.

Quali risposte? Una sorta di “nuovo patto generazionale” che, grazie a soluzioni fiscali e contributive, utilizzi gli anziani che restano part time al lavoro per fare da maestri delle nuove generazioni in azienda e trasmettere competenze e saperi altrimenti irrecuperabili. E una politica del capitale umano più articolata e sapiente di molte pratiche di gestione del personale tutt’ora in corso.

L’età, infatti, non può essere una tagliola (via gli anziani) né naturalmente un vincolo d’esclusione (non c’è spazio per i giovani, se non con contratti precari, dato che i posti a tempo indeterminato sono tutti occupati). Se, nell’attuale fase della competizione globale e del primato dell’”economia della conoscenza”, la competitività (soprattutto per i paesi più “maturi”) si gioca sul binomio innovazione-inclusione (ne abbiamo parlato a lungo nel blog della scorsa settimana), allora la valorizzazione delle persone deve tenere in gran conto anche l’insieme delle competenze e delle esperienze, dunque il patrimonio storico legato all’età. Il diversity management (le sinergie tra le differenze di genere, scelte sessuali, culture, religioni, nazionalità) deve comprendere anche l’age management e cioè una sofisticata gestione della presenza in azienda delle diverse classi d’età. L’attenzione alle persone si può legare così, virtuosamente, al miglioramento della produttività.

Ricomincio da 50” è il brillante titolo di un convegno organizzato da Assolombarda, con il contributo della Provincia di Milano, di Aldai e Federmanager (le organizzazioni di rappresentanza dei dirigenti d’azienda e dell’Istud (istituto d’eccellenza per formazione e ricerca economica e sociale) sulla “gestione delle transizioni occupazionali dentro e fuori l’impresa”. Due i progetti di riferimento, nel contesto di un impegno crescente delle istituzioni Ue sulla gestione dell’età di chi lavora (e dunque della ricollocazione di chi il lavoro lo perde): “AiM” e cioè “Age management in Milan” e ASTrO (“Azioni di sostegno alle transizioni occupazionali”). Si parte da un dato: la crisi ha determinato una crescente disoccupazione anche tra quadri e dirigenti d’impresa (dal 2008 al 2013 i manager licenziati, 910mila, sono più numerosi dei manager che ancora lavorano, 769mila: più di uno su due, insomma, ha perso il lavoro e molti non lo hanno più ritrovato) e il fenomeno è particolarmente evidente nella Lombardia luogo centrale dell’industria e dei servizi, con 10mila persone rimaste fuori. I settori più colpiti: informatica, elettronica, telecomunicazioni, industria meccanica e siderurgica, chimica e farmaceutica.

Siamo di fronte, dunque, a un patrimonio che rischia di disperdersi. Con grave danno non solo per le persone colpite e le loro famiglie, ma anche per l’Italia e per il sistema delle imprese. Come salvare la ricchezza di esperienze e competenze? Ci sono scelte aziendali da fare (capire il fenomeno e governarlo, per non “bruciare” capitale umano) e scelte personali (uscire fuori dallo schema tradizionale studio-lavoro-pensione e abituarsi a ragionare su di sé e sul proprio futuro secondo una relazione più complessa tra studio-lavoro-ancora studio-esperienze internazionali-ricollocazione, etc.). Dai percorsi di lavoro e di carriera lineari e ascendenti ai percorsi sinuosi, complessi, densi di diversità. Un grande salto sociale e culturale, che i lavoratori non possono compiere da soli ma su cui vanno sostenuti, educati, promossi, fiscalmente e formativamente aiutati. Una grande sfida imprenditoriale (è un tratto fondamentale della responsabilità sociale d’impresa), sindacale, sociale e politica. E un impegno culturale di rilievo (sulla memoria e il dialogo generazionale la Fondazione Pirelli ha impegnato attenzione e risorse, con attività ancora in corso, come “Il tempo dell’uomo: lavoro e no”).

C’è da costruire, anche in azienda, un nuovo equilibrio tra esperienza e innovazione, dunque tra diverse generazioni. E proprio sull’innovazione l’Italia, appunto, ha un grande bisogno di impegno. Ma non ci sono cambiamenti né miglioramenti di competitività, produttività e sostenibilità sociale delle scelte economiche che possano prescindere, nel “micro” delle imprese e nel “macro” del Paese, da una profonda consapevolezza della nostra storia e delle pagine migliori dello sviluppo italiano. Proprio quel patrimonio di sapienza che gli anziani possono continuare a mettere a disposizione delle nuove generazioni. Nel tempo del lavoro. E nella società.

Imprese aperte e multiculturali

Imprese multiculturali e mercati complessi. E’ fra questi due elementi della realtà che, senza dubbio, si muove buona parte della cultura d’impresa moderna. Senza tralasciare le questioni legate al lavoro e ai rapporti con la produzione e il management, certamente la necessità di affrontare aree commerciali variegate e differenziate e la corrispondente esigenza di attrezzarsi dal punto di vista culturale e organizzativo, sono fra i temi più importanti che un sistema di produzione deve affrontare in maniera efficace.

La ricerca di Rosana Grušovnik (M.A. in Business Sciences al  Gea College della Faculty of  Entrepreneurship di Lubiana in Slovenia), e di Dejan Jelovac (Professore di Organisational sciences and business ethics alla  School of Advanced Social Studies di Nova Gorica), appena apparsa sull’Innovative Issues and Approaches in Social Sciences, aiuta a capire di più delle relazioni fra culture diverse all’interno delle imprese.

“The impact of managerial multicultural  competences on company’s competitive  advantage in global economy”, ragiona, in particolare, sulla “gestione delle differenze interculturali” presenti nei mercati e nelle imprese. L’attenzione, spiegano i due autori, viene focalizzata sul “dilemma manageriale di come raggiungere la competitività” in un ambiente come quello attuale nel quale operano forze di mercato diverse e si scontrano culture d’impresa e di consumo differenti.

L’articolo si basa quindi su un apparato teorico e su un’indagine empirica svolta presso un campione di 28 dirigenti di imprese della Slovenia, dell’UE, e della ex Jugoslavia. L’obiettivo di questa seconda parte, è quello di rilevare le competenze interculturali dei manager intervistati e l’incidenza di queste sulle attività aziendali quotidiane, oltre che le ricadute sulla gestione dei fattori culturali presenti nei mercati di riferimento delle rispettive imprese.

Teoria e soprattutto parte empirica, dimostrano che occorrono, secondo gli autori, manager con conoscenze di gestione particolari, con consapevolezza, know-how e competenze per comunicare e lavorare attraversando “frontiere culturali” ogni volta diverse. Anzi, i due si spingono a ipotizzare che il peso di tutto questo sia tale da mettere in forse, in caso di assenza, l’esistenza stessa delle imprese. Insomma, l’azienda che vuole vivere e crescere deve aprirsi al mondo, sfidarlo ma anche capirlo. A ben vedere si tratta della constatazione dell’esistenza di una sfida che occorre vincere tutti.

The impact of managerial multicultural  competences on company’s competitive  advantage in global economy

Rosana Grušovnik,  Dejan Jelovac

Innovative Issues and Approaches in Social Sciences, Vol. 7, No. 3

Imprese multiculturali e mercati complessi. E’ fra questi due elementi della realtà che, senza dubbio, si muove buona parte della cultura d’impresa moderna. Senza tralasciare le questioni legate al lavoro e ai rapporti con la produzione e il management, certamente la necessità di affrontare aree commerciali variegate e differenziate e la corrispondente esigenza di attrezzarsi dal punto di vista culturale e organizzativo, sono fra i temi più importanti che un sistema di produzione deve affrontare in maniera efficace.

La ricerca di Rosana Grušovnik (M.A. in Business Sciences al  Gea College della Faculty of  Entrepreneurship di Lubiana in Slovenia), e di Dejan Jelovac (Professore di Organisational sciences and business ethics alla  School of Advanced Social Studies di Nova Gorica), appena apparsa sull’Innovative Issues and Approaches in Social Sciences, aiuta a capire di più delle relazioni fra culture diverse all’interno delle imprese.

“The impact of managerial multicultural  competences on company’s competitive  advantage in global economy”, ragiona, in particolare, sulla “gestione delle differenze interculturali” presenti nei mercati e nelle imprese. L’attenzione, spiegano i due autori, viene focalizzata sul “dilemma manageriale di come raggiungere la competitività” in un ambiente come quello attuale nel quale operano forze di mercato diverse e si scontrano culture d’impresa e di consumo differenti.

L’articolo si basa quindi su un apparato teorico e su un’indagine empirica svolta presso un campione di 28 dirigenti di imprese della Slovenia, dell’UE, e della ex Jugoslavia. L’obiettivo di questa seconda parte, è quello di rilevare le competenze interculturali dei manager intervistati e l’incidenza di queste sulle attività aziendali quotidiane, oltre che le ricadute sulla gestione dei fattori culturali presenti nei mercati di riferimento delle rispettive imprese.

Teoria e soprattutto parte empirica, dimostrano che occorrono, secondo gli autori, manager con conoscenze di gestione particolari, con consapevolezza, know-how e competenze per comunicare e lavorare attraversando “frontiere culturali” ogni volta diverse. Anzi, i due si spingono a ipotizzare che il peso di tutto questo sia tale da mettere in forse, in caso di assenza, l’esistenza stessa delle imprese. Insomma, l’azienda che vuole vivere e crescere deve aprirsi al mondo, sfidarlo ma anche capirlo. A ben vedere si tratta della constatazione dell’esistenza di una sfida che occorre vincere tutti.

The impact of managerial multicultural  competences on company’s competitive  advantage in global economy

Rosana Grušovnik,  Dejan Jelovac

Innovative Issues and Approaches in Social Sciences, Vol. 7, No. 3

Come si evolvono le imprese

Le imprese come essere viventi. L’idea è ardita, ma ha un fondamento di verità. Pensare all’azienda fatta impresa, cioè animata dallo spirito imprenditoriale e dal lavoro, come ad un essere “che vive” è un aspetto della cultura della produzione importante e da tenere in considerazione. Occorre però esser capaci di mettere insieme elementi di interpretazione della realtà diversi come quelli biologici ed economici, evoluzionistici e gestionali.

Ci ha pensato recentemente Roberto Cafferata – Past President dell’Accademia Italiana di Economia Aziendale e ordinario di Economia e Gestione delle Imprese a Tor Vergata -, che ha riscritto il suo il suo manuale “Manager in adattamento. Tra razionalità economica, evoluzione e imperfezione dei sistemi”.

In poco meno di 400 dense pagine, Cafferata delinea una interpretazione dell’impresa  che si avvicina all’evoluzionismo ma che tiene in buon conto i solidi fondamenti della gestione aziendale più efficace.

L’idea di base è descritta dall’autore nelle prime righe del libro: “In questo testo viene condotta una riflessione sull’impresa intesa come sistema razionale e sul rapporto che l’organizzazione (…), mantiene con l’ambiente economico-sociale”. L’impresa, per Cafferata, è comunque un sistema ma imperfetto, che si adatta all’ambiente che lo circonda e instaura con questo una dialettica che ha effetti importanti sull’impresa stessa. “Nella continuità dello svolgimento aziendale – dice ancora l’autore -, sono previste sospensioni della razionalità dei processi decisionali, svolte radicali e contraddizioni tra comportamenti del passato e comportamenti del presente”. In altre parole, l’azienda che si fa impresa non è un soggetto chiuso al mondo. E’ tutt’altro: qualcosa che vive, che “parla” con l’esterno e che deve essere capito partendo dalla constatazione che l’impresa può cambiare l’ambiente e può essere cambiata dall’ambiente. Cafferata, quindi, misura e interpreta le relazioni fra imprese e ambiente con il metodo evoluzionistico e spiega che le prime nel loro agire non sono solo oggetti ma anche soggetti di cambiamento evolutivo.

L’autore quindi accompagna il lettore in un percorso che inizia dal razionalismo economico per passare ai principi di governance  e management nell’amministrazione generale delle aziende per arrivare ad approfondire i tratti delle imprese pensate come sistemi di cose e di persone. Cafferata, a questo punto, affronta temi importanti come quelli della competitività, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dei rapporti interni ai sistemi produttivi per arrivare all’evoluzione e ai rapporti tra impresa, ambiente e società. La conclusione affronta le relazioni fra evoluzionismo darwinista ed evoluzione d’impresa.

La fatica di Cafferata non è sempre semplice da seguire, ma costituisce una lettura utile e importante per iniziare a guardare alle aziende-imprese con occhi diversi. Qualcosa che fa bene a tutti.

Manager in adattamento. Tra razionalità economica, evoluzione e imperfezione dei sistemi

Roberto Cafferata

Il Mulino, Bologna, 2014

Le imprese come essere viventi. L’idea è ardita, ma ha un fondamento di verità. Pensare all’azienda fatta impresa, cioè animata dallo spirito imprenditoriale e dal lavoro, come ad un essere “che vive” è un aspetto della cultura della produzione importante e da tenere in considerazione. Occorre però esser capaci di mettere insieme elementi di interpretazione della realtà diversi come quelli biologici ed economici, evoluzionistici e gestionali.

Ci ha pensato recentemente Roberto Cafferata – Past President dell’Accademia Italiana di Economia Aziendale e ordinario di Economia e Gestione delle Imprese a Tor Vergata -, che ha riscritto il suo il suo manuale “Manager in adattamento. Tra razionalità economica, evoluzione e imperfezione dei sistemi”.

In poco meno di 400 dense pagine, Cafferata delinea una interpretazione dell’impresa  che si avvicina all’evoluzionismo ma che tiene in buon conto i solidi fondamenti della gestione aziendale più efficace.

L’idea di base è descritta dall’autore nelle prime righe del libro: “In questo testo viene condotta una riflessione sull’impresa intesa come sistema razionale e sul rapporto che l’organizzazione (…), mantiene con l’ambiente economico-sociale”. L’impresa, per Cafferata, è comunque un sistema ma imperfetto, che si adatta all’ambiente che lo circonda e instaura con questo una dialettica che ha effetti importanti sull’impresa stessa. “Nella continuità dello svolgimento aziendale – dice ancora l’autore -, sono previste sospensioni della razionalità dei processi decisionali, svolte radicali e contraddizioni tra comportamenti del passato e comportamenti del presente”. In altre parole, l’azienda che si fa impresa non è un soggetto chiuso al mondo. E’ tutt’altro: qualcosa che vive, che “parla” con l’esterno e che deve essere capito partendo dalla constatazione che l’impresa può cambiare l’ambiente e può essere cambiata dall’ambiente. Cafferata, quindi, misura e interpreta le relazioni fra imprese e ambiente con il metodo evoluzionistico e spiega che le prime nel loro agire non sono solo oggetti ma anche soggetti di cambiamento evolutivo.

L’autore quindi accompagna il lettore in un percorso che inizia dal razionalismo economico per passare ai principi di governance  e management nell’amministrazione generale delle aziende per arrivare ad approfondire i tratti delle imprese pensate come sistemi di cose e di persone. Cafferata, a questo punto, affronta temi importanti come quelli della competitività, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dei rapporti interni ai sistemi produttivi per arrivare all’evoluzione e ai rapporti tra impresa, ambiente e società. La conclusione affronta le relazioni fra evoluzionismo darwinista ed evoluzione d’impresa.

La fatica di Cafferata non è sempre semplice da seguire, ma costituisce una lettura utile e importante per iniziare a guardare alle aziende-imprese con occhi diversi. Qualcosa che fa bene a tutti.

Manager in adattamento. Tra razionalità economica, evoluzione e imperfezione dei sistemi

Roberto Cafferata

Il Mulino, Bologna, 2014

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?