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Le diversità come leve di competitività: puntare su inclusione e innovazione

Inclusione e innovazione, un binomio che garantisce alle imprese migliore produttività e maggiore competitività. Le diversità (di genere e orientamento sessuale, valori religiosi, appartenenze etniche, culture) sono un formidabile carburante per la crescita, strumenti di confronto, creatività  e definizione di nuove idee, di migliore cultura d’impresa. E il diversity management è oramai una leva essenziale di sviluppo, soprattutto per chi si trova a operare su mercati internazionali, nella costruzione di difficili eppur ricchissime sintesi di global e local. L’indicazione viene da una ricerca di Catalyst (una grande società di consulenza americana, con sedi anche in Europa, Giappone, Canada, india, Australia, etc.) e dalla McKinsey.

Secondo Catalyst (ne scrive Paolo Bricco su “IlSole24Ore”, 25 settembre) negli ultimi dieci anni le 50 imprese globali Usa, punti di riferimento nella gestione delle diversità, hanno ottenuto rendimenti, in termini di andamento dei titoli in Borsa, più alti del 22% rispetto all’indice Dow Jones Industrial Average e del 28% rispetto al Nasdaq. In altri termini, i mercati finanziari apprezzano e premiano la vivacità di imprese capaci di fare i conti e valorizzare differenti e anche conflittuali approcci al business (la buona impresa che piace agli investitori, insomma, non è una caserma né un tempio dell’omogeneità, dell’obbedienza acritica, della rigidità organizzativa e del conformismo). McKinsey ha allargato il campione all’Europa, costruendo un panel di imprese americane, inglesi, francesi e tedesche e ha accertato che le società che hanno board composti in misura rilevante anche da donne valgono, in termini di efficienza rilevata contabilmente dal Roe e dalla crescita, un quarto in più rispetto alle altre ma soprattutto ha verificato il miglioramento della fisiologia interna delle aziende che adottano in generale politiche di inclusione. Secondo McKinsey, insomma, una forza lavoro diversificata e inclusiva genera risultati superiori per livello di collaborazione nel lavoro in team (+57% rispetto allo standard), nella produttività dei singoli (+12%) e nella capacità di costruire un rapporto solido e duraturo con la clientela (+19%).

Taylorismo e fordismo, tecnocrazie rigide, processi di gestione seriali hanno fatto dunque il loro tempo. “L’obbedienza non è più una virtù” (la bella e coraggiosa scelta d’un maestro cattolico come don Lorenzo Milani, finalmente riscoperto dopo l’oblio post ’68) è una frase che ricorre anche nella migliore cultura d’impresa. Il pensiero critico (e perfino eretico) trova giusto spazio in quelle imprese che lavorano sulle frontiere complesse dell’innovazione. Le dichiarazioni sul “primato della persona” (e se rileggessimo Emmanuel Mounier o alcune pagine de “La condizione operaia” di Simone Weil?) e sulla valorizzazione delle risorse umane, essenziali soprattutto nelle stagioni dell’”economia della conoscenza” hanno bisogno di tradursi in strutture organizzative e regole di governance in cui la diversità sia una chiave di scelte e una leva di comportamenti e strategie. Un lavoro da portare avanti.

La nuova razionalità economica è costituita dalla valorizzazione delle differenze”, sostiene Bricco. E Andrea Notarnicola, sociologo del lavoro, autore di “Global Inclusion” (un saggio appena pubblicato da Franco Angeli) nota che “il paradigma fondato sull’inclusione rappresenta l’evoluzione delle politiche per le pari opportunità, fondate sulle quote rosa, e della responsabilità sociale d’impresa. E’ un approccio complessivo, un orientamento globale che porta ogni azienda, al suo interno e al suo esterno, a considerare le ragioni della diversità come la nuova, fondamentale leva competitiva”.

Più facile a dirsi, meno a realizzarsi. Le resistenze, nelle imprese, naturalmente non mancano. Tra le dichiarazioni di volontà e le pratiche inclusive coerentemente seguite, c’è ancora molto cammino da fare. L’importante, comunque, è che il processo sia in corso, forte anche di una robusta cornice teorica e del sostegno dei dati di successo. Ancora una conferma: secondo un’indagine dell’European Business Test Panel, effettuata su 188 imprese europee che hanno un’agenda di diversity, tutte le funzioni vengono valorizzate. Gli imprenditori e i manager consultati – nota sempre “Il Sole24Ore” – hanno evidenziato miglioramenti delle performances per il reclutamento nel 61% dei casi, per il servizio clienti nel 58%, per lo sviluppo di nuovi prodotti nel 49%, per la formazione del 45%, per l’ingresso su nuovi mercati nel 42%, per i processi manageriali nel 40% e per il coinvolgimento degli stakeholders nel 30%. Il risultato? Migliori nuove idee efficaci, maggiori efficienze organizzative, maggiori profitti. La diversity, insomma, conviene.

Anche in Italia si va avanti su questa strada. Tanto per fare solo un esempio, la Barilla ha costituito un Diversity & Inclusion Board di esperti esterni indipendenti e un Operating Committee interno, lavorando in partnership con Catalyst, Human Right Campaign e Parks. E Mariapaola Vetrucci, chief strategy officer di Barilla, sostiene: “La multiculturalità è un valore indispensabile per una multinazionale. Promuovere diversità e inclusione non significa solo ‘fare la cosa giusta’ ma anche sostenere la nostra strategia di crescita. Una forza lavoro diversa e una cultura d’impresa inclusiva accrescono l’impegno e tengono conti di una comprensione più profonda della società, indispensabile per chi come noi serve consumatori in tutto in mondo”.

Valorti e valore economico in sinergia, dunque. E’ la strada su cui lavora “Parks – Liberi e uguali”, una società fondata da Ivan Scalfarotto (parlamentare Pd e adesso sottosegretario alle Riforme nel governo Renzi), presieduta da Dario Longo e diretta da Igor Suran. Il nome viene da Rosa Parks, attività dei diritti civili negli Usa, la donna che nel 1955, a Montgomery in Alabama, aveva cominciato la protesta contro le discriminazioni contro i neri sugli autobus. La visione di fondo è chiara: “Lavorare è un gesto semplice e importante della vita come quello di prendere l’autobus, e il rifiuto di Rosa Parks di lasciare il suo posto a un’altra persona soltanto perché aveva la pelle di un altro colore ci insegna ancora oggi che il mondo può essere scosso e cambiato anche soltanto dicendo un “no” cortese ma irremovibile alla discriminazione”. Oggi di Parks sono socie imprese come Microsoft, Johnson & Johnson, Roche, Ikea, Telecom, Ibm, Barilla, Deutsche Bank e altre ancora: “La valorizzazione di ogni aspetto dell’identità individuale è un tassello indispensabile per una piena espressione del capitale umano”. Identità, diversità, competitività, appunto. Un circuito virtuoso da rafforzare.

Inclusione e innovazione, un binomio che garantisce alle imprese migliore produttività e maggiore competitività. Le diversità (di genere e orientamento sessuale, valori religiosi, appartenenze etniche, culture) sono un formidabile carburante per la crescita, strumenti di confronto, creatività  e definizione di nuove idee, di migliore cultura d’impresa. E il diversity management è oramai una leva essenziale di sviluppo, soprattutto per chi si trova a operare su mercati internazionali, nella costruzione di difficili eppur ricchissime sintesi di global e local. L’indicazione viene da una ricerca di Catalyst (una grande società di consulenza americana, con sedi anche in Europa, Giappone, Canada, india, Australia, etc.) e dalla McKinsey.

Secondo Catalyst (ne scrive Paolo Bricco su “IlSole24Ore”, 25 settembre) negli ultimi dieci anni le 50 imprese globali Usa, punti di riferimento nella gestione delle diversità, hanno ottenuto rendimenti, in termini di andamento dei titoli in Borsa, più alti del 22% rispetto all’indice Dow Jones Industrial Average e del 28% rispetto al Nasdaq. In altri termini, i mercati finanziari apprezzano e premiano la vivacità di imprese capaci di fare i conti e valorizzare differenti e anche conflittuali approcci al business (la buona impresa che piace agli investitori, insomma, non è una caserma né un tempio dell’omogeneità, dell’obbedienza acritica, della rigidità organizzativa e del conformismo). McKinsey ha allargato il campione all’Europa, costruendo un panel di imprese americane, inglesi, francesi e tedesche e ha accertato che le società che hanno board composti in misura rilevante anche da donne valgono, in termini di efficienza rilevata contabilmente dal Roe e dalla crescita, un quarto in più rispetto alle altre ma soprattutto ha verificato il miglioramento della fisiologia interna delle aziende che adottano in generale politiche di inclusione. Secondo McKinsey, insomma, una forza lavoro diversificata e inclusiva genera risultati superiori per livello di collaborazione nel lavoro in team (+57% rispetto allo standard), nella produttività dei singoli (+12%) e nella capacità di costruire un rapporto solido e duraturo con la clientela (+19%).

Taylorismo e fordismo, tecnocrazie rigide, processi di gestione seriali hanno fatto dunque il loro tempo. “L’obbedienza non è più una virtù” (la bella e coraggiosa scelta d’un maestro cattolico come don Lorenzo Milani, finalmente riscoperto dopo l’oblio post ’68) è una frase che ricorre anche nella migliore cultura d’impresa. Il pensiero critico (e perfino eretico) trova giusto spazio in quelle imprese che lavorano sulle frontiere complesse dell’innovazione. Le dichiarazioni sul “primato della persona” (e se rileggessimo Emmanuel Mounier o alcune pagine de “La condizione operaia” di Simone Weil?) e sulla valorizzazione delle risorse umane, essenziali soprattutto nelle stagioni dell’”economia della conoscenza” hanno bisogno di tradursi in strutture organizzative e regole di governance in cui la diversità sia una chiave di scelte e una leva di comportamenti e strategie. Un lavoro da portare avanti.

La nuova razionalità economica è costituita dalla valorizzazione delle differenze”, sostiene Bricco. E Andrea Notarnicola, sociologo del lavoro, autore di “Global Inclusion” (un saggio appena pubblicato da Franco Angeli) nota che “il paradigma fondato sull’inclusione rappresenta l’evoluzione delle politiche per le pari opportunità, fondate sulle quote rosa, e della responsabilità sociale d’impresa. E’ un approccio complessivo, un orientamento globale che porta ogni azienda, al suo interno e al suo esterno, a considerare le ragioni della diversità come la nuova, fondamentale leva competitiva”.

Più facile a dirsi, meno a realizzarsi. Le resistenze, nelle imprese, naturalmente non mancano. Tra le dichiarazioni di volontà e le pratiche inclusive coerentemente seguite, c’è ancora molto cammino da fare. L’importante, comunque, è che il processo sia in corso, forte anche di una robusta cornice teorica e del sostegno dei dati di successo. Ancora una conferma: secondo un’indagine dell’European Business Test Panel, effettuata su 188 imprese europee che hanno un’agenda di diversity, tutte le funzioni vengono valorizzate. Gli imprenditori e i manager consultati – nota sempre “Il Sole24Ore” – hanno evidenziato miglioramenti delle performances per il reclutamento nel 61% dei casi, per il servizio clienti nel 58%, per lo sviluppo di nuovi prodotti nel 49%, per la formazione del 45%, per l’ingresso su nuovi mercati nel 42%, per i processi manageriali nel 40% e per il coinvolgimento degli stakeholders nel 30%. Il risultato? Migliori nuove idee efficaci, maggiori efficienze organizzative, maggiori profitti. La diversity, insomma, conviene.

Anche in Italia si va avanti su questa strada. Tanto per fare solo un esempio, la Barilla ha costituito un Diversity & Inclusion Board di esperti esterni indipendenti e un Operating Committee interno, lavorando in partnership con Catalyst, Human Right Campaign e Parks. E Mariapaola Vetrucci, chief strategy officer di Barilla, sostiene: “La multiculturalità è un valore indispensabile per una multinazionale. Promuovere diversità e inclusione non significa solo ‘fare la cosa giusta’ ma anche sostenere la nostra strategia di crescita. Una forza lavoro diversa e una cultura d’impresa inclusiva accrescono l’impegno e tengono conti di una comprensione più profonda della società, indispensabile per chi come noi serve consumatori in tutto in mondo”.

Valorti e valore economico in sinergia, dunque. E’ la strada su cui lavora “Parks – Liberi e uguali”, una società fondata da Ivan Scalfarotto (parlamentare Pd e adesso sottosegretario alle Riforme nel governo Renzi), presieduta da Dario Longo e diretta da Igor Suran. Il nome viene da Rosa Parks, attività dei diritti civili negli Usa, la donna che nel 1955, a Montgomery in Alabama, aveva cominciato la protesta contro le discriminazioni contro i neri sugli autobus. La visione di fondo è chiara: “Lavorare è un gesto semplice e importante della vita come quello di prendere l’autobus, e il rifiuto di Rosa Parks di lasciare il suo posto a un’altra persona soltanto perché aveva la pelle di un altro colore ci insegna ancora oggi che il mondo può essere scosso e cambiato anche soltanto dicendo un “no” cortese ma irremovibile alla discriminazione”. Oggi di Parks sono socie imprese come Microsoft, Johnson & Johnson, Roche, Ikea, Telecom, Ibm, Barilla, Deutsche Bank e altre ancora: “La valorizzazione di ogni aspetto dell’identità individuale è un tassello indispensabile per una piena espressione del capitale umano”. Identità, diversità, competitività, appunto. Un circuito virtuoso da rafforzare.

Manifattura digitale o industriale?

Rivoluzione industriale prima, rivoluzione digitale dopo. La manifattura in mezzo. Con le sue fabbriche, gli uffici, una cultura della produzione che nasce, si evolve, cambia forma ma rimane sempre l’essenza della natura dell’imprenditore che raccoglie i fattori della produzione, li organizza, produce ricchezza. Capire cosa è accaduto e cosa sta accadendo, è utile per comprendere cosa accadrà domani. Soprattutto quando, dal generale, si guarda al particolare, ai casi pratici, al vissuto di imprese e lavoratori.

E’ quanto viene fatto da “Integrata, intelligente, digitale: il futuro della manifattura”, una raccolta di sette ricerche (con nove autori), sull’area industriale lombarda e più in generale sull’industria italiana, apparsa in Imprese & Città, la rivista della Camera di commercio di Milano (edizione Autunno 2014).

La serie di interventi è unita da un filo logico che parte da una considerazione contenuta nelle prime righe della presentazione: “La fuoriuscita dalla crisi dipenderà dall’emergere di una nuova generazione di imprenditori in grado di dare risposte innovative ai problemi che il nostro tempo pone: nuove aree di business e di prodotti offerti, nuovi modelli organizzativi, nuovi stili di consumo”.

Il ragionamento ruota appunto attorno all’unione fra tradizione e innovazione, fra vecchi e nuovi operai, tra fabbriche e laboratori digitali ed ha come perno ancora una volta l’imprenditore con il suo estro..

Fra i temi degli interventi: la “rivoluzione” digitale della manifattura, i rapporti fra ricerca e produzione, la collocazione del Made in China, i rapporti fra lavoratori e “nuove ondate tecnologiche”, la convivenza fra designer, artigiani e auto produttori. Si ragiona quindi sulla cosiddetta “produzione additiva”  e sui rapporti fra fabbriche e modalità di “produzione intelligente”, ma anche di “tragedie” industriale dei tempi moderni. Nel testo si parla naturalmente di esportazione, nuova organizzazione del lavoro, burocrazia, concorrenza, innovazione. Ma il valore aggiunto sta nel trovare insieme – su uno stesso tema -, interventi da approcci diversi, che si integrano e si compensano a vicenda. Alla base di tutto questo la convinzione “dell’effetto sistemico” dell’innovazione tecnologica.

Interessante e importante anche il saggio di Mauro Magatti (sociologico ed economista presso l’Università Cattolica di Milano), “Considerazioni intempestive per una nuova generazione di imprenditori”, che delinea una sintesi, traccia una strada utile da percorrere con le tappe date da ogni singolo intervento. Un viaggio nella cultura d’impresa odierna che fa bene a tutti.

Integrata, intelligente, digitale: il futuro della manifattura

AA.VV.

Imprese&Città, n. 04 – 2014 – Rivista della Camera di commercio di Milano (Guerini e Associati)

Rivoluzione industriale prima, rivoluzione digitale dopo. La manifattura in mezzo. Con le sue fabbriche, gli uffici, una cultura della produzione che nasce, si evolve, cambia forma ma rimane sempre l’essenza della natura dell’imprenditore che raccoglie i fattori della produzione, li organizza, produce ricchezza. Capire cosa è accaduto e cosa sta accadendo, è utile per comprendere cosa accadrà domani. Soprattutto quando, dal generale, si guarda al particolare, ai casi pratici, al vissuto di imprese e lavoratori.

E’ quanto viene fatto da “Integrata, intelligente, digitale: il futuro della manifattura”, una raccolta di sette ricerche (con nove autori), sull’area industriale lombarda e più in generale sull’industria italiana, apparsa in Imprese & Città, la rivista della Camera di commercio di Milano (edizione Autunno 2014).

La serie di interventi è unita da un filo logico che parte da una considerazione contenuta nelle prime righe della presentazione: “La fuoriuscita dalla crisi dipenderà dall’emergere di una nuova generazione di imprenditori in grado di dare risposte innovative ai problemi che il nostro tempo pone: nuove aree di business e di prodotti offerti, nuovi modelli organizzativi, nuovi stili di consumo”.

Il ragionamento ruota appunto attorno all’unione fra tradizione e innovazione, fra vecchi e nuovi operai, tra fabbriche e laboratori digitali ed ha come perno ancora una volta l’imprenditore con il suo estro..

Fra i temi degli interventi: la “rivoluzione” digitale della manifattura, i rapporti fra ricerca e produzione, la collocazione del Made in China, i rapporti fra lavoratori e “nuove ondate tecnologiche”, la convivenza fra designer, artigiani e auto produttori. Si ragiona quindi sulla cosiddetta “produzione additiva”  e sui rapporti fra fabbriche e modalità di “produzione intelligente”, ma anche di “tragedie” industriale dei tempi moderni. Nel testo si parla naturalmente di esportazione, nuova organizzazione del lavoro, burocrazia, concorrenza, innovazione. Ma il valore aggiunto sta nel trovare insieme – su uno stesso tema -, interventi da approcci diversi, che si integrano e si compensano a vicenda. Alla base di tutto questo la convinzione “dell’effetto sistemico” dell’innovazione tecnologica.

Interessante e importante anche il saggio di Mauro Magatti (sociologico ed economista presso l’Università Cattolica di Milano), “Considerazioni intempestive per una nuova generazione di imprenditori”, che delinea una sintesi, traccia una strada utile da percorrere con le tappe date da ogni singolo intervento. Un viaggio nella cultura d’impresa odierna che fa bene a tutti.

Integrata, intelligente, digitale: il futuro della manifattura

AA.VV.

Imprese&Città, n. 04 – 2014 – Rivista della Camera di commercio di Milano (Guerini e Associati)

Imprenditori, angeli o demoni?

L’imprenditore di oggi non è più quello di una volta. Anche se le radici sono le stesse, e lo spirito d’impresa parte dai medesimi presupposti. Ma è indubbio che i problemi, la velocità di cambiamento, le alternative possibili, le scelte da compiere possono essere anche molto diverse da quelle di 20 o 50 anni fa. Figura da sempre sotto la lente d’ingrandimento della società, quella dell’imprenditore è adesso anche – spesso -, messa sotto accusa. Pare passata da angelo a demone attraverso tutte le figure possibili presenti nel Purgatorio. Tanto che verrebbe da chiedersi se davvero gli imprenditori oggi servano ancora a qualcosa oppure no.

“Imprenditore: risorsa o problema? Impresa e bene comune” di Giorgio Fiorentini, Giulio Sapelli e Giorgio Vittadini ragiona proprio su tutto questo e su quanto oggi occorra ancora avere a che fare con gli imprenditori. E cerca di rispondere ad alcuni interrogativi di contorno come quanto sia  cambiata l’attività imprenditoriale negli ultimi decenni in Italia. Quale sia il ruolo dell’impresa nella società moderna. Come si pongono gli imprenditori in rapporto tradizione e innovazione. Ma anche quale significato possa avere per un imprenditore il concetto di bene comune.

Il volume ha un pregio: non è un ragionamento basato solo sulla teoria e sull’osservazione ma anche sulle testimonianze.  “Imprenditore: risorsa o problema? Impresa e bene comune”, raccoglie quindi le riflessioni di alcuni tra i principali imprenditori e manager del nostro Paese: da Oscar Farinetti a Pasquale Natuzzi, da Roberto Snaidero a Pietro Modiano a Giorgio Squinzi arrivando a Bernhard Scholz e ad altri 20 circa loro colleghi. Personaggi che possono anche far discutere, ma che rappresentando certamente esempi di uomini d’impresa di cui è utile capire cosa pensano.

Accade così che il volume si trovi a ragionare sulle profonde trasformazioni che sta vivendo l’industria italiana e a indicare alcune possibili strategie per dare vita a una ripresa economica e culturale. Partendo dalla crisi, dalle esperienze dei singoli testimoni e dai nuovi modi di fare impresa che si stanno delineando. Arrivando ad una conclusione importante: per ripartire e quindi per costruire un’economia nuova occorre mettere al centro il bene delle persone e lo sviluppo della società.

Imprenditore: risorsa o problema? Impresa e bene comune 

Giorgio Fiorentini, Giulio Sapelli, Giorgio Vittadini

Mondandori, 2014

L’imprenditore di oggi non è più quello di una volta. Anche se le radici sono le stesse, e lo spirito d’impresa parte dai medesimi presupposti. Ma è indubbio che i problemi, la velocità di cambiamento, le alternative possibili, le scelte da compiere possono essere anche molto diverse da quelle di 20 o 50 anni fa. Figura da sempre sotto la lente d’ingrandimento della società, quella dell’imprenditore è adesso anche – spesso -, messa sotto accusa. Pare passata da angelo a demone attraverso tutte le figure possibili presenti nel Purgatorio. Tanto che verrebbe da chiedersi se davvero gli imprenditori oggi servano ancora a qualcosa oppure no.

“Imprenditore: risorsa o problema? Impresa e bene comune” di Giorgio Fiorentini, Giulio Sapelli e Giorgio Vittadini ragiona proprio su tutto questo e su quanto oggi occorra ancora avere a che fare con gli imprenditori. E cerca di rispondere ad alcuni interrogativi di contorno come quanto sia  cambiata l’attività imprenditoriale negli ultimi decenni in Italia. Quale sia il ruolo dell’impresa nella società moderna. Come si pongono gli imprenditori in rapporto tradizione e innovazione. Ma anche quale significato possa avere per un imprenditore il concetto di bene comune.

Il volume ha un pregio: non è un ragionamento basato solo sulla teoria e sull’osservazione ma anche sulle testimonianze.  “Imprenditore: risorsa o problema? Impresa e bene comune”, raccoglie quindi le riflessioni di alcuni tra i principali imprenditori e manager del nostro Paese: da Oscar Farinetti a Pasquale Natuzzi, da Roberto Snaidero a Pietro Modiano a Giorgio Squinzi arrivando a Bernhard Scholz e ad altri 20 circa loro colleghi. Personaggi che possono anche far discutere, ma che rappresentando certamente esempi di uomini d’impresa di cui è utile capire cosa pensano.

Accade così che il volume si trovi a ragionare sulle profonde trasformazioni che sta vivendo l’industria italiana e a indicare alcune possibili strategie per dare vita a una ripresa economica e culturale. Partendo dalla crisi, dalle esperienze dei singoli testimoni e dai nuovi modi di fare impresa che si stanno delineando. Arrivando ad una conclusione importante: per ripartire e quindi per costruire un’economia nuova occorre mettere al centro il bene delle persone e lo sviluppo della società.

Imprenditore: risorsa o problema? Impresa e bene comune 

Giorgio Fiorentini, Giulio Sapelli, Giorgio Vittadini

Mondandori, 2014

Innovazione e sviluppo del capitale umano: ecco cosa Silicon Valley può insegnare all’Italia

Importanza dell’innovazione. Originalità dell’export. Forza straordinaria del capitale umano, proprio nell’era dell’ “economia della conoscenza“. Ecco cosa l’esperienza della Silicon Valley può insegnare al premier Matteo Renzi, in cerca di idee per rilanciare la crescita economica italiana. Lo spiega Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, in un lungo articolo pubblicato venerdì scorso da “La Stampa”, all’indomani degli incontri avuti da Renzi con la comunità scientifica italiana a San Francisco e con i top manager di tre delle maggiori imprese dell’economia digitale, Google, Yahoo e Twitter. E’ un brillante economista, Moretti. Apprezzato dal presidente Usa Barack Obama. E noto per le idee del suo recente libro, “La nuova geografia del lavoro” (pubblicato in italia da Mondadori e già raccontato in questo blog) sull’importanza dell’hi tech per generare occupazione anche nei settori dei servizi più tradizionali. Buon conoscitore delle strutture dell’economia italiana e delle ragioni del suo deficit di produttività e di competitività. E pronto a fare confronti appunto tra la Silicon Valley e l’Italia. In nome dell’innovazione. Da economista competente, sa che lo sviluppo non nasce dall’applicazione pedissequa e banale d’un modello vincente a realtà ben diverse. Ma sa anche che le idee innovative sperimentate con successo in un’area del mondo possono dare utilissime indicazioni, se adattate con intelligente flessibilità a contesti differenti. Cosa suggerisce, dunque, la California hi tech all’Italia umiliata da un ventennio di crescita piatta e da una lunga stagione di recessione?

Il primo elemento di riflessione di Moretti riguarda “il ruolo dell’industria dell’innovazione” (forza del dinamismo non solo della Silicon Valley, ma anche di altre aree urbane, da Boston a Seattle, da Austin a Washington) e “la composizione industriale del settore dell’export”. Anche se dà lavoro a meno di un terzo degli occupati Usa, è proprio l’export, dominato da settori con altissimi livelli d’innovazione, a fare da traino per tutta l’economia: “Le imprese investono molto in ricerca e sviluppo e di conseguenza producono beni e servizi unici, che nessun altro paese al mondo sa fare. La globalizzazione favorisce le imprese di questo settore, perché i paesi emergenti rappresentano non competizione, ma mercati dove vendere prodotti. Quando la Cina, il Brasile o la Polonia crescono, la domanda per i prodotti di Silicon Valley cresce, e questo vuol dire più posti di lavoro e salari più alti”. In Italia, invece, sostiene Moretti, l’export è dominato da settori tradizionali, sotto attacco da parte della concorrenza internazionale, “dal tessile ai mobili, dalle scarpe agli occhiali”. E le imprese italiane continuano purtroppo a investire pochissimo in ricerca e sviluppo, non solo rispetto alla Silicon Valley, ma anche a quasi tutti gli altri paesi europei. La stagnazione e il declino, in queste condizioni, sono inevitabili.

C’è dell’altro. Nella Silicon Valley “le imprese sono piccole, ma poi crescono. Anche se molte falliscono, una su cento esplode e diventa un gigante globale con decine di migliaia di impiegati. Le imprese italiane, invece, sono piccole e rimangono tali. Un po’ per profonde ragioni culturali, “ma anche perché la nostra legislazione del lavoro e l’alta pressione fiscale non incoraggiano la crescita”.

E ancora: “Le imprese di Silicon Valley investono molto in capitale umano, dal training in impresa ai corsi di specializzazione esterna, dal 20% di tempo dedicato a sviluppare progetti personali ai periodi sabbatici. Le imprese italiane, invece, vi investono pochissimo, con conseguenze sempre più nocive sulla produttività dei lavoratori e sulla loro capacità di creare innovazione”. Un circuito virtuoso, negli Usa: l’innovazione produce crescita, che genera risorse per finanziare altri investimenti in ricerca e innovazione e creare ricchezza e lavoro (“La creazione di valore economico dipende dal talento e dal capitale umano, come mai in passato”). Un circuito perverso, invece, da noi: bassi investimenti, scarsa ricchezza, declino, carenza di risorse e così via peggiorando.

Insiste Moretti: “La somma di tutti questi fattori spiega perché nel settore dell’export la produttività del lavoratore medio a Silicon Valley è più del doppio di quella del lavoratore medio dell’export in Italia”. Con conseguenze negative per tutto il sistema Paese: meno produttività, meno lavoro anche nel resto della manifattura e nei servizi, minori redditi, minore ricchezza.

Come ridurre dunque il divario? “Riorientando il mix settoriale italiano da paese che investe poco in innovazione e capitale umano a paese che investe molto, producendo beni e servizi innovativi”. Non si tratta, naturalmente, di copiare il mix di Silicon Valley, incentrato su Internet, software, robotica, biotech, nuovi materiali e tecnologie verdi, ma di puntare sull’innovazione proprio “nei punti d’eccellenza dell’industria italiana”. Un mix intelligente di forza della tradizione e di spinta dell’innovazione.

Responsabilità delle imprese, dunque. E dell’indispensabile salto culturale che devono saper fare (meglio: che devono continuare a fare, visto che le imprese migliori sono già orientate in questa direzione, anche se sono troppo poche per trainare tutto il resto dell’economia). Ma soprattutto responsabilità politica. Di governo. E di attori sociali organizzati (Confindustria, sindacati, etc.). Insiste Moretti. “Lo Stato deve ridurre i vincoli che impediscono al panorama italiano di crescere e modernizzarsi”. Non è che i lavoratori italiani siano meno produttivi di quelli di Silicon Valley, “perché si impegnano meno o sono meno creativi o meno intelligenti (infatti, quando si trasferiscono a Silicon Valley vanno benissimo, in molti casi meglio degli americani)”. Il problema è “l’ecosistema produttivo e gli incentivi e i disincentivi creati dal quadro normativo e fiscale”. Ecco perché servono riforme mirate a liberare energie: “E’ chiaro che senza un sistema fiscale meno punitivo per il capitale umano, senza regole del lavoro più moderne, senza un sistema giudiziario più veloce e una pubblica amministrazione meno medioevale è difficile cominciare ad attrarre investimenti esteri e stimolare investimenti interni nei settori avanzati, innovativi”.

Importanza dell’innovazione. Originalità dell’export. Forza straordinaria del capitale umano, proprio nell’era dell’ “economia della conoscenza“. Ecco cosa l’esperienza della Silicon Valley può insegnare al premier Matteo Renzi, in cerca di idee per rilanciare la crescita economica italiana. Lo spiega Enrico Moretti, professore all’università di Berkeley, in un lungo articolo pubblicato venerdì scorso da “La Stampa”, all’indomani degli incontri avuti da Renzi con la comunità scientifica italiana a San Francisco e con i top manager di tre delle maggiori imprese dell’economia digitale, Google, Yahoo e Twitter. E’ un brillante economista, Moretti. Apprezzato dal presidente Usa Barack Obama. E noto per le idee del suo recente libro, “La nuova geografia del lavoro” (pubblicato in italia da Mondadori e già raccontato in questo blog) sull’importanza dell’hi tech per generare occupazione anche nei settori dei servizi più tradizionali. Buon conoscitore delle strutture dell’economia italiana e delle ragioni del suo deficit di produttività e di competitività. E pronto a fare confronti appunto tra la Silicon Valley e l’Italia. In nome dell’innovazione. Da economista competente, sa che lo sviluppo non nasce dall’applicazione pedissequa e banale d’un modello vincente a realtà ben diverse. Ma sa anche che le idee innovative sperimentate con successo in un’area del mondo possono dare utilissime indicazioni, se adattate con intelligente flessibilità a contesti differenti. Cosa suggerisce, dunque, la California hi tech all’Italia umiliata da un ventennio di crescita piatta e da una lunga stagione di recessione?

Il primo elemento di riflessione di Moretti riguarda “il ruolo dell’industria dell’innovazione” (forza del dinamismo non solo della Silicon Valley, ma anche di altre aree urbane, da Boston a Seattle, da Austin a Washington) e “la composizione industriale del settore dell’export”. Anche se dà lavoro a meno di un terzo degli occupati Usa, è proprio l’export, dominato da settori con altissimi livelli d’innovazione, a fare da traino per tutta l’economia: “Le imprese investono molto in ricerca e sviluppo e di conseguenza producono beni e servizi unici, che nessun altro paese al mondo sa fare. La globalizzazione favorisce le imprese di questo settore, perché i paesi emergenti rappresentano non competizione, ma mercati dove vendere prodotti. Quando la Cina, il Brasile o la Polonia crescono, la domanda per i prodotti di Silicon Valley cresce, e questo vuol dire più posti di lavoro e salari più alti”. In Italia, invece, sostiene Moretti, l’export è dominato da settori tradizionali, sotto attacco da parte della concorrenza internazionale, “dal tessile ai mobili, dalle scarpe agli occhiali”. E le imprese italiane continuano purtroppo a investire pochissimo in ricerca e sviluppo, non solo rispetto alla Silicon Valley, ma anche a quasi tutti gli altri paesi europei. La stagnazione e il declino, in queste condizioni, sono inevitabili.

C’è dell’altro. Nella Silicon Valley “le imprese sono piccole, ma poi crescono. Anche se molte falliscono, una su cento esplode e diventa un gigante globale con decine di migliaia di impiegati. Le imprese italiane, invece, sono piccole e rimangono tali. Un po’ per profonde ragioni culturali, “ma anche perché la nostra legislazione del lavoro e l’alta pressione fiscale non incoraggiano la crescita”.

E ancora: “Le imprese di Silicon Valley investono molto in capitale umano, dal training in impresa ai corsi di specializzazione esterna, dal 20% di tempo dedicato a sviluppare progetti personali ai periodi sabbatici. Le imprese italiane, invece, vi investono pochissimo, con conseguenze sempre più nocive sulla produttività dei lavoratori e sulla loro capacità di creare innovazione”. Un circuito virtuoso, negli Usa: l’innovazione produce crescita, che genera risorse per finanziare altri investimenti in ricerca e innovazione e creare ricchezza e lavoro (“La creazione di valore economico dipende dal talento e dal capitale umano, come mai in passato”). Un circuito perverso, invece, da noi: bassi investimenti, scarsa ricchezza, declino, carenza di risorse e così via peggiorando.

Insiste Moretti: “La somma di tutti questi fattori spiega perché nel settore dell’export la produttività del lavoratore medio a Silicon Valley è più del doppio di quella del lavoratore medio dell’export in Italia”. Con conseguenze negative per tutto il sistema Paese: meno produttività, meno lavoro anche nel resto della manifattura e nei servizi, minori redditi, minore ricchezza.

Come ridurre dunque il divario? “Riorientando il mix settoriale italiano da paese che investe poco in innovazione e capitale umano a paese che investe molto, producendo beni e servizi innovativi”. Non si tratta, naturalmente, di copiare il mix di Silicon Valley, incentrato su Internet, software, robotica, biotech, nuovi materiali e tecnologie verdi, ma di puntare sull’innovazione proprio “nei punti d’eccellenza dell’industria italiana”. Un mix intelligente di forza della tradizione e di spinta dell’innovazione.

Responsabilità delle imprese, dunque. E dell’indispensabile salto culturale che devono saper fare (meglio: che devono continuare a fare, visto che le imprese migliori sono già orientate in questa direzione, anche se sono troppo poche per trainare tutto il resto dell’economia). Ma soprattutto responsabilità politica. Di governo. E di attori sociali organizzati (Confindustria, sindacati, etc.). Insiste Moretti. “Lo Stato deve ridurre i vincoli che impediscono al panorama italiano di crescere e modernizzarsi”. Non è che i lavoratori italiani siano meno produttivi di quelli di Silicon Valley, “perché si impegnano meno o sono meno creativi o meno intelligenti (infatti, quando si trasferiscono a Silicon Valley vanno benissimo, in molti casi meglio degli americani)”. Il problema è “l’ecosistema produttivo e gli incentivi e i disincentivi creati dal quadro normativo e fiscale”. Ecco perché servono riforme mirate a liberare energie: “E’ chiaro che senza un sistema fiscale meno punitivo per il capitale umano, senza regole del lavoro più moderne, senza un sistema giudiziario più veloce e una pubblica amministrazione meno medioevale è difficile cominciare ad attrarre investimenti esteri e stimolare investimenti interni nei settori avanzati, innovativi”.

Quando l’impresa fa bene al territorio

Le imprese possono creare benessere per il territorio. E non si tratta solamente di una questione economica, ma anche dal’altro. E’ un percorso difficile – quello che unisce profitto e benessere, territorio e impresa -, che vale la pena però osservare, studiare e, dove possibile, intraprendere. Esperienze che, a ben vedere, non sono dell’oggi ma possono essere fatte risalire a decenni indietro, quelle dell’industria che “fa bene” ad un territorio possono essere reperite anche in Italia. Nulla di perfetto e tutto di perfettibile, ciò che accade quando un’impresa incontro in maniera positiva un territorio e  la sua comunità, è comunque interessante da analizzare. E può insegnare molto.

Per questo è utile leggere il rapporto “Welfare e Ben-essere: il ruolo delle imprese nello sviluppo della comunità” che l’ Assessorato alla Promozione delle politiche sociali e di integrazione per l’immigrazione,  volontariato, associazionismo e Terzo Settore Regione Emilia-Romagna ha  pubblicato recentemente. Si tratta di un lavoro a più voci e a più mani (che gioca in maniera interessante fin dal titolo sul tema), e che parte da una considerazione: “La creazione di un nuovo modello di welfare passa necessariamente attraverso il coinvolgimento di più soggetti territoriali che contribuiscono alla messa a punto di risposte originali rispondenti ai bisogni emergenti. Tra gli attori più significativi, oltre al pubblico e al Terzo Settore, sicuramente le imprese giocano e possono giocare un ruolo determinante”.

La ricerca (che è stata svolta  anche con il contributo di CNA, Confindustria e Unioncamere), ha quindi l’obiettivo di “di conoscere e valorizzare l’apporto dei soggetti altri rispetto alla Pubblica Amministrazione e di come questi contribuiscano alla creazione di servizi di welfare. Ciò soprattutto in riferimento al mondo del for profit”. Il succo dell’indagine è stato una vera ricerca sul campo dell’industria regionale che dall’intero universo delle imprese è arrivata a isolare sette casi da analizzare da vicino a loro volta, costituiti da esperienze fra aziende a tutto tondo e attori del territorio dedicati al sociale. Si è trattato, di volta in volta, di esperienze legate all’educazione alimentare (“Non congelateci il sorriso”), al cosiddetto “volontariato d’impresa” in comparti ad alta tecnologia (“VolontAriamo”), al soddisfacimento delle necessità di sussistenza della popolazione disagiata (“Portobello”, “Emporio di Parma” e “Cibo Amico”), al recupero di produzioni tradizionali (“Alici per gli amici”), al lavoro con persone disabili (“L’antiBARriera”).

Ogni volta la cultura d’impresa si è estesa al territorio circostante, fondendosi con le necessità dello stesso e scambiando informazioni e spunti di sviluppo.

“Il punto di riferimento teorico – dice ancora l’indagine – è quello di valore condiviso”, cioè una “nuova modalità per perseguire obiettivi di natura economica mettendo al centro anche quelli di natura sociale”. Ne nasce così l’immagine di un’impresa diversa dallo stereotipo fondato solo sul profitto. “L’impresa che assume alla base del suo agire il concetto di valore condiviso – viene spiegato nel testo -, mette in campo le strategie, le tecnologie ed i processi atti a coinvolgere sistematicamente tutti gli individui che compongono il proprio ecosistema (dipendenti, clienti, partner, fornitori), nella massimizzazione del valore scambiato”. Niente buonismi, quindi, ma qualcosa di diverso, più completo, più alto.

Welfare e Ben-essere: il ruolo delle imprese nello sviluppo della comunità

AA.VV.

Assessorato Promozione delle politiche sociali e di integrazione per l’immigrazione,  volontariato, associazionismo e Terzo Settore Regione Emilia-Romagna

Bologna, agosto 2014

Le imprese possono creare benessere per il territorio. E non si tratta solamente di una questione economica, ma anche dal’altro. E’ un percorso difficile – quello che unisce profitto e benessere, territorio e impresa -, che vale la pena però osservare, studiare e, dove possibile, intraprendere. Esperienze che, a ben vedere, non sono dell’oggi ma possono essere fatte risalire a decenni indietro, quelle dell’industria che “fa bene” ad un territorio possono essere reperite anche in Italia. Nulla di perfetto e tutto di perfettibile, ciò che accade quando un’impresa incontro in maniera positiva un territorio e  la sua comunità, è comunque interessante da analizzare. E può insegnare molto.

Per questo è utile leggere il rapporto “Welfare e Ben-essere: il ruolo delle imprese nello sviluppo della comunità” che l’ Assessorato alla Promozione delle politiche sociali e di integrazione per l’immigrazione,  volontariato, associazionismo e Terzo Settore Regione Emilia-Romagna ha  pubblicato recentemente. Si tratta di un lavoro a più voci e a più mani (che gioca in maniera interessante fin dal titolo sul tema), e che parte da una considerazione: “La creazione di un nuovo modello di welfare passa necessariamente attraverso il coinvolgimento di più soggetti territoriali che contribuiscono alla messa a punto di risposte originali rispondenti ai bisogni emergenti. Tra gli attori più significativi, oltre al pubblico e al Terzo Settore, sicuramente le imprese giocano e possono giocare un ruolo determinante”.

La ricerca (che è stata svolta  anche con il contributo di CNA, Confindustria e Unioncamere), ha quindi l’obiettivo di “di conoscere e valorizzare l’apporto dei soggetti altri rispetto alla Pubblica Amministrazione e di come questi contribuiscano alla creazione di servizi di welfare. Ciò soprattutto in riferimento al mondo del for profit”. Il succo dell’indagine è stato una vera ricerca sul campo dell’industria regionale che dall’intero universo delle imprese è arrivata a isolare sette casi da analizzare da vicino a loro volta, costituiti da esperienze fra aziende a tutto tondo e attori del territorio dedicati al sociale. Si è trattato, di volta in volta, di esperienze legate all’educazione alimentare (“Non congelateci il sorriso”), al cosiddetto “volontariato d’impresa” in comparti ad alta tecnologia (“VolontAriamo”), al soddisfacimento delle necessità di sussistenza della popolazione disagiata (“Portobello”, “Emporio di Parma” e “Cibo Amico”), al recupero di produzioni tradizionali (“Alici per gli amici”), al lavoro con persone disabili (“L’antiBARriera”).

Ogni volta la cultura d’impresa si è estesa al territorio circostante, fondendosi con le necessità dello stesso e scambiando informazioni e spunti di sviluppo.

“Il punto di riferimento teorico – dice ancora l’indagine – è quello di valore condiviso”, cioè una “nuova modalità per perseguire obiettivi di natura economica mettendo al centro anche quelli di natura sociale”. Ne nasce così l’immagine di un’impresa diversa dallo stereotipo fondato solo sul profitto. “L’impresa che assume alla base del suo agire il concetto di valore condiviso – viene spiegato nel testo -, mette in campo le strategie, le tecnologie ed i processi atti a coinvolgere sistematicamente tutti gli individui che compongono il proprio ecosistema (dipendenti, clienti, partner, fornitori), nella massimizzazione del valore scambiato”. Niente buonismi, quindi, ma qualcosa di diverso, più completo, più alto.

Welfare e Ben-essere: il ruolo delle imprese nello sviluppo della comunità

AA.VV.

Assessorato Promozione delle politiche sociali e di integrazione per l’immigrazione,  volontariato, associazionismo e Terzo Settore Regione Emilia-Romagna

Bologna, agosto 2014

La via cinese per uomini d’impresa

Per vincere la concorrenza occorre capirla. Per fare affari – buoni – con un altro Paese occorre comprenderlo. Anche oggi, anche nel XXI Secolo. Lo sanno bene i più avveduti uomini d’azienda: la buona cultura d’impresa non si rivolge solo al suo interno, ma guarda fuori, anche molto lontano. Il “conoscere per deliberare” di Luigi Einaudi vale anche oggi, e anche per le imprese per le quali diventa “conoscere per gestire bene”.

Tutto questo conta anche per i mercati esteri. E’ allora importante – come esempio generale e come caso particolare -, leggere “The Chinese Way” di Min Ding e Jie Xu (rispettivamente Smeal Professor di  Marketing and Innovazione alla Pennsylvania State University e Ricercatore Associato all’Institute for Sustainable Innovation and Growth della Fudan University in Cina). Il volume racconta di tutti gli aspetti della cultura cinese che hanno anche fare in qualche modo con l’attività d’impresa. L’obiettivo del volume – spiegano i due autori -, è quello di fornire gli elementi per creare “un ponte culturale tra due mondi” collocando temi sociali, politici ed economici in un contesto storico e culturale preciso e chiaro. Perché se la Cina è ancora oggi uno dei Paesi con un ruolo crescente nell’ambito dell’economia mondiale, la sua realtà indica quanto sia importante avvicinarsi ad essa in maniera corretta per poter pensare di creare rapporti commerciali e produttivi con serie prospettive di crescita.

Ogni capitolo, quindi, fornisce una valutazione onesta dei punti di forza e di debolezza della Cina di oggi e una prospettiva realistica per i prossimi anni. L’obiettivo, raggiunto, è quello di fornire un quadro di riferimento che consenta agli “occidentali” di costruire relazioni basate su una profonda comprensione culturale.

Anche l’approccio è originale. Il libro, infatti, tocca 51 argomenti che sarebbero stati studiati se la Cina fosse una civiltà appena scoperta. Come antropologi che si accostano con rispetto ad una “nuova” civiltà, i due ricercatori così toccano argomenti come i costumi e le tradizioni, la struttura sociale cinese, l’organizzazione della famiglia, i principi ispirano l’agire sociale, la particolare visione del mondo, gli aspetti religiosi ancora presenti, l’approccio alle arti, il sistema di governo e quello economico, i meccanismi della comunicazione e dell’educazione.

Insomma, la fatica di lunga circa 360 pagine di  Min Ding e Jie Xu è interessante da leggere, utile come guida di viaggio e d’affari per molti. Insegna a guardare con attenzione alla complessità della cultura, per rendere ancora più completa la propria cultura d’impresa e personale.

The Chinese Way

Min Ding, Jie Xu

Routledge, 2014

Per vincere la concorrenza occorre capirla. Per fare affari – buoni – con un altro Paese occorre comprenderlo. Anche oggi, anche nel XXI Secolo. Lo sanno bene i più avveduti uomini d’azienda: la buona cultura d’impresa non si rivolge solo al suo interno, ma guarda fuori, anche molto lontano. Il “conoscere per deliberare” di Luigi Einaudi vale anche oggi, e anche per le imprese per le quali diventa “conoscere per gestire bene”.

Tutto questo conta anche per i mercati esteri. E’ allora importante – come esempio generale e come caso particolare -, leggere “The Chinese Way” di Min Ding e Jie Xu (rispettivamente Smeal Professor di  Marketing and Innovazione alla Pennsylvania State University e Ricercatore Associato all’Institute for Sustainable Innovation and Growth della Fudan University in Cina). Il volume racconta di tutti gli aspetti della cultura cinese che hanno anche fare in qualche modo con l’attività d’impresa. L’obiettivo del volume – spiegano i due autori -, è quello di fornire gli elementi per creare “un ponte culturale tra due mondi” collocando temi sociali, politici ed economici in un contesto storico e culturale preciso e chiaro. Perché se la Cina è ancora oggi uno dei Paesi con un ruolo crescente nell’ambito dell’economia mondiale, la sua realtà indica quanto sia importante avvicinarsi ad essa in maniera corretta per poter pensare di creare rapporti commerciali e produttivi con serie prospettive di crescita.

Ogni capitolo, quindi, fornisce una valutazione onesta dei punti di forza e di debolezza della Cina di oggi e una prospettiva realistica per i prossimi anni. L’obiettivo, raggiunto, è quello di fornire un quadro di riferimento che consenta agli “occidentali” di costruire relazioni basate su una profonda comprensione culturale.

Anche l’approccio è originale. Il libro, infatti, tocca 51 argomenti che sarebbero stati studiati se la Cina fosse una civiltà appena scoperta. Come antropologi che si accostano con rispetto ad una “nuova” civiltà, i due ricercatori così toccano argomenti come i costumi e le tradizioni, la struttura sociale cinese, l’organizzazione della famiglia, i principi ispirano l’agire sociale, la particolare visione del mondo, gli aspetti religiosi ancora presenti, l’approccio alle arti, il sistema di governo e quello economico, i meccanismi della comunicazione e dell’educazione.

Insomma, la fatica di lunga circa 360 pagine di  Min Ding e Jie Xu è interessante da leggere, utile come guida di viaggio e d’affari per molti. Insegna a guardare con attenzione alla complessità della cultura, per rendere ancora più completa la propria cultura d’impresa e personale.

The Chinese Way

Min Ding, Jie Xu

Routledge, 2014

Pirelli e la musica, quando arrivò a suonare John Cage…

C’è un solido rapporto, tra Pirelli e la grande musica. Oggi, i “concerti in fabbrica” a Settimo Torinese (quest’anno alla terza edizione, con l’esecuzione della Prima e della Settima Sinfonia di Beethoven) e con l’ospitalità per le prove dell’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo e per il sostegno all’Orchestra Verdi.

Ma, appena ieri, nel cuore degli anni Cinquanta di grandi innovazioni e trasformazioni culturali in Italia e in Europa, con il dialogo con un musicista d’avanguardia: John Cage. Personaggio straordinario, il musicista americano. Molti lo ricorderanno come autore del rivoluzionario brano 4’33” – il totale dei minuti di silenzio. Altri per aver partecipato a “Lascia o raddoppia?” di Mike Bongiorno come esperto di funghi. Altri ancora, per aver fatto scalpore con un concerto per caffettiere. Di certo è un personaggio che rompe il conformismo, innova, lascia il segno.

Siamo nel 1954 e John Cage, compositore e teorico musicale di Los Angeles, tra i più importanti protagonisti dell’avanguardia musicale e figura chiave del Ventesimo secolo, in Italia è ancora quasi del tutto sconosciuto. La sua musica è considerata dai più eccentrica e “scandalosa”. Nel corso della sua prima “tournée” europea è chiamato ad esibirsi al Centro Culturale Pirelli, uno dei luoghi più vivi ed interessanti della cultura cittadina di quegli anni. E’ la prima apparizione pubblica italiana del musicista statunitense. Una scelta “coraggiosa” da parte di Pirelli e di Gino Negri, allora curatore della programmazione musicale del Centro Culturale Pirelli, sollecitato dal compositore Luciano Berio. E’ il 5 novembre e nella sala della Brusada – sede del Centro prima del trasferimento nel 1960 al Grattacielo Pirelli – John Cage e l’inseparabile compagno di viaggio David Tudor si esibiscono in un concerto per pianoforti preparati. Viti, biglie, cucchiaini, pinze per biancheria, cannucce di bambù, ingranaggi di orologeria, e altri oggetti applicati sulle corde dei due pianoforti producono suoni dagli effetti timbrici completamente inediti. Ad introdurre il concerto il musicologo Riccardo Malpiero. Le musiche in programma sono di John Cage, Morton Feldmann, Cristian Wolff, Earle Brown. Il pubblico, “uno dei pubblici indiscutibilmente più preparati della città” rimane a bocca aperta: fioccano applausi e polemiche. Un evento musicale d’eccezione che apre le porte alla ricezione in Italia dell’esperienza cageiana.

C’è un solido rapporto, tra Pirelli e la grande musica. Oggi, i “concerti in fabbrica” a Settimo Torinese (quest’anno alla terza edizione, con l’esecuzione della Prima e della Settima Sinfonia di Beethoven) e con l’ospitalità per le prove dell’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo e per il sostegno all’Orchestra Verdi.

Ma, appena ieri, nel cuore degli anni Cinquanta di grandi innovazioni e trasformazioni culturali in Italia e in Europa, con il dialogo con un musicista d’avanguardia: John Cage. Personaggio straordinario, il musicista americano. Molti lo ricorderanno come autore del rivoluzionario brano 4’33” – il totale dei minuti di silenzio. Altri per aver partecipato a “Lascia o raddoppia?” di Mike Bongiorno come esperto di funghi. Altri ancora, per aver fatto scalpore con un concerto per caffettiere. Di certo è un personaggio che rompe il conformismo, innova, lascia il segno.

Siamo nel 1954 e John Cage, compositore e teorico musicale di Los Angeles, tra i più importanti protagonisti dell’avanguardia musicale e figura chiave del Ventesimo secolo, in Italia è ancora quasi del tutto sconosciuto. La sua musica è considerata dai più eccentrica e “scandalosa”. Nel corso della sua prima “tournée” europea è chiamato ad esibirsi al Centro Culturale Pirelli, uno dei luoghi più vivi ed interessanti della cultura cittadina di quegli anni. E’ la prima apparizione pubblica italiana del musicista statunitense. Una scelta “coraggiosa” da parte di Pirelli e di Gino Negri, allora curatore della programmazione musicale del Centro Culturale Pirelli, sollecitato dal compositore Luciano Berio. E’ il 5 novembre e nella sala della Brusada – sede del Centro prima del trasferimento nel 1960 al Grattacielo Pirelli – John Cage e l’inseparabile compagno di viaggio David Tudor si esibiscono in un concerto per pianoforti preparati. Viti, biglie, cucchiaini, pinze per biancheria, cannucce di bambù, ingranaggi di orologeria, e altri oggetti applicati sulle corde dei due pianoforti producono suoni dagli effetti timbrici completamente inediti. Ad introdurre il concerto il musicologo Riccardo Malpiero. Le musiche in programma sono di John Cage, Morton Feldmann, Cristian Wolff, Earle Brown. Il pubblico, “uno dei pubblici indiscutibilmente più preparati della città” rimane a bocca aperta: fioccano applausi e polemiche. Un evento musicale d’eccezione che apre le porte alla ricezione in Italia dell’esperienza cageiana.

Film e mostre di fotografie per passare dalla “zuppa del demonio” alla “manufacturing renaissance”

La zuppa del demonio”. Era la suggestiva definizione che Dino Buzzati, grande scrittore e sofisticato giornalista, aveva usato per un suo commento a un cortometraggio del 1964 sugli altoforni dell’Italsider (poi Ilva, a Taranto). La “zuppa del demonio” e cioè la colata d’acciaio fuso. Simbolo, all’epoca, di modernità e di progresso, industria e lavoro, nell’Italia del boom economico. Adesso, quella frase fa da titolo al bel documentario che Davide Ferrario ha dedicato all’industrializzazione italiana del Novecento, presentato al Festival del Cinema di Venezia e poi mandato in giro nelle sale cinematografiche delle grandi città. E’ un documentario essenziale, costruito sui materiali custoditi dall’Archivio Nazionale di Cinema d’Impresa di Ivrea, diretto da Sergio Toffetti (che ospita anche opere di Olmi, Risi, Antonioni, Vancini, Camerini, Ferrara). E racconta le speranze e le illusioni d’una stagione dell’economia che ha avuto proprio la fabbrica come luogo centrale, tra sogni e miti industriali, speranze e conflitti, progetti ambiziosi e grandi svolte tecnologiche (le auto Fiat, i prodotti hi tech Olivetti, la gomma Pirelli, l’energia dell’Eni e dell’Enel, le plastiche Moplen della Montecatini, le meccaniche Ansaldo, gli elettrodomestici Ignis, la pasta Barilla, etc.). “Per lungo tempo – spiega Ferrario – l’idea che la tecnica e il progresso avrebbero reso migliore il mondo ha accompagnato la mia generazione, nata durante il miracolo economico”. E con il suo documentario ha provato “a restituire il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spericolata verso il futuro, che è proprio ciò di cui sentiamo la mancanza oggi. Non per macerarsi nella nostalgia, ma per capire come siamo arrivati dove siamo ora”.

Quell’Italia industriale ormai non c’è più. Sparite le grandi fabbriche, tramontate molte delle dinastie industriali, subìta la sconfitta di una “industrializzazione senza sviluppo” (soprattutto nel Mezzogiorno, nei poli petrolchimici, nei giganteschi impianti siderurgici, sino alla drammatica crisi attuale dell’Ilva), oggi il panorama economico italiano parla di crisi, ma anche di trasformazioni. La fabbrica tradizionale, buia, pericolosa, sporca, inquinante, dura, ha lasciato il posto a una “neo-fabbrica” segnata da produzioni digitali, impianti ad alta automazione, laboratori di ricerca collegati ai Politecnici delle università, energia pulita, servizi sofisticati, strutture di produzione all’avanguardia per sicurezza e sostenibilità ambientale. E l’Italia, nonostante abbia perso negli anni della Grande Crisi il 25% della sua capacità produttiva, resta pur sempre il secondo paese manifatturiero della Ue, dopo la Germania, con una robusta presenza export. Rileggere il nostro passato industriale, anche con gli occhi critici di un regista come Davide Ferrario, ci aiuta a capire non solo quel che siamo stati e “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma anche quali orizzonti è possibile intravvedere. Per passare cioè, criticamente, dalla “zuppa del demonio” alla “manufacturing renaissance”, al rilancio dell’industria di qualità.

E’ proprio questo, il senso dell’impegno sulla memoria di fondazioni d’impresa e archivi storici (la Fondazione Pirelli ne è all’avanguardia da tempo), associazioni come Museimpresa di Confindustria e il Centro per la cultura d’impresa (su impulso di Camera di Commercio di Milano e Assolombarda), l’Isec di Sesto San Giovanni e l’Ismel di Torino (l’archivio sul lavoro e le fabbriche nato dalla collaborazione tra Comune, Fondazione Gramsci, Istituto Salvemini, Unione Industriali, Archivio Fiat e sindacati Cgil, Cisl e Uil) e le tante strutture che imprese medie e piccole hanno dedicato al recupero e alla valorizzazione della loro storia. Non un gioco dell’amarcord, tentazione di nostalgie. Ma l’orgoglio della proprio identità. Vanno proprio in tale direzione, per esempio, la mostra “Scatti di industria, 160 anni di immagini dalla Fototeca Ansaldo”, a Palazzo Ducale di Genova (inaugurata nell’ottobre 2013), turbine e caldaie, fonderie e grandi impianti, navi e treni, il “saper fare” della meccanica italiana apprezzata nel mondo. O la rassegna d’immagini sul mondo del lavoro organizzata (febbraio 2014) alla Fondazione Mast di Bologna, curata da Urs Stahel e voluta da un’imprenditrice attenta alle sinergie tra industria d’eccellenza, lavoro e welfare, come Isabella Seragnoli (Gruppo Coesia, meccanica d’avanguardia): un confronto tra vecchi e nuovi mondi della produzione e dei servizi (“Un tempo i macchinari erano qualcosa di imponente, rumoroso e sovrastante, oggi gli strumenti di produzione sono enigmatici e sovente quasi invisibili”). O ancora la recente raccolta “Foto Industria”, 17 piccoli volumi editi da Contrasto che raccontano il mondo del lavoro con gli scatti di grandi autori, da Henri Cartier-Bresson a Elliott Erwitt, da Robert Doisneau a Gabriele Basilico, etc. Fabbriche e uffici, cantieri e laboratori, macchine e persone. Immagini di una civiltà industriale che vive, declina, cambia. Da rimemorare. Un vero e proprio patrimonio, di intelligenza e lavoro, cui dare spazio, da far vivere e fare durare, dunque rilanciare.

La zuppa del demonio”. Era la suggestiva definizione che Dino Buzzati, grande scrittore e sofisticato giornalista, aveva usato per un suo commento a un cortometraggio del 1964 sugli altoforni dell’Italsider (poi Ilva, a Taranto). La “zuppa del demonio” e cioè la colata d’acciaio fuso. Simbolo, all’epoca, di modernità e di progresso, industria e lavoro, nell’Italia del boom economico. Adesso, quella frase fa da titolo al bel documentario che Davide Ferrario ha dedicato all’industrializzazione italiana del Novecento, presentato al Festival del Cinema di Venezia e poi mandato in giro nelle sale cinematografiche delle grandi città. E’ un documentario essenziale, costruito sui materiali custoditi dall’Archivio Nazionale di Cinema d’Impresa di Ivrea, diretto da Sergio Toffetti (che ospita anche opere di Olmi, Risi, Antonioni, Vancini, Camerini, Ferrara). E racconta le speranze e le illusioni d’una stagione dell’economia che ha avuto proprio la fabbrica come luogo centrale, tra sogni e miti industriali, speranze e conflitti, progetti ambiziosi e grandi svolte tecnologiche (le auto Fiat, i prodotti hi tech Olivetti, la gomma Pirelli, l’energia dell’Eni e dell’Enel, le plastiche Moplen della Montecatini, le meccaniche Ansaldo, gli elettrodomestici Ignis, la pasta Barilla, etc.). “Per lungo tempo – spiega Ferrario – l’idea che la tecnica e il progresso avrebbero reso migliore il mondo ha accompagnato la mia generazione, nata durante il miracolo economico”. E con il suo documentario ha provato “a restituire il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spericolata verso il futuro, che è proprio ciò di cui sentiamo la mancanza oggi. Non per macerarsi nella nostalgia, ma per capire come siamo arrivati dove siamo ora”.

Quell’Italia industriale ormai non c’è più. Sparite le grandi fabbriche, tramontate molte delle dinastie industriali, subìta la sconfitta di una “industrializzazione senza sviluppo” (soprattutto nel Mezzogiorno, nei poli petrolchimici, nei giganteschi impianti siderurgici, sino alla drammatica crisi attuale dell’Ilva), oggi il panorama economico italiano parla di crisi, ma anche di trasformazioni. La fabbrica tradizionale, buia, pericolosa, sporca, inquinante, dura, ha lasciato il posto a una “neo-fabbrica” segnata da produzioni digitali, impianti ad alta automazione, laboratori di ricerca collegati ai Politecnici delle università, energia pulita, servizi sofisticati, strutture di produzione all’avanguardia per sicurezza e sostenibilità ambientale. E l’Italia, nonostante abbia perso negli anni della Grande Crisi il 25% della sua capacità produttiva, resta pur sempre il secondo paese manifatturiero della Ue, dopo la Germania, con una robusta presenza export. Rileggere il nostro passato industriale, anche con gli occhi critici di un regista come Davide Ferrario, ci aiuta a capire non solo quel che siamo stati e “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, ma anche quali orizzonti è possibile intravvedere. Per passare cioè, criticamente, dalla “zuppa del demonio” alla “manufacturing renaissance”, al rilancio dell’industria di qualità.

E’ proprio questo, il senso dell’impegno sulla memoria di fondazioni d’impresa e archivi storici (la Fondazione Pirelli ne è all’avanguardia da tempo), associazioni come Museimpresa di Confindustria e il Centro per la cultura d’impresa (su impulso di Camera di Commercio di Milano e Assolombarda), l’Isec di Sesto San Giovanni e l’Ismel di Torino (l’archivio sul lavoro e le fabbriche nato dalla collaborazione tra Comune, Fondazione Gramsci, Istituto Salvemini, Unione Industriali, Archivio Fiat e sindacati Cgil, Cisl e Uil) e le tante strutture che imprese medie e piccole hanno dedicato al recupero e alla valorizzazione della loro storia. Non un gioco dell’amarcord, tentazione di nostalgie. Ma l’orgoglio della proprio identità. Vanno proprio in tale direzione, per esempio, la mostra “Scatti di industria, 160 anni di immagini dalla Fototeca Ansaldo”, a Palazzo Ducale di Genova (inaugurata nell’ottobre 2013), turbine e caldaie, fonderie e grandi impianti, navi e treni, il “saper fare” della meccanica italiana apprezzata nel mondo. O la rassegna d’immagini sul mondo del lavoro organizzata (febbraio 2014) alla Fondazione Mast di Bologna, curata da Urs Stahel e voluta da un’imprenditrice attenta alle sinergie tra industria d’eccellenza, lavoro e welfare, come Isabella Seragnoli (Gruppo Coesia, meccanica d’avanguardia): un confronto tra vecchi e nuovi mondi della produzione e dei servizi (“Un tempo i macchinari erano qualcosa di imponente, rumoroso e sovrastante, oggi gli strumenti di produzione sono enigmatici e sovente quasi invisibili”). O ancora la recente raccolta “Foto Industria”, 17 piccoli volumi editi da Contrasto che raccontano il mondo del lavoro con gli scatti di grandi autori, da Henri Cartier-Bresson a Elliott Erwitt, da Robert Doisneau a Gabriele Basilico, etc. Fabbriche e uffici, cantieri e laboratori, macchine e persone. Immagini di una civiltà industriale che vive, declina, cambia. Da rimemorare. Un vero e proprio patrimonio, di intelligenza e lavoro, cui dare spazio, da far vivere e fare durare, dunque rilanciare.

Spiritualità d’impresa

L’impresa esiste per produrre profitti. Questo, almeno, dice l’economia tradizionale. L’impresa però può esistere anche per dare vita ad altro che non sia produzione, profitto, salari e buoni bilanci. Ci possono essere, e spesso ci sono, attenzione agli altri, cura dell’ambiente, produzione di cultura, creazione di un’organizzazione sociale che non sia finalizzata solamente alla produzione materiale ma anche ad altro. Coniugare tutto questo non è facile. Ma ci si può provare. Iniziando a ragionare su cosa accade quando valori materiali e produttivi si uniscono ad altri immateriali e spirituali.

E’ quello che ha fatto Matthew Brophy della High Point University di Greensboro in North Carolina con un articolo pubblicato adesso sul Journal of business ethics.

“Spirituality Incorporated: Including Convergent Spiritual Values in Business” parte da una constatazione: le aziende spesso escludono i valori spirituali dall’ambito della loro attività e vedono tali valori “come – spiega l’autore -, imposizioni che appartengono agli affari tanto quanto un sacerdote appartiene ad una festa di laurea”. E, in effetti, l’unione dei principi di bilancio con quelli dell’etica può dare spazio ad incomprensioni e stravolgimenti dell’attività aziendale che possono arrivare anche a conclusioni letali per l’impresa stessa.

Ma Brophy continua argomentando come la spiritualità non debba “essere vista come un’imposizione dall’esterno”, ma come qualcosa che nasce all’interno dell’impresa. E’, a ben vedere, un passaggio molto vicino a quello che spiega lo spirito imprenditoriale: qualcosa che fa scattare la nascita dell’impresa e che ha molto di immateriale.

Non è però tutto così automatico e scontato. Brophy, infatti, dice: “I valori spirituali devono essere inclusi in una società nella misura in cui questi valori sono condivisi dai titolari della stessa”. Non ci deve essere nessuna imposizione. Tenendo però conto che “l’esclusione di tali valori da un’impresa, rischia di alienare le persone dalla loro integrità morale”. L’equilibrio è poi difficile da raggiungere e precario da mantenere. Occorre, secondo Brophy, coltivare una “immaginazione spirituale” attraverso la quale le imprese possono far convergere la propria azione con la cultura e il sentire della società in cui agiscono. E mantenere sani i propri bilanci.

Spirituality Incorporated: Including Convergent Spiritual Values in Business

Matthew Brophy

Journal of business ethics, settembre 2014

L’impresa esiste per produrre profitti. Questo, almeno, dice l’economia tradizionale. L’impresa però può esistere anche per dare vita ad altro che non sia produzione, profitto, salari e buoni bilanci. Ci possono essere, e spesso ci sono, attenzione agli altri, cura dell’ambiente, produzione di cultura, creazione di un’organizzazione sociale che non sia finalizzata solamente alla produzione materiale ma anche ad altro. Coniugare tutto questo non è facile. Ma ci si può provare. Iniziando a ragionare su cosa accade quando valori materiali e produttivi si uniscono ad altri immateriali e spirituali.

E’ quello che ha fatto Matthew Brophy della High Point University di Greensboro in North Carolina con un articolo pubblicato adesso sul Journal of business ethics.

“Spirituality Incorporated: Including Convergent Spiritual Values in Business” parte da una constatazione: le aziende spesso escludono i valori spirituali dall’ambito della loro attività e vedono tali valori “come – spiega l’autore -, imposizioni che appartengono agli affari tanto quanto un sacerdote appartiene ad una festa di laurea”. E, in effetti, l’unione dei principi di bilancio con quelli dell’etica può dare spazio ad incomprensioni e stravolgimenti dell’attività aziendale che possono arrivare anche a conclusioni letali per l’impresa stessa.

Ma Brophy continua argomentando come la spiritualità non debba “essere vista come un’imposizione dall’esterno”, ma come qualcosa che nasce all’interno dell’impresa. E’, a ben vedere, un passaggio molto vicino a quello che spiega lo spirito imprenditoriale: qualcosa che fa scattare la nascita dell’impresa e che ha molto di immateriale.

Non è però tutto così automatico e scontato. Brophy, infatti, dice: “I valori spirituali devono essere inclusi in una società nella misura in cui questi valori sono condivisi dai titolari della stessa”. Non ci deve essere nessuna imposizione. Tenendo però conto che “l’esclusione di tali valori da un’impresa, rischia di alienare le persone dalla loro integrità morale”. L’equilibrio è poi difficile da raggiungere e precario da mantenere. Occorre, secondo Brophy, coltivare una “immaginazione spirituale” attraverso la quale le imprese possono far convergere la propria azione con la cultura e il sentire della società in cui agiscono. E mantenere sani i propri bilanci.

Spirituality Incorporated: Including Convergent Spiritual Values in Business

Matthew Brophy

Journal of business ethics, settembre 2014

Buona impresa, buon manager, buona cultura

Si sa, in Italia e non solo deve ancora crescere, e molto, la cultura d’impresa. E deve anche crescere la consapevolezza dell’importanza della preparazione dei manager che devono governare, insieme agli imprenditori, le sorti delle aziende. Perché governare uomini e produzioni non è facile. Soprattutto in tempi turbolenti come questi. E non bastano certo preparazione tecnica ed economica per fare un buon manager. Occorrono anche profondità culturale e attenzione umana.

E’ bello, allora, leggere “Il minimario del bravo manager”  un volumetto che Ercole P. Pellicanò – manager anch’egli e uomo di cultura -, ha scritto per venire in soccorso ai colleghi alle prese con organizzazioni complesse e mercati difficili. Il libro – rigorosamente in formato elettronico -, si legge d’un fiato e si deve rileggere. L’obiettivo, anche attraverso la sintesi dell’aforisma, è quello di fornire le conoscenze minime, una specie di “cassetta degli attrezzi” che un bravo manager deve avere, per rendere efficace il suo impegno in azienda. Alla base una vasta cultura fondata sui classici del pensiero universale ma anche  su quelli dell’economia e della gestione aziendale. Gli aforismi che si incontrano, quindi, sono quelli di Newton, Gibran, Confucio, Wilde, Bacone, Demostene – tanto per citarne alcuni -, e di Drucker, Packard, Galbraith tanto per citarne altri.

L’autore, come si è detto, è egli stesso manager dall’esperienza pluridecennale, e con competenze accademiche ed imprenditoriali, raccoglie, e racconta, i problemi, le difficoltà, le contraddizioni e le possibilità della società lavorativa, dando vita ad un connubio originale di generi di scrittura in cui dialogano con gli aforismi forme tradizionali di arte e scienza, arrivando alla musica leggera, ai film ma toccando ampiamente anche l’economia.

Il testo si compone di tre parti concatenate tra loro. La prima raccoglie appunto numerosi aforismi di celebri scrittori, brillanti personaggi o anonimi, rapportati alle più tipiche caratteristiche del bravo manager. La seconda propone una serie di canzoni, da Modugno ad altre più recenti, in cui i testi vengono tradotti in realtà aziendalistiche, creando un efficace accostamento esistenziale, tra parole e realtà. La terza è la più scontata – ma non meno utile -, e cioè un di termini chiave, dall’uso più o meno comune, dell’economia e della finanza, ma di cui è necessario che il manager abbia conoscenza.

Minimario, dunque, ma non minimo nella sua utilità per chi voglia iniziare a guardare un po’ più in là della propria scrivania.

Il minimario del bravo manager

Ercole P. Pellicanò

Bibliotheka Edizioni, 2014

Si sa, in Italia e non solo deve ancora crescere, e molto, la cultura d’impresa. E deve anche crescere la consapevolezza dell’importanza della preparazione dei manager che devono governare, insieme agli imprenditori, le sorti delle aziende. Perché governare uomini e produzioni non è facile. Soprattutto in tempi turbolenti come questi. E non bastano certo preparazione tecnica ed economica per fare un buon manager. Occorrono anche profondità culturale e attenzione umana.

E’ bello, allora, leggere “Il minimario del bravo manager”  un volumetto che Ercole P. Pellicanò – manager anch’egli e uomo di cultura -, ha scritto per venire in soccorso ai colleghi alle prese con organizzazioni complesse e mercati difficili. Il libro – rigorosamente in formato elettronico -, si legge d’un fiato e si deve rileggere. L’obiettivo, anche attraverso la sintesi dell’aforisma, è quello di fornire le conoscenze minime, una specie di “cassetta degli attrezzi” che un bravo manager deve avere, per rendere efficace il suo impegno in azienda. Alla base una vasta cultura fondata sui classici del pensiero universale ma anche  su quelli dell’economia e della gestione aziendale. Gli aforismi che si incontrano, quindi, sono quelli di Newton, Gibran, Confucio, Wilde, Bacone, Demostene – tanto per citarne alcuni -, e di Drucker, Packard, Galbraith tanto per citarne altri.

L’autore, come si è detto, è egli stesso manager dall’esperienza pluridecennale, e con competenze accademiche ed imprenditoriali, raccoglie, e racconta, i problemi, le difficoltà, le contraddizioni e le possibilità della società lavorativa, dando vita ad un connubio originale di generi di scrittura in cui dialogano con gli aforismi forme tradizionali di arte e scienza, arrivando alla musica leggera, ai film ma toccando ampiamente anche l’economia.

Il testo si compone di tre parti concatenate tra loro. La prima raccoglie appunto numerosi aforismi di celebri scrittori, brillanti personaggi o anonimi, rapportati alle più tipiche caratteristiche del bravo manager. La seconda propone una serie di canzoni, da Modugno ad altre più recenti, in cui i testi vengono tradotti in realtà aziendalistiche, creando un efficace accostamento esistenziale, tra parole e realtà. La terza è la più scontata – ma non meno utile -, e cioè un di termini chiave, dall’uso più o meno comune, dell’economia e della finanza, ma di cui è necessario che il manager abbia conoscenza.

Minimario, dunque, ma non minimo nella sua utilità per chi voglia iniziare a guardare un po’ più in là della propria scrivania.

Il minimario del bravo manager

Ercole P. Pellicanò

Bibliotheka Edizioni, 2014

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?