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È tempo d’eleganza, intelligenza e gentilezza per la moda e le imprese, ma anche per la buona politica

“Amo l’eleganza che nasce dall’intelligenza”, sostiene Giorgio Armani, in una lunga intervista al nuovo mensile “U” de “la Repubblica”, in occasione dei suoi novant’anni. Per essere ancora più chiaro, racconta di amare inoltre “le cose sottili, la discrezione” e “la sobrietà, che è sempre una qualità vincente”.

La relazione tra eleganza e intelligenza va considerata con attenzione, proprio in tempi così grossolani, come quelli in cui stiamo vivendo. E il mondo della moda, se vuol essere davvero coerente con i propri impegni sulla sostenibilità (che è ambientale, ma anche sociale, contro gli sprechi, gli eccessi del lusso, la  trascuratezza per la sicurezza e la qualità del lavoro nelle manifatture) può essere un efficace canale di stimolo ai valori morali, alle migliori relazioni tra estetica ed etica (d’altronde, sono parenti strette, queste due dimensioni della filosofia), alla necessità di scelte di qualità nei rapporti tra le persone, ma anche tra i poteri, le classi politiche, i paesi, per cercare vie d’uscita “intelligenti” ai conflitti che sempre più radicali squassano il mondo e ai comportamenti violenti e volgari che umiliano la convivenza civile, la politica, le istituzioni.

C’è un’altra parola che tiene banco, in questi giorni dedicati alla moda, tra le sfilate della Fashion Week a Milano e gli eventi di Palazzo Pitti a Firenze. Ed è “gentilezza”.

“Faccio un lusso gentile”, sostiene Brunello Cucinelli, che da tempo si entusiasma per la filosofia (con incontri e lezioni nel borgo medioevale di Solomeo in Umbria, dove si coltiva “il sogno di un capitalismo umanistico”). E racconta di fare abiti per “un uomo raffinato e sensibile”.

Per “una moda gentile” si appassiona anche Pierre-Louis Mascia, per la collezione “Le Cavalier Bleu” ispirata a un movimento artistico dell’espressionismo tedesco dei primi del Novecento.

Eleganza, intelligenza, gentilezza, umanesimo in primo piano, dunque. La moda fa da canale di rinascita, di sviluppo equilibrato, persino di economia civile? Un percorso originale “dal cuore alle mani”, comunque, dalla passione creativa al buon lavoro, cioè, per riprendere l’efficace titolo della mostra di Dolce e Gabbana a Palazzo Reale di Milano.

Non c’è da pretendere troppo, naturalmente, da un settore in cui non sempre moda ed eleganza coincidono e che ha comunque le sue logiche severe, le asprezze e le angolosità taglienti di una competizione globale serrata (su cui, proprio adesso, scrive pagine sapide e sarcastiche Giancarlo De Cataldo nell’ultimo best seller per Einaudi, “Il bacio del calabrone”, un nuovo caso per l’aristocratico magistrato Manrico Spinori). Ma in ogni caso il mondo della moda fa da anticipatore e poi da amplificatore di segnali che indicano un’esigenza sociale, una nuova dimensione culturale, uno Zeitgeist cui fare attentamente riferimento.

L’elogio dell’intelligenza e della gentilezza è un filo sottile ma robusto che anima anche altri mondi. Si parla di leadership gentile nelle imprese, man mano che le culture gerarchiche lasciano il posto a dimensioni di gestione  più orizzontali, marcando bene la differenza sostanziale che corre tra autoritarismo e autorevolezza. Si scrive di primato del soft power pure in politica (con buona pace di chi subisce il fascino dell’ “uomo solo al comando”). Si rilegge come anticipazione di tempi nuovi e più civili uno slogan pubblicitario di gran successo fin dalla sua nascita, nel 1994, “Power is nothing without control”, con uno strepitoso Carl Lewis, campione olimpionico in tacchi rossi, fotografato da Annie Leibovitz per Pirelli (se ne scrive nelle pagine de “L’officina dello sport”, curato dalla Fondazione Pirelli e appena edito da Marsilio: c’è una relazione essenziale tra potenza/potere e controllo non solo nelle competizioni sportive, ma anche nell’economia e nella politica).

In tanto ragionare, ci si ispira saggiamente ai capitoli delle “Lezioni americane” di Italo Calvino, dalle considerazioni sulla “leggerezza” (“Prendete la vita con leggerezza, che non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”) a quelle sull’ “esattezza” e la “molteplicità”.

Della necessità di costruire “un mondo più sicuro, civile” e, appunto, “gentile” si parla nel “Manifesto di Assisi”, un documento “per una economia a misura d’uomo” elaborato nel 2021 dai francescani del Sacro Convento e da Symbola e firmato da personalità dell’economia, della cultura, dell’università, delle imprese e di una lunga serie di associazioni della società civile.

E “gentilezza” è una parola chiave dell’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco: “La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici”.

Gentilezza come chiave dell’impegno a “farsi carico” degli altri. Gentilezza come stato d’animo che porta verso la distensione. E prepara l’animo alla saggezza.

Proprio quella saggezza che il Papa ha ricordato nei giorni scorsi ai potenti della terra riuniti al G7 in Puglia, sollecitando alla “sana politica” la capacità di decidere con “la phronesis della filosofia greca”. Ha parlato, nel merito, di responsabilità per un uso “umano” dell’Intelligenza Artificiale”. Ma ha soprattutto aperto la strada verso considerazioni più generali, sullo sviluppo sostenibile ed equilibrato, sulla sensibilità per la sofferenza, sul bisogno di assicurare alle nuove generazioni un migliore futuro.

Facile, naturalmente, tutto ciò, a dirsi. E a farsi? Tutt’altro. Ma necessario.

D’altronde, “la facilità è una forma di perfezione che contiene la sostanza di un lungo lavoro”. Parola di Paolo Conte, artista esemplare. Un “maestro nell’anima”. Una persona intelligente. Elegante. Gentile.

(foto Getty Images)

“Amo l’eleganza che nasce dall’intelligenza”, sostiene Giorgio Armani, in una lunga intervista al nuovo mensile “U” de “la Repubblica”, in occasione dei suoi novant’anni. Per essere ancora più chiaro, racconta di amare inoltre “le cose sottili, la discrezione” e “la sobrietà, che è sempre una qualità vincente”.

La relazione tra eleganza e intelligenza va considerata con attenzione, proprio in tempi così grossolani, come quelli in cui stiamo vivendo. E il mondo della moda, se vuol essere davvero coerente con i propri impegni sulla sostenibilità (che è ambientale, ma anche sociale, contro gli sprechi, gli eccessi del lusso, la  trascuratezza per la sicurezza e la qualità del lavoro nelle manifatture) può essere un efficace canale di stimolo ai valori morali, alle migliori relazioni tra estetica ed etica (d’altronde, sono parenti strette, queste due dimensioni della filosofia), alla necessità di scelte di qualità nei rapporti tra le persone, ma anche tra i poteri, le classi politiche, i paesi, per cercare vie d’uscita “intelligenti” ai conflitti che sempre più radicali squassano il mondo e ai comportamenti violenti e volgari che umiliano la convivenza civile, la politica, le istituzioni.

C’è un’altra parola che tiene banco, in questi giorni dedicati alla moda, tra le sfilate della Fashion Week a Milano e gli eventi di Palazzo Pitti a Firenze. Ed è “gentilezza”.

“Faccio un lusso gentile”, sostiene Brunello Cucinelli, che da tempo si entusiasma per la filosofia (con incontri e lezioni nel borgo medioevale di Solomeo in Umbria, dove si coltiva “il sogno di un capitalismo umanistico”). E racconta di fare abiti per “un uomo raffinato e sensibile”.

Per “una moda gentile” si appassiona anche Pierre-Louis Mascia, per la collezione “Le Cavalier Bleu” ispirata a un movimento artistico dell’espressionismo tedesco dei primi del Novecento.

Eleganza, intelligenza, gentilezza, umanesimo in primo piano, dunque. La moda fa da canale di rinascita, di sviluppo equilibrato, persino di economia civile? Un percorso originale “dal cuore alle mani”, comunque, dalla passione creativa al buon lavoro, cioè, per riprendere l’efficace titolo della mostra di Dolce e Gabbana a Palazzo Reale di Milano.

Non c’è da pretendere troppo, naturalmente, da un settore in cui non sempre moda ed eleganza coincidono e che ha comunque le sue logiche severe, le asprezze e le angolosità taglienti di una competizione globale serrata (su cui, proprio adesso, scrive pagine sapide e sarcastiche Giancarlo De Cataldo nell’ultimo best seller per Einaudi, “Il bacio del calabrone”, un nuovo caso per l’aristocratico magistrato Manrico Spinori). Ma in ogni caso il mondo della moda fa da anticipatore e poi da amplificatore di segnali che indicano un’esigenza sociale, una nuova dimensione culturale, uno Zeitgeist cui fare attentamente riferimento.

L’elogio dell’intelligenza e della gentilezza è un filo sottile ma robusto che anima anche altri mondi. Si parla di leadership gentile nelle imprese, man mano che le culture gerarchiche lasciano il posto a dimensioni di gestione  più orizzontali, marcando bene la differenza sostanziale che corre tra autoritarismo e autorevolezza. Si scrive di primato del soft power pure in politica (con buona pace di chi subisce il fascino dell’ “uomo solo al comando”). Si rilegge come anticipazione di tempi nuovi e più civili uno slogan pubblicitario di gran successo fin dalla sua nascita, nel 1994, “Power is nothing without control”, con uno strepitoso Carl Lewis, campione olimpionico in tacchi rossi, fotografato da Annie Leibovitz per Pirelli (se ne scrive nelle pagine de “L’officina dello sport”, curato dalla Fondazione Pirelli e appena edito da Marsilio: c’è una relazione essenziale tra potenza/potere e controllo non solo nelle competizioni sportive, ma anche nell’economia e nella politica).

In tanto ragionare, ci si ispira saggiamente ai capitoli delle “Lezioni americane” di Italo Calvino, dalle considerazioni sulla “leggerezza” (“Prendete la vita con leggerezza, che non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”) a quelle sull’ “esattezza” e la “molteplicità”.

Della necessità di costruire “un mondo più sicuro, civile” e, appunto, “gentile” si parla nel “Manifesto di Assisi”, un documento “per una economia a misura d’uomo” elaborato nel 2021 dai francescani del Sacro Convento e da Symbola e firmato da personalità dell’economia, della cultura, dell’università, delle imprese e di una lunga serie di associazioni della società civile.

E “gentilezza” è una parola chiave dell’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco: “La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno diritto a essere felici”.

Gentilezza come chiave dell’impegno a “farsi carico” degli altri. Gentilezza come stato d’animo che porta verso la distensione. E prepara l’animo alla saggezza.

Proprio quella saggezza che il Papa ha ricordato nei giorni scorsi ai potenti della terra riuniti al G7 in Puglia, sollecitando alla “sana politica” la capacità di decidere con “la phronesis della filosofia greca”. Ha parlato, nel merito, di responsabilità per un uso “umano” dell’Intelligenza Artificiale”. Ma ha soprattutto aperto la strada verso considerazioni più generali, sullo sviluppo sostenibile ed equilibrato, sulla sensibilità per la sofferenza, sul bisogno di assicurare alle nuove generazioni un migliore futuro.

Facile, naturalmente, tutto ciò, a dirsi. E a farsi? Tutt’altro. Ma necessario.

D’altronde, “la facilità è una forma di perfezione che contiene la sostanza di un lungo lavoro”. Parola di Paolo Conte, artista esemplare. Un “maestro nell’anima”. Una persona intelligente. Elegante. Gentile.

(foto Getty Images)

Come si fa ad avere successo

La formula della crescita e dello sviluppo economico tradotta in concreto in un territorio

 

Persone e territorio dietro al successo delle imprese. Non solo calcolo, dunque, ma molto d’altro. E di diverso. Se a tutti i costi si vuole trovare una formula – un modello – per indicare gli elementi del successo di un’azienda oppure di un insieme di aziende, certamente gli elementi che non possono mancare sono lo spirito di comunità e l’innovazione che ne può scaturire. Cultura d’impresa, certamente, ma ad alto livello. Può essere anche questo il contenuto trasmesso da “Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità” di Franco Mosconi pubblicato da qualche mese che dice tutto fin dal titolo.

Mosconi cerca di rispondere ad una serie di interrogativi che possono calzare per ogni area industriale. Perché un export pro capite così alto? Perché tassi di sviluppo così elevati? Perché un grado di attrattività così forte e intenso? E perché, poi, un tasso di occupazione (Anche femminile) così elevato? Più in generale, Mosconi cerca – e ci riesce – di spiegare le ragioni o della crescita economica e sociale dell’Emilia che, di fatto, ha superato tutti gli altri territori industriali italiani.

Attraverso una ricognizione attenta e dettagliata, che si sviluppa lungo tutta la via Emilia, Mosconi dimostra come il successo dell’Emilia-Romagna sia il risultato di un particolare rapporto tra Stato, mercato e comunità, che si concretizza nel cosiddetto “Terzo pilastro”. Questo approccio non si limita alla dimensione economica, ma investe la dimensione sociale in modo completo, come dimostrano i risultati ottenuti in termini di capacità innovativa e di formazione del capitale umano.

Almeno due i binomi concettuali posti in evidenza. Il primo – persone e comunità – mette a fuoco l’inscindibile legame tra sviluppi e componente umane; il secondo – efficienza ed equità – pone l’accento sull’organizzazione sociale ed economica ad un tempo efficace e rispettosa dei diritti. Mosconi, quindi, conclude indicando sei “fattori chiave” del modello Emilia: la tradizione manifatturiera ancora presente, la crescita dimensionale delle imprese, la specializzazione produttiva e la qualità, la capacità d’investimento e di innovazione tecnologica, il ruolo pro attivo delle istituzioni, l’importanza della comunità il vero “Terzo pilastro” dello sviluppo.

Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità

Franco Mosconi

Post Editori, 2023

La formula della crescita e dello sviluppo economico tradotta in concreto in un territorio

 

Persone e territorio dietro al successo delle imprese. Non solo calcolo, dunque, ma molto d’altro. E di diverso. Se a tutti i costi si vuole trovare una formula – un modello – per indicare gli elementi del successo di un’azienda oppure di un insieme di aziende, certamente gli elementi che non possono mancare sono lo spirito di comunità e l’innovazione che ne può scaturire. Cultura d’impresa, certamente, ma ad alto livello. Può essere anche questo il contenuto trasmesso da “Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità” di Franco Mosconi pubblicato da qualche mese che dice tutto fin dal titolo.

Mosconi cerca di rispondere ad una serie di interrogativi che possono calzare per ogni area industriale. Perché un export pro capite così alto? Perché tassi di sviluppo così elevati? Perché un grado di attrattività così forte e intenso? E perché, poi, un tasso di occupazione (Anche femminile) così elevato? Più in generale, Mosconi cerca – e ci riesce – di spiegare le ragioni o della crescita economica e sociale dell’Emilia che, di fatto, ha superato tutti gli altri territori industriali italiani.

Attraverso una ricognizione attenta e dettagliata, che si sviluppa lungo tutta la via Emilia, Mosconi dimostra come il successo dell’Emilia-Romagna sia il risultato di un particolare rapporto tra Stato, mercato e comunità, che si concretizza nel cosiddetto “Terzo pilastro”. Questo approccio non si limita alla dimensione economica, ma investe la dimensione sociale in modo completo, come dimostrano i risultati ottenuti in termini di capacità innovativa e di formazione del capitale umano.

Almeno due i binomi concettuali posti in evidenza. Il primo – persone e comunità – mette a fuoco l’inscindibile legame tra sviluppi e componente umane; il secondo – efficienza ed equità – pone l’accento sull’organizzazione sociale ed economica ad un tempo efficace e rispettosa dei diritti. Mosconi, quindi, conclude indicando sei “fattori chiave” del modello Emilia: la tradizione manifatturiera ancora presente, la crescita dimensionale delle imprese, la specializzazione produttiva e la qualità, la capacità d’investimento e di innovazione tecnologica, il ruolo pro attivo delle istituzioni, l’importanza della comunità il vero “Terzo pilastro” dello sviluppo.

Modello Emilia. Imprese innovative e spirito di comunità

Franco Mosconi

Post Editori, 2023

Impiegati in manifattura

Una indagine appena pubblicata mette a fuoco il lavoro intellettuale nelle fabbriche e nelle officine

Il lavoro nelle fabbriche e negli uffici che cambia, si evolve, muta d’aspetto e di sostanza, trova nuove forme di espressione. Testimone dell’evoluzione dei tempi e della cultura del produrre. Accade sia per il lavoro manuale che per quello intellettuale: operai e impiegati accomunati da uno stesso destino che è quello dell’impresa. Ed è proprio sui cambiamenti del lavoro impiegatizio che si concentra la ricerca di Emma Garavaglia, Serafino Negrelli e Valentina Pacetti  pubblicata recentemente su Sociologia del lavoro.

“Le trasformazioni del lavoro impiegatizio nel manifatturiero avanzato. Una ricerca empirica”, è un’indagine che ha un obiettivo chiaro: descrivere come è cambiato nel tempo il lavoro degli impiegati nelle imprese manifatturiere e come potrebbe cambiare tenendo conto delle sue nuove forme, ad iniziare dal lavoro a distanza.

Gli autori partono dalla constatazione che nonostante la crescente rilevanza delle attività di servizio all’interno delle aziende manifatturiere, gli studi sui cosiddetti colletti bianchi impiegati nelle fabbriche contemporanee sono limitati. L’indagine si è quind focalizzata su questa categoria di lavoratori osservati nelle loro principali aree di attività: impiegati finanziari e commerciali, tecnici di produzione e tecnici di ricerca e sviluppo. Prendendo come base un numero selezionato di stabilimenti italiani, la ricerca descrive così lo “stato dell’arte” del lavoro impiegatizio nelle fabbriche in termini di autonomia, intensità e complessità, ma anche per quanto concerne il rapporto tra dipendenti, lavoro, aziende e sindacati. Tutto fino ad arrivare alle relazioni tra impiegati a lavoro a distanza.

Ricerca empirica, quella di Garavaglia, Negrelli e Pacetti che, forse proprio per questo, conserva una validità che va al di là degli aspetti quantitativi per toccare connotati relazionali e umani che, anche nell’era della digitalizzazione spinta, conservano un loro significato.

Le trasformazioni del lavoro impiegatizio nel manifatturiero avanzato. Una ricerca empirica 

Emma Garavaglia, Serafino Negrelli, Valentina Pacetti
Sociologia del lavoro, 2024/168

 

 

Una indagine appena pubblicata mette a fuoco il lavoro intellettuale nelle fabbriche e nelle officine

Il lavoro nelle fabbriche e negli uffici che cambia, si evolve, muta d’aspetto e di sostanza, trova nuove forme di espressione. Testimone dell’evoluzione dei tempi e della cultura del produrre. Accade sia per il lavoro manuale che per quello intellettuale: operai e impiegati accomunati da uno stesso destino che è quello dell’impresa. Ed è proprio sui cambiamenti del lavoro impiegatizio che si concentra la ricerca di Emma Garavaglia, Serafino Negrelli e Valentina Pacetti  pubblicata recentemente su Sociologia del lavoro.

“Le trasformazioni del lavoro impiegatizio nel manifatturiero avanzato. Una ricerca empirica”, è un’indagine che ha un obiettivo chiaro: descrivere come è cambiato nel tempo il lavoro degli impiegati nelle imprese manifatturiere e come potrebbe cambiare tenendo conto delle sue nuove forme, ad iniziare dal lavoro a distanza.

Gli autori partono dalla constatazione che nonostante la crescente rilevanza delle attività di servizio all’interno delle aziende manifatturiere, gli studi sui cosiddetti colletti bianchi impiegati nelle fabbriche contemporanee sono limitati. L’indagine si è quind focalizzata su questa categoria di lavoratori osservati nelle loro principali aree di attività: impiegati finanziari e commerciali, tecnici di produzione e tecnici di ricerca e sviluppo. Prendendo come base un numero selezionato di stabilimenti italiani, la ricerca descrive così lo “stato dell’arte” del lavoro impiegatizio nelle fabbriche in termini di autonomia, intensità e complessità, ma anche per quanto concerne il rapporto tra dipendenti, lavoro, aziende e sindacati. Tutto fino ad arrivare alle relazioni tra impiegati a lavoro a distanza.

Ricerca empirica, quella di Garavaglia, Negrelli e Pacetti che, forse proprio per questo, conserva una validità che va al di là degli aspetti quantitativi per toccare connotati relazionali e umani che, anche nell’era della digitalizzazione spinta, conservano un loro significato.

Le trasformazioni del lavoro impiegatizio nel manifatturiero avanzato. Una ricerca empirica 

Emma Garavaglia, Serafino Negrelli, Valentina Pacetti
Sociologia del lavoro, 2024/168

 

 

I 100mila robot che raccontano come l’economia sia, nonostante tutto, in buona salute

Come sta l’economia italiana? Bene, tutto sommato, stando alle previsioni dell’Istat che parlano di una di crescita del Pil dell’1% quest’anno e dell’1,1% nel 2025, in linea con i dati del governo, ma ben più ottimiste di quelle del Fondo monetario internazionale (0,7%) e della Banca d’Italia (0,8%). Crescono, in prospettiva, i consumi privati, gli investimenti, l’occupazione e – dato essenziale – le esportazioni (“Nel confronto internazionale il Made in Italy guadagna posizioni e batte anche gli smartphone cinesi”, rileva Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, IlSole24Ore 7 giugno).

Ci si muove, insomma, anche se in un clima denso di preoccupazioni, per le tensioni geopolitiche che non fanno intravvedere prossime favorevoli vie d’uscita dalle crisi (Ucraina, Medio Oriente) e per il permanere di irrisolte questioni di fondo: l’inverno demografico, i guasti ambientali, i disagi sociali (i salari sono fermi da vent’anni, come peraltro la produttività media del Paese), la “fuga dei cervelli” (132 mila laureati che hanno “votato con i piedi” e cioè sono andati via dall’Italia, negli ultimi dieci anni, secondo IlSole24Ore, 3 giugno), ma anche un clima generale di disincanto, di scarsa fiducia, che si riflette pure in un dato che allarma il mondo politico: la crescente astensione, arrivata a superare il 50% degli elettori per le recenti consultazioni per il nuovo Parlamento Europeo (“Giovani disillusi e famiglie impoverite. Perché diserta le urne la metà degli italiani”, scrive la Repubblica, 10 giugno).

La produzione industriale, è vero, è in caduta, dell’1% ad aprile, per il quindicesimo mese consecutivo e del 2,9% rispetto all’anno precedente, con una frenata accentuata nei settori dell’auto e della moda: rallentano i consumi e gli investimenti, a causa dell’elevato costo del denaro e dell’inflazione. E va male anche per i macchinari (“Pesa il mancato avvio del bonus Transizione 5.0”, avverte IlSole24Ore, 11 giugno). Le imprese sono state prudenti, i consumatori timidi. E adesso che le scelte della Bce annunciano un taglio dei tassi ma anche il permanere di una certa preoccupazione sull’inflazione, che non tornerà facilmente al 2% in Europa, si può forse ricominciare lentamente a consumare, produrre, investire, far cambiare passo alla debole congiuntura. Vedremo.

Di certo, al di là dei dati congiunturali, sappiamo che l’apparato industriale italiano è robusto, tecnologicamente avanzato, pronto a ricominciare a correre. Come testimonia una recente inchiesta de IlSole24Ore (7 giugno) sulle “eccellenze dell’industria”: “L’Italia dei robot è oltre quota 100mila, primi in Europa”, a eccezione del settore dell’auto.

La relazione annuale della Banca d’Italia, infatti, ha evidenziato la diffusione crescente dei mezzi di automazione industriale, documentando come dal 2017 a oggi “soltanto la Cina ha tassi di aumento superiori ai nostri”. E siamo arrivati alle 100mila unità installate, passando dall’ottava alla sesta posizione mondiale per stock grazie alla capacità delle imprese di usare bene le agevolazioni fiscali di Industria 4.0.

Possiamo andare ancora avanti bene, sostengono le imprese. Domenico Appendino, presidente di Siri (l’Associazione italiana di robotica e automazione), infatti, ricorda i vantaggi del piano di incentivazione Industria 4.0 (merito di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico dal 2016 al 2018) ma nota criticamente che “l’effetto annuncio del bonus 5.0 ha congelato il mercato, che da metà 2023 ha iniziato a contrarsi”.

Confindustria insiste sullo sblocco dei 6,3 miliardi previsti dal Pnrr per il credito d’imposta sugli investimenti innovativi, il ministero delle Imprese e del made in Italy assicura che il decreto è alle ultime limature. Di certo, la nostra industria, dopo la Grande Crisi del 2008, ha reagito, investito, innovato, trovato nuovi spazi sui mercati internazionali. E ha bisogno di scelte chiare e lungimiranti di politica industriale, europea e nazionale per poter continuare a crescere.

Una sfida aperta, sia per il governo sia per la Commissione che guiderà la Ue nei prossimi anni, dopo il rinnovo del Parlamento. Per una politica industriale che sappia affrontare, senza schematismi ideologici, la transizione ambientale e l’innovazione digitale, la diffusione dell’Intelligenza Artificiale, le politiche di sicurezza e sviluppo, le prospettive per le nuove generazioni di fronte alla concorrenza che arriva dai giganti economici Usa, Cina e India.

A fare macchine, gli italiani sono bravi. Straordinari ingegneri meccanici e meccatronici. Operai e tecnici eccellenti.  Imprenditori e imprenditrici attenti alla qualità e al prodotto “su misura”, come se un’acciaieria, una macchina utensile, una confezionatrice o, appunto, una serie di robot fossero capi di alta moda, tagliati e confezionali seguendo le esigenze più sofisticate della committenza ovunque nel mondo. Capaci, insomma, di unire design e funzionalità, tecnologie d’avanguardia e sostenibilità ambientale (l’acciaio green è un’eccellenza italiana, con straordinari risultati nelle fabbriche lombarde, che potrebbero pur essere ottimi riferimenti per la ristrutturazione e il rilancio anche del complesso dell’Ilva a Taranto, con scelte politiche adeguate e una guida competente e sicura).

Nel panorama, vale la pena considerare anche la crescita di qualità delle nostre università e dei Politecnici di Torino e Milano (arrivato quest’anno all’111° posto e cioè tra i “top 8%” nella graduatoria QS di 1503 atenei mondiali) e il consolidamento delle relazioni tra centri accademici e imprese, mondo pubblico e settori privati tra ricerca, formazione e sperimentazione.

Ecco il punto: insistere sul valore e sui valori dell’industria, per dare sostanza e futuro al Made in Italy. E indicarlo come orizzonte per le nuove generazioni. Per stimolare a tornare in Italia parte di quei 132mila laureati che se ne sono andati. E per attrarre ragazze e ragazzi da altre parti del mondo, per lavorare, fare impresa e ricerca, costruire qui nuove vite. Un buon modo per crescere. Ed essere davvero europei

(foto Getty Images)

Come sta l’economia italiana? Bene, tutto sommato, stando alle previsioni dell’Istat che parlano di una di crescita del Pil dell’1% quest’anno e dell’1,1% nel 2025, in linea con i dati del governo, ma ben più ottimiste di quelle del Fondo monetario internazionale (0,7%) e della Banca d’Italia (0,8%). Crescono, in prospettiva, i consumi privati, gli investimenti, l’occupazione e – dato essenziale – le esportazioni (“Nel confronto internazionale il Made in Italy guadagna posizioni e batte anche gli smartphone cinesi”, rileva Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, IlSole24Ore 7 giugno).

Ci si muove, insomma, anche se in un clima denso di preoccupazioni, per le tensioni geopolitiche che non fanno intravvedere prossime favorevoli vie d’uscita dalle crisi (Ucraina, Medio Oriente) e per il permanere di irrisolte questioni di fondo: l’inverno demografico, i guasti ambientali, i disagi sociali (i salari sono fermi da vent’anni, come peraltro la produttività media del Paese), la “fuga dei cervelli” (132 mila laureati che hanno “votato con i piedi” e cioè sono andati via dall’Italia, negli ultimi dieci anni, secondo IlSole24Ore, 3 giugno), ma anche un clima generale di disincanto, di scarsa fiducia, che si riflette pure in un dato che allarma il mondo politico: la crescente astensione, arrivata a superare il 50% degli elettori per le recenti consultazioni per il nuovo Parlamento Europeo (“Giovani disillusi e famiglie impoverite. Perché diserta le urne la metà degli italiani”, scrive la Repubblica, 10 giugno).

La produzione industriale, è vero, è in caduta, dell’1% ad aprile, per il quindicesimo mese consecutivo e del 2,9% rispetto all’anno precedente, con una frenata accentuata nei settori dell’auto e della moda: rallentano i consumi e gli investimenti, a causa dell’elevato costo del denaro e dell’inflazione. E va male anche per i macchinari (“Pesa il mancato avvio del bonus Transizione 5.0”, avverte IlSole24Ore, 11 giugno). Le imprese sono state prudenti, i consumatori timidi. E adesso che le scelte della Bce annunciano un taglio dei tassi ma anche il permanere di una certa preoccupazione sull’inflazione, che non tornerà facilmente al 2% in Europa, si può forse ricominciare lentamente a consumare, produrre, investire, far cambiare passo alla debole congiuntura. Vedremo.

Di certo, al di là dei dati congiunturali, sappiamo che l’apparato industriale italiano è robusto, tecnologicamente avanzato, pronto a ricominciare a correre. Come testimonia una recente inchiesta de IlSole24Ore (7 giugno) sulle “eccellenze dell’industria”: “L’Italia dei robot è oltre quota 100mila, primi in Europa”, a eccezione del settore dell’auto.

La relazione annuale della Banca d’Italia, infatti, ha evidenziato la diffusione crescente dei mezzi di automazione industriale, documentando come dal 2017 a oggi “soltanto la Cina ha tassi di aumento superiori ai nostri”. E siamo arrivati alle 100mila unità installate, passando dall’ottava alla sesta posizione mondiale per stock grazie alla capacità delle imprese di usare bene le agevolazioni fiscali di Industria 4.0.

Possiamo andare ancora avanti bene, sostengono le imprese. Domenico Appendino, presidente di Siri (l’Associazione italiana di robotica e automazione), infatti, ricorda i vantaggi del piano di incentivazione Industria 4.0 (merito di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico dal 2016 al 2018) ma nota criticamente che “l’effetto annuncio del bonus 5.0 ha congelato il mercato, che da metà 2023 ha iniziato a contrarsi”.

Confindustria insiste sullo sblocco dei 6,3 miliardi previsti dal Pnrr per il credito d’imposta sugli investimenti innovativi, il ministero delle Imprese e del made in Italy assicura che il decreto è alle ultime limature. Di certo, la nostra industria, dopo la Grande Crisi del 2008, ha reagito, investito, innovato, trovato nuovi spazi sui mercati internazionali. E ha bisogno di scelte chiare e lungimiranti di politica industriale, europea e nazionale per poter continuare a crescere.

Una sfida aperta, sia per il governo sia per la Commissione che guiderà la Ue nei prossimi anni, dopo il rinnovo del Parlamento. Per una politica industriale che sappia affrontare, senza schematismi ideologici, la transizione ambientale e l’innovazione digitale, la diffusione dell’Intelligenza Artificiale, le politiche di sicurezza e sviluppo, le prospettive per le nuove generazioni di fronte alla concorrenza che arriva dai giganti economici Usa, Cina e India.

A fare macchine, gli italiani sono bravi. Straordinari ingegneri meccanici e meccatronici. Operai e tecnici eccellenti.  Imprenditori e imprenditrici attenti alla qualità e al prodotto “su misura”, come se un’acciaieria, una macchina utensile, una confezionatrice o, appunto, una serie di robot fossero capi di alta moda, tagliati e confezionali seguendo le esigenze più sofisticate della committenza ovunque nel mondo. Capaci, insomma, di unire design e funzionalità, tecnologie d’avanguardia e sostenibilità ambientale (l’acciaio green è un’eccellenza italiana, con straordinari risultati nelle fabbriche lombarde, che potrebbero pur essere ottimi riferimenti per la ristrutturazione e il rilancio anche del complesso dell’Ilva a Taranto, con scelte politiche adeguate e una guida competente e sicura).

Nel panorama, vale la pena considerare anche la crescita di qualità delle nostre università e dei Politecnici di Torino e Milano (arrivato quest’anno all’111° posto e cioè tra i “top 8%” nella graduatoria QS di 1503 atenei mondiali) e il consolidamento delle relazioni tra centri accademici e imprese, mondo pubblico e settori privati tra ricerca, formazione e sperimentazione.

Ecco il punto: insistere sul valore e sui valori dell’industria, per dare sostanza e futuro al Made in Italy. E indicarlo come orizzonte per le nuove generazioni. Per stimolare a tornare in Italia parte di quei 132mila laureati che se ne sono andati. E per attrarre ragazze e ragazzi da altre parti del mondo, per lavorare, fare impresa e ricerca, costruire qui nuove vite. Un buon modo per crescere. Ed essere davvero europei

(foto Getty Images)

Il viaggio con le scuole per “parlar d’impresa” è giunto al traguardo

Milano, Pavia, Roma, Torino, Vicenza, ma anche Lugano in Svizzera, Barcellona in Spagna, fino a Bogotà in Colombia e Monterrey in Messico. Queste sono solo alcune delle città e dei paesi di provenienza dei giovani che hanno preso parte ai percorsi didattici organizzati da Fondazione Pirelli durante l’anno scolastico appena concluso: oltre 2500 studenti delle scuole primarie e secondarie coinvolti in 93 appuntamenti, per un totale di circa 150 ore in presenza e in collegamento online.

Un viaggio, come recita il titolo del programma didattico, per “parlar d’impresa”. E sono state proprio le parole, ma anche le immagini e i suoni a guidare studenti e studentesse nell’esplorazione dei diversi aspetti del variegato mondo di Pirelli. 13 differenti proposte per approfondire attraverso visite guidate, contenuti digitali, piattaforme interattive, giochi e letture guidate di opere e documenti, le caratteristiche della cultura d’impresa di Pirelli. Un racconto dove scienza e tecnologia, arte e creatività si mescolano senza soluzione di continuità. “Non avrei mai immaginato che un’azienda che costruisce copertoni avesse collaborato con tutti questi artisti: scrittori, fotografi, attori, grafici e musicisti” ci dice Marta, classe 2G, Liceo Artistico. “Mi ha sorpreso che Pirelli abbia organizzato un concerto all’interno di una sua fabbrica interrompendo la produzione” dice invece Simone, 2B, Istituto Tecnico e Professionale. E ancora Alessandro, 5A, Liceo Scientifico: “Ho scoperto che un’azienda può comunicare in tanti modi diversi e può promuovere non solo i propri prodotti, ma anche concetti importanti come lo sviluppo tecnologico, l’attenzione per l’ambiente e la sicurezza.”

Comunicare” è una delle parole chiave scelte come filo conduttore per raccontare la realtà aziendale, per comprendere ad esempio l’importanza, anche in questo campo, dell’essere innovativi e il valore del rapporto tra Pirelli e il mondo dell’arte. Se i ragazzi più grandi sono stati affiancati nell’analisi delle più efficaci tecniche e delle strategie di comunicazione e si sono potuti cimentare nella realizzazione di una campagna pubblicitaria, i più piccoli, mescolando parole e suoni, rime ed onomatopee, hanno dato vita a un breve componimento poetico dedicato alla gomma e alle sue infinite possibilità di applicazione.

Il verbo “ricordare” è stato invece il punto di partenza per ripercorrere attraverso i documenti dell’Archivio storico le principali tappe dello sviluppo dell’azienda, per comprendere il ruolo delle fonti nella ricostruzione del nostro passato e per progettare il nostro futuro.

Il termine “sperimentare” ha permesso di indagare il lungo lavoro portato avanti ogni giorno dai tecnici e dagli ingegneri di Pirelli per la creazione di pneumatici sempre più innovativi per sicurezza, confort, riduzione dell’impatto ambientale, e di mettere alla prova le proprie capacità per programmare una piccola macchina di Formula1 e farla muovere su una pista secondo i comandi dati.

E ancora grazie al vocabolo “valorizzare” si sono approfondite le tante attività e progetti realizzati da Fondazione Pirelli per far conoscere a un vasto pubblico il proprio patrimonio storico e artistico.

La parola “ideare” ha guidato infine i ragazzi alla scoperta dei principali protagonisti dello sviluppo tecnologico e culturale dell’azienda, uomini e donne che grazie al loro ingegno e alle loro intuizioni hanno introdotto grandi cambiamenti e dato vita a prodotti innovativi. L’azione di “ideare” è stata anche alla base della creazione da parte delle scuole di una serie di podcast dedicati a diversi aspetti della cultura d’impresa aziendale.

Queste e altre parole ci hanno accompagnato in questo viaggio, ormai giunto a conclusione, attraverso la storia e l’attualità di Pirelli. I programmi didattici di Fondazione Pirelli saranno riproposti con nuove modalità e contenuti anche per il prossimo anno scolastico sempre con lo scopo principale di venire incontro alle esigenze della scuola e di far avvicinare i ragazzi al mondo e ai valori della produzione e del lavoro.

Guarda il video qui 

Milano, Pavia, Roma, Torino, Vicenza, ma anche Lugano in Svizzera, Barcellona in Spagna, fino a Bogotà in Colombia e Monterrey in Messico. Queste sono solo alcune delle città e dei paesi di provenienza dei giovani che hanno preso parte ai percorsi didattici organizzati da Fondazione Pirelli durante l’anno scolastico appena concluso: oltre 2500 studenti delle scuole primarie e secondarie coinvolti in 93 appuntamenti, per un totale di circa 150 ore in presenza e in collegamento online.

Un viaggio, come recita il titolo del programma didattico, per “parlar d’impresa”. E sono state proprio le parole, ma anche le immagini e i suoni a guidare studenti e studentesse nell’esplorazione dei diversi aspetti del variegato mondo di Pirelli. 13 differenti proposte per approfondire attraverso visite guidate, contenuti digitali, piattaforme interattive, giochi e letture guidate di opere e documenti, le caratteristiche della cultura d’impresa di Pirelli. Un racconto dove scienza e tecnologia, arte e creatività si mescolano senza soluzione di continuità. “Non avrei mai immaginato che un’azienda che costruisce copertoni avesse collaborato con tutti questi artisti: scrittori, fotografi, attori, grafici e musicisti” ci dice Marta, classe 2G, Liceo Artistico. “Mi ha sorpreso che Pirelli abbia organizzato un concerto all’interno di una sua fabbrica interrompendo la produzione” dice invece Simone, 2B, Istituto Tecnico e Professionale. E ancora Alessandro, 5A, Liceo Scientifico: “Ho scoperto che un’azienda può comunicare in tanti modi diversi e può promuovere non solo i propri prodotti, ma anche concetti importanti come lo sviluppo tecnologico, l’attenzione per l’ambiente e la sicurezza.”

Comunicare” è una delle parole chiave scelte come filo conduttore per raccontare la realtà aziendale, per comprendere ad esempio l’importanza, anche in questo campo, dell’essere innovativi e il valore del rapporto tra Pirelli e il mondo dell’arte. Se i ragazzi più grandi sono stati affiancati nell’analisi delle più efficaci tecniche e delle strategie di comunicazione e si sono potuti cimentare nella realizzazione di una campagna pubblicitaria, i più piccoli, mescolando parole e suoni, rime ed onomatopee, hanno dato vita a un breve componimento poetico dedicato alla gomma e alle sue infinite possibilità di applicazione.

Il verbo “ricordare” è stato invece il punto di partenza per ripercorrere attraverso i documenti dell’Archivio storico le principali tappe dello sviluppo dell’azienda, per comprendere il ruolo delle fonti nella ricostruzione del nostro passato e per progettare il nostro futuro.

Il termine “sperimentare” ha permesso di indagare il lungo lavoro portato avanti ogni giorno dai tecnici e dagli ingegneri di Pirelli per la creazione di pneumatici sempre più innovativi per sicurezza, confort, riduzione dell’impatto ambientale, e di mettere alla prova le proprie capacità per programmare una piccola macchina di Formula1 e farla muovere su una pista secondo i comandi dati.

E ancora grazie al vocabolo “valorizzare” si sono approfondite le tante attività e progetti realizzati da Fondazione Pirelli per far conoscere a un vasto pubblico il proprio patrimonio storico e artistico.

La parola “ideare” ha guidato infine i ragazzi alla scoperta dei principali protagonisti dello sviluppo tecnologico e culturale dell’azienda, uomini e donne che grazie al loro ingegno e alle loro intuizioni hanno introdotto grandi cambiamenti e dato vita a prodotti innovativi. L’azione di “ideare” è stata anche alla base della creazione da parte delle scuole di una serie di podcast dedicati a diversi aspetti della cultura d’impresa aziendale.

Queste e altre parole ci hanno accompagnato in questo viaggio, ormai giunto a conclusione, attraverso la storia e l’attualità di Pirelli. I programmi didattici di Fondazione Pirelli saranno riproposti con nuove modalità e contenuti anche per il prossimo anno scolastico sempre con lo scopo principale di venire incontro alle esigenze della scuola e di far avvicinare i ragazzi al mondo e ai valori della produzione e del lavoro.

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La crisi non è per sempre

Pubblicato in Italia un libro che spiega come intraprendere la strada per arrivare ad un mondo più equilibrato

Buoni manuali per non perdere la rotta. Ed essere consapevoli della strada che si sta facendo. L’indicazione è sempre questa. E vale sempre per tutti, anche, naturalmente per chi per ruolo deve assumere decisioni che valgono per molti. Come manuale da leggere e da rileggere è anche “Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi”, libro scritto da Gordon Brown, Mohamed A. El-Erian e Michael Spence riflettono su come strutturare modelli di crescita rafforzati, approcci migliori alla gestione economica e una governance internazionale solida.

Scritto pochi mesi fa, il libro mette in fila gli elementi di crisi e le possibili soluzioni per superarli. L’elenco è facile. I conflitti in Ucraina e Medio Oriente, le tensioni tra Stati Uniti e Cina. L’inflazione che ha raggiunto livelli mai visti da decenni e i prezzi dell’energia che hanno costretto alcune famiglie a scegliere tra gas e generi alimentari. Le calamità naturali sempre più frequenti e il riscaldamento globale, provocati dal cambiamento climatico. E un’intelligenza artificiale che minaccia di rivoluzionare il mercato del lavoro come non accadeva dai tempi della prima rivoluzione industriale. Sono questi – e molti altri ancora – i motivi che, appunto, mettono in crisi la società. Elementi in apparenza insormontabili. La tesi degli autori, invece, è che nonostante il prefisso “perma” sembri suggerire il contrario, l’attuale crisi non è da considerarsi permanente.

Certo, è lunga la strada per uscire dalla crisi che per molti versi appare definitiva, ma è una strada che esiste ed è percorribile. La dimostrazione data da Brown, El-Ertian e Spence viene viene illustrata in circa 250 pagine che si devono leggere con attenzione e che sono rigorosamente divise in tre parti. Prima viene affrontato il contenuto del vocabolo “crescita” in termini di condizioni favorevoli e sfavorevoli, di sostenibilità e di produttività per arrivare ad indicare come la cosiddetta equazione della crescita debba essere cambiata. Poi gli autori affrontano il tema della gestione economica, anche in qui con i pro e i contro, gli aspetti positivi e quelli negativi, i passi per migliorarla. Crescita ed economia debbono poi essere inseriti in un ordine globale che va rivisto con una rinvigorimento delle istituzioni internazionali e una globalizzazione “leggera”.

Il libro scritto da Brown, El-Ertian e Spence è una buona lettura da compiere con mente aperta, sguardo positivo, fiducia nell’umanità e nelle sue opere. Un libro da ragionare e discutere. Certo, nulla è dato per scontato, ma tutto è dato per possibile. Sintetizzando il percorso da fare i tre scrivono: “Il mondo sta cambiando davanti ai nostri occhi”, chiariscono gli autori. “E noi abbiamo il dovere di cogliere il significato dei cambiamenti in corso: primo, il passaggio da un mondo unipolare a uno multipolare; secondo, da un’iper-globalizzazione a una globalizzazione light; terzo, da un’era neoliberale in cui l’economia dettava le decisioni politiche a una neo-nazionalista, in cui la politica e la sicurezza nazionale dettano le condizioni economiche. Il mondo sta cambiando, ma che aspetto avrà questo cambiamento dipende da noi”.

Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi

Gordon Brown, Mohamed A. El-Erian e Michael Spence

Egea, 2024

Pubblicato in Italia un libro che spiega come intraprendere la strada per arrivare ad un mondo più equilibrato

Buoni manuali per non perdere la rotta. Ed essere consapevoli della strada che si sta facendo. L’indicazione è sempre questa. E vale sempre per tutti, anche, naturalmente per chi per ruolo deve assumere decisioni che valgono per molti. Come manuale da leggere e da rileggere è anche “Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi”, libro scritto da Gordon Brown, Mohamed A. El-Erian e Michael Spence riflettono su come strutturare modelli di crescita rafforzati, approcci migliori alla gestione economica e una governance internazionale solida.

Scritto pochi mesi fa, il libro mette in fila gli elementi di crisi e le possibili soluzioni per superarli. L’elenco è facile. I conflitti in Ucraina e Medio Oriente, le tensioni tra Stati Uniti e Cina. L’inflazione che ha raggiunto livelli mai visti da decenni e i prezzi dell’energia che hanno costretto alcune famiglie a scegliere tra gas e generi alimentari. Le calamità naturali sempre più frequenti e il riscaldamento globale, provocati dal cambiamento climatico. E un’intelligenza artificiale che minaccia di rivoluzionare il mercato del lavoro come non accadeva dai tempi della prima rivoluzione industriale. Sono questi – e molti altri ancora – i motivi che, appunto, mettono in crisi la società. Elementi in apparenza insormontabili. La tesi degli autori, invece, è che nonostante il prefisso “perma” sembri suggerire il contrario, l’attuale crisi non è da considerarsi permanente.

Certo, è lunga la strada per uscire dalla crisi che per molti versi appare definitiva, ma è una strada che esiste ed è percorribile. La dimostrazione data da Brown, El-Ertian e Spence viene viene illustrata in circa 250 pagine che si devono leggere con attenzione e che sono rigorosamente divise in tre parti. Prima viene affrontato il contenuto del vocabolo “crescita” in termini di condizioni favorevoli e sfavorevoli, di sostenibilità e di produttività per arrivare ad indicare come la cosiddetta equazione della crescita debba essere cambiata. Poi gli autori affrontano il tema della gestione economica, anche in qui con i pro e i contro, gli aspetti positivi e quelli negativi, i passi per migliorarla. Crescita ed economia debbono poi essere inseriti in un ordine globale che va rivisto con una rinvigorimento delle istituzioni internazionali e una globalizzazione “leggera”.

Il libro scritto da Brown, El-Ertian e Spence è una buona lettura da compiere con mente aperta, sguardo positivo, fiducia nell’umanità e nelle sue opere. Un libro da ragionare e discutere. Certo, nulla è dato per scontato, ma tutto è dato per possibile. Sintetizzando il percorso da fare i tre scrivono: “Il mondo sta cambiando davanti ai nostri occhi”, chiariscono gli autori. “E noi abbiamo il dovere di cogliere il significato dei cambiamenti in corso: primo, il passaggio da un mondo unipolare a uno multipolare; secondo, da un’iper-globalizzazione a una globalizzazione light; terzo, da un’era neoliberale in cui l’economia dettava le decisioni politiche a una neo-nazionalista, in cui la politica e la sicurezza nazionale dettano le condizioni economiche. Il mondo sta cambiando, ma che aspetto avrà questo cambiamento dipende da noi”.

Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi

Gordon Brown, Mohamed A. El-Erian e Michael Spence

Egea, 2024

Quando l’impresa “prende posizione”

A Ca’ Foscari discussa una tesi sul brand activism

 

Imprese impegnate ben oltre la produzione. Aziende che hanno fatto del loro attivismo nell’ambito della società e del territorio una loro ragione d’essere, oppure, semplicemente, uno strumento privilegiato d’azione commerciale. Il tema è importante e poco esplorato dalla letteratura che ha a che fare con la gestione d’azienda. Eppure, vale la fatica di capirlo meglio. E’ a questo che ha pensato Camilla Francescon con il suo lavoro di ricerca, trasformatosi in una tesi discussa alla Ca’ Foscari di Venezia, “Brand Activism nel settore agroalimentare. Un’analisi del contesto italiano”.

L’indagine, in particolare, prende in considerazione un modello d’azione ben definito – il brand activism – che consiste in un comportamento delle imprese con ben definiti brand che, come spiega la stessa Francescon, decidono di prendere posizione in rilevanti problemi di natura sociale, politica, economica o ambientale che affliggono la società andando al di là del raggiungimento degli obiettivi economico-finanziari (che spesso vengono anche messi in secondo piano).

La ricerca inizia quindi con un lucido inquadramento del modello studiato mettendone a fuoco l’origine, l’evoluzione e le diverse declinazioni possibili. L’approfondimento è poi dedicato al comparto agroalimentare  in generale e, quindi, a quello italiano in particolare. Proprio in tema agroalimentare, vengono poi approfonditi alcuni grandi argomenti cavalcati dal brand activism come la sostenibilità ambientale e sociale, così come la trasparenza delle informazioni. L’elaborazione teorica di Francescon viene arricchita anche da una serie di interviste svolte nell’ambito di aziende agroalimentari di dimensioni diverse ma tutte significative come Sgambaro (molino e pastificio), Bauli (dolciario), Melinda (frutta), Lattebusche (lattiero-caseario), Pedon (prodotti orticoli), Rigone di Asiago (confetture), Molino Rossetto (molino e pastificio), Morato (panificazione).

Brand activism, dunque, come nuova e comunque originale forma di una cultura d’impresa che si evolve, cambia, diventa più presente nell’ambito sociale in cui agisce, è consapevole della sua responsabilità ma anche dei rischi che si assume passando dalla “semplice” produzione a qualcosa di più vasto e complesso.

Brand Activism nel settore agroalimentare. Un’analisi del contesto italiano
Camilla Francescon
Tesi, Università Ca’ Foscari, Corso di Laurea Magistrale in Marketing e Comunicazione, 2023

A Ca’ Foscari discussa una tesi sul brand activism

 

Imprese impegnate ben oltre la produzione. Aziende che hanno fatto del loro attivismo nell’ambito della società e del territorio una loro ragione d’essere, oppure, semplicemente, uno strumento privilegiato d’azione commerciale. Il tema è importante e poco esplorato dalla letteratura che ha a che fare con la gestione d’azienda. Eppure, vale la fatica di capirlo meglio. E’ a questo che ha pensato Camilla Francescon con il suo lavoro di ricerca, trasformatosi in una tesi discussa alla Ca’ Foscari di Venezia, “Brand Activism nel settore agroalimentare. Un’analisi del contesto italiano”.

L’indagine, in particolare, prende in considerazione un modello d’azione ben definito – il brand activism – che consiste in un comportamento delle imprese con ben definiti brand che, come spiega la stessa Francescon, decidono di prendere posizione in rilevanti problemi di natura sociale, politica, economica o ambientale che affliggono la società andando al di là del raggiungimento degli obiettivi economico-finanziari (che spesso vengono anche messi in secondo piano).

La ricerca inizia quindi con un lucido inquadramento del modello studiato mettendone a fuoco l’origine, l’evoluzione e le diverse declinazioni possibili. L’approfondimento è poi dedicato al comparto agroalimentare  in generale e, quindi, a quello italiano in particolare. Proprio in tema agroalimentare, vengono poi approfonditi alcuni grandi argomenti cavalcati dal brand activism come la sostenibilità ambientale e sociale, così come la trasparenza delle informazioni. L’elaborazione teorica di Francescon viene arricchita anche da una serie di interviste svolte nell’ambito di aziende agroalimentari di dimensioni diverse ma tutte significative come Sgambaro (molino e pastificio), Bauli (dolciario), Melinda (frutta), Lattebusche (lattiero-caseario), Pedon (prodotti orticoli), Rigone di Asiago (confetture), Molino Rossetto (molino e pastificio), Morato (panificazione).

Brand activism, dunque, come nuova e comunque originale forma di una cultura d’impresa che si evolve, cambia, diventa più presente nell’ambito sociale in cui agisce, è consapevole della sua responsabilità ma anche dei rischi che si assume passando dalla “semplice” produzione a qualcosa di più vasto e complesso.

Brand Activism nel settore agroalimentare. Un’analisi del contesto italiano
Camilla Francescon
Tesi, Università Ca’ Foscari, Corso di Laurea Magistrale in Marketing e Comunicazione, 2023

Cultura, lavoro e conoscenza: nei musei, anche d’impresa c’è il capitale sociale d’una Italia produttiva e inclusiva 

I musei sono attori essenziali del nostro capitale sociale, costudiscono e valorizzano la memoria e ne stimolano la diffusione, favoriscono la partecipazione all’interno di un territorio e di una comunità e dunque ne alimentano la cultura della sostenibilità ambientale e sociale e ne rafforzano l’impegno civile. Aiutano la condivisione delle conoscenze e la contaminazione dei saperi. E sono dunque strumenti fondamenti di crescita culturale e quindi economica e sociale. I musei, insomma, vanno vissuti come testimoni della Storia e delle storie. E lievito del futuro. Spazi attivi per “l’avvenire della memoria”.

Queste parole, così cariche di senso e di valori forti, stanno in un grande diagramma che Michele Lanzinger, direttore del Museo delle Scienze di Trento e presidente di ICOM Italia (l’International Council of Museums) ama mostrare per raccontare come stanno cambiando le strutture museali nella stagione in cui cresce, soprattutto tra le nuove generazioni, la sensibilità sui temi ambientali e sociali e si diffonde un pur complesso e controverso pensiero critico sul ruolo dei musei e sulle relazioni tra le varie culture. Si va oltre i tradizionali confini del primato della rappresentazione occidentale della cultura e dell’arte (per saperne e capirne di più, vale la pena affidarsi alle pagine di “Musei possibili. Storia, sfide, sperimentazioni”, a cura di Fulvio Irace, edito da Carocci e presentato su IlSole24Ore, 26 maggio: dal simbolo dell’Altes Museum di Berlino icona del museo illuminista alla rivoluzione del Centre Pompidou e alle nuove costruzioni nel paesi arabi, come il Louvre ad Abu Dhabi, sino alle sperimentazioni digitali). E si cerca di costruire, tra conflitti e contrapposizioni (la cancel culture, le tendenze woke) un dialogo, un confronto, tra idee diverse del mondo e differenti rappresentazioni.

Lanzinger, dunque, iscrive la responsabilità dei musei nel contesto dei 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile e, in particolare, dei temi indicatori per la Cultura dell’Unesco (ambiente e resilienza, prosperità e sostentamento, conoscenza e competenza, inclusione e partecipazione) e spiega che “portare lo sviluppo sostenibile all’interno del mondo dei beni culturali vuol dire mettere in gioco la capacità di avere uno sguardo rivolto verso il futuro e ampliare il raggio d’azione degli enti culturali coinvolti”. Se ne è parlato, a metà maggio, alla Triennale di Milano, per un convegno promosso dal Museo Lavazza per il Museum Day 2024, discutendo del ruolo dei musei e delle imprese. Se ne parlerà ancora alla Dubai 2025 International General Conference dell’Icom.

L’Agenda 2030 dell’Onu, insomma, ispira le scelte dell’Unesco e dell’Icom. E il riflesso è evidente proprio nella definizione di “museo” adottata dall’Icom con il documento approvato a Praga nell’agosto del 2022: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale”. E ancora: “Aperti al pubblico, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione delle conoscenze”.

Risuonano, qui, parecchie delle parole da cui siamo partiti. E indicano una strada chiara, che investe in pieno il passaggio dei musei “da agenti di conservazione, ricerca, esposizione ed educazione a veri agenti di innovazione sociale ed economica”. Hub culturali e stimoli “per un pubblico contemporaneo sempre più diversificato e globale”. Servizio pubblico, anche quando si tratti di strutture private. Spazi di conoscenza e dunque di libertà. Di confronto. Di dialogo. E, per l’Europa e gli altri paesi occidentali, spazio fondamentale di democrazia.

Tornano in mente le indicazioni dell’articolo 9 della Costituzione italiana, nella nuova formulazione approvata nel maggio 2021: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni”. Ecco un orizzonte di riferimento sapiente e responsabile. Di cui i musei sono parte essenziale. Anche i musei d’impresa, naturalmente.

Le indicazioni dell’Icom e la definizione di museo come luogo di educazione, piacere, riflessione e condivisione delle conoscenze, infatti, sono risuonate nei giorni scorsi in occasione dell’Assemblea annuale di Museimpresa (l’associazione promossa oltre vent’anni fa da Assolombarda e Confindustria e forte dell’adesione di quasi 150 musei e archivi storici aziendali) riunita a Firenze (ospiti di Baker Hughes/Nuovo Pignone e del Museo Ferragamo) per parlare di come “valorizzare memoria e identità nel tempo delle grandi transizioni”. La transizione ambientale e quella digitale. Le transizioni verso nuovi equilibri geopolitici, che mettono in crisi le vecchie mappe di una globalizzazione diseguale e distorcente. Le modifiche dei sistemi di produzione e dei prodotti sotto la spinta delle innovazioni amplificate dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Le migrazioni. E le transizioni generazionali, con antichi e nuovi devide di genere, età, provenienza geografica, conoscenze.

Proprio le imprese sono luoghi fisici e culturali quanto mai sensibili a tutti questi temi. Sono strutture guidate da spinte d’innovazione, produttività e competitività. Ma proprio nella stagione della stakeholders economy (con l’attenzione prioritaria ai valori dei soggetti, dei territori e delle comunità su cui l’impresa incide), pure l’inclusione sociale, i valori del lavoro e della sua sicurezza e il rispetto degli equilibri ambientali sono fattori fondamentali di sviluppo, appunto sostenibile e sempre più apprezzato dai mercati (dei consumatori ma anche degli investitori finanziari).

Nei musei e negli archivi storici, appunto, ci sono le testimonianze, quantomai attuali, di questi processi economici e sociali. I documenti e le immagini, le schede tecniche e i racconti che rivelano la forza, storica e contemporanea, dell’impresa italiana, a cominciare dalla sua manifattura e le qualità di una vera e propria “metamorfosi” industriale che privilegia qualità e socialità.

Lavorare, infatti, sulla memoria e sulla valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale industriale dell’Italia è un modo, per le imprese, di testimoniare di essere parte di una cittadinanza attiva che consente di pensare concretamente alla qualità dello sviluppo del nostro Paese. Negli archivi e nei musei d’impresa c’è la storia di donne e uomini che, di fronte alle sfide del tempo, hanno saputo dare risposte di crescita che sono evidenti, sul piano economico, nei dati di successo dell’export (670 miliardi, che collocano l’Italia tra i primi cinque paesi al mondo) e, su quello sociale e culturale, nella crescente affluenza di frequentatori dei musei d’impresa, soprattutto da parte delle nuove generazioni.

“Destinazioni ad alto potenziale per il turismo industriale”, scrive IlSole24Ore (1 giugno). Testimonianze esemplari, comunque, di una “civiltà delle macchine”, dell’intraprendenza e del lavoro che costituisce un’asset fondamentale per scrivere, proprio partendo dall’economia e dai musei, una migliore “storia al futuro”.

I musei sono attori essenziali del nostro capitale sociale, costudiscono e valorizzano la memoria e ne stimolano la diffusione, favoriscono la partecipazione all’interno di un territorio e di una comunità e dunque ne alimentano la cultura della sostenibilità ambientale e sociale e ne rafforzano l’impegno civile. Aiutano la condivisione delle conoscenze e la contaminazione dei saperi. E sono dunque strumenti fondamenti di crescita culturale e quindi economica e sociale. I musei, insomma, vanno vissuti come testimoni della Storia e delle storie. E lievito del futuro. Spazi attivi per “l’avvenire della memoria”.

Queste parole, così cariche di senso e di valori forti, stanno in un grande diagramma che Michele Lanzinger, direttore del Museo delle Scienze di Trento e presidente di ICOM Italia (l’International Council of Museums) ama mostrare per raccontare come stanno cambiando le strutture museali nella stagione in cui cresce, soprattutto tra le nuove generazioni, la sensibilità sui temi ambientali e sociali e si diffonde un pur complesso e controverso pensiero critico sul ruolo dei musei e sulle relazioni tra le varie culture. Si va oltre i tradizionali confini del primato della rappresentazione occidentale della cultura e dell’arte (per saperne e capirne di più, vale la pena affidarsi alle pagine di “Musei possibili. Storia, sfide, sperimentazioni”, a cura di Fulvio Irace, edito da Carocci e presentato su IlSole24Ore, 26 maggio: dal simbolo dell’Altes Museum di Berlino icona del museo illuminista alla rivoluzione del Centre Pompidou e alle nuove costruzioni nel paesi arabi, come il Louvre ad Abu Dhabi, sino alle sperimentazioni digitali). E si cerca di costruire, tra conflitti e contrapposizioni (la cancel culture, le tendenze woke) un dialogo, un confronto, tra idee diverse del mondo e differenti rappresentazioni.

Lanzinger, dunque, iscrive la responsabilità dei musei nel contesto dei 17 Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile e, in particolare, dei temi indicatori per la Cultura dell’Unesco (ambiente e resilienza, prosperità e sostentamento, conoscenza e competenza, inclusione e partecipazione) e spiega che “portare lo sviluppo sostenibile all’interno del mondo dei beni culturali vuol dire mettere in gioco la capacità di avere uno sguardo rivolto verso il futuro e ampliare il raggio d’azione degli enti culturali coinvolti”. Se ne è parlato, a metà maggio, alla Triennale di Milano, per un convegno promosso dal Museo Lavazza per il Museum Day 2024, discutendo del ruolo dei musei e delle imprese. Se ne parlerà ancora alla Dubai 2025 International General Conference dell’Icom.

L’Agenda 2030 dell’Onu, insomma, ispira le scelte dell’Unesco e dell’Icom. E il riflesso è evidente proprio nella definizione di “museo” adottata dall’Icom con il documento approvato a Praga nell’agosto del 2022: “Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale”. E ancora: “Aperti al pubblico, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione delle conoscenze”.

Risuonano, qui, parecchie delle parole da cui siamo partiti. E indicano una strada chiara, che investe in pieno il passaggio dei musei “da agenti di conservazione, ricerca, esposizione ed educazione a veri agenti di innovazione sociale ed economica”. Hub culturali e stimoli “per un pubblico contemporaneo sempre più diversificato e globale”. Servizio pubblico, anche quando si tratti di strutture private. Spazi di conoscenza e dunque di libertà. Di confronto. Di dialogo. E, per l’Europa e gli altri paesi occidentali, spazio fondamentale di democrazia.

Tornano in mente le indicazioni dell’articolo 9 della Costituzione italiana, nella nuova formulazione approvata nel maggio 2021: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni”. Ecco un orizzonte di riferimento sapiente e responsabile. Di cui i musei sono parte essenziale. Anche i musei d’impresa, naturalmente.

Le indicazioni dell’Icom e la definizione di museo come luogo di educazione, piacere, riflessione e condivisione delle conoscenze, infatti, sono risuonate nei giorni scorsi in occasione dell’Assemblea annuale di Museimpresa (l’associazione promossa oltre vent’anni fa da Assolombarda e Confindustria e forte dell’adesione di quasi 150 musei e archivi storici aziendali) riunita a Firenze (ospiti di Baker Hughes/Nuovo Pignone e del Museo Ferragamo) per parlare di come “valorizzare memoria e identità nel tempo delle grandi transizioni”. La transizione ambientale e quella digitale. Le transizioni verso nuovi equilibri geopolitici, che mettono in crisi le vecchie mappe di una globalizzazione diseguale e distorcente. Le modifiche dei sistemi di produzione e dei prodotti sotto la spinta delle innovazioni amplificate dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Le migrazioni. E le transizioni generazionali, con antichi e nuovi devide di genere, età, provenienza geografica, conoscenze.

Proprio le imprese sono luoghi fisici e culturali quanto mai sensibili a tutti questi temi. Sono strutture guidate da spinte d’innovazione, produttività e competitività. Ma proprio nella stagione della stakeholders economy (con l’attenzione prioritaria ai valori dei soggetti, dei territori e delle comunità su cui l’impresa incide), pure l’inclusione sociale, i valori del lavoro e della sua sicurezza e il rispetto degli equilibri ambientali sono fattori fondamentali di sviluppo, appunto sostenibile e sempre più apprezzato dai mercati (dei consumatori ma anche degli investitori finanziari).

Nei musei e negli archivi storici, appunto, ci sono le testimonianze, quantomai attuali, di questi processi economici e sociali. I documenti e le immagini, le schede tecniche e i racconti che rivelano la forza, storica e contemporanea, dell’impresa italiana, a cominciare dalla sua manifattura e le qualità di una vera e propria “metamorfosi” industriale che privilegia qualità e socialità.

Lavorare, infatti, sulla memoria e sulla valorizzazione dell’enorme patrimonio culturale industriale dell’Italia è un modo, per le imprese, di testimoniare di essere parte di una cittadinanza attiva che consente di pensare concretamente alla qualità dello sviluppo del nostro Paese. Negli archivi e nei musei d’impresa c’è la storia di donne e uomini che, di fronte alle sfide del tempo, hanno saputo dare risposte di crescita che sono evidenti, sul piano economico, nei dati di successo dell’export (670 miliardi, che collocano l’Italia tra i primi cinque paesi al mondo) e, su quello sociale e culturale, nella crescente affluenza di frequentatori dei musei d’impresa, soprattutto da parte delle nuove generazioni.

“Destinazioni ad alto potenziale per il turismo industriale”, scrive IlSole24Ore (1 giugno). Testimonianze esemplari, comunque, di una “civiltà delle macchine”, dell’intraprendenza e del lavoro che costituisce un’asset fondamentale per scrivere, proprio partendo dall’economia e dai musei, una migliore “storia al futuro”.

Parità?

Un libro pubblicato da poco affronta il tema del lavoro delle donne in modo concreto e disincantato

Si fa presto a dire “parità”. Poi nella realtà è tutto diverso. Talmente diverso che, spesso, in molte imprese la buona cultura del produrre – che appunto passa anche per la reale parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro – è ancora un miraggio o poco più. E quindi che fare? E’ per cercare una risposta a questa domanda che Rita Querzè – firma del Corriere della Sera – ha scritto il suo “Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse” un libro che arriva ad una conclusione più che chiara: “Parlare della necessità di una ‘rivoluzione’ negli schemi che regolano il lavoro delle donne non è eccessivo, bensì necessario”.

Querzè racconta in poco meno di duecento pagine (che si leggono d’un fiato e bene) come per una donna la libertà di lavorare fondamentalmente non esista.  E non solo. Perché dalle pagine di Querzè si apprende come il 50% della donne sia disoccupato, come la maternità rappresenti ancora un intralcio e come il lavoro di cura gratuito, abitualmente, sono le mogli, le madri, le figlie a sobbarcarselo (in ben il 70% di casi). A tutto questo si aggiunge il divario di salario tra uomini e donne – che ad oggi arriva al 16,5% – e l’accentuata difficoltà nel fare carriera in un’età in cui le imprese tendono a vedere le giovani donne come soggetti “in bilico” su cui è meglio non puntare, perché potrebbero presto fare figli. Insomma, gli esempi di imprese che, nei confronti della parità hanno un atteggiamento diverso, paiono essere l’eccezione piuttosto che una regola che si sta diffondendo.

Da buona reporter, Querzè illustra tutto raccontando storie di donne toccate direttamente da queste questioni e non si limita a descrivere le misure oggi in campo, ma indica anche le possibili strade da percorrere per accelerare il cambiamento attraverso riforme dall’alto e cambio di mentalità dal basso. Ogni capitolo del libro mette così in luce un problema per proporre, contemporaneamente, una possibile via da percorrere per affrontarlo (dal credito ai tempi di lavoro, dagli stipendi al femminismo). Il tutto rivolgendosi sia agli uomini quanto alle donne, perché – viene spiegato – solo insieme sarà possibile costruire nuovi e più sani equilibri.

Il libro di Rita Querzè è da leggere, contiene i semi per un dibattito per troppo tempo tenuto sotto traccia oppure male interpretato e, soprattutto, contiene gli elementi per un cambio di passo che deve riguardare tutti. Già, perché la questione della parità è cosa che davvero riguarda tutti.

Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse

Rita Querzè

Post Editori, 2023

Un libro pubblicato da poco affronta il tema del lavoro delle donne in modo concreto e disincantato

Si fa presto a dire “parità”. Poi nella realtà è tutto diverso. Talmente diverso che, spesso, in molte imprese la buona cultura del produrre – che appunto passa anche per la reale parità tra donne e uomini nei luoghi di lavoro – è ancora un miraggio o poco più. E quindi che fare? E’ per cercare una risposta a questa domanda che Rita Querzè – firma del Corriere della Sera – ha scritto il suo “Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse” un libro che arriva ad una conclusione più che chiara: “Parlare della necessità di una ‘rivoluzione’ negli schemi che regolano il lavoro delle donne non è eccessivo, bensì necessario”.

Querzè racconta in poco meno di duecento pagine (che si leggono d’un fiato e bene) come per una donna la libertà di lavorare fondamentalmente non esista.  E non solo. Perché dalle pagine di Querzè si apprende come il 50% della donne sia disoccupato, come la maternità rappresenti ancora un intralcio e come il lavoro di cura gratuito, abitualmente, sono le mogli, le madri, le figlie a sobbarcarselo (in ben il 70% di casi). A tutto questo si aggiunge il divario di salario tra uomini e donne – che ad oggi arriva al 16,5% – e l’accentuata difficoltà nel fare carriera in un’età in cui le imprese tendono a vedere le giovani donne come soggetti “in bilico” su cui è meglio non puntare, perché potrebbero presto fare figli. Insomma, gli esempi di imprese che, nei confronti della parità hanno un atteggiamento diverso, paiono essere l’eccezione piuttosto che una regola che si sta diffondendo.

Da buona reporter, Querzè illustra tutto raccontando storie di donne toccate direttamente da queste questioni e non si limita a descrivere le misure oggi in campo, ma indica anche le possibili strade da percorrere per accelerare il cambiamento attraverso riforme dall’alto e cambio di mentalità dal basso. Ogni capitolo del libro mette così in luce un problema per proporre, contemporaneamente, una possibile via da percorrere per affrontarlo (dal credito ai tempi di lavoro, dagli stipendi al femminismo). Il tutto rivolgendosi sia agli uomini quanto alle donne, perché – viene spiegato – solo insieme sarà possibile costruire nuovi e più sani equilibri.

Il libro di Rita Querzè è da leggere, contiene i semi per un dibattito per troppo tempo tenuto sotto traccia oppure male interpretato e, soprattutto, contiene gli elementi per un cambio di passo che deve riguardare tutti. Già, perché la questione della parità è cosa che davvero riguarda tutti.

Donne e lavoro. Rivoluzione in sei mosse

Rita Querzè

Post Editori, 2023

Impresa e lavoro, evoluzione comune

L’analisi comparata dei contratti collettivi fornisce un quadro puntuale delle regole da applicare

 

Le regole del lavoro che cambiano sulla base del confronto tra i protagonisti delle imprese. Dialogo (spesso) serrato, sempre costruttivo, la cui osservazione può dire molto sull’effettivo livello di quella cultura d’impresa che cerca di conciliare esigenze di lavoro e di vita, produttività con vivibilità degli ambienti di fabbrica e di ufficio. Si tratta di un traguardo conoscitivo che può essere avvicinato attraverso l’osservazione e la comparazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro dei diversi comparti industriali. E’ quanto fatto da Renato Brunetta (Presidente CNEL) e Chiara Altilio (Visiting Fellow presso lo stesso CNEL) con la ricerca “Non di solo lavoro vive l’uomo. Il contributo della contrattazione al corretto equilibrio tra persona, carichi di cura e lavoro. Una verifica sull’archivio CNEL dei contratti collettivi” pubblicata da poco nella serie “Casi e materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva” dello stesso Consiglio.

I due autori partono da un lato dalla constatazione della sempre più pressante esigenza di conciliare vita e lavoro e, dall’altro, dalla necessità di un “percorso di monitoraggio e valutazione” su come queste esigenze (sancite anche dalla legge) siano per davvero tenute in conto nella realtà effettiva della produzione. Per iniziare una verifica puntuale sul tema, Brunetta e Altilio hanno scelto di verificare come i contratti collettivi di lavoro abbiano accolto quanto indicato delle norme e a seguiti del confronto tra imprese e organizzazioni sindacali. Base di lavoro è stato l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro.

L’analisi condotta ha riguardato quindi alcuni grandi gruppi di strumenti: i contributi, i rimborsi e i benefit, ma anche i servizi e le prestazioni previste così come gli aspetti relativi all’organizzazione del lavoro indicata dai singoli contratti esaminati settore per settore.

La fotografia che Brunetta e Altilio scattano dello stato dell’arte della contrattazione collettiva con riferimento agli strumenti di conciliazione tra vita e lavoro, è attenta ai particolari così come al quadro generale. E fornisce un’indicazione importante: se da una parte i contratti nazionali testimoniano dell’attenzione all’argomento e della volontà di mettere in pratica quanto dettato dalle leggi, dall’altra c’è ancora spazio per notevoli miglioramenti a partire dal trasferimento negli accordi di lavoro aziendali.

Importante l’incipit a tutta l’indagine: “I cambiamenti demografici, le nuove e crescenti vulnerabilità, la modifica delle strutture familiari e le stesse dinamiche occupazionali dei moderni mercati del lavoro influenzano profondamente il rapporto tra persona e processi economici. Non è più solo un problema, già di per sé complesso, di coniugare il benessere organizzativo con la produttività del lavoro. Sullo sfondo emerge l’urgenza di contribuire nel complesso a una società più giusta e inclusiva collocando nei fatti, e non solo a parole, le persone al centro delle dinamiche dei contesti produttivi e di lavoro. Contesti che sono sempre più chiamati a diventare luoghi di sviluppo di buone relazioni interpersonali dove cioè non sia più una eccezione, affidata alla sola responsabilità sociale d’impresa, l’idea che i bisogni della persona che lavora non sono secondari rispetto alle esigenze organizzative e produttive”.

Non di solo lavoro vive l’uomo. Il contributo della contrattazione al corretto equilibrio tra persona, carichi di cura e lavoro. Una verifica sull’archivio CNEL dei contratti collettivi

Renato Brunetta, Presidente CNEL, Chiara Altilio, Visiting Fellow presso il CNEL

Casi e materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva, N. 10 | 2024

L’analisi comparata dei contratti collettivi fornisce un quadro puntuale delle regole da applicare

 

Le regole del lavoro che cambiano sulla base del confronto tra i protagonisti delle imprese. Dialogo (spesso) serrato, sempre costruttivo, la cui osservazione può dire molto sull’effettivo livello di quella cultura d’impresa che cerca di conciliare esigenze di lavoro e di vita, produttività con vivibilità degli ambienti di fabbrica e di ufficio. Si tratta di un traguardo conoscitivo che può essere avvicinato attraverso l’osservazione e la comparazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro dei diversi comparti industriali. E’ quanto fatto da Renato Brunetta (Presidente CNEL) e Chiara Altilio (Visiting Fellow presso lo stesso CNEL) con la ricerca “Non di solo lavoro vive l’uomo. Il contributo della contrattazione al corretto equilibrio tra persona, carichi di cura e lavoro. Una verifica sull’archivio CNEL dei contratti collettivi” pubblicata da poco nella serie “Casi e materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva” dello stesso Consiglio.

I due autori partono da un lato dalla constatazione della sempre più pressante esigenza di conciliare vita e lavoro e, dall’altro, dalla necessità di un “percorso di monitoraggio e valutazione” su come queste esigenze (sancite anche dalla legge) siano per davvero tenute in conto nella realtà effettiva della produzione. Per iniziare una verifica puntuale sul tema, Brunetta e Altilio hanno scelto di verificare come i contratti collettivi di lavoro abbiano accolto quanto indicato delle norme e a seguiti del confronto tra imprese e organizzazioni sindacali. Base di lavoro è stato l’archivio nazionale dei contratti e degli accordi collettivi di lavoro.

L’analisi condotta ha riguardato quindi alcuni grandi gruppi di strumenti: i contributi, i rimborsi e i benefit, ma anche i servizi e le prestazioni previste così come gli aspetti relativi all’organizzazione del lavoro indicata dai singoli contratti esaminati settore per settore.

La fotografia che Brunetta e Altilio scattano dello stato dell’arte della contrattazione collettiva con riferimento agli strumenti di conciliazione tra vita e lavoro, è attenta ai particolari così come al quadro generale. E fornisce un’indicazione importante: se da una parte i contratti nazionali testimoniano dell’attenzione all’argomento e della volontà di mettere in pratica quanto dettato dalle leggi, dall’altra c’è ancora spazio per notevoli miglioramenti a partire dal trasferimento negli accordi di lavoro aziendali.

Importante l’incipit a tutta l’indagine: “I cambiamenti demografici, le nuove e crescenti vulnerabilità, la modifica delle strutture familiari e le stesse dinamiche occupazionali dei moderni mercati del lavoro influenzano profondamente il rapporto tra persona e processi economici. Non è più solo un problema, già di per sé complesso, di coniugare il benessere organizzativo con la produttività del lavoro. Sullo sfondo emerge l’urgenza di contribuire nel complesso a una società più giusta e inclusiva collocando nei fatti, e non solo a parole, le persone al centro delle dinamiche dei contesti produttivi e di lavoro. Contesti che sono sempre più chiamati a diventare luoghi di sviluppo di buone relazioni interpersonali dove cioè non sia più una eccezione, affidata alla sola responsabilità sociale d’impresa, l’idea che i bisogni della persona che lavora non sono secondari rispetto alle esigenze organizzative e produttive”.

Non di solo lavoro vive l’uomo. Il contributo della contrattazione al corretto equilibrio tra persona, carichi di cura e lavoro. Una verifica sull’archivio CNEL dei contratti collettivi

Renato Brunetta, Presidente CNEL, Chiara Altilio, Visiting Fellow presso il CNEL

Casi e materiali di discussione: mercato del lavoro e contrattazione collettiva, N. 10 | 2024

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