Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Raccontarsi ed essere competitivi

Il caso del corporate heritage marketingcome strumento di narrazione d’impresa e di mercato

 

Sostenere la posizione dell’impresa in mercati sempre più competitivi senza abbandonare la propria cultura del produrre, e la storia dalla quale si proviene. Compiti di non poco conto, con i quali hanno a che fare molte organizzazioni della produzione, soprattutto di comparti in cui qualità e competitività vanno di pari passo. Come è il caso del settore della moda di lusso. È attorno a questo tema che ha ragionato Margherita Masci con la sua ricerca “Come il corporate heritage marketing può contribuire alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale delle imprese del lusso nel settore della moda”, sfociata in una tesi discussa recentemente presso l’Università di Padova.

Masci parte dalla considerazione che se da una parte il settore della moda di lusso rappresenta “uno dei comparti più dinamici e simbolici dell’economia globale, capace di influenzare non solo i consumi, ma anche l’immaginario culturale, gli stili di vita e i valori identitari”, dall’altra in un contesto caratterizzato da crescente competitività, digitalizzazione e rapida obsolescenza delle tendenze, “i brand del lusso si trovano a dover bilanciare innovazione e tradizione, autenticità e contemporaneità”.

È in questo scenario che assume particolare rilevanza il concetto di corporate heritage marketing, inteso come l’insieme delle strategie e delle pratiche attraverso cui le imprese valorizzano e comunicano la propria storia, le origini e i valori fondanti, trasformandoli in strumenti di comunicazione. Ed è su questo strumento che si concentra la ricerca di Margherita Masci. Per una motivazione importante: nel caso della moda di lusso, il corporate heritage marketing acquista una forza particolare perché diventa garanzia di autenticità, legittimità e continuità, rafforzando l’immagine del brand e distinguendolo in un mercato affollato e sempre più globalizzato.

La ricerca ha quindi l’obiettivo di indagare il ruolo del corporate heritage marketing nelle aziende, in particolare quelle della moda di lusso, analizzandone i principi teorici e le modalità applicative. Oltre ad una parte teorica, vengono approfonditi tre casi emblematici di maisons di lusso: Salvatore Ferragamo, Gucci e Armani. La valorizzazione dell’heritage – è l’indicazione che emerge dalla ricerca di Masci –  può trasformarsi in un potente strumento narrativo e strategico.

La ricerca di Margherita Masci ha il merito di unire e sintetizzare efficacemente aspetti teorici ed operativi di un tema complesso.

Come il corporate heritage marketing può contribuire alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale delle imprese del lusso nel settore della moda

Margherita Masci

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata, Dipartimento di scienze economiche e aziendali “Marco Fanno”, Corso di laurea in comunicazione, 2025

Il caso del corporate heritage marketingcome strumento di narrazione d’impresa e di mercato

 

Sostenere la posizione dell’impresa in mercati sempre più competitivi senza abbandonare la propria cultura del produrre, e la storia dalla quale si proviene. Compiti di non poco conto, con i quali hanno a che fare molte organizzazioni della produzione, soprattutto di comparti in cui qualità e competitività vanno di pari passo. Come è il caso del settore della moda di lusso. È attorno a questo tema che ha ragionato Margherita Masci con la sua ricerca “Come il corporate heritage marketing può contribuire alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale delle imprese del lusso nel settore della moda”, sfociata in una tesi discussa recentemente presso l’Università di Padova.

Masci parte dalla considerazione che se da una parte il settore della moda di lusso rappresenta “uno dei comparti più dinamici e simbolici dell’economia globale, capace di influenzare non solo i consumi, ma anche l’immaginario culturale, gli stili di vita e i valori identitari”, dall’altra in un contesto caratterizzato da crescente competitività, digitalizzazione e rapida obsolescenza delle tendenze, “i brand del lusso si trovano a dover bilanciare innovazione e tradizione, autenticità e contemporaneità”.

È in questo scenario che assume particolare rilevanza il concetto di corporate heritage marketing, inteso come l’insieme delle strategie e delle pratiche attraverso cui le imprese valorizzano e comunicano la propria storia, le origini e i valori fondanti, trasformandoli in strumenti di comunicazione. Ed è su questo strumento che si concentra la ricerca di Margherita Masci. Per una motivazione importante: nel caso della moda di lusso, il corporate heritage marketing acquista una forza particolare perché diventa garanzia di autenticità, legittimità e continuità, rafforzando l’immagine del brand e distinguendolo in un mercato affollato e sempre più globalizzato.

La ricerca ha quindi l’obiettivo di indagare il ruolo del corporate heritage marketing nelle aziende, in particolare quelle della moda di lusso, analizzandone i principi teorici e le modalità applicative. Oltre ad una parte teorica, vengono approfonditi tre casi emblematici di maisons di lusso: Salvatore Ferragamo, Gucci e Armani. La valorizzazione dell’heritage – è l’indicazione che emerge dalla ricerca di Masci –  può trasformarsi in un potente strumento narrativo e strategico.

La ricerca di Margherita Masci ha il merito di unire e sintetizzare efficacemente aspetti teorici ed operativi di un tema complesso.

Come il corporate heritage marketing può contribuire alla valorizzazione del patrimonio storico-culturale delle imprese del lusso nel settore della moda

Margherita Masci

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata, Dipartimento di scienze economiche e aziendali “Marco Fanno”, Corso di laurea in comunicazione, 2025

Raccontare l’impresa anche con i bilanci

Il tema delle “note integrative” e della loro efficacia

Raccontare l’impresa anche nei bilanci, e non solo con i numeri. Trasparenza, quindi, ma anche storia di un impegno attento nel produrre; con i buoni conti da tutelare da una parte e la cura di chi in azienda lavora.

È, a ben vedere, l’obiettivo delle cosiddette “note integrative” che arricchiscono gli schemi di bilancio classici e forniscono una valutazione qualitativa complessiva degli andamenti aziendali passati e in prospettiva. Sul significato e l’efficacia di questi documenti si sono esercitati Antonio Accetturo, Audinga Baltrunaite, Gianmarco Cariola, Annalisa Frigo e Marco Gallo (tutti economisti di Banca d’Italia); un impegno di analisi che ha condotto alla redazione di una ricerca appena pubblicata nella collana “Temi di discussione”.

“Il valore delle parole: l’impatto dell’informazione non finanziaria sulla performance delle imprese” – questo il titolo dell’analisi – ha l’obiettivo di approfondire gli effetti delle “note integrative” sulla valutazione delle imprese e sulla percezione che di queste ha il sistema economico. Percezione, dunque, attraverso la quale passa anche la reputazione d’impresa.

Accetturo e i suoi colleghi effettuano un’analisi puntuale degli effetti delle “note integrative” di bilancio distinguendo un prima e un dopo. Per ridurre gli oneri amministrativi, infatti, nel 2016 è stato introdotto il bilancio semplificato per le microimprese (bilancio micro), eliminando l’obbligo di presentare la “nota integrativa”. E il prima e il dopo si colgono in due circostanze. Prima di tutto, l’adozione del bilancio micro – viene fatto notare dalla ricerca – non ha comportato un calo apprezzabile dei costi sostenuti dalle imprese. D’altra parte, ed è la seconda circostanza, la semplificazione ha invece influito negativamente sulla capacità delle imprese di accedere ai finanziamenti esterni e ha rallentato i processi di acquisizione delle quote societarie da parte di nuovi soci, verosimilmente a causa della riduzione delle informazioni a loro disponibili. Senza “note integrative”, in altri termini, il racconto dell’impresa che si fa reputazione della stessa pare abbia perduto di efficacia. Sembrerebbe quasi che una parte importante della cultura del produrre delle imprese si sia persa tra i troppi numeri e le poche parole.

Il valore delle parole: l’impatto dell’informazione non finanziaria sulla performance delle imprese

Antonio Accetturo, Audinga Baltrunaite, Gianmarco Cariola, Annalisa Frigo e Marco Gallo

Banca d’Italia, Temi di discussione, n. 1498, ottobre 2025

Il tema delle “note integrative” e della loro efficacia

Raccontare l’impresa anche nei bilanci, e non solo con i numeri. Trasparenza, quindi, ma anche storia di un impegno attento nel produrre; con i buoni conti da tutelare da una parte e la cura di chi in azienda lavora.

È, a ben vedere, l’obiettivo delle cosiddette “note integrative” che arricchiscono gli schemi di bilancio classici e forniscono una valutazione qualitativa complessiva degli andamenti aziendali passati e in prospettiva. Sul significato e l’efficacia di questi documenti si sono esercitati Antonio Accetturo, Audinga Baltrunaite, Gianmarco Cariola, Annalisa Frigo e Marco Gallo (tutti economisti di Banca d’Italia); un impegno di analisi che ha condotto alla redazione di una ricerca appena pubblicata nella collana “Temi di discussione”.

“Il valore delle parole: l’impatto dell’informazione non finanziaria sulla performance delle imprese” – questo il titolo dell’analisi – ha l’obiettivo di approfondire gli effetti delle “note integrative” sulla valutazione delle imprese e sulla percezione che di queste ha il sistema economico. Percezione, dunque, attraverso la quale passa anche la reputazione d’impresa.

Accetturo e i suoi colleghi effettuano un’analisi puntuale degli effetti delle “note integrative” di bilancio distinguendo un prima e un dopo. Per ridurre gli oneri amministrativi, infatti, nel 2016 è stato introdotto il bilancio semplificato per le microimprese (bilancio micro), eliminando l’obbligo di presentare la “nota integrativa”. E il prima e il dopo si colgono in due circostanze. Prima di tutto, l’adozione del bilancio micro – viene fatto notare dalla ricerca – non ha comportato un calo apprezzabile dei costi sostenuti dalle imprese. D’altra parte, ed è la seconda circostanza, la semplificazione ha invece influito negativamente sulla capacità delle imprese di accedere ai finanziamenti esterni e ha rallentato i processi di acquisizione delle quote societarie da parte di nuovi soci, verosimilmente a causa della riduzione delle informazioni a loro disponibili. Senza “note integrative”, in altri termini, il racconto dell’impresa che si fa reputazione della stessa pare abbia perduto di efficacia. Sembrerebbe quasi che una parte importante della cultura del produrre delle imprese si sia persa tra i troppi numeri e le poche parole.

Il valore delle parole: l’impatto dell’informazione non finanziaria sulla performance delle imprese

Antonio Accetturo, Audinga Baltrunaite, Gianmarco Cariola, Annalisa Frigo e Marco Gallo

Banca d’Italia, Temi di discussione, n. 1498, ottobre 2025

Lavoro e impresa, trasformare il disagio in benessere

Il tema del malessere nelle organizzazioni della produzione e le strade per uscirne

Governare l’impresa in periodi difficili e complessi. Far quadrare i conti e valorizzare le persone. Compiti all’ordine del giorno per molte organizzazioni della produzione. Compiti ineludibili che implicano non solo la correttezza dei processi produttivi ma anche l’attenzione massima al benessere e al disagio dentro l’azienda. A questo nodo di temi provano a rispondere Mauro Tomé e Paolo Umidon “Clinica del benessere organizzativo. Quali risposte al disagio sul lavoro”, libro da loro curato e da poco pubblicato.

I due partono da una serie di constatazioni: il rapporto tra individuo e organizzazione è sempre più complesso; instabilità dei mercati, precarietà e insicurezza nelle relazioni lavorative, proceduralizzazioni a volte eccessive, tagli e riduzioni imposti dalla necessita di “equilibrare i conti” generano fatiche ed equilibri precari. Il cuore delle domande che derivano da questa situazione è semplice: come fare a conciliare l’efficacia e l’efficienza con la valorizzazione delle persone?

Gli autori rispondono a queste domande presentando teorie e tecniche corredate da riferimenti a casi reali di interventi presso organizzazioni clienti. Esperienze e idee basate su una visione ambiziosa: affrontare il disagio è un’occasione non solo per prendersi cura delle persone, ma anche per contribuire a migliorare efficienza ed efficacia organizzativa. Si tratta, viene spiegato, di esercitare una sorta di “doppio sguardo” fondato sull’ascolto costante, sulla valorizzazione degli individui, dei gruppi e delle relazioni interne. Il tema viene quindi declinato secondo lo schema fornito da MODUS Società Benefit e in più passaggi. Dopo in inquadramento generale dell’argomento si passa quindi al tema delle imprese familiari tra managerializzazione e passaggio generazionale, poi a quello della necessità di sviluppare una vera cultura dell’impresa, e quindi a quello della necessità di accompagnare verso il cambiamento e l’innovazione. Successivamente vengono affrontati argomenti come la valorizzazione di ogni singolo individuo all’interno dell’organizzazione e poi la necessità di affrontare il malessere” nelle organizzazioni in modo da arrivare a costruire il benessere all’interno delle stesse.

Il libro di Tomè e Umidon non promette la cura a tutti i mali che affliggono le organizzazioni della produzione, ma è certamente una “buina cura” per una certa parte di questi.

Clinica del benessere organizzativo. Quali risposte al disagio sul lavoro

Mauro Tomé, Paolo Umidon

Franco Angeli, 2025

Il tema del malessere nelle organizzazioni della produzione e le strade per uscirne

Governare l’impresa in periodi difficili e complessi. Far quadrare i conti e valorizzare le persone. Compiti all’ordine del giorno per molte organizzazioni della produzione. Compiti ineludibili che implicano non solo la correttezza dei processi produttivi ma anche l’attenzione massima al benessere e al disagio dentro l’azienda. A questo nodo di temi provano a rispondere Mauro Tomé e Paolo Umidon “Clinica del benessere organizzativo. Quali risposte al disagio sul lavoro”, libro da loro curato e da poco pubblicato.

I due partono da una serie di constatazioni: il rapporto tra individuo e organizzazione è sempre più complesso; instabilità dei mercati, precarietà e insicurezza nelle relazioni lavorative, proceduralizzazioni a volte eccessive, tagli e riduzioni imposti dalla necessita di “equilibrare i conti” generano fatiche ed equilibri precari. Il cuore delle domande che derivano da questa situazione è semplice: come fare a conciliare l’efficacia e l’efficienza con la valorizzazione delle persone?

Gli autori rispondono a queste domande presentando teorie e tecniche corredate da riferimenti a casi reali di interventi presso organizzazioni clienti. Esperienze e idee basate su una visione ambiziosa: affrontare il disagio è un’occasione non solo per prendersi cura delle persone, ma anche per contribuire a migliorare efficienza ed efficacia organizzativa. Si tratta, viene spiegato, di esercitare una sorta di “doppio sguardo” fondato sull’ascolto costante, sulla valorizzazione degli individui, dei gruppi e delle relazioni interne. Il tema viene quindi declinato secondo lo schema fornito da MODUS Società Benefit e in più passaggi. Dopo in inquadramento generale dell’argomento si passa quindi al tema delle imprese familiari tra managerializzazione e passaggio generazionale, poi a quello della necessità di sviluppare una vera cultura dell’impresa, e quindi a quello della necessità di accompagnare verso il cambiamento e l’innovazione. Successivamente vengono affrontati argomenti come la valorizzazione di ogni singolo individuo all’interno dell’organizzazione e poi la necessità di affrontare il malessere” nelle organizzazioni in modo da arrivare a costruire il benessere all’interno delle stesse.

Il libro di Tomè e Umidon non promette la cura a tutti i mali che affliggono le organizzazioni della produzione, ma è certamente una “buina cura” per una certa parte di questi.

Clinica del benessere organizzativo. Quali risposte al disagio sul lavoro

Mauro Tomé, Paolo Umidon

Franco Angeli, 2025

Evitare le trappole di una “Europa Peter Pan” e costruire strategie migliori su democrazia, sicurezza e sviluppo

“Un’Europa Peter Pan, immobile nella sua adolescenza politica, oscillante tra nostalgia e distrazione, mentre il mondo riscrive la geopolitica alla velocità della luce”, scrive Gabriele Segre su “La Stampa” (29 ottobre). È “immobile”, l’Europa, anche per Agnese Pini, direttrice di “QN” (La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno, 2 novembre) mentre “i giganti” e cioè la Cina e gli Usa siglano “una pace gelida” e precaria in un “nuovo mondo bipolare in cui manca la voce del Vecchio Continente”, incapace di “fare scelte politiche e non contabili” (come dimostrano le discussioni sui bilanci striminziti della Ue e dei singoli Stati). Un’Europa in difficoltà, “nell’era dei nuovi imperi” secondo Lucrezia Reichlin sul ”Corriere della Sera” (1 novembre), con assetti tali per cui “a livello politico sta nascendo un sistema ibrido, dominato da Stati nazionali con connotati imperiali” mentre a livello economico “il sistema continua a essere caratterizzato da una globalizzazione che ignora le frontiere” e dove – va aggiunto – dominano, molto più che in passato, poche Big Tech potenti, spregiudicate, determinate a immaginare un mondo in cui la democrazia si separa dai sistemi di libertà e le nuove tecnologie ridisegnano radicalmente poteri, interessi, valori.
Quelle di Segre, Pini e Reichlin sono tre voci, documentate e autorevoli, tra le tante che oramai da gran tempo insistono sull’aggravarsi di una vera e propria crisi politica e strategica dell’Europa, colosso economico ma nano politico, incapace di fare valere il peso dei propri interessi e dei propri valori, d’una pur nobile tradizione su cui si basa l’originale sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e sistemi di welfare. Un’Europa che adesso sembra afona, impaurita, malcerta, divisa.
Eppure, proprio adesso, si può intravvedere una via di ripresa europea, una scelta politica di valore storico che, nonostante tutto, rimetta l’Europa, con autorevolezza e incisività, sul palcoscenico di un mondo in rapido, travolgente e drammatico cambiamento?
Una ricetta facile non c’è. Ma sulle soluzioni alla crisi c’è comunque una sterminata letteratura, politica, economica, sociale. Compresi quei due documenti essenziali che sono i Rapporti commissionati da Bruxelles e firmati da Mario Draghi ed Enrico Letta, sulle scelte per la competitività e sulla formazione, finalmente, del Mercato Unico europeo (con attenzione per le transizioni ambientali e digitali e il mondo delle banche e della finanza). Rapporti sapienti e lungimiranti, lucidi e ricchi di analisi complesse e proposte responsabili. Lodati da tutti, ai vertici della Ue. Eppur lasciati a dormire, da oltre un anno, nei cassetti della Commissione e dei governi dei paesi europei.
Il nostro destino, dunque, è la paralisi? Un’Europa colta e sofisticata ma impotente, buona a fare solo da Grand Hotel per i nuovi potenti “imperatori del mondo”. Il rischio è reale.
Eppure, la strada delle cose da fare è tutt’altro che lastricata di idee e proposte improbabili. Sfogliando i quotidiani delle ultime settimane (utilissimi, ancora una volta, i buoni giornali) ci si imbatte in idee che meritano attenzione e impegno politico. Come quella di Giulio Tremonti, presidente della Commissione Esteri del Senato, ex ministro dell’Economia e soprattutto presidente dell’Aspen Institute Italia (autorevole think tank, capace di analisi ben informate e politicamente trasversali): “Unirsi per un commercio globale”, scrive Tremonti sul “Corriere della Sera” (2 novembre), documentando come sia necessario “tornare allo spirito di Bretton Woods, con un accordo tra Cina, Usa ed Europa” (quell’intesa, nel 1944, a guerra mondiale ancora in corso, regolava, nell’interesse comune, le relazioni tra le monete) e seguire oggi una strada analoga per il commercio mondiale. E il commercio internazionale, come tutti sanno, è competenza della Ue, non dei singoli Stati.
Ecco il punto: il rilancio della Ue. Fuori dalla trappola dell’unanimità delle decisioni e dall’illusione di un federalismo ai minimi termini in cui i singoli Stati siano la colonna portante dell’Europa, i detentori dell’ultima parola. Serve più Europa, nonostante tutto. E un’Europa migliore, finendola di pagare oramai intollerabili prezzi alle burocrazie di Bruxelles e ai miopi sovranismi. Il voto olandese della scorsa settimana, a favore delle forze politiche europeiste, per quanto sia un piccolo, debole segnale, può fare riflettere.
Già adesso, d’altronde, l’Europa si muove con maggioranze qualificate e prova ad aggirare veti e unanimismi paralizzanti. Una strada da seguire e rafforzare. Una strada “politica”. In attesa che maturino i tempi per una profonda riforma istituzionale.
I temi su cui muoversi sono chiari: la sicurezza e la difesa (“La Ue deve ridiscutere il contratto con gli Usa, coinvolgendo anche Regno Unito, Norvegia, Turchia e Canada“, sostiene Mircea Geoana, ex vicesegretario della Nato; La Stampa, 30 ottobre), l’energia, l’ambiente, le nuove tecnologie, la ricerca scientifica, la formazione e tutto ciò che riguarda potenzialità, costi sociali e governance dell’Artificial Intelligence, per la quale va costruita rapidamente una “via europea” che ci sottragga al dominio di Usa e Cina.
Agenda impegnativa. Politicamente ardua. Ma essenziale. Ancora Agnese Pini: “Oggi più che mai servono scelte politiche, non contabili. Capacità militare credibile in tempi rapidi con acquisti davvero congiunti. Leve economiche comuni su energia e tecnologie critiche per non restare in ostaggio della prossima ‘tregua’ tra Washington e Pechino. Una linea negoziale europea sull’Ucraina che affianchi – o addirittura bilanci – quella americana”. Altrimenti, “se l’Europa continuerà a parlare solo la lingua dei bilanci, non quella del potere, la pace – quando arriverà – non avrà la nostra firma”.
Uno dei grandi padri dell’Europa, Jean Monnet, ha sempre sostenuto che l’Europa fa passi avanti e si costruisce nelle difficoltà. Mai come adesso il suo monito va ascoltato e tradotto in scelte politiche, tempestive e lungimiranti.
C’è una indicazione politica strategica, su cui fare leva per lasciare un’Europa migliore alle nuove generazioni: il vincolo di quell’impegnativo documento di politica economica, culturale e sociale che è “Next Generation Ue”, il piano da oltre 750 miliardi di investimenti (in buona parte con risorse raccolte sul mercato finanziario internazionale, “debito buono”, dunque, per usare un’espressione cara a Mario Draghi) varato con intelligenza progettuale per fare fronte alle drammatiche conseguenze della pandemia Covid (e prima o poi sarà necessario discutere che uso ne abbiamo fatto noi italiani con il Pnrr e cioè se davvero, come e quanto ne abbiamo rispettato le indicazioni per lo sviluppo).
Responsabilità dei governanti europei, se davvero vogliono essere statisti, è occuparsi appunto delle prossime generazioni e non solo dei prossimi bilanci e delle prossime elezioni. Ed è responsabilità anche di noi anziani, che camminiamo sul viale di una stagione del tramonto che speriamo duri il più a lungo possibile. Una responsabilità da spendere bene, forti anche d’una robusta memoria storica, per intrecciare passato e futuro e dare finalmente forma compiuta a quella “Europa come destino” in cui siamo vissuti, in una lunga stagione di prosperità e di pace ma su cui oggi si allungano cupe ombre di crisi.
Europa fragile? Sì. Politicamente, economicamente, socialmente. Nelle relazioni interne ai singoli stati e allo spazio comune di Bruxelles. E nelle relazioni internazionali. Eppure, proprio l’assunzione della fragilità come elemento fondante è un punto di forza nella politica, nella democrazia, nell’impresa, nelle tecnologie, nei rapporti personali e sociali. Nei progetti per il futuro. La forza, con coscienza critica e autocritica, sta “oltre la fragilità”.
Ce lo ricorda anche un “grande vecchio” della letteratura, Ian McEwan, britannico, classe 1948, nel suo ultimo libro, “Quello che possiamo sapere”, Einaudi, un romanzo inquietante su come potremmo essere visti nel prossimo futuro, nel ventunesimo secolo, in una terra stravolta dal disastro climatico e dalla stupidità politica e intellettuale (ne scrive acutamente Caterina Soffici su “La Stampa”, 2 novembre: “Cosa resterà di quello che siamo”).
Un disastro da evitare, con umiltà, conoscenza, intelligenza, capacità di farsi carico degli interessi e dei valori dell’ “altro”. Un mondo da difendere e, contemporaneamente, correggere, ricostruire. Riformare.
Le parole sapienti, come quelle di McEwan, sono dunque adatte, benvenute. E tutti sappiamo bene quanto anche e soprattutto oggi la politica (e l’economia, e la scienza) abbiano un fondamentale bisogno di buona letteratura.

(foto Getty Images)

“Un’Europa Peter Pan, immobile nella sua adolescenza politica, oscillante tra nostalgia e distrazione, mentre il mondo riscrive la geopolitica alla velocità della luce”, scrive Gabriele Segre su “La Stampa” (29 ottobre). È “immobile”, l’Europa, anche per Agnese Pini, direttrice di “QN” (La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno, 2 novembre) mentre “i giganti” e cioè la Cina e gli Usa siglano “una pace gelida” e precaria in un “nuovo mondo bipolare in cui manca la voce del Vecchio Continente”, incapace di “fare scelte politiche e non contabili” (come dimostrano le discussioni sui bilanci striminziti della Ue e dei singoli Stati). Un’Europa in difficoltà, “nell’era dei nuovi imperi” secondo Lucrezia Reichlin sul ”Corriere della Sera” (1 novembre), con assetti tali per cui “a livello politico sta nascendo un sistema ibrido, dominato da Stati nazionali con connotati imperiali” mentre a livello economico “il sistema continua a essere caratterizzato da una globalizzazione che ignora le frontiere” e dove – va aggiunto – dominano, molto più che in passato, poche Big Tech potenti, spregiudicate, determinate a immaginare un mondo in cui la democrazia si separa dai sistemi di libertà e le nuove tecnologie ridisegnano radicalmente poteri, interessi, valori.
Quelle di Segre, Pini e Reichlin sono tre voci, documentate e autorevoli, tra le tante che oramai da gran tempo insistono sull’aggravarsi di una vera e propria crisi politica e strategica dell’Europa, colosso economico ma nano politico, incapace di fare valere il peso dei propri interessi e dei propri valori, d’una pur nobile tradizione su cui si basa l’originale sintesi tra democrazia liberale, economia di mercato e sistemi di welfare. Un’Europa che adesso sembra afona, impaurita, malcerta, divisa.
Eppure, proprio adesso, si può intravvedere una via di ripresa europea, una scelta politica di valore storico che, nonostante tutto, rimetta l’Europa, con autorevolezza e incisività, sul palcoscenico di un mondo in rapido, travolgente e drammatico cambiamento?
Una ricetta facile non c’è. Ma sulle soluzioni alla crisi c’è comunque una sterminata letteratura, politica, economica, sociale. Compresi quei due documenti essenziali che sono i Rapporti commissionati da Bruxelles e firmati da Mario Draghi ed Enrico Letta, sulle scelte per la competitività e sulla formazione, finalmente, del Mercato Unico europeo (con attenzione per le transizioni ambientali e digitali e il mondo delle banche e della finanza). Rapporti sapienti e lungimiranti, lucidi e ricchi di analisi complesse e proposte responsabili. Lodati da tutti, ai vertici della Ue. Eppur lasciati a dormire, da oltre un anno, nei cassetti della Commissione e dei governi dei paesi europei.
Il nostro destino, dunque, è la paralisi? Un’Europa colta e sofisticata ma impotente, buona a fare solo da Grand Hotel per i nuovi potenti “imperatori del mondo”. Il rischio è reale.
Eppure, la strada delle cose da fare è tutt’altro che lastricata di idee e proposte improbabili. Sfogliando i quotidiani delle ultime settimane (utilissimi, ancora una volta, i buoni giornali) ci si imbatte in idee che meritano attenzione e impegno politico. Come quella di Giulio Tremonti, presidente della Commissione Esteri del Senato, ex ministro dell’Economia e soprattutto presidente dell’Aspen Institute Italia (autorevole think tank, capace di analisi ben informate e politicamente trasversali): “Unirsi per un commercio globale”, scrive Tremonti sul “Corriere della Sera” (2 novembre), documentando come sia necessario “tornare allo spirito di Bretton Woods, con un accordo tra Cina, Usa ed Europa” (quell’intesa, nel 1944, a guerra mondiale ancora in corso, regolava, nell’interesse comune, le relazioni tra le monete) e seguire oggi una strada analoga per il commercio mondiale. E il commercio internazionale, come tutti sanno, è competenza della Ue, non dei singoli Stati.
Ecco il punto: il rilancio della Ue. Fuori dalla trappola dell’unanimità delle decisioni e dall’illusione di un federalismo ai minimi termini in cui i singoli Stati siano la colonna portante dell’Europa, i detentori dell’ultima parola. Serve più Europa, nonostante tutto. E un’Europa migliore, finendola di pagare oramai intollerabili prezzi alle burocrazie di Bruxelles e ai miopi sovranismi. Il voto olandese della scorsa settimana, a favore delle forze politiche europeiste, per quanto sia un piccolo, debole segnale, può fare riflettere.
Già adesso, d’altronde, l’Europa si muove con maggioranze qualificate e prova ad aggirare veti e unanimismi paralizzanti. Una strada da seguire e rafforzare. Una strada “politica”. In attesa che maturino i tempi per una profonda riforma istituzionale.
I temi su cui muoversi sono chiari: la sicurezza e la difesa (“La Ue deve ridiscutere il contratto con gli Usa, coinvolgendo anche Regno Unito, Norvegia, Turchia e Canada“, sostiene Mircea Geoana, ex vicesegretario della Nato; La Stampa, 30 ottobre), l’energia, l’ambiente, le nuove tecnologie, la ricerca scientifica, la formazione e tutto ciò che riguarda potenzialità, costi sociali e governance dell’Artificial Intelligence, per la quale va costruita rapidamente una “via europea” che ci sottragga al dominio di Usa e Cina.
Agenda impegnativa. Politicamente ardua. Ma essenziale. Ancora Agnese Pini: “Oggi più che mai servono scelte politiche, non contabili. Capacità militare credibile in tempi rapidi con acquisti davvero congiunti. Leve economiche comuni su energia e tecnologie critiche per non restare in ostaggio della prossima ‘tregua’ tra Washington e Pechino. Una linea negoziale europea sull’Ucraina che affianchi – o addirittura bilanci – quella americana”. Altrimenti, “se l’Europa continuerà a parlare solo la lingua dei bilanci, non quella del potere, la pace – quando arriverà – non avrà la nostra firma”.
Uno dei grandi padri dell’Europa, Jean Monnet, ha sempre sostenuto che l’Europa fa passi avanti e si costruisce nelle difficoltà. Mai come adesso il suo monito va ascoltato e tradotto in scelte politiche, tempestive e lungimiranti.
C’è una indicazione politica strategica, su cui fare leva per lasciare un’Europa migliore alle nuove generazioni: il vincolo di quell’impegnativo documento di politica economica, culturale e sociale che è “Next Generation Ue”, il piano da oltre 750 miliardi di investimenti (in buona parte con risorse raccolte sul mercato finanziario internazionale, “debito buono”, dunque, per usare un’espressione cara a Mario Draghi) varato con intelligenza progettuale per fare fronte alle drammatiche conseguenze della pandemia Covid (e prima o poi sarà necessario discutere che uso ne abbiamo fatto noi italiani con il Pnrr e cioè se davvero, come e quanto ne abbiamo rispettato le indicazioni per lo sviluppo).
Responsabilità dei governanti europei, se davvero vogliono essere statisti, è occuparsi appunto delle prossime generazioni e non solo dei prossimi bilanci e delle prossime elezioni. Ed è responsabilità anche di noi anziani, che camminiamo sul viale di una stagione del tramonto che speriamo duri il più a lungo possibile. Una responsabilità da spendere bene, forti anche d’una robusta memoria storica, per intrecciare passato e futuro e dare finalmente forma compiuta a quella “Europa come destino” in cui siamo vissuti, in una lunga stagione di prosperità e di pace ma su cui oggi si allungano cupe ombre di crisi.
Europa fragile? Sì. Politicamente, economicamente, socialmente. Nelle relazioni interne ai singoli stati e allo spazio comune di Bruxelles. E nelle relazioni internazionali. Eppure, proprio l’assunzione della fragilità come elemento fondante è un punto di forza nella politica, nella democrazia, nell’impresa, nelle tecnologie, nei rapporti personali e sociali. Nei progetti per il futuro. La forza, con coscienza critica e autocritica, sta “oltre la fragilità”.
Ce lo ricorda anche un “grande vecchio” della letteratura, Ian McEwan, britannico, classe 1948, nel suo ultimo libro, “Quello che possiamo sapere”, Einaudi, un romanzo inquietante su come potremmo essere visti nel prossimo futuro, nel ventunesimo secolo, in una terra stravolta dal disastro climatico e dalla stupidità politica e intellettuale (ne scrive acutamente Caterina Soffici su “La Stampa”, 2 novembre: “Cosa resterà di quello che siamo”).
Un disastro da evitare, con umiltà, conoscenza, intelligenza, capacità di farsi carico degli interessi e dei valori dell’ “altro”. Un mondo da difendere e, contemporaneamente, correggere, ricostruire. Riformare.
Le parole sapienti, come quelle di McEwan, sono dunque adatte, benvenute. E tutti sappiamo bene quanto anche e soprattutto oggi la politica (e l’economia, e la scienza) abbiano un fondamentale bisogno di buona letteratura.

(foto Getty Images)

“Creatività sulla neve. Pirelli tra sport, design e innovazione” per la Settimana della Cultura d’Impresa

Si terrà dal 14 al 28 novembre 2025 la XXIV Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di eventi promossa da Confindustria e Museimpresa, quest’anno dal titolo Raccontare l’intraprendenza. Per fare crescere le imprese aperte e connesse. Un ricco programma di iniziative volto a valorizzare una cultura d’impresa radicata nei territori e vicina alle persone.

Anche quest’anno Fondazione Pirelli sarà presente alla manifestazione con visite guidate al suo percorso espositivo che, in vista delle Olimpiadi Invernali 2026 di Milano Cortina – di cui Pirelli è Olympic and Paralympic Partner – si arricchisce di un focus dedicato alle discipline su neve e ghiaccio. L’allestimento racconterà l’intraprendenza nel mondo dello sport, approfondendo lo storico legame di Pirelli con le competizioni sportive, tra dinamismo, velocità e vittorie, così come l’intraprendenza come innovazione di prodotto: dalle suole Vibram alle borse per acqua calda, dagli articoli in gomma pensati per “aiutare la dura vita degli sciatori” – giacche, scarponi, bastoncini e accessori – fino ai portabagagli e portasci per automobili ideati dall’ingegner Carlo Barassi e dall’architetto Roberto Menghi. Un’accurata selezione di documenti traccerà la storia degli pneumatici per strade innevate e ghiacciate: il celebre Inverno del 1951 con battistrada a spina di pesce, il pneumatico BS a battistrada separato del 1959 e il Cinturato MS35 Rally, che in versione stradale dà vita a quella che oggi è l’estesa gamma Pirelli Winter ad alta specializzazione.

Un racconto di passione e tecnologia che trova espressione anche nelle pagine della Rivista Pirelli, che accompagneranno il visitatore in un viaggio nella cultura visiva dello sport: dagli articoli degli anni Cinquanta e Sessanta sulle grandi imprese in montagna e sugli sport invernali, ai reportage delle Olimpiadi e alle immagini che ne hanno costruito la memoria. Non mancheranno le campagne pubblicitarie ideate da designer e grafici capaci di comunicare con arte e ironia la stagione invernale. Tra questi Bob Noorda – ispirato dalle geometrie dei cristalli di neve – Riccardo Manzi, Alessandro Mendini, Ilio Negri, Giulio Confalonieri ed Ezio Bonini, che ritrae lo sciatore Zeno Colò come protagonista d’eccezione. A completare questo racconto visivo, anche gli scatti di Ugo Mulas ed Ermanno Scopinich: il primo con il servizio fotografico realizzato a Zermatt per Pirelli Confezioni, capace di restituire tutta la forza espressiva della montagna; il secondo con le fotografie che immortalano un gruppo di pattinatrici allo Stadio del Ghiaccio di Cortina d’Ampezzo, commissionate per il lancio del pneumatico BS.

Infine, l’intraprendenza come cultura del progetto e del design, con il rapporto tra Pirelli e il Compasso d’Oro: dal primo premio per la scimmietta Zizì nel 1954 al recente riconoscimento per il pneumatico P Zero™ E, sintesi di innovazione e sostenibilità.

L’appuntamento è per sabato 22 novembre, con 4 turni di visite guidate (ore 10.00 / 11.00 / 12.00 / 15.00), della durata di circa 60 minuti.
L’ingresso è gratuito e su prenotazione, fino a esaurimento posti, iscrivendosi tramite questo form.

Si terrà dal 14 al 28 novembre 2025 la XXIV Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di eventi promossa da Confindustria e Museimpresa, quest’anno dal titolo Raccontare l’intraprendenza. Per fare crescere le imprese aperte e connesse. Un ricco programma di iniziative volto a valorizzare una cultura d’impresa radicata nei territori e vicina alle persone.

Anche quest’anno Fondazione Pirelli sarà presente alla manifestazione con visite guidate al suo percorso espositivo che, in vista delle Olimpiadi Invernali 2026 di Milano Cortina – di cui Pirelli è Olympic and Paralympic Partner – si arricchisce di un focus dedicato alle discipline su neve e ghiaccio. L’allestimento racconterà l’intraprendenza nel mondo dello sport, approfondendo lo storico legame di Pirelli con le competizioni sportive, tra dinamismo, velocità e vittorie, così come l’intraprendenza come innovazione di prodotto: dalle suole Vibram alle borse per acqua calda, dagli articoli in gomma pensati per “aiutare la dura vita degli sciatori” – giacche, scarponi, bastoncini e accessori – fino ai portabagagli e portasci per automobili ideati dall’ingegner Carlo Barassi e dall’architetto Roberto Menghi. Un’accurata selezione di documenti traccerà la storia degli pneumatici per strade innevate e ghiacciate: il celebre Inverno del 1951 con battistrada a spina di pesce, il pneumatico BS a battistrada separato del 1959 e il Cinturato MS35 Rally, che in versione stradale dà vita a quella che oggi è l’estesa gamma Pirelli Winter ad alta specializzazione.

Un racconto di passione e tecnologia che trova espressione anche nelle pagine della Rivista Pirelli, che accompagneranno il visitatore in un viaggio nella cultura visiva dello sport: dagli articoli degli anni Cinquanta e Sessanta sulle grandi imprese in montagna e sugli sport invernali, ai reportage delle Olimpiadi e alle immagini che ne hanno costruito la memoria. Non mancheranno le campagne pubblicitarie ideate da designer e grafici capaci di comunicare con arte e ironia la stagione invernale. Tra questi Bob Noorda – ispirato dalle geometrie dei cristalli di neve – Riccardo Manzi, Alessandro Mendini, Ilio Negri, Giulio Confalonieri ed Ezio Bonini, che ritrae lo sciatore Zeno Colò come protagonista d’eccezione. A completare questo racconto visivo, anche gli scatti di Ugo Mulas ed Ermanno Scopinich: il primo con il servizio fotografico realizzato a Zermatt per Pirelli Confezioni, capace di restituire tutta la forza espressiva della montagna; il secondo con le fotografie che immortalano un gruppo di pattinatrici allo Stadio del Ghiaccio di Cortina d’Ampezzo, commissionate per il lancio del pneumatico BS.

Infine, l’intraprendenza come cultura del progetto e del design, con il rapporto tra Pirelli e il Compasso d’Oro: dal primo premio per la scimmietta Zizì nel 1954 al recente riconoscimento per il pneumatico P Zero™ E, sintesi di innovazione e sostenibilità.

L’appuntamento è per sabato 22 novembre, con 4 turni di visite guidate (ore 10.00 / 11.00 / 12.00 / 15.00), della durata di circa 60 minuti.
L’ingresso è gratuito e su prenotazione, fino a esaurimento posti, iscrivendosi tramite questo form.

L’esperienza come via per valorizzare l’impresa

Lo strumento del “marketing esperienziale” analizzato partendo da un caso concreto

Promuovere e valorizzare l’azienda attraverso “l’esperienza” che questa può offrire a chi vi si approccia. Strategia commerciale e cultura del produrre che si uniscono, per dare vita ad una modalità di sviluppo dell’impresa diversa dal passato. Il tema del cosiddetto “marketing esperienziale” è tra i più recenti e viene studiato da Omar Cavallo con il suo lavoro di ricerca che ha preso forma in “Eventi ed emozioni: come il marketing esperienziale rende memorabile un brand”, una tesi discussa presso l’Università di Padova Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”.

Per affrontare il tema del “marketing esperienziale”, Cavallo parte non dalla teoria ma dallo studio del caso pratico di ItalyPost che, come lui stesso spiega, è una “organizzazione editoriale e culturale che ha saputo evolversi, nell’arco di oltre vent’anni, da progetto territoriale a gruppo di rilevanza nazionale, attivo nell’editoria, nella formazione e soprattutto nell’organizzazione di eventi legati alla cultura d’impresa”. Fondata sulla propria esperienza di stage presso ItalyPost, la ricerca approfondisce quindi la storia dell’azienda, la struttura organizzativa e il suo posizionamento competitivo.

Cavallo spiega come il passo successivo sia stato l’approfondimento del “marketing esperienziale” messo in pratica da ItalyPost “con particolare attenzione al potere degli eventi come strumenti di comunicazione e di branding”. Attraverso il confronto con i principali contributi teorici e con l’analisi del comportamento del consumatore, viene così mostrato come questo tipo di esperienze rappresentino oggi un punto “cruciale per la costruzione della relazione tra brand e pubblico”.

Il caso di ItalyPost raccontato da Omar Cavallo è certamente da circostanziare e non può costituire il paradigma per ogni esperienza di “marketing esperienziale”, ma costituisce un buon esempio di come teoria e pratica di gestione di una singola impresa possano essere studiate riuscendo comunque ad essere esempi interessanti.

Eventi ed emozioni: come il marketing esperienziale rende memorabile un brand

Omar Cavallo

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia, 2025

Lo strumento del “marketing esperienziale” analizzato partendo da un caso concreto

Promuovere e valorizzare l’azienda attraverso “l’esperienza” che questa può offrire a chi vi si approccia. Strategia commerciale e cultura del produrre che si uniscono, per dare vita ad una modalità di sviluppo dell’impresa diversa dal passato. Il tema del cosiddetto “marketing esperienziale” è tra i più recenti e viene studiato da Omar Cavallo con il suo lavoro di ricerca che ha preso forma in “Eventi ed emozioni: come il marketing esperienziale rende memorabile un brand”, una tesi discussa presso l’Università di Padova Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”.

Per affrontare il tema del “marketing esperienziale”, Cavallo parte non dalla teoria ma dallo studio del caso pratico di ItalyPost che, come lui stesso spiega, è una “organizzazione editoriale e culturale che ha saputo evolversi, nell’arco di oltre vent’anni, da progetto territoriale a gruppo di rilevanza nazionale, attivo nell’editoria, nella formazione e soprattutto nell’organizzazione di eventi legati alla cultura d’impresa”. Fondata sulla propria esperienza di stage presso ItalyPost, la ricerca approfondisce quindi la storia dell’azienda, la struttura organizzativa e il suo posizionamento competitivo.

Cavallo spiega come il passo successivo sia stato l’approfondimento del “marketing esperienziale” messo in pratica da ItalyPost “con particolare attenzione al potere degli eventi come strumenti di comunicazione e di branding”. Attraverso il confronto con i principali contributi teorici e con l’analisi del comportamento del consumatore, viene così mostrato come questo tipo di esperienze rappresentino oggi un punto “cruciale per la costruzione della relazione tra brand e pubblico”.

Il caso di ItalyPost raccontato da Omar Cavallo è certamente da circostanziare e non può costituire il paradigma per ogni esperienza di “marketing esperienziale”, ma costituisce un buon esempio di come teoria e pratica di gestione di una singola impresa possano essere studiate riuscendo comunque ad essere esempi interessanti.

Eventi ed emozioni: come il marketing esperienziale rende memorabile un brand

Omar Cavallo

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia, 2025

Strade diverse per la sostenibilità d’impresa

Il caso delle aziende mantovane raccontato per mezzo di un’indagine sul campo

Interpretare la sostenibilità declinandola azienda per azienda, sulla base delle caratteristiche organizzative e dalle particolari culture del produrre. Comprendere le evoluzioni di ogni singolo caso, è cosa da affiancare alla teoria. Ed è quanto fanno Alessandro Lai, Riccardo Stacchezzini, Francesca Rossignoli e Mariella Colantoni in “Percorsi di sostenibilità”, un libro scritto a più mani che ragiona sulla base dei risultati di uno studio realizzato nel mantovano da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Management dell’Università di Verona, nell’ambito del progetto “Mantova Sostiene il Futuro” sostenuto da una rete di studi professionali.
Attraverso oltre cento interviste, la ricerca indaga su come le imprese mantovane interpretino e attuino la sostenibilità nelle sue tre dimensioni – ambientale, sociale e di governance –, mettendo in luce sfide, progressi, perplessità e ritardi. Il libro si articola quindi in tre passaggi: il disegno della ricerca, l’approfondimento delle diverse dimensioni della sostenibilità che emergono dall’indagine, l’analisi delle imprese sulla base dei risultati e di una loro classificazione in tre gruppi: gli “apprendisti”, gli “emergenti” e i “pionieri”.

Il disegno che emerge dall’indagine è articolato: se quasi tutte le imprese attribuiscono rilievo ai temi ambientali, i profili sociali e di governance sono spesso percepiti come “già soddisfatti” o marginali. Alcune realtà hanno intrapreso percorsi strutturati e integrati, mentre altre dichiarano intenzioni ancora prive di concreta attuazione. L’analisi per gruppi rafforza questa percezione. Il libro, dopo aver scattato la fotografia lo stato dell’arte, offre però anche chiavi di lettura utili per comprendere come le imprese si stiano preparando alla rendicontazione di sostenibilità, un passaggio ormai pressoché obbligato dall’avanzare della regolamentazione e dalla necessità di legittimarsi agli occhi degli stakeholder.

Il lavoro di Lai, Stacchezzini, Rossignoli e Colantoni rappresenta una buona lettura per chi voglia conoscere la realtà dei territori d’impresa alle prese con le trasformazioni del contesto sociale ed economico.

Percorsi di sostenibilità. L’esperienza delle imprese mantovane

Alessandro Lai, Riccardo Stacchezzini, Francesca Rossignoli, Mariella Colantoni (a cura di)

Franco Angeli, 2025

Il caso delle aziende mantovane raccontato per mezzo di un’indagine sul campo

Interpretare la sostenibilità declinandola azienda per azienda, sulla base delle caratteristiche organizzative e dalle particolari culture del produrre. Comprendere le evoluzioni di ogni singolo caso, è cosa da affiancare alla teoria. Ed è quanto fanno Alessandro Lai, Riccardo Stacchezzini, Francesca Rossignoli e Mariella Colantoni in “Percorsi di sostenibilità”, un libro scritto a più mani che ragiona sulla base dei risultati di uno studio realizzato nel mantovano da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Management dell’Università di Verona, nell’ambito del progetto “Mantova Sostiene il Futuro” sostenuto da una rete di studi professionali.
Attraverso oltre cento interviste, la ricerca indaga su come le imprese mantovane interpretino e attuino la sostenibilità nelle sue tre dimensioni – ambientale, sociale e di governance –, mettendo in luce sfide, progressi, perplessità e ritardi. Il libro si articola quindi in tre passaggi: il disegno della ricerca, l’approfondimento delle diverse dimensioni della sostenibilità che emergono dall’indagine, l’analisi delle imprese sulla base dei risultati e di una loro classificazione in tre gruppi: gli “apprendisti”, gli “emergenti” e i “pionieri”.

Il disegno che emerge dall’indagine è articolato: se quasi tutte le imprese attribuiscono rilievo ai temi ambientali, i profili sociali e di governance sono spesso percepiti come “già soddisfatti” o marginali. Alcune realtà hanno intrapreso percorsi strutturati e integrati, mentre altre dichiarano intenzioni ancora prive di concreta attuazione. L’analisi per gruppi rafforza questa percezione. Il libro, dopo aver scattato la fotografia lo stato dell’arte, offre però anche chiavi di lettura utili per comprendere come le imprese si stiano preparando alla rendicontazione di sostenibilità, un passaggio ormai pressoché obbligato dall’avanzare della regolamentazione e dalla necessità di legittimarsi agli occhi degli stakeholder.

Il lavoro di Lai, Stacchezzini, Rossignoli e Colantoni rappresenta una buona lettura per chi voglia conoscere la realtà dei territori d’impresa alle prese con le trasformazioni del contesto sociale ed economico.

Percorsi di sostenibilità. L’esperienza delle imprese mantovane

Alessandro Lai, Riccardo Stacchezzini, Francesca Rossignoli, Mariella Colantoni (a cura di)

Franco Angeli, 2025

Nell’Italia che invecchia la sfida politica è investire sul futuro e il lavoro dei giovani

L’Italia è un paese che invecchia: 48,7 anni è l’età media, di anno in anno in crescita e comunque già adesso la più alta tra i paesi della Ue (dati Eurostat). Ed è, contemporaneamente, il paese che fa meno figli, con un tasso di fertilità dell’1,18%: nel ‘24, documenta l’Istat, sono nati appena 370mila bambini, il 2,6% in meno rispetto all’anno precedente e nei primi sei mesi del ‘25 le nascite sono state 13mila in meno dello stesso periodo del ‘24.

La crisi non finisce qui: i giovani preferiscono andare a cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita (“Negli ultimi dieci anni oltre 337mila giovani italiani, di cui 120mila laureati, hanno lasciato il paese”, calcola Riccardo Di Stefano, vicepresidente di Confindustria per Education e Open Innovation). E, quelli che restano, non sono affatto valorizzati né viene dato loro un orizzonte di fiducia: i cosiddetti Neet (le iniziali di Not in Education, Employment or Training) e cioè i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono 1,3 milioni, il 15,2% nella loro fascia d’età.

Siamo, insomma, in una condizione di allarmante “inverno demografico”, tra vecchiaia che avanza (l’aspettativa di vita è salita alla media di 83,4 anni) e nascite che crollano. E, a peggiorare le cose, teniamo fuori dal lavoro e dall’ “economia della conoscenza” una parte troppo ampia delle nuove generazioni.

Il tema, trascurato per anni, è finalmente arrivato alla ribalta del discorso pubblico. Aumenta l’attenzione per gli studi demografici e le inchieste giornalistiche. Ma, conoscenza dei dati a parte, non si vedono ancora, a livello politico, scelte conseguenti per cominciare ad affrontare le relative  questioni economiche, sociali e culturali.

Secondo l’Istat, nel 2050 i bambini saranno solo l’11,2% della popolazione. Avremo scuole vuote e professori disoccupati. E nell’arco dei prossimi anni mancheranno lavoratori e imprenditori (a meno di non costruire solide politiche per l’immigrazione). E diminuiranno le risorse per pagare il welfare, a cominciare dalle pensioni, per i tanti anziani.

La demografia è fenomeno di lunghe derive: anche se magicamente il fenomeno della bassa natalità venisse improvvisamente bloccato e cambiato di segno, ci vorrebbero almeno vent’anni prima che i neonati di oggi incidessero sul mercato del lavoro. E dunque, per affrontarne gli aspetti, sono necessarie scelte tempestive, ma anche intelligenti misure politiche per affrontare le situazioni intermedie.

Quali? La tendenza alla bassa natalità ha radici psicologiche, economiche e culturali: la crisi della famiglia tradizionale, la modifica della scala dei valori (la prevalenza dell’ “io” e dunque delle aspettative individuali, contrapposte alle responsabilità genitoriali e al “noi” della famiglia e della comunità), ma anche le strutture e le tendenze del mercato del lavoro che rendono ancora marginale la condizione di tante, troppe donne e le gravi carenze dell’offerta di abitazioni nei grandi centri urbani e dei servizi (a cominciare dagli asili nido e dalle scuole a tempo pieno). E, soprattutto, la caduta di fiducia nel futuro.

Ecco il punto: la crisi di fiducia. Il “patto generazionale” (i miei figli potranno vivere una condizione migliore della nostra, dunque vale la pena investire sulla loro formazione e la costruzione delle loro opportunità) s’è bloccato in Italia all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, con l’esplosione del debito pubblico (in sintesi, il costo del benessere dei contemporanei è stato scaricato sulle nuove generazioni) e anche in tutti gli altri paesi occidentali il mantenimento del welfare, a cominciare dalle pensioni, è stato pagato con l’indebitamento messo in conto a figli e nipoti).

Le tensioni geopolitiche internazionali, i guasti ambientali, le guerre commerciali, i disagi sociali crescenti e le difficoltà a reggere le stesse condizioni di qualità della vita dei genitori hanno aggravato tensioni e divari generazionali. Fare figli non è più una priorità.

Modificare questo ciclo è quanto mai difficile. Eppure, qualcosa di urgente e lungimirante bisogna fare, senza rassegnarsi al destino di declino e degrado, di caduta della spinta all’innovazione non solo economica ma anche sociale e culturale e dunque di crisi radicale di quanto di positivo proprio l’Europa e più in generale l’Occidente hanno costruito nel corso del Novecento, soprattutto nella seconda metà del secolo: la sintesi originale e positiva tra democrazia liberale, economia di mercato e welfare e cioè tra libertà, intraprendenza, valori del cambiamento e solidarietà, tra progresso e coesione sociale.

Ripensare dunque la politica. Il lavoro. La partecipazione. E imparare finalmente a legare lo sguardo lungo dell’ambizione alle trasformazioni con il riformismo pragmatico del buon governo.

Una conciliazione difficile. Ma possibile, se si dà ascolto a uno dei migliori intellettuali del Novecento, Ernst Cassirer: “La grande missione dell’utopia è di dare adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. È il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo”.

Tenere il pensiero di Cassirer sullo sfondo, dunque, accanto a quello di Lewis Mumford, con la distinzione (i lettori di questo blog l’hanno già sentita ripetere) tra “utopia della fuga” e cioè la velleità di costruire castelli in aria e “utopia della ricostruzione” e cioè impegno a immaginare e costruire un pur ambizioso cambiamento. Ma anche, qui e adesso, pensare concretamente alla buona politica.

Come? Ricostruire fiducia, come obiettivo generale (ne abbiamo parlato nei blog del 6 maggio e del 7 ottobre). Dare un orizzonte di senso e di cambiamento alle nuove generazioni. Ma intanto fare scelte concrete. Utilizzare meglio le risorse che abbiamo e cioè le donne e i giovani, garantendo loro un migliore accesso al mercato del lavoro, con politiche di carriera e redditi adeguati alla loro formazione e alle loro capacità di trasformare le ambizioni in intraprendenza e operosità. Modificare il ciclo dell’abbandono dell’Italia da parte delle persone più intraprendenti e attive delle nuove generazioni, offrendo opportunità di crescita e, contemporaneamente, attirando risorse umane nuove dall’estero, soprattutto dai paesi del bacino del Mediterraneo. Insistere sulla formazione, superando il gap di conoscenza e comprensione (un terzo degli italiani è “analfabeta funzionale” e cioè non capisce un testo scritto di media complessità e non sa fare un calcolo poco più che elementare). E impegnare risorse adeguate, finanziarie e intellettuali, per recuperare alla convivenza civile e dunque alla partecipazione responsabile gran parte di quei Neet di cui abbiamo parlato.

Non è un catalogo delle buone intenzioni. Ma l’indicazione di parti convergenti di un unico disegno, lo sviluppo equilibrato dell’Italia europea. Un elenco di punti da tradurre in scelte di governo, in investimenti (usando bene i fondi della Ue), in impegni che coinvolgono le responsabilità non solo dei decisori politici ma anche degli attori economici e culturali.

Una sfida difficile, naturalmente. Ma essenziale. Per la crescita economica. Ma soprattutto per gli equilibri sociali.

Una “collaborazione di cittadinanza”, sostiene Confindustria, al termine di un convegno a Ortigia sull’Open Innovation e la formazione, appunto, per “fare risaltare talento,  conoscenza, tecnologia e produttività” (Il Sole24Ore, 24 e 25 ottobre). E sono i Giovani Imprenditori di Confindustria, presieduti da Maria Anghileri, a insistere nei loro convegni sulla necessità di aprire l’impresa alle nuove generazioni, come spazio in cui realizzare progetti, idee, ambizioni, sogni. “L’impresa che cresce”, indicano come obiettivo. Impresa attore economico. E lievito sociale.

Da questo punto di vista, la scelta politica è chiara: la strategia che serve, anche dal punto di vista della politica industriale, è una politica della conoscenza, dell’innovazione e dunque della formazione.

Se abbiamo risorse scarse, i nostri giovani, è indispensabile qualificarle. Metterle in condizione di esprimere il meglio. E intanto lavorare per invertire il ciclo della chiusura impaurita nei microcosmi sociali e della caduta di natalità. Investire sulla ricostruzione di fiducia appunto. Su una buona idea di futuro.

(foto Getty Images)

L’Italia è un paese che invecchia: 48,7 anni è l’età media, di anno in anno in crescita e comunque già adesso la più alta tra i paesi della Ue (dati Eurostat). Ed è, contemporaneamente, il paese che fa meno figli, con un tasso di fertilità dell’1,18%: nel ‘24, documenta l’Istat, sono nati appena 370mila bambini, il 2,6% in meno rispetto all’anno precedente e nei primi sei mesi del ‘25 le nascite sono state 13mila in meno dello stesso periodo del ‘24.

La crisi non finisce qui: i giovani preferiscono andare a cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita (“Negli ultimi dieci anni oltre 337mila giovani italiani, di cui 120mila laureati, hanno lasciato il paese”, calcola Riccardo Di Stefano, vicepresidente di Confindustria per Education e Open Innovation). E, quelli che restano, non sono affatto valorizzati né viene dato loro un orizzonte di fiducia: i cosiddetti Neet (le iniziali di Not in Education, Employment or Training) e cioè i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono 1,3 milioni, il 15,2% nella loro fascia d’età.

Siamo, insomma, in una condizione di allarmante “inverno demografico”, tra vecchiaia che avanza (l’aspettativa di vita è salita alla media di 83,4 anni) e nascite che crollano. E, a peggiorare le cose, teniamo fuori dal lavoro e dall’ “economia della conoscenza” una parte troppo ampia delle nuove generazioni.

Il tema, trascurato per anni, è finalmente arrivato alla ribalta del discorso pubblico. Aumenta l’attenzione per gli studi demografici e le inchieste giornalistiche. Ma, conoscenza dei dati a parte, non si vedono ancora, a livello politico, scelte conseguenti per cominciare ad affrontare le relative  questioni economiche, sociali e culturali.

Secondo l’Istat, nel 2050 i bambini saranno solo l’11,2% della popolazione. Avremo scuole vuote e professori disoccupati. E nell’arco dei prossimi anni mancheranno lavoratori e imprenditori (a meno di non costruire solide politiche per l’immigrazione). E diminuiranno le risorse per pagare il welfare, a cominciare dalle pensioni, per i tanti anziani.

La demografia è fenomeno di lunghe derive: anche se magicamente il fenomeno della bassa natalità venisse improvvisamente bloccato e cambiato di segno, ci vorrebbero almeno vent’anni prima che i neonati di oggi incidessero sul mercato del lavoro. E dunque, per affrontarne gli aspetti, sono necessarie scelte tempestive, ma anche intelligenti misure politiche per affrontare le situazioni intermedie.

Quali? La tendenza alla bassa natalità ha radici psicologiche, economiche e culturali: la crisi della famiglia tradizionale, la modifica della scala dei valori (la prevalenza dell’ “io” e dunque delle aspettative individuali, contrapposte alle responsabilità genitoriali e al “noi” della famiglia e della comunità), ma anche le strutture e le tendenze del mercato del lavoro che rendono ancora marginale la condizione di tante, troppe donne e le gravi carenze dell’offerta di abitazioni nei grandi centri urbani e dei servizi (a cominciare dagli asili nido e dalle scuole a tempo pieno). E, soprattutto, la caduta di fiducia nel futuro.

Ecco il punto: la crisi di fiducia. Il “patto generazionale” (i miei figli potranno vivere una condizione migliore della nostra, dunque vale la pena investire sulla loro formazione e la costruzione delle loro opportunità) s’è bloccato in Italia all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, con l’esplosione del debito pubblico (in sintesi, il costo del benessere dei contemporanei è stato scaricato sulle nuove generazioni) e anche in tutti gli altri paesi occidentali il mantenimento del welfare, a cominciare dalle pensioni, è stato pagato con l’indebitamento messo in conto a figli e nipoti).

Le tensioni geopolitiche internazionali, i guasti ambientali, le guerre commerciali, i disagi sociali crescenti e le difficoltà a reggere le stesse condizioni di qualità della vita dei genitori hanno aggravato tensioni e divari generazionali. Fare figli non è più una priorità.

Modificare questo ciclo è quanto mai difficile. Eppure, qualcosa di urgente e lungimirante bisogna fare, senza rassegnarsi al destino di declino e degrado, di caduta della spinta all’innovazione non solo economica ma anche sociale e culturale e dunque di crisi radicale di quanto di positivo proprio l’Europa e più in generale l’Occidente hanno costruito nel corso del Novecento, soprattutto nella seconda metà del secolo: la sintesi originale e positiva tra democrazia liberale, economia di mercato e welfare e cioè tra libertà, intraprendenza, valori del cambiamento e solidarietà, tra progresso e coesione sociale.

Ripensare dunque la politica. Il lavoro. La partecipazione. E imparare finalmente a legare lo sguardo lungo dell’ambizione alle trasformazioni con il riformismo pragmatico del buon governo.

Una conciliazione difficile. Ma possibile, se si dà ascolto a uno dei migliori intellettuali del Novecento, Ernst Cassirer: “La grande missione dell’utopia è di dare adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. È il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo”.

Tenere il pensiero di Cassirer sullo sfondo, dunque, accanto a quello di Lewis Mumford, con la distinzione (i lettori di questo blog l’hanno già sentita ripetere) tra “utopia della fuga” e cioè la velleità di costruire castelli in aria e “utopia della ricostruzione” e cioè impegno a immaginare e costruire un pur ambizioso cambiamento. Ma anche, qui e adesso, pensare concretamente alla buona politica.

Come? Ricostruire fiducia, come obiettivo generale (ne abbiamo parlato nei blog del 6 maggio e del 7 ottobre). Dare un orizzonte di senso e di cambiamento alle nuove generazioni. Ma intanto fare scelte concrete. Utilizzare meglio le risorse che abbiamo e cioè le donne e i giovani, garantendo loro un migliore accesso al mercato del lavoro, con politiche di carriera e redditi adeguati alla loro formazione e alle loro capacità di trasformare le ambizioni in intraprendenza e operosità. Modificare il ciclo dell’abbandono dell’Italia da parte delle persone più intraprendenti e attive delle nuove generazioni, offrendo opportunità di crescita e, contemporaneamente, attirando risorse umane nuove dall’estero, soprattutto dai paesi del bacino del Mediterraneo. Insistere sulla formazione, superando il gap di conoscenza e comprensione (un terzo degli italiani è “analfabeta funzionale” e cioè non capisce un testo scritto di media complessità e non sa fare un calcolo poco più che elementare). E impegnare risorse adeguate, finanziarie e intellettuali, per recuperare alla convivenza civile e dunque alla partecipazione responsabile gran parte di quei Neet di cui abbiamo parlato.

Non è un catalogo delle buone intenzioni. Ma l’indicazione di parti convergenti di un unico disegno, lo sviluppo equilibrato dell’Italia europea. Un elenco di punti da tradurre in scelte di governo, in investimenti (usando bene i fondi della Ue), in impegni che coinvolgono le responsabilità non solo dei decisori politici ma anche degli attori economici e culturali.

Una sfida difficile, naturalmente. Ma essenziale. Per la crescita economica. Ma soprattutto per gli equilibri sociali.

Una “collaborazione di cittadinanza”, sostiene Confindustria, al termine di un convegno a Ortigia sull’Open Innovation e la formazione, appunto, per “fare risaltare talento,  conoscenza, tecnologia e produttività” (Il Sole24Ore, 24 e 25 ottobre). E sono i Giovani Imprenditori di Confindustria, presieduti da Maria Anghileri, a insistere nei loro convegni sulla necessità di aprire l’impresa alle nuove generazioni, come spazio in cui realizzare progetti, idee, ambizioni, sogni. “L’impresa che cresce”, indicano come obiettivo. Impresa attore economico. E lievito sociale.

Da questo punto di vista, la scelta politica è chiara: la strategia che serve, anche dal punto di vista della politica industriale, è una politica della conoscenza, dell’innovazione e dunque della formazione.

Se abbiamo risorse scarse, i nostri giovani, è indispensabile qualificarle. Metterle in condizione di esprimere il meglio. E intanto lavorare per invertire il ciclo della chiusura impaurita nei microcosmi sociali e della caduta di natalità. Investire sulla ricostruzione di fiducia appunto. Su una buona idea di futuro.

(foto Getty Images)

Oltre il fabbricare

L’ultimo libro di Carlo Galli fornisce a chi legge gli strumenti per capire meglio le relazioni tra tecnica e umanità

 

Tecnofobia oppure tecnolatria? E poi, ancora, tecnica altro dall’umano oppure strumento che ha tutto di umano e nulla di artificiale? Il percorso della tecnica è ambiguo e accidentato, proprio perché radicalmente umano. La critica ad essa, tanto intellettuale quanto politica, è la contestazione della sua volontà di dettare l’intera agenda dell’avvenire. Temi importanti, soprattutto oggi e non solo per chi ha a cuore sapere dove si è e dove si va. Temi che per imprenditori e manager avveduti, così come per decisori attenti, devono essere all’ordine del giorno. Si fa bene quindi a leggere “Tecnica” di Carlo Galli che cerca – riuscendoci – di rispondere ad una serie di domande cruciali. È la tecnica che comanda oggi, nell’era del tecnocapitalismo? E a chi serve? A tutti o a pochi? O siamo noi a servire lei? È una sfida al dominio umano del mondo o è una risorsa indispensabile per realizzarlo?

Galli cerca e trova le risposte (o comunque fornisce a chi legge gli strumenti per arrivare da solo alle risposte corrette) partendo da una constatazione: la tecnica non è mai stata e non è mai neutra, ma è da sempre intrecciata con la storia dell’uomo. Ambigua per definizione, la tecnica si esprime nella sua duplice natura di strumento di libertà e di dominio, nella sua capacità di sollevarci dalla fatica e dal bisogno, e nel suo produrre al tempo stesso squilibri, conflitti, rotture. Non è mai e solo un “puro fabbricare” qualcosa, ma porta in sé l’elemento della decisione e di conseguenza del potere.

Galli accompagna quindi chi legge in quattro tappe: la messa a punto del concetto, la storia della tecnica “dalla selce al silicio”, le relazioni tra tecnica e filosofia, la situazione delle nuove tecniche digitali fino all’Intelligenza Artificiale.

Lontano sia da miti salvifici sia da condanne apocalittiche (lontano cioè sia dalla tecnolatria che dalla tecnofobia) questo libro analizza il fare della tecnica come intreccio di sapere e volere, come radice di disuguaglianze e di trasformazioni, come necessità che nasconde scelte e interessi. E proprio in questo nodo tra coazione e libertà si apre uno spazio decisivo: quello dell’agire politico che deve essere capace di equilibrio e di saggezza.

Tecnica

Carlo Galli

il Mulino, 2025

L’ultimo libro di Carlo Galli fornisce a chi legge gli strumenti per capire meglio le relazioni tra tecnica e umanità

 

Tecnofobia oppure tecnolatria? E poi, ancora, tecnica altro dall’umano oppure strumento che ha tutto di umano e nulla di artificiale? Il percorso della tecnica è ambiguo e accidentato, proprio perché radicalmente umano. La critica ad essa, tanto intellettuale quanto politica, è la contestazione della sua volontà di dettare l’intera agenda dell’avvenire. Temi importanti, soprattutto oggi e non solo per chi ha a cuore sapere dove si è e dove si va. Temi che per imprenditori e manager avveduti, così come per decisori attenti, devono essere all’ordine del giorno. Si fa bene quindi a leggere “Tecnica” di Carlo Galli che cerca – riuscendoci – di rispondere ad una serie di domande cruciali. È la tecnica che comanda oggi, nell’era del tecnocapitalismo? E a chi serve? A tutti o a pochi? O siamo noi a servire lei? È una sfida al dominio umano del mondo o è una risorsa indispensabile per realizzarlo?

Galli cerca e trova le risposte (o comunque fornisce a chi legge gli strumenti per arrivare da solo alle risposte corrette) partendo da una constatazione: la tecnica non è mai stata e non è mai neutra, ma è da sempre intrecciata con la storia dell’uomo. Ambigua per definizione, la tecnica si esprime nella sua duplice natura di strumento di libertà e di dominio, nella sua capacità di sollevarci dalla fatica e dal bisogno, e nel suo produrre al tempo stesso squilibri, conflitti, rotture. Non è mai e solo un “puro fabbricare” qualcosa, ma porta in sé l’elemento della decisione e di conseguenza del potere.

Galli accompagna quindi chi legge in quattro tappe: la messa a punto del concetto, la storia della tecnica “dalla selce al silicio”, le relazioni tra tecnica e filosofia, la situazione delle nuove tecniche digitali fino all’Intelligenza Artificiale.

Lontano sia da miti salvifici sia da condanne apocalittiche (lontano cioè sia dalla tecnolatria che dalla tecnofobia) questo libro analizza il fare della tecnica come intreccio di sapere e volere, come radice di disuguaglianze e di trasformazioni, come necessità che nasconde scelte e interessi. E proprio in questo nodo tra coazione e libertà si apre uno spazio decisivo: quello dell’agire politico che deve essere capace di equilibrio e di saggezza.

Tecnica

Carlo Galli

il Mulino, 2025

Lavorare al tempo del digitale e della IA

Un’analisi di ADAPT cerca di mettere ordine in un tema complesso e in continua evoluzione

 

Lavorare nell’era della digitalizzazione e dell’Intelligenza Artificiale e dopo una pandemia. Lavorare con strumenti notevolmente diversi dal passato e in continuo mutamento. Con – in altri termini – un bagaglio tecnologico differente da prima e cercando di rinnovare la cultura del lavoro e della produzione. È necessario riflettere molto per comprendere quanto il mondo del lavoro e della produzione stia cambiando. Per questo può servire leggere “I nuovi paradigmi del lavoro tra digitalizzazione, intelligenza artificiale e metaverso. Riflessioni di sistema”, ricerca di Roberta Caragnano recentemente pubblicata nella serie degli ADAPT Labour studies e-Book.

Caragnano spiega che “negli ultimi anni, anche per effetto delle accelerazioni imposte dalla pandemia, il mondo del lavoro ha subito delle trasformazioni radicali (1) sotto la spinta di innovazioni tecnologiche senza precedenti, come la diffusione dei big data, l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) (2) e l’Internet of Things (IoT), che se un verso consentono l’automatizzazione dei processi aziendali, stimolando le innovazioni di prodotto e di processo (3), dall’altro generano dei cambiamenti dei modelli di lavoro che incidono anche sulla modalità di esecuzione della prestazione lavorativa”. Da tutto questo un cambiamento diffuso e generalizzato che non cessa di evolversi ancora. La ricerca, quindi, partendo da un focus introduttivo sulla ibridazione dei modelli organizzativi, cerca di indagare sia gli elementi e le variabili, che influiscono sulla “estensione” e flessibilità delle organizzazioni e della organizzazione del lavoro, sia le sfide che interessano le regole del lavoro stesso ormai totalmente inserito in scenari “ibridi, automatizzati e dematerializzati”.

L’indagine di Roberta Caragnano inizia con un approfondimento dei modelli organizzativi, passa ad analizzare il lavoro ibrido e poi l’entrata in scena dell’IA e del metaverso per arrivare, come si è detto, a toccare la necessità di “cambio delle regole” e di un nuovo codice etico nelle relazioni industriali.

Il grande sforzo di analisi contenuto nella ricerca va apprezzato e costituisce una buona base di conoscenza per comprendere meglio il contesto nel quale il sistema della produzione si sta muovendo.

 

I nuovi paradigmi del lavoro tra digitalizzazione, intelligenza artificiale e metaverso. Riflessioni di sistema

Roberta Caragnano

ADAPT Labour studies e-Book series n. 108, 2025

Un’analisi di ADAPT cerca di mettere ordine in un tema complesso e in continua evoluzione

 

Lavorare nell’era della digitalizzazione e dell’Intelligenza Artificiale e dopo una pandemia. Lavorare con strumenti notevolmente diversi dal passato e in continuo mutamento. Con – in altri termini – un bagaglio tecnologico differente da prima e cercando di rinnovare la cultura del lavoro e della produzione. È necessario riflettere molto per comprendere quanto il mondo del lavoro e della produzione stia cambiando. Per questo può servire leggere “I nuovi paradigmi del lavoro tra digitalizzazione, intelligenza artificiale e metaverso. Riflessioni di sistema”, ricerca di Roberta Caragnano recentemente pubblicata nella serie degli ADAPT Labour studies e-Book.

Caragnano spiega che “negli ultimi anni, anche per effetto delle accelerazioni imposte dalla pandemia, il mondo del lavoro ha subito delle trasformazioni radicali (1) sotto la spinta di innovazioni tecnologiche senza precedenti, come la diffusione dei big data, l’avvento dell’intelligenza artificiale (IA) (2) e l’Internet of Things (IoT), che se un verso consentono l’automatizzazione dei processi aziendali, stimolando le innovazioni di prodotto e di processo (3), dall’altro generano dei cambiamenti dei modelli di lavoro che incidono anche sulla modalità di esecuzione della prestazione lavorativa”. Da tutto questo un cambiamento diffuso e generalizzato che non cessa di evolversi ancora. La ricerca, quindi, partendo da un focus introduttivo sulla ibridazione dei modelli organizzativi, cerca di indagare sia gli elementi e le variabili, che influiscono sulla “estensione” e flessibilità delle organizzazioni e della organizzazione del lavoro, sia le sfide che interessano le regole del lavoro stesso ormai totalmente inserito in scenari “ibridi, automatizzati e dematerializzati”.

L’indagine di Roberta Caragnano inizia con un approfondimento dei modelli organizzativi, passa ad analizzare il lavoro ibrido e poi l’entrata in scena dell’IA e del metaverso per arrivare, come si è detto, a toccare la necessità di “cambio delle regole” e di un nuovo codice etico nelle relazioni industriali.

Il grande sforzo di analisi contenuto nella ricerca va apprezzato e costituisce una buona base di conoscenza per comprendere meglio il contesto nel quale il sistema della produzione si sta muovendo.

 

I nuovi paradigmi del lavoro tra digitalizzazione, intelligenza artificiale e metaverso. Riflessioni di sistema

Roberta Caragnano

ADAPT Labour studies e-Book series n. 108, 2025

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?