Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Cari ragazzi, imparate a scrivere, anche per sapere governare l’Intelligenza Artificiale 

Usare ChatGPT e gli altri sistemi di Artificial Intelligence generativa per scrivere (ma anche per costruire immagini, preparare discorsi, simulare dialoghi da mettere in scena). Giocare digitalmente con le parole. Produrre frasi cariche di senso. Addensare in pagine apparentemente nuove concetti elaborati, nel corso del tempo, da filosofi e storici, letterati e sociologi, giornalisti ed economisti. Riprodurre in pochi secondi complesse analisi e cercare di ricavarne efficaci sintesi. Perché “AI GPT writer” è “the Artificial Intelligence Chatbot that knows everything”, come recita, enfaticamente, la comunicazione di Apple.

Ci piaccia o no, è un nuovo formidabile e terribile strumento ad altissima tecnologia che abbiamo tra noi. Le sue strabilianti possibilità ci colpiscono e turbano. Scatenano timori, anche per il futuro di milioni di persone che vedono minacciati i loro posti di lavoro. E pongono naturalmente questioni culturali e morali, sociali e politiche, economiche e giuridiche (come distinguere il vero dal falso? di chi è la proprietà intellettuale di un testo “nuovo” prodotto assemblando frasi di autori vari recuperate negli archivi e rielaborate? e come vanno ripartiti i profitti generati da una così particolare opera d’ingegno?).

Non è questa la sede per dare risposte a tali e tanti quesiti (si potrebbero anche porre a ChatGPT e vedere cosa sostiene). Ma, semmai, è l’occasione per provare a ragionare su una questione centrale: piuttosto che demonizzare l’AI generativa, in una sorta di neoluddismo high tech, non è forse meglio capirla, controllarne i risultati, governarne i processi? Seguire cioè la vecchia lezione culturale ed etica che, da qualche secolo, vuole giustamente che siano le macchine al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio delle macchine. E gestire le nuove tecnologie per migliorare la qualità di vita delle persone, evitando quel “dominio della tecnica” che umilierebbe l’umanità (cercando dunque di evitare i pericoli paventati da Martin Heidegger e, per stare alla storia economica italiana, tradurre in scelte e comportamenti coerenti le indicazioni dell’“umanesimo industriale” caro alle elaborazioni e alla cultura d’impresa Olivetti e Pirelli).

In sintesi: è necessario saper fare un uso sofisticato delle parole per sovrintendere al prodotto di chi assembla tecnologicamente parole e avere una profonda conoscenza del linguaggio per “usare” i prodotti di ChatGPT invece che limitarsi pigramente a recepirli e, dunque, a esserne usati.

Ecco il tema chiave: il divario crescente tra le possibilità offerte dall’AI e la lingua sempre più legnosa e impoverita con cui sappiano sempre meno efficacemente nominare le cose del mondo. Le sconvolgenti tecnologie che abbiamo a disposizione, infatti, aprono le porte a nuove conoscenze e chiedono nuove sintesi intellettuali e linguistiche (gli algoritmi e i sistemi dell’AI vanno scritti mettendo insieme competenze multidisciplinari di matematici, fisici, cyberscienziati, statistici ma anche filosofi, letterati, economisti, giuristi, sociologi, etc.). Ma, nel tempo, il linguaggio di milioni di persone si è radicalmente ristretto e disseccato, le capacità di uso delle parole si sono ridotte, la sintassi nei discorsi quotidiani è sempre più schematica, complice anche l’abitudine a usare i social media e gli schemi mentali da “like” e da emoticon, a restringere qualunque giudizio nei 140 caratteri di un tweet (anche quando sarebbe necessario un ragionamento più articolato e complesso) e nella secchezza di un post su Facebook o nella didascalia di un’immagine chiamata pomposamente “storia” su Istagram. A ridurre, insomma, la ricchezza della realtà nel codice binario degli “amici o nemici”.

Vale la pena rileggere la lezione di un grande filosofo come Ludwig Wittgenstein per ricordarsi che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” e dunque capire che proprio nella capacità di usare con proprietà le parole e le costruzioni dei discorsi sta non soltanto la forza della rappresentazione dei propri pensieri e dei propri valori, ma anche la sostanza stessa della propria libertà. La valorizzazione dei punti di vista, degli interessi. E la tutela e l’affermazione dei diritti. Nel nesso strettissimo che lega la libertà di parola e la democrazia. Il discorso pubblico consapevole e critico. E lo sviluppo.

Per passare dalla filosofia al cinema, vale la pena ricordare la frase famosa di Nanni Moretti in “Palombella rossa”: “Le parole sono importanti… Chi parla male, pensa male e vive male”. E, per andare alla letteratura, ecco Octavio Paz, grande scrittore messicano, premio Nobel per la letteratura nel 1990: “Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”. Perché, ancora, “un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”.

Non può dunque non creare allarme la crescente incapacità, sempre più diffusa tra le nuove generazioni, di usare compiutamente la lingua, di esprimersi con tutta la ricchezza che il vocabolario e la sintassi consentono.

“Oggi i ragazzi non sanno più scrivere”, nota Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” (13 marzo), dando corpo alle critiche e alle preoccupazioni che emergono dai vari mondi della cultura, delle professioni, del giornalismo e dell’editoria. E rilevando che “dopo le scuole, gli studi universitari dovrebbero approfondire l’esercizio del ragionamento e dunque della scrittura, ma invece prevalgono gli esami orali e le cosiddette ‘domande chiuse’ (a crocette) non servono all’elaborazione scritta”. Eppure, scrivere bene significa leggere bene e dunque capire bene la realtà che abbiamo intorno e saperla raccontare, spiegare, criticare, argomentando come cambiarla e ricostruirla.

Sfida culturale, dunque. Sociale. E civile. Perché “una cittadinanza consapevole, primo obiettivo di un paese maturo, non si esprime attraverso tweet e post, ma attraverso ragionamenti ampi (e, perché no? complessi) che soltanto l’esercizio di una scrittura logica, chiara, attenta – non farraginosa, confusa, approssimativa – può garantire”.

Tornare a scrivere, dunque, è necessario. Anche rivalutando la scrittura a mano, anche perché è una tecnica che condensa i pensieri, stimola la sintesi, interpreta meglio il tempo della riflessione e della comprensione.

Il ragionamento è fondamentale, per le nuove generazioni. C’è bisogno della loro attitudine digitale e della loro intelligenza critica, proprio per fare i conti con tutte le questioni poste dall’Artificial Intelligence. Ma è indispensabile che sappiano contemporaneamente investire bene il capitale di sapienza contenuto nel linguaggio, nelle parole ben costruite e spese. Perché “ci sono parole che fanno vivere…”, come sapeva sapientemente scrivere, mettendole in rima, un fertile poeta, Paul Eluard, … “la parola coraggio la parola scoprire/ la parola calore la parola fiducia/ giustizia amore e la parola libertà…”.

(foto Getty Images)

Usare ChatGPT e gli altri sistemi di Artificial Intelligence generativa per scrivere (ma anche per costruire immagini, preparare discorsi, simulare dialoghi da mettere in scena). Giocare digitalmente con le parole. Produrre frasi cariche di senso. Addensare in pagine apparentemente nuove concetti elaborati, nel corso del tempo, da filosofi e storici, letterati e sociologi, giornalisti ed economisti. Riprodurre in pochi secondi complesse analisi e cercare di ricavarne efficaci sintesi. Perché “AI GPT writer” è “the Artificial Intelligence Chatbot that knows everything”, come recita, enfaticamente, la comunicazione di Apple.

Ci piaccia o no, è un nuovo formidabile e terribile strumento ad altissima tecnologia che abbiamo tra noi. Le sue strabilianti possibilità ci colpiscono e turbano. Scatenano timori, anche per il futuro di milioni di persone che vedono minacciati i loro posti di lavoro. E pongono naturalmente questioni culturali e morali, sociali e politiche, economiche e giuridiche (come distinguere il vero dal falso? di chi è la proprietà intellettuale di un testo “nuovo” prodotto assemblando frasi di autori vari recuperate negli archivi e rielaborate? e come vanno ripartiti i profitti generati da una così particolare opera d’ingegno?).

Non è questa la sede per dare risposte a tali e tanti quesiti (si potrebbero anche porre a ChatGPT e vedere cosa sostiene). Ma, semmai, è l’occasione per provare a ragionare su una questione centrale: piuttosto che demonizzare l’AI generativa, in una sorta di neoluddismo high tech, non è forse meglio capirla, controllarne i risultati, governarne i processi? Seguire cioè la vecchia lezione culturale ed etica che, da qualche secolo, vuole giustamente che siano le macchine al servizio dell’uomo e non l’uomo al servizio delle macchine. E gestire le nuove tecnologie per migliorare la qualità di vita delle persone, evitando quel “dominio della tecnica” che umilierebbe l’umanità (cercando dunque di evitare i pericoli paventati da Martin Heidegger e, per stare alla storia economica italiana, tradurre in scelte e comportamenti coerenti le indicazioni dell’“umanesimo industriale” caro alle elaborazioni e alla cultura d’impresa Olivetti e Pirelli).

In sintesi: è necessario saper fare un uso sofisticato delle parole per sovrintendere al prodotto di chi assembla tecnologicamente parole e avere una profonda conoscenza del linguaggio per “usare” i prodotti di ChatGPT invece che limitarsi pigramente a recepirli e, dunque, a esserne usati.

Ecco il tema chiave: il divario crescente tra le possibilità offerte dall’AI e la lingua sempre più legnosa e impoverita con cui sappiano sempre meno efficacemente nominare le cose del mondo. Le sconvolgenti tecnologie che abbiamo a disposizione, infatti, aprono le porte a nuove conoscenze e chiedono nuove sintesi intellettuali e linguistiche (gli algoritmi e i sistemi dell’AI vanno scritti mettendo insieme competenze multidisciplinari di matematici, fisici, cyberscienziati, statistici ma anche filosofi, letterati, economisti, giuristi, sociologi, etc.). Ma, nel tempo, il linguaggio di milioni di persone si è radicalmente ristretto e disseccato, le capacità di uso delle parole si sono ridotte, la sintassi nei discorsi quotidiani è sempre più schematica, complice anche l’abitudine a usare i social media e gli schemi mentali da “like” e da emoticon, a restringere qualunque giudizio nei 140 caratteri di un tweet (anche quando sarebbe necessario un ragionamento più articolato e complesso) e nella secchezza di un post su Facebook o nella didascalia di un’immagine chiamata pomposamente “storia” su Istagram. A ridurre, insomma, la ricchezza della realtà nel codice binario degli “amici o nemici”.

Vale la pena rileggere la lezione di un grande filosofo come Ludwig Wittgenstein per ricordarsi che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” e dunque capire che proprio nella capacità di usare con proprietà le parole e le costruzioni dei discorsi sta non soltanto la forza della rappresentazione dei propri pensieri e dei propri valori, ma anche la sostanza stessa della propria libertà. La valorizzazione dei punti di vista, degli interessi. E la tutela e l’affermazione dei diritti. Nel nesso strettissimo che lega la libertà di parola e la democrazia. Il discorso pubblico consapevole e critico. E lo sviluppo.

Per passare dalla filosofia al cinema, vale la pena ricordare la frase famosa di Nanni Moretti in “Palombella rossa”: “Le parole sono importanti… Chi parla male, pensa male e vive male”. E, per andare alla letteratura, ecco Octavio Paz, grande scrittore messicano, premio Nobel per la letteratura nel 1990: “Non sappiamo da dove inizi il male, se dalle parole o dalle cose, ma quando le parole si corrompono e i significati diventano incerti, anche il senso delle nostre azioni e delle nostre opere diviene insicuro. Le cose si appoggiano sui loro nomi e viceversa”. Perché, ancora, “un paese si corrompe quando si corrompe la sua sintassi”.

Non può dunque non creare allarme la crescente incapacità, sempre più diffusa tra le nuove generazioni, di usare compiutamente la lingua, di esprimersi con tutta la ricchezza che il vocabolario e la sintassi consentono.

“Oggi i ragazzi non sanno più scrivere”, nota Paolo Di Stefano sul “Corriere della Sera” (13 marzo), dando corpo alle critiche e alle preoccupazioni che emergono dai vari mondi della cultura, delle professioni, del giornalismo e dell’editoria. E rilevando che “dopo le scuole, gli studi universitari dovrebbero approfondire l’esercizio del ragionamento e dunque della scrittura, ma invece prevalgono gli esami orali e le cosiddette ‘domande chiuse’ (a crocette) non servono all’elaborazione scritta”. Eppure, scrivere bene significa leggere bene e dunque capire bene la realtà che abbiamo intorno e saperla raccontare, spiegare, criticare, argomentando come cambiarla e ricostruirla.

Sfida culturale, dunque. Sociale. E civile. Perché “una cittadinanza consapevole, primo obiettivo di un paese maturo, non si esprime attraverso tweet e post, ma attraverso ragionamenti ampi (e, perché no? complessi) che soltanto l’esercizio di una scrittura logica, chiara, attenta – non farraginosa, confusa, approssimativa – può garantire”.

Tornare a scrivere, dunque, è necessario. Anche rivalutando la scrittura a mano, anche perché è una tecnica che condensa i pensieri, stimola la sintesi, interpreta meglio il tempo della riflessione e della comprensione.

Il ragionamento è fondamentale, per le nuove generazioni. C’è bisogno della loro attitudine digitale e della loro intelligenza critica, proprio per fare i conti con tutte le questioni poste dall’Artificial Intelligence. Ma è indispensabile che sappiano contemporaneamente investire bene il capitale di sapienza contenuto nel linguaggio, nelle parole ben costruite e spese. Perché “ci sono parole che fanno vivere…”, come sapeva sapientemente scrivere, mettendole in rima, un fertile poeta, Paul Eluard, … “la parola coraggio la parola scoprire/ la parola calore la parola fiducia/ giustizia amore e la parola libertà…”.

(foto Getty Images)

Campiello Junior «Anche il bimbo-telefonino può innamorarsi può innamorarsi della lettura»

Edison, evoluzione di una grande impresa

La storia di uno dei più importanti gruppi industriali fa comprendere molto della natura economica del Paese

 

Imprese che davvero hanno fatto la storia economica e industriale di un territorio e di un intero Paese. Imprese magari non “perfette”, ma significative, le cui vicende è bene conoscere per capire l’andamento di un’intera economia e, soprattutto, delinearne i possibili sviluppi. A questo serve conoscere l’evoluzione di alcuni dei grandi nomi industriali italiani. Il gruppo Edison è certamente tra questi. Ecco perché serve leggere (con attenzione) il libro che Marco Fortis ha appena dato alle stampe sui 140 anni di storia del Gruppo.

“Storia del Gruppo Edison: 1883-2023. Le direttrici di sviluppo di una grande impresa industriale” mostra la sua utilità a partire dal sottotitolo e cioè dalla promessa di raccontare le vie di sviluppo di un’azienda che, per molto tempo, ha contribuito in modo fondamentale alla crescita dell’Italia dal punto di visto economico. Perché le vicende di Edison sono davvero fondamentali per l’industria italiana in generale, ricche come sono di personaggi di grande caratura, periodi di alterna fortuna, trasformazioni, problematiche e crisi, nonché innovazioni e nuove sfide, alcune vinte e altre da affrontare.

Racconto avvincente quello di Fortis. Narrazione che ripercorre l’intera storia del Gruppo Edison dalla nascita della società nel 1883 fino al 2023. E che contiene alcuni tratti significativi, come, per esempio, i profili di continuità tra la “Edison storica” e la Edison attuale. Prima la storia, dunque con la società pioniera dell’elettrificazione alla fine dell’Ottocento, con la costruzione a Milano della prima centrale elettrica d’Europa, quella di Santa Radegonda, e l’illuminazione della Scala. Poi i passi degli ultimi 30 anni con  il Gruppo Edison tornato progressivamente ad essere un operatore nazionale di primo piano nel settore dell’energia, con rilevanti cambiamenti nell’azionariato, nell’orientamento delle attività della società e nella ridefinizione della sua strategia industriale. Per arrivare ad una “nuova” Edison che ha concentrato la sua visione e i suoi orientamenti strategici per il futuro sempre di più nella produzione di energie rinnovabili, nella diversificazione geografica delle sue fonti di approvvigionamento di gas naturale, nelle attività commerciali, nei servizi energetici ed ambientali e verso una rinnovata attenzione nei confronti dell’energia nucleare. “Nuova” Edison che, tuttavia, come si è detto non ha mancato di ricordare le sue origini e di trarne in qualche modo ispirazione.

Nelle circa duecento pagine di libro, scorrono così non solo le vicende legate all’azionariato ma anche quelle degli “imprenditori, ingegneri, amministratori” che hanno animato l’azienda, così come le fasi di declino seguite ad altre di rilancio connotate, come si è detto, da una sorta di filo rosso che lega il passato con il presente.

Il senso e l’utilità del libro di Fortis li si ritrova in molti passaggi, uno per tutti: “Edison appartiene a un ristretto numero di grandi gruppi privati e pubblici in settori strategici e con una storia  pluridecennale, che il nostro paese ha conservato. Anche per queste ragioni, costituisce una risorsa insostituibile”. Risorsa che va compresa e valorizzata e quindi raccontata per bene come proprio Marco Fortis riesce a fare.

Storia del Gruppo Edison: 1883-2023. Le direttrici di sviluppo di una grande impresa industriale

Marco Fortis

il Mulino, 2024

La storia di uno dei più importanti gruppi industriali fa comprendere molto della natura economica del Paese

 

Imprese che davvero hanno fatto la storia economica e industriale di un territorio e di un intero Paese. Imprese magari non “perfette”, ma significative, le cui vicende è bene conoscere per capire l’andamento di un’intera economia e, soprattutto, delinearne i possibili sviluppi. A questo serve conoscere l’evoluzione di alcuni dei grandi nomi industriali italiani. Il gruppo Edison è certamente tra questi. Ecco perché serve leggere (con attenzione) il libro che Marco Fortis ha appena dato alle stampe sui 140 anni di storia del Gruppo.

“Storia del Gruppo Edison: 1883-2023. Le direttrici di sviluppo di una grande impresa industriale” mostra la sua utilità a partire dal sottotitolo e cioè dalla promessa di raccontare le vie di sviluppo di un’azienda che, per molto tempo, ha contribuito in modo fondamentale alla crescita dell’Italia dal punto di visto economico. Perché le vicende di Edison sono davvero fondamentali per l’industria italiana in generale, ricche come sono di personaggi di grande caratura, periodi di alterna fortuna, trasformazioni, problematiche e crisi, nonché innovazioni e nuove sfide, alcune vinte e altre da affrontare.

Racconto avvincente quello di Fortis. Narrazione che ripercorre l’intera storia del Gruppo Edison dalla nascita della società nel 1883 fino al 2023. E che contiene alcuni tratti significativi, come, per esempio, i profili di continuità tra la “Edison storica” e la Edison attuale. Prima la storia, dunque con la società pioniera dell’elettrificazione alla fine dell’Ottocento, con la costruzione a Milano della prima centrale elettrica d’Europa, quella di Santa Radegonda, e l’illuminazione della Scala. Poi i passi degli ultimi 30 anni con  il Gruppo Edison tornato progressivamente ad essere un operatore nazionale di primo piano nel settore dell’energia, con rilevanti cambiamenti nell’azionariato, nell’orientamento delle attività della società e nella ridefinizione della sua strategia industriale. Per arrivare ad una “nuova” Edison che ha concentrato la sua visione e i suoi orientamenti strategici per il futuro sempre di più nella produzione di energie rinnovabili, nella diversificazione geografica delle sue fonti di approvvigionamento di gas naturale, nelle attività commerciali, nei servizi energetici ed ambientali e verso una rinnovata attenzione nei confronti dell’energia nucleare. “Nuova” Edison che, tuttavia, come si è detto non ha mancato di ricordare le sue origini e di trarne in qualche modo ispirazione.

Nelle circa duecento pagine di libro, scorrono così non solo le vicende legate all’azionariato ma anche quelle degli “imprenditori, ingegneri, amministratori” che hanno animato l’azienda, così come le fasi di declino seguite ad altre di rilancio connotate, come si è detto, da una sorta di filo rosso che lega il passato con il presente.

Il senso e l’utilità del libro di Fortis li si ritrova in molti passaggi, uno per tutti: “Edison appartiene a un ristretto numero di grandi gruppi privati e pubblici in settori strategici e con una storia  pluridecennale, che il nostro paese ha conservato. Anche per queste ragioni, costituisce una risorsa insostituibile”. Risorsa che va compresa e valorizzata e quindi raccontata per bene come proprio Marco Fortis riesce a fare.

Storia del Gruppo Edison: 1883-2023. Le direttrici di sviluppo di una grande impresa industriale

Marco Fortis

il Mulino, 2024

Apprendere anche con l’IA

Pubblicata una sintesi efficace delle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale ai fabbisogni formativi delle organizzazioni

Apprendere rapidamente ma soprattutto con più efficacia (e facilità). Obiettivo importante, anche negli ambiti di lavoro. Traguardo, tra l’altro, non solo per accrescere cultura generale e cultura d’impresa in particolare, ma, nelle organizzazioni della produzione, per acquisire quelle nozioni determinanti per aumentare la sicurezza sul lavoro e l’accuratezza nelle mansioni e nei compiti da svolgere. Un percorso, quello della formazione, che adesso può essere più agevolmente esplorato partendo da una migliore precisazione dei fabbisogni formativi e dall’uso dell’Intelligenza Artificiale.

E’ attorno a questi temi che ragionano Mario Vitolo e Francesco Santopaolo in un loro sintetico intervento apparso da poco su FOR – Rivista per la formazione.
“Analisi del fabbisogno formativo e Intelligenza artificiale” cerca di delineare le relazioni (costruttive) tra l’identificazione del fabbisogno formativo, l’IA e gli strumenti messi a disposizione dalle tecnologie digitali. Una sorta di “stato dell’arte” di questo intreccio, che vale come base per ulteriori approfondimenti.

Se l’e-learning ha aggiunto flessibilità alla formazione e all’apprendimento, è la tesi dei due autori, l’Intelligenza Artificiale “avrà un ruolo significativo nel supportare l’analisi della domanda di formazione e la definizione del fabbisogno in contesti organizzativi, fornendo un contributo prezioso in tutte le fasi del processo”. L’IA, in altri termini, per Vitolo e Santopaolo è una sorta di acceleratore del processo di identificazione all’interno delle organizzazioni delle lacune e delle aree di miglioramento. Un traguardo che può essere raggiunto attraverso varie strade: dall’uso dei metodi più tradizionali a quelli che fanno capo a procedure avanzate. Ma non solo questo.

All’analisi dei fabbisogni di formazione l’IA può aggiungere quella dei risultati della formazione, una verifica più efficace e rapida che, dunque, pare essere il vero contributo che l’IA può apportare ad una fase delicata della crescita delle imprese: quella della formazione e dell’aggiornamento del personale.
Un orizzonte affascinante – che Vitolo e Santopaolo hanno il merito di delineare sinteticamente – che non deve e far dimenticare, tuttavia, la complessità e la delicatezza di che cosa si sta maneggiando: la cultura umana (applicata alla produzione).

Analisi del fabbisogno formativo e Intelligenza artificiale
Mario Vitolo, Francesco Santopaolo
FOR – Rivista per la formazione, Fascicolo 2023/3

Pubblicata una sintesi efficace delle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale ai fabbisogni formativi delle organizzazioni

Apprendere rapidamente ma soprattutto con più efficacia (e facilità). Obiettivo importante, anche negli ambiti di lavoro. Traguardo, tra l’altro, non solo per accrescere cultura generale e cultura d’impresa in particolare, ma, nelle organizzazioni della produzione, per acquisire quelle nozioni determinanti per aumentare la sicurezza sul lavoro e l’accuratezza nelle mansioni e nei compiti da svolgere. Un percorso, quello della formazione, che adesso può essere più agevolmente esplorato partendo da una migliore precisazione dei fabbisogni formativi e dall’uso dell’Intelligenza Artificiale.

E’ attorno a questi temi che ragionano Mario Vitolo e Francesco Santopaolo in un loro sintetico intervento apparso da poco su FOR – Rivista per la formazione.
“Analisi del fabbisogno formativo e Intelligenza artificiale” cerca di delineare le relazioni (costruttive) tra l’identificazione del fabbisogno formativo, l’IA e gli strumenti messi a disposizione dalle tecnologie digitali. Una sorta di “stato dell’arte” di questo intreccio, che vale come base per ulteriori approfondimenti.

Se l’e-learning ha aggiunto flessibilità alla formazione e all’apprendimento, è la tesi dei due autori, l’Intelligenza Artificiale “avrà un ruolo significativo nel supportare l’analisi della domanda di formazione e la definizione del fabbisogno in contesti organizzativi, fornendo un contributo prezioso in tutte le fasi del processo”. L’IA, in altri termini, per Vitolo e Santopaolo è una sorta di acceleratore del processo di identificazione all’interno delle organizzazioni delle lacune e delle aree di miglioramento. Un traguardo che può essere raggiunto attraverso varie strade: dall’uso dei metodi più tradizionali a quelli che fanno capo a procedure avanzate. Ma non solo questo.

All’analisi dei fabbisogni di formazione l’IA può aggiungere quella dei risultati della formazione, una verifica più efficace e rapida che, dunque, pare essere il vero contributo che l’IA può apportare ad una fase delicata della crescita delle imprese: quella della formazione e dell’aggiornamento del personale.
Un orizzonte affascinante – che Vitolo e Santopaolo hanno il merito di delineare sinteticamente – che non deve e far dimenticare, tuttavia, la complessità e la delicatezza di che cosa si sta maneggiando: la cultura umana (applicata alla produzione).

Analisi del fabbisogno formativo e Intelligenza artificiale
Mario Vitolo, Francesco Santopaolo
FOR – Rivista per la formazione, Fascicolo 2023/3

Votare con i piedi: i giovani in fuga dall’Italia e le politiche necessarie contro il declino

“Votare con i piedi”, si dice nel gergo della politica economica. Non per stigmatizzare una scelta elettorale mal definita. Semmai, per indicare il fenomeno secondo cui un cittadino insoddisfatto della politica adottata da una certa amministrazione pubblica può dimostrare il proprio disaccordo, cioè le proprie preferenze, emigrando altrove. La frase, centrale negli studi dell’economista americano Charles Thiebaut, era stata spesso usata dal presidente Usa Ronald Reagan negli anni Ottanta del secolo scorso, per raccomandare la competizione sulle politiche fiscali tra gli stati americani, nella corsa a ridurre le tasse e attrarre così persone e investimenti. Ne avevano scritto autorevoli economisti come Friedrich von Hayek e Milton Friedman. E anche il dibattito contemporaneo italiano sull’autonomia differenziata per le regioni risente di quell’impostazione culturale liberal-liberista.

Votano con i piedi”, per esempio, gli italiani delle città meridionali che scelgono di farsi curarsi a Milano, ma anche a Torino o a Bologna, in cerca di migliori prestazioni negli ospedali pubblici e privati del Nord (ma con costi a carico delle regioni del Sud, con una sanità malandata e comunque costosa). Votano con i piedi tutti i milanesi che preferiscono andare a vivere a Pavia o a Magenta, a Corbetta o a Monza, piuttosto che subire un intollerabile aumento del costo della vita. Votano con i piedi i pensionati che hanno preferito trasferire la residenza in Tunisia e in Portogallo (e adesso, dopo le riforme portoghesi, guardano alla Grecia o perfino a San Marino) per avere un robusto abbattimento del carico fiscale sui loro redditi. Votano con i piedi, e con profonda fatica e grande dolore nel distacco, quelli che abbandonano i loro comuni privi di servizi e scelgono altri paesi e città meglio serviti: sono il 49,3% i comuni italiani con variazione della popolazione negativa, con punte dell’89,3% in Basilicata, rispetto all’appena 15,2% del Trentino, provincia autonoma ben governata in termini di qualità della vita (“L’Italia spopolata dei comuni interni: gli abitanti fuggono, restano gli over 80”, titola IlSole24Ore, 17 marzo).

E votano con i piedi anche le imprese che lasciano l’Italia e scelgono altri territori per i loro investimenti (le cronache economiche ne offrono ampie testimonianze).

Hanno votato con i piedi, soprattutto, quel milione e ottocentomila giovani italiani (il 32% della fascia d’età tra i 25 e i 34 anni) che, secondo il Censis, hanno lasciato negli ultimi vent’anni l’Italia per cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. E quegli altri loro coetanei che continuano a farlo. Come testimonia, tra l’altro, anche un report condotto da Astraricerche per ManagerItalia e Kilpatrick e pubblicato da “Il Sole24Ore” (13 marzo), secondo cui tra i dirigenti d’azienda espatriati, solo il 22,8% vuole tornare in Italia (erano il 43,6% in una analoga rilevazione di dieci anni fa) e tutti gli altri restano volentieri all’estero (il 33,7% con particolare convinzione) perché nel nostro paese “mancano opportunità professionali valide rispetto alle mine esigenze” oppure “perché l’Italia è in declino e non potrà mai riprendersi” oppure “perché non c’è meritocrazia”.

Tanti “voti con i piedi”, per la qualità della sanità, il peso fiscale, la qualità della vita o le opportunità personali e familiari di crescita, dovrebbero essere altrettanti sonori campanelli d’allarme sui rischi di declino da evitare, gli squilibri da sanare e le riforme da avviare. Ma nel nostro discorso pubblico ce n’è scarsa traccia. Irresponsabilmente.

Guardando al futuro, il dato che impressiona di più è quello dei giovani.

L’Italia, infatti, è in pieno inverno demografico, e il tasso di fertilità di ogni donna è appena 1,24, tra i più bassi del mondo e comunque ben lontano dal tasso di sostituzione del 2,1% (servirebbero cioè 2,1 figli per ogni donna per non fare regredire numericamente la popolazione). Nel ‘23, per la prima volta, sono nati meno di 400mila bambini (nel 2008 erano 600mila, nel 1964, subito dopo il culmine del boom economico, erano 1 milione).

Da oltre trent’anni, insomma, nel paese che invecchia, si registrano più morti che nascite (746mila, nel 2020). “Un’Italia senza bambini”, sintetizza “Il Foglio” (11 marzo).

Ecco, non solo diminuisce demograficamente il peso delle nuove generazioni, ma in tanti se ne vanno via, aggravando il quadro generale. E meno giovani, in prospettiva, significa minore produttività, minore innovazione, maggiore carico sulle casse pubbliche (sulle nostre tasse, di conseguenza o sul nostro debito) per oneri del sistema previdenziale e di quello sanitario.

E’ vero che l’ingegnosità degli italiani tiene comunque in piedi la macchina produttiva, come documenta Marco Fortis, mostrando, dati alla mano, come “l’Italia sia prima in Europa per la crescita del Pil pro capite, nonostante il calo delle nascite” (IlSole24Ore, 12 marzo) e dunque abbia ancora energie innovative e produttive. Ma si tratta di situazioni che non possono andare avanti nel lungo periodo.

E dunque?

Occorrono scelte politiche con lo sguardo ambizioso, orientate alla crescita. Per rendere finalmente il nostro Paese attrattivo non solo per i nostri giovani, ma anche per tutti coloro che possono guardare all’Italia come il posto in cui trovare migliori occasioni di lavoro, vita, intraprendenza, inclusione, sviluppo sostenibile.

Politiche per la famiglia, con tutte le conseguenze in termini di servizi e di stimoli a conciliare il lavoro con paternità e maternità. Politiche dell’immigrazione ben governata. E un generale impegno, trasversale a tutte le forze politiche, per ricostruire un solido capitale sociale di fiducia, per sollecitare una cultura positiva sullo sviluppo. E’ la fiducia, la chiave della scelta demografica positiva. E’ la fiducia, su cui si costruiscono famiglie e figli.

Senza giocare irresponsabilmente sulle paure. Ma testimoniando, soprattutto al mondo delle ragazze e dei ragazzi, che si lavora per un loro futuro migliore.

Era il clima diffuso nell’Italia del dopoguerra, l’Italia della Ricostruzione e della Ripresa. In cui, nonostante le preoccupazioni per i rischi della Guerra Fredda tra l’Occidente e il mondo sovietico, i problemi sociali e le tensioni politiche, si investiva, si lavorava, si costruivano famiglie e case in cui farle vivere, si migliorava la scuola e, nel tempo, si varava la sanità pubblica. Tutti consapevoli, pur con diversità di accenti e posizioni culturali, economiche e politiche, del fatto che lo sviluppo di un Paese dipende dalla risorse investite, dall’innovazione, dalla diffusione di nuove tecnologie, ma soprattutto dal ruolo e dalle volontà dei cittadini che vanno, restano, arrivano. Progettano. Fanno.

Si votava con i piedi anche allora, insomma. Verso quei cantieri in cui si costruiva un’Italia migliore.

(foto Getty Images)

“Votare con i piedi”, si dice nel gergo della politica economica. Non per stigmatizzare una scelta elettorale mal definita. Semmai, per indicare il fenomeno secondo cui un cittadino insoddisfatto della politica adottata da una certa amministrazione pubblica può dimostrare il proprio disaccordo, cioè le proprie preferenze, emigrando altrove. La frase, centrale negli studi dell’economista americano Charles Thiebaut, era stata spesso usata dal presidente Usa Ronald Reagan negli anni Ottanta del secolo scorso, per raccomandare la competizione sulle politiche fiscali tra gli stati americani, nella corsa a ridurre le tasse e attrarre così persone e investimenti. Ne avevano scritto autorevoli economisti come Friedrich von Hayek e Milton Friedman. E anche il dibattito contemporaneo italiano sull’autonomia differenziata per le regioni risente di quell’impostazione culturale liberal-liberista.

Votano con i piedi”, per esempio, gli italiani delle città meridionali che scelgono di farsi curarsi a Milano, ma anche a Torino o a Bologna, in cerca di migliori prestazioni negli ospedali pubblici e privati del Nord (ma con costi a carico delle regioni del Sud, con una sanità malandata e comunque costosa). Votano con i piedi tutti i milanesi che preferiscono andare a vivere a Pavia o a Magenta, a Corbetta o a Monza, piuttosto che subire un intollerabile aumento del costo della vita. Votano con i piedi i pensionati che hanno preferito trasferire la residenza in Tunisia e in Portogallo (e adesso, dopo le riforme portoghesi, guardano alla Grecia o perfino a San Marino) per avere un robusto abbattimento del carico fiscale sui loro redditi. Votano con i piedi, e con profonda fatica e grande dolore nel distacco, quelli che abbandonano i loro comuni privi di servizi e scelgono altri paesi e città meglio serviti: sono il 49,3% i comuni italiani con variazione della popolazione negativa, con punte dell’89,3% in Basilicata, rispetto all’appena 15,2% del Trentino, provincia autonoma ben governata in termini di qualità della vita (“L’Italia spopolata dei comuni interni: gli abitanti fuggono, restano gli over 80”, titola IlSole24Ore, 17 marzo).

E votano con i piedi anche le imprese che lasciano l’Italia e scelgono altri territori per i loro investimenti (le cronache economiche ne offrono ampie testimonianze).

Hanno votato con i piedi, soprattutto, quel milione e ottocentomila giovani italiani (il 32% della fascia d’età tra i 25 e i 34 anni) che, secondo il Censis, hanno lasciato negli ultimi vent’anni l’Italia per cercare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. E quegli altri loro coetanei che continuano a farlo. Come testimonia, tra l’altro, anche un report condotto da Astraricerche per ManagerItalia e Kilpatrick e pubblicato da “Il Sole24Ore” (13 marzo), secondo cui tra i dirigenti d’azienda espatriati, solo il 22,8% vuole tornare in Italia (erano il 43,6% in una analoga rilevazione di dieci anni fa) e tutti gli altri restano volentieri all’estero (il 33,7% con particolare convinzione) perché nel nostro paese “mancano opportunità professionali valide rispetto alle mine esigenze” oppure “perché l’Italia è in declino e non potrà mai riprendersi” oppure “perché non c’è meritocrazia”.

Tanti “voti con i piedi”, per la qualità della sanità, il peso fiscale, la qualità della vita o le opportunità personali e familiari di crescita, dovrebbero essere altrettanti sonori campanelli d’allarme sui rischi di declino da evitare, gli squilibri da sanare e le riforme da avviare. Ma nel nostro discorso pubblico ce n’è scarsa traccia. Irresponsabilmente.

Guardando al futuro, il dato che impressiona di più è quello dei giovani.

L’Italia, infatti, è in pieno inverno demografico, e il tasso di fertilità di ogni donna è appena 1,24, tra i più bassi del mondo e comunque ben lontano dal tasso di sostituzione del 2,1% (servirebbero cioè 2,1 figli per ogni donna per non fare regredire numericamente la popolazione). Nel ‘23, per la prima volta, sono nati meno di 400mila bambini (nel 2008 erano 600mila, nel 1964, subito dopo il culmine del boom economico, erano 1 milione).

Da oltre trent’anni, insomma, nel paese che invecchia, si registrano più morti che nascite (746mila, nel 2020). “Un’Italia senza bambini”, sintetizza “Il Foglio” (11 marzo).

Ecco, non solo diminuisce demograficamente il peso delle nuove generazioni, ma in tanti se ne vanno via, aggravando il quadro generale. E meno giovani, in prospettiva, significa minore produttività, minore innovazione, maggiore carico sulle casse pubbliche (sulle nostre tasse, di conseguenza o sul nostro debito) per oneri del sistema previdenziale e di quello sanitario.

E’ vero che l’ingegnosità degli italiani tiene comunque in piedi la macchina produttiva, come documenta Marco Fortis, mostrando, dati alla mano, come “l’Italia sia prima in Europa per la crescita del Pil pro capite, nonostante il calo delle nascite” (IlSole24Ore, 12 marzo) e dunque abbia ancora energie innovative e produttive. Ma si tratta di situazioni che non possono andare avanti nel lungo periodo.

E dunque?

Occorrono scelte politiche con lo sguardo ambizioso, orientate alla crescita. Per rendere finalmente il nostro Paese attrattivo non solo per i nostri giovani, ma anche per tutti coloro che possono guardare all’Italia come il posto in cui trovare migliori occasioni di lavoro, vita, intraprendenza, inclusione, sviluppo sostenibile.

Politiche per la famiglia, con tutte le conseguenze in termini di servizi e di stimoli a conciliare il lavoro con paternità e maternità. Politiche dell’immigrazione ben governata. E un generale impegno, trasversale a tutte le forze politiche, per ricostruire un solido capitale sociale di fiducia, per sollecitare una cultura positiva sullo sviluppo. E’ la fiducia, la chiave della scelta demografica positiva. E’ la fiducia, su cui si costruiscono famiglie e figli.

Senza giocare irresponsabilmente sulle paure. Ma testimoniando, soprattutto al mondo delle ragazze e dei ragazzi, che si lavora per un loro futuro migliore.

Era il clima diffuso nell’Italia del dopoguerra, l’Italia della Ricostruzione e della Ripresa. In cui, nonostante le preoccupazioni per i rischi della Guerra Fredda tra l’Occidente e il mondo sovietico, i problemi sociali e le tensioni politiche, si investiva, si lavorava, si costruivano famiglie e case in cui farle vivere, si migliorava la scuola e, nel tempo, si varava la sanità pubblica. Tutti consapevoli, pur con diversità di accenti e posizioni culturali, economiche e politiche, del fatto che lo sviluppo di un Paese dipende dalla risorse investite, dall’innovazione, dalla diffusione di nuove tecnologie, ma soprattutto dal ruolo e dalle volontà dei cittadini che vanno, restano, arrivano. Progettano. Fanno.

Si votava con i piedi anche allora, insomma. Verso quei cantieri in cui si costruiva un’Italia migliore.

(foto Getty Images)

Machina sapiens vs Homo sapiens?

Appena pubblicato un libro che fa ragionare sui grandi temi posti dall’Intelligenza Artificiale e il nostro futuro

Macchine che pensano davvero. E’ questo il punto al quale alcuni sono convinti manchi davvero pochissimo (mentre altri continuano ad avere notevoli dubbi). Macchine, comunque, create dall’uomo che presto potrebbero non solo sostituirlo in numerose mansioni ma porsi come creature alternative. Mai come oggi, sul tema dell’Intelligenza Artificiale il mondo – dell’economia e non – si divide, pone numerosi dubbi ai quali affianca altrettanti sogni. Mai come adesso è necessario capire. Leggere “Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza” scritto da Nello Cristianini (che insegna Intelligenza Artificiale all’Università di Bath), aiuta certamente a comprendere, a farsi più di un’idea (precisa) e, soprattutto, a ragionare forti di un solido bagaglio di conoscenze.

Cristianini in poche pagine riesce a fornire l’intera cassetta degli attrezzi di base che serve per affrontare con avvedutezza un tema complesso e in continuo cambiamento. A partire da una considerazione: l’intelligenza delle macchine nasce dall’interazione di un meccanismo matematico con una quantità straordinaria di testi “che nessuno ha mai provato a connettere e distillare prima”. La conseguenza di tutto questo non è solo un linguaggio ma un “modello del mondo le cui abilità sono ancora inesplorate e inspiegate”. Da qui nascono tutte le incognite. Da qui nasce il grande fascino delle macchine intelligenti ma anche tutto l’apparato di dubbi che queste determinano. E che il libro cerca quanto meno di ordinare se non di risolvere.

Per affrontare il tema Cristianini parte (giustamente) da Alan Turing, di fatto il padre dell’informatica che negli anni Cinquanta dello scorso secolo si è chiesto se le macchine potessero pensare. Da lì l’autore del libro arriva a considerare quanto accade oggi e cioè che i nuovi agenti intelligenti come ChatGPT si sono rivelati capaci di svolgere compiti che vanno molto oltre le intenzioni iniziali dei loro creatori. Perché, sottolinea Cristianini, se queste macchine sono state addestrate per alcune abilità, altre sono emerse spontaneamente mentre leggevano migliaia di libri e milioni di pagine web.
La narrazione si basa su una triade di attori: gli scienziati (e cioè chi ha progettato e creato le macchine), le persone (e quindi chi nella quotidianità sta iniziando a confrontarsi con queste macchine), le macchine stesse (che sempre di più si palesano come esseri intelligenti). Nell’epilogo al libro Cristianini non pone delle conclusioni ma delle domande e delle suggestioni. Come quella relativa al raggiungimento della cosiddetta “massa critica” e cioè “la possibilità che ci sia una soglia di dimensioni oltre cui le prestazioni della macchina intelligente iniziano ad accelerare”. Oppure , quella relativa al fatto che, una volta avviato, il percorso che le macchine intelligenti sono in grado di compiere le porterebbe rapidamente a “superare le nostre deboli capacità”. Cristianini parla poi di “abilità emergenti” che pongono l’uomo di fronte alla domanda su cosa potrà accadergli domani (anche in termini economici e lavorativi oltre che sociali). Sempre nell’epilogo, l’autore ricorda il ruolo determinante delle regole e quindi della politica saggia anche di fronte alle macchine in grado di pensare.

Il libro di Nello Cristianini non fornisce certezze e nemmeno risposte definitive. Ed è proprio questo il suo gran pregio: aiuta chi legge a pensare (nonostante le macchine intelligenti).

Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza

Nello Cristianini

il Mulino, 2024

Appena pubblicato un libro che fa ragionare sui grandi temi posti dall’Intelligenza Artificiale e il nostro futuro

Macchine che pensano davvero. E’ questo il punto al quale alcuni sono convinti manchi davvero pochissimo (mentre altri continuano ad avere notevoli dubbi). Macchine, comunque, create dall’uomo che presto potrebbero non solo sostituirlo in numerose mansioni ma porsi come creature alternative. Mai come oggi, sul tema dell’Intelligenza Artificiale il mondo – dell’economia e non – si divide, pone numerosi dubbi ai quali affianca altrettanti sogni. Mai come adesso è necessario capire. Leggere “Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza” scritto da Nello Cristianini (che insegna Intelligenza Artificiale all’Università di Bath), aiuta certamente a comprendere, a farsi più di un’idea (precisa) e, soprattutto, a ragionare forti di un solido bagaglio di conoscenze.

Cristianini in poche pagine riesce a fornire l’intera cassetta degli attrezzi di base che serve per affrontare con avvedutezza un tema complesso e in continuo cambiamento. A partire da una considerazione: l’intelligenza delle macchine nasce dall’interazione di un meccanismo matematico con una quantità straordinaria di testi “che nessuno ha mai provato a connettere e distillare prima”. La conseguenza di tutto questo non è solo un linguaggio ma un “modello del mondo le cui abilità sono ancora inesplorate e inspiegate”. Da qui nascono tutte le incognite. Da qui nasce il grande fascino delle macchine intelligenti ma anche tutto l’apparato di dubbi che queste determinano. E che il libro cerca quanto meno di ordinare se non di risolvere.

Per affrontare il tema Cristianini parte (giustamente) da Alan Turing, di fatto il padre dell’informatica che negli anni Cinquanta dello scorso secolo si è chiesto se le macchine potessero pensare. Da lì l’autore del libro arriva a considerare quanto accade oggi e cioè che i nuovi agenti intelligenti come ChatGPT si sono rivelati capaci di svolgere compiti che vanno molto oltre le intenzioni iniziali dei loro creatori. Perché, sottolinea Cristianini, se queste macchine sono state addestrate per alcune abilità, altre sono emerse spontaneamente mentre leggevano migliaia di libri e milioni di pagine web.
La narrazione si basa su una triade di attori: gli scienziati (e cioè chi ha progettato e creato le macchine), le persone (e quindi chi nella quotidianità sta iniziando a confrontarsi con queste macchine), le macchine stesse (che sempre di più si palesano come esseri intelligenti). Nell’epilogo al libro Cristianini non pone delle conclusioni ma delle domande e delle suggestioni. Come quella relativa al raggiungimento della cosiddetta “massa critica” e cioè “la possibilità che ci sia una soglia di dimensioni oltre cui le prestazioni della macchina intelligente iniziano ad accelerare”. Oppure , quella relativa al fatto che, una volta avviato, il percorso che le macchine intelligenti sono in grado di compiere le porterebbe rapidamente a “superare le nostre deboli capacità”. Cristianini parla poi di “abilità emergenti” che pongono l’uomo di fronte alla domanda su cosa potrà accadergli domani (anche in termini economici e lavorativi oltre che sociali). Sempre nell’epilogo, l’autore ricorda il ruolo determinante delle regole e quindi della politica saggia anche di fronte alle macchine in grado di pensare.

Il libro di Nello Cristianini non fornisce certezze e nemmeno risposte definitive. Ed è proprio questo il suo gran pregio: aiuta chi legge a pensare (nonostante le macchine intelligenti).

Machina sapiens. L’algoritmo che ci ha rubato il segreto della conoscenza

Nello Cristianini

il Mulino, 2024

Il diritto delle imprese sociali

La necessità di regole giuridiche particolari per far crescere bene particolari organizzazioni della produzione

Impresa sociale come particolare espressione di quella cultura del produrre che non bada al profitto come primo obiettivo del suo agire, ma, invece, a raggiungere altri traguardi ritenuti ugualmente importanti. Impresa comunque a tutti gli effetti, quella sociale, che tuttavia deve beneficiare di una serie di accorgimenti di gestione e giuridici tali da renderla efficace ed efficiente. E’ attorno a questo tema che ragiona Elisabetta Righini (del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino) che, in un intervento appena pubblicato, parte dalla messa fuoco della vera natura delle imprese sociali per arrivare a definirne i contorni giuridici generali con attenzione al contesto italiano.

Righini inizia dal considerare la definizione di impresa sociale fornita dal premio Nobel Muhammad Yunus: l’impresa sociale è “un’impresa creata esclusivamente allo scopo di risolvere un problema sociale o ambientale, ed è un’impresa dalla quale i proprietari non ricevono alcun dividendo se non per recuperare il proprio investimento”. Impresa dunque, nella quale hanno un ruolo determinante e particolare la sensibilità e la coscienza ambientale oppure sociale che diventano componenti essenziali del concetto di social business. E che improntano tutta la gestione aziendale. Percorso delicato e complesso, che deve essere animato da una forte cultura d’impresa posta accanto – appunto – a sensibilità diverse dal semplice “far profitto e far quadrare i conti”.

Elisabetta Righini quindi precisa come la realizzazione delle funzioni per le quali le imprese sociali sono concepite e create richiede anche la ridefinizione del sistema giuridico e istituzionale. Un passo che serve per consentire a questa particolare forma di aggregazione economica di svolgere pienamente la sua funzione. Efficienza, quindi, che non è solo contabile oppure gestionale ma che si allarga ad altri campi d’azione imprenditoriale. Ambiti che devono  essere ben compresi e inseriti nell’operatività d’impresa in un continuo scambio tra regole economiche e gestionale e spinte nate dall’attenzione agli altri e all’ambiente.

Risolvere gli interrogativi relativi all’assetto giuridico delle imprese sociali, si trasforma così in un percorso per far crescere in modo equilibrato e utile queste particolari organizzazioni della produzione e, di fatto, la cultura del produrre che le anima.

Imprenditoria sociale e impegno ambientale per una nuova economia

Elisabetta Righini (Dipartimento di Giurisprudenza – Dipartimento di Giurisprudenza DIGIUR, Università di Urbino Carlo Bo, Urbino, Italia) in Placed based approaches to sustainability, vol. II, Palgrave Macmillan, 2024

La necessità di regole giuridiche particolari per far crescere bene particolari organizzazioni della produzione

Impresa sociale come particolare espressione di quella cultura del produrre che non bada al profitto come primo obiettivo del suo agire, ma, invece, a raggiungere altri traguardi ritenuti ugualmente importanti. Impresa comunque a tutti gli effetti, quella sociale, che tuttavia deve beneficiare di una serie di accorgimenti di gestione e giuridici tali da renderla efficace ed efficiente. E’ attorno a questo tema che ragiona Elisabetta Righini (del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino) che, in un intervento appena pubblicato, parte dalla messa fuoco della vera natura delle imprese sociali per arrivare a definirne i contorni giuridici generali con attenzione al contesto italiano.

Righini inizia dal considerare la definizione di impresa sociale fornita dal premio Nobel Muhammad Yunus: l’impresa sociale è “un’impresa creata esclusivamente allo scopo di risolvere un problema sociale o ambientale, ed è un’impresa dalla quale i proprietari non ricevono alcun dividendo se non per recuperare il proprio investimento”. Impresa dunque, nella quale hanno un ruolo determinante e particolare la sensibilità e la coscienza ambientale oppure sociale che diventano componenti essenziali del concetto di social business. E che improntano tutta la gestione aziendale. Percorso delicato e complesso, che deve essere animato da una forte cultura d’impresa posta accanto – appunto – a sensibilità diverse dal semplice “far profitto e far quadrare i conti”.

Elisabetta Righini quindi precisa come la realizzazione delle funzioni per le quali le imprese sociali sono concepite e create richiede anche la ridefinizione del sistema giuridico e istituzionale. Un passo che serve per consentire a questa particolare forma di aggregazione economica di svolgere pienamente la sua funzione. Efficienza, quindi, che non è solo contabile oppure gestionale ma che si allarga ad altri campi d’azione imprenditoriale. Ambiti che devono  essere ben compresi e inseriti nell’operatività d’impresa in un continuo scambio tra regole economiche e gestionale e spinte nate dall’attenzione agli altri e all’ambiente.

Risolvere gli interrogativi relativi all’assetto giuridico delle imprese sociali, si trasforma così in un percorso per far crescere in modo equilibrato e utile queste particolari organizzazioni della produzione e, di fatto, la cultura del produrre che le anima.

Imprenditoria sociale e impegno ambientale per una nuova economia

Elisabetta Righini (Dipartimento di Giurisprudenza – Dipartimento di Giurisprudenza DIGIUR, Università di Urbino Carlo Bo, Urbino, Italia) in Placed based approaches to sustainability, vol. II, Palgrave Macmillan, 2024

Contro le “passioni tristi” torna la voglia di fare politica e impegnarsi nel volontariato

Viviamo un’epoca di “passioni tristi”, per usare un’efficace espressione di Baruch Spinosa. Di pensieri malinconici. Ma anche di rabbia e di diffusi rancori (i commenti in rete degli “odiatori da tastiera” ne sono inquietanti testimonianze). E di profonde solitudini. Ci mancano però quegli “astratti furori” che Elio Vittorini, nelle luminose pagine di “Conversazione in Sicilia”, legava alla capacità di farsi carico del “dolore del mondo offeso”, di muoversi cioè, con attenzione per valori e interessi generali, contro le trappole di un individualismo gretto e dunque di impegnarsi per alleviare quel dolore e soprattutto provare a troncarne le radici, ribaltarne la condizione.
Eppure, chi indaga con attenzione sull’andamento dei sentimenti sociali e sulle evoluzioni delle tendenze dell’opinione pubblica, non può non rilevare, anche in questi mesi drammatici di conflitti e inquietudini, alcune tendenze che fanno ben sperare. Un ritrovato interesse per la politica, per esempio. E il rafforzamento dell’impegno di milioni di italiani per il volontariato.
“Le passioni degli italiani. Cresce a sorpresa il tifo per la politica, la Chiesa perde quota”, titola “la Repubblica” (9 marzo) su una “mappa” di Ilvo Diamanti, autorevole sociologo, costruita su un sondaggio socio-demografico di Demos, confrontando i dati attuali con quelli di un’analoga rilevazione fatta nel 2016.

Nella scelta sulle questioni che più appassionano gli italiani, tra “la sua città, la sua regione, il suo paese”, oppure “la sua religione o la sua comunità religiosa” oppure ancora “la squadra o lo sportivo per cui fa il tifo” e infine “il suo partito, movimento o leader politico”, resta sempre in testa, come nel 2016, il legame con il proprio territorio (83% di consensi), mentre scende il peso della Chiesa (dal 72 al 60%), cresce un po’ anche quello dello sport (dal 49 al 51%) e si fa notare la ripresa della politica (dal 35 al 48%). Una ripresa evidente non solo tra gli anziani, ma anche tra i giovani, nella classe d’età 18-29 anni. E diffusa in tutti i settori d’opinione, dal centro sinistra al centro destra, con particolare sensibilità soprattutto tra gli elettori del M5S. Secondo Diamanti, le risposte venute sia dai governi territoriali che dalle istituzioni più generali nella drammatica stagione del Covid e del post Covid hanno riavvicinato la politica e i partiti ai cittadini.
Varrà la pena, nel tempo, tenere d’occhio queste tendenze. E, da parte dei poteri pubblici e delle forze politiche, avere cura di non sprecare l’occasione di una tensione positiva, guardando non solo alle elezioni regionali in corso, ma anche a quelle di giugno per il Parlamento Europeo: l’Europa è la casa del nostro comune destino nei prossimi anni, un ancoraggio forte di valori e interessi di fronte alle tensioni e alle inquietudini provocate dalle crisi geopolitiche e dalle mosse degli altri grandi attori internazionali, Usa e Cina innanzitutto. Un’Europa da pensare, anche criticamente, come il luogo delle speranze, evitando che gli europei siano sopraffatti dal gioco cupo di chi fa leva sulle paure, dalle manovre e dalle fake news di chi trama contro l’Europa e i suoi valori che legano, in modo originale, democrazia, mercato e welfare e cioè libertà, sviluppo e benessere diffuso.

C’è una grande lezione morale e civile, che viene in mente in questi tempi difficili. Quella di don Lorenzo Milani. Un maestro del Novecento, nelle sue lezioni ai bambini e ai ragazzi della scuola di Barbiana: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne da soli è avarizia. Sortirne tutti insieme è politica”.
Ecco, il valore della politica, della buona politica. Queste parole risuonano, come orizzonte etico e culturale di riferimento, anche leggendo i dati che parlano di un impegno sociale e civile comune, quelli del volontariato.
Sono 4,6 milioni gli italiani impegnati in attività di volontariato. Fanno riferimento a 363mila organizzazioni non profit e l’86% di quelle organizzazioni rivolge i propri servizi “alle comunità”. Sono la struttura portante del cosiddetto “terzo settore”. Che genera un volume d’affari di circa 80 miliardi, pari al 5% del Pil nazionale. E dà lavoro a 870mila persone, tenendo anche conto del fatto che più dell’80% delle organizzazioni non profit non ha personale dipendente, ma conta su uno straordinario numero di volontari.
Dati imponenti, insomma. Che testimoniano uno robusto impegno solidale e un’idea diffusa dell’importanza di sentirsi “comunità” attraverso il “dono” della propria intelligenza, del proprio tempo, della propria generosità. E che meritano considerazione, maggiore attenzione da parte delle istituzioni e sostegni anche da parte del mondo delle imprese “profit” (se ne è parlato a lungo, la scorsa settimana, durante un convegno organizzato a Milano da UniCredit sulle “Storie di solidarietà in Lombardia” e sul supporto che le società finanziarie possono dare).
Una delle condizioni di crescita, appunto, è trovare relazioni virtuose, di collaborazione e confronto tra imprese di mercato e Terzo Settore, nel panorama originale che vede in azione anche le società benefit e tutte le declinazioni della cosiddetta stakeholder economy in cui si può articolare una idea fertile di sostenibilità, ambientale e sociale, di rapporto tra competitività e solidarietà, produttività e inclusione sociale. Le imprese italiane (come testimoniano le rilevazioni di Symbola) ne sono maestre.

L’orizzonte è quello indicato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sta emergendo un’economia civile, costituita da un campo di forze molteplici, che può contribuire a definire un equilibrio migliore tra mercato, ambiente ed equità sociale… Il Terzo Settore è la struttura portante non di supplenza ma di autonoma e specifica responsabilità dell’intero Paese”.
Il volontariato come asse di un più solido capitale sociale, dunque. E come soggetto di un’idea di impegno civile che ha tutte le caratteristiche della voglia di buona politica. Di un protagonismo, cioè, in una polis aperta e inclusiva o, meglio ancora, in una civitas (giocando con l’esattezza del vocabolario latino) che va oltre le strutture della urbs (i luoghi fisici urbani) e si fonda sui valori della cittadinanza, su quell’incrocio virtuoso tra diritti e doveri che fanno da riferimento cardine di una “comunità”. Un insieme di valori resi evidenti dalla stessa etimologia della parola: il cum che richiama il concetto dello stare insieme e il munus che significa sia “dono” che “obbligo”. Un incrocio di legami. Uno stimolo a pensare insieme a un migliore futuro.
Eccole, allora, le valenze politiche che il volontariato evoca alla nostra attenzione. E che, contro l’epoca delle paure diffuse e alimentate ad arte, per mortificare la volontà di partecipazione e di sguardo rivolto all’orizzonte d’un migliore futuro, chiamano in causa tutti, a vantaggio soprattutto delle nuove generazioni (sono d’altronde tanti, le ragazze e i ragazzi, che proprio nel volontariato trovano risposte a quella volontà di partecipazione che la politica organizzata, oggi, non riesce purtroppo a intercettare e rappresentare).

Guardando le cronache contemporanee, è vero, verrebbe facile dare ragione a chi dispera nel miglioramento della nostra dolente condizione umana contemporanea. E riconoscersi in quel personaggio di Altan, maestro dei nostri umori altalenanti, che dichiara: “Sono combattuto fra la testardaggine della volontà e la malinconia della ragione”. E, sempre per non farci illusioni, ritrovarsi anche in un altro fulminante scambio di battute: “I vecchi ci hanno deluso”, dice uno. E l’altro: “ È ora di farci deludere dai nuovi”.
Sfogliando le pagine di Altan, c’è però anche altro.
“Forza, nonno, si ricomincia daccapo”, dice un bambino in una appassionata vignetta, spingendo in avanti un anziano ritroso. C’è sempre e comunque, la speranza di un miglior tempo da costruire e da vivere.

(foto Getty Images)

Viviamo un’epoca di “passioni tristi”, per usare un’efficace espressione di Baruch Spinosa. Di pensieri malinconici. Ma anche di rabbia e di diffusi rancori (i commenti in rete degli “odiatori da tastiera” ne sono inquietanti testimonianze). E di profonde solitudini. Ci mancano però quegli “astratti furori” che Elio Vittorini, nelle luminose pagine di “Conversazione in Sicilia”, legava alla capacità di farsi carico del “dolore del mondo offeso”, di muoversi cioè, con attenzione per valori e interessi generali, contro le trappole di un individualismo gretto e dunque di impegnarsi per alleviare quel dolore e soprattutto provare a troncarne le radici, ribaltarne la condizione.
Eppure, chi indaga con attenzione sull’andamento dei sentimenti sociali e sulle evoluzioni delle tendenze dell’opinione pubblica, non può non rilevare, anche in questi mesi drammatici di conflitti e inquietudini, alcune tendenze che fanno ben sperare. Un ritrovato interesse per la politica, per esempio. E il rafforzamento dell’impegno di milioni di italiani per il volontariato.
“Le passioni degli italiani. Cresce a sorpresa il tifo per la politica, la Chiesa perde quota”, titola “la Repubblica” (9 marzo) su una “mappa” di Ilvo Diamanti, autorevole sociologo, costruita su un sondaggio socio-demografico di Demos, confrontando i dati attuali con quelli di un’analoga rilevazione fatta nel 2016.

Nella scelta sulle questioni che più appassionano gli italiani, tra “la sua città, la sua regione, il suo paese”, oppure “la sua religione o la sua comunità religiosa” oppure ancora “la squadra o lo sportivo per cui fa il tifo” e infine “il suo partito, movimento o leader politico”, resta sempre in testa, come nel 2016, il legame con il proprio territorio (83% di consensi), mentre scende il peso della Chiesa (dal 72 al 60%), cresce un po’ anche quello dello sport (dal 49 al 51%) e si fa notare la ripresa della politica (dal 35 al 48%). Una ripresa evidente non solo tra gli anziani, ma anche tra i giovani, nella classe d’età 18-29 anni. E diffusa in tutti i settori d’opinione, dal centro sinistra al centro destra, con particolare sensibilità soprattutto tra gli elettori del M5S. Secondo Diamanti, le risposte venute sia dai governi territoriali che dalle istituzioni più generali nella drammatica stagione del Covid e del post Covid hanno riavvicinato la politica e i partiti ai cittadini.
Varrà la pena, nel tempo, tenere d’occhio queste tendenze. E, da parte dei poteri pubblici e delle forze politiche, avere cura di non sprecare l’occasione di una tensione positiva, guardando non solo alle elezioni regionali in corso, ma anche a quelle di giugno per il Parlamento Europeo: l’Europa è la casa del nostro comune destino nei prossimi anni, un ancoraggio forte di valori e interessi di fronte alle tensioni e alle inquietudini provocate dalle crisi geopolitiche e dalle mosse degli altri grandi attori internazionali, Usa e Cina innanzitutto. Un’Europa da pensare, anche criticamente, come il luogo delle speranze, evitando che gli europei siano sopraffatti dal gioco cupo di chi fa leva sulle paure, dalle manovre e dalle fake news di chi trama contro l’Europa e i suoi valori che legano, in modo originale, democrazia, mercato e welfare e cioè libertà, sviluppo e benessere diffuso.

C’è una grande lezione morale e civile, che viene in mente in questi tempi difficili. Quella di don Lorenzo Milani. Un maestro del Novecento, nelle sue lezioni ai bambini e ai ragazzi della scuola di Barbiana: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne da soli è avarizia. Sortirne tutti insieme è politica”.
Ecco, il valore della politica, della buona politica. Queste parole risuonano, come orizzonte etico e culturale di riferimento, anche leggendo i dati che parlano di un impegno sociale e civile comune, quelli del volontariato.
Sono 4,6 milioni gli italiani impegnati in attività di volontariato. Fanno riferimento a 363mila organizzazioni non profit e l’86% di quelle organizzazioni rivolge i propri servizi “alle comunità”. Sono la struttura portante del cosiddetto “terzo settore”. Che genera un volume d’affari di circa 80 miliardi, pari al 5% del Pil nazionale. E dà lavoro a 870mila persone, tenendo anche conto del fatto che più dell’80% delle organizzazioni non profit non ha personale dipendente, ma conta su uno straordinario numero di volontari.
Dati imponenti, insomma. Che testimoniano uno robusto impegno solidale e un’idea diffusa dell’importanza di sentirsi “comunità” attraverso il “dono” della propria intelligenza, del proprio tempo, della propria generosità. E che meritano considerazione, maggiore attenzione da parte delle istituzioni e sostegni anche da parte del mondo delle imprese “profit” (se ne è parlato a lungo, la scorsa settimana, durante un convegno organizzato a Milano da UniCredit sulle “Storie di solidarietà in Lombardia” e sul supporto che le società finanziarie possono dare).
Una delle condizioni di crescita, appunto, è trovare relazioni virtuose, di collaborazione e confronto tra imprese di mercato e Terzo Settore, nel panorama originale che vede in azione anche le società benefit e tutte le declinazioni della cosiddetta stakeholder economy in cui si può articolare una idea fertile di sostenibilità, ambientale e sociale, di rapporto tra competitività e solidarietà, produttività e inclusione sociale. Le imprese italiane (come testimoniano le rilevazioni di Symbola) ne sono maestre.

L’orizzonte è quello indicato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sta emergendo un’economia civile, costituita da un campo di forze molteplici, che può contribuire a definire un equilibrio migliore tra mercato, ambiente ed equità sociale… Il Terzo Settore è la struttura portante non di supplenza ma di autonoma e specifica responsabilità dell’intero Paese”.
Il volontariato come asse di un più solido capitale sociale, dunque. E come soggetto di un’idea di impegno civile che ha tutte le caratteristiche della voglia di buona politica. Di un protagonismo, cioè, in una polis aperta e inclusiva o, meglio ancora, in una civitas (giocando con l’esattezza del vocabolario latino) che va oltre le strutture della urbs (i luoghi fisici urbani) e si fonda sui valori della cittadinanza, su quell’incrocio virtuoso tra diritti e doveri che fanno da riferimento cardine di una “comunità”. Un insieme di valori resi evidenti dalla stessa etimologia della parola: il cum che richiama il concetto dello stare insieme e il munus che significa sia “dono” che “obbligo”. Un incrocio di legami. Uno stimolo a pensare insieme a un migliore futuro.
Eccole, allora, le valenze politiche che il volontariato evoca alla nostra attenzione. E che, contro l’epoca delle paure diffuse e alimentate ad arte, per mortificare la volontà di partecipazione e di sguardo rivolto all’orizzonte d’un migliore futuro, chiamano in causa tutti, a vantaggio soprattutto delle nuove generazioni (sono d’altronde tanti, le ragazze e i ragazzi, che proprio nel volontariato trovano risposte a quella volontà di partecipazione che la politica organizzata, oggi, non riesce purtroppo a intercettare e rappresentare).

Guardando le cronache contemporanee, è vero, verrebbe facile dare ragione a chi dispera nel miglioramento della nostra dolente condizione umana contemporanea. E riconoscersi in quel personaggio di Altan, maestro dei nostri umori altalenanti, che dichiara: “Sono combattuto fra la testardaggine della volontà e la malinconia della ragione”. E, sempre per non farci illusioni, ritrovarsi anche in un altro fulminante scambio di battute: “I vecchi ci hanno deluso”, dice uno. E l’altro: “ È ora di farci deludere dai nuovi”.
Sfogliando le pagine di Altan, c’è però anche altro.
“Forza, nonno, si ricomincia daccapo”, dice un bambino in una appassionata vignetta, spingendo in avanti un anziano ritroso. C’è sempre e comunque, la speranza di un miglior tempo da costruire e da vivere.

(foto Getty Images)

La città ospita il Campiello Junior “Leggere aiuta a scoprire il mondo”

Sempione, il pneumatico “convenzionale” dell’Italia degli anni Sessanta

«Ogniqualvolta una nuova automobile viene lanciata sul mercato, si impone ai tecnici del pneumatico il compito non indifferente di creare la “sua” gomma, quella copertura cioè che soddisfi nel migliore dei modi le particolari esigenze della vettura». Con queste parole il periodico Fatti e Notizie annuncia l’ingresso sul mercato del pneumatico Sempione, appositamente progettato da Pirelli per la Fiat 1800, presentata al Salone di Ginevra il 12 marzo 1959. Siamo in pieno boom economico e l’Italia conosce una crescente motorizzazione dei trasporti, di cui Fiat e Pirelli sono protagoniste, con l’immissione sul mercato di vetture utilitarie e con iniziative come la realizzazione dell’Autostrada del Sole. Alla progressiva segmentazione del mercato automobilistico Pirelli risponde ampliando il suo catalogo: a partire dallo Stelvio, lanciato nel 1951, nascono nuovi modelli, “personalizzati” con nomi attentamente scelti a seconda delle caratteristiche tecniche e di impiego. Oltre al CINTURATO, primo pneumatico radiale di casa Pirelli con una cintura di tessuto posta al di sotto del battistrada, prosegue la serie dei modelli convenzionali dedicati ai passi alpini: Cisa per Fiat 500 (1955), Rolle per Fiat «600» (1955) e «nuova 500» (1957).  Nel 1959 è la volta del Sempione per Fiat 1800. Per l’auto con motore a 6 cilindri e 85 cavalli, definita proprio a Ginevra “la vettura del MEC”,  che nel nuovo mercato comune nulla ha da invidiare alla concorrenza straniera quanto a “praticità, eleganza, economia di esercizio e di prezzo” – recitano i cinegiornali dell’epoca – Pirelli realizza un pneumatico con battistrada a 5 cordoni longitudinali muniti di numerosi e sottilissimi intagli “che assicurano capacità di presa in tutte le direzioni e un’ottima azione frenante”.

Così nel corso degli anni Sessanta, mentre il CINTURATO Pirelli, con la sua eccezionale tenuta alle alte velocità e in curva, sia sull’asciutto sia sul bagnato, si rivolge agli amanti delle auto sportive, con una grande diffusione internazionale, il “convenzionale” Sempione, resistente e confortevole, utilizzabile per ogni vettura, è protagonista di un successo di vendita, equipaggiando gran parte delle auto italiane.

Nel 1961 il Sempione risulta omologato anche per Fiat 1300/1500, 2100, 2300, per Innocenti Austin A40 e Ford Anglia. Un successo dovuto alle caratteristiche tecniche via via introdotte: la “spalla di sicurezza”, presentata nel 1962 al 44° Salone dell’Auto di Torino, che grazie al raccordo di tipo arrotondato tra fianco e battistrada aumenta la tenuta soprattutto in curva, in frenata e durante l’accelerazione; la carcassa in raion super 2, un filato di eccezionale robustezza appositamente prodotto da Pirelli; o ancora la particolare struttura dei cerchietti del tallone. Nel 1965 Sempione ha una vasta applicazione per Fiat 850 e nel 1967/68 viene rilanciato con la campagna “Sempione P” che è “Più pneumatico”: più aderente, più flessibile, più robusto, più sicuro e dunque il più venduto. Ma la tecnologia radiale sta per prendere il sopravvento e con essa le innovazioni provenienti dalle competizioni rally, che lanceranno Pirelli nel mondo delle alte prestazioni, dove è leader ancora oggi.

«Ogniqualvolta una nuova automobile viene lanciata sul mercato, si impone ai tecnici del pneumatico il compito non indifferente di creare la “sua” gomma, quella copertura cioè che soddisfi nel migliore dei modi le particolari esigenze della vettura». Con queste parole il periodico Fatti e Notizie annuncia l’ingresso sul mercato del pneumatico Sempione, appositamente progettato da Pirelli per la Fiat 1800, presentata al Salone di Ginevra il 12 marzo 1959. Siamo in pieno boom economico e l’Italia conosce una crescente motorizzazione dei trasporti, di cui Fiat e Pirelli sono protagoniste, con l’immissione sul mercato di vetture utilitarie e con iniziative come la realizzazione dell’Autostrada del Sole. Alla progressiva segmentazione del mercato automobilistico Pirelli risponde ampliando il suo catalogo: a partire dallo Stelvio, lanciato nel 1951, nascono nuovi modelli, “personalizzati” con nomi attentamente scelti a seconda delle caratteristiche tecniche e di impiego. Oltre al CINTURATO, primo pneumatico radiale di casa Pirelli con una cintura di tessuto posta al di sotto del battistrada, prosegue la serie dei modelli convenzionali dedicati ai passi alpini: Cisa per Fiat 500 (1955), Rolle per Fiat «600» (1955) e «nuova 500» (1957).  Nel 1959 è la volta del Sempione per Fiat 1800. Per l’auto con motore a 6 cilindri e 85 cavalli, definita proprio a Ginevra “la vettura del MEC”,  che nel nuovo mercato comune nulla ha da invidiare alla concorrenza straniera quanto a “praticità, eleganza, economia di esercizio e di prezzo” – recitano i cinegiornali dell’epoca – Pirelli realizza un pneumatico con battistrada a 5 cordoni longitudinali muniti di numerosi e sottilissimi intagli “che assicurano capacità di presa in tutte le direzioni e un’ottima azione frenante”.

Così nel corso degli anni Sessanta, mentre il CINTURATO Pirelli, con la sua eccezionale tenuta alle alte velocità e in curva, sia sull’asciutto sia sul bagnato, si rivolge agli amanti delle auto sportive, con una grande diffusione internazionale, il “convenzionale” Sempione, resistente e confortevole, utilizzabile per ogni vettura, è protagonista di un successo di vendita, equipaggiando gran parte delle auto italiane.

Nel 1961 il Sempione risulta omologato anche per Fiat 1300/1500, 2100, 2300, per Innocenti Austin A40 e Ford Anglia. Un successo dovuto alle caratteristiche tecniche via via introdotte: la “spalla di sicurezza”, presentata nel 1962 al 44° Salone dell’Auto di Torino, che grazie al raccordo di tipo arrotondato tra fianco e battistrada aumenta la tenuta soprattutto in curva, in frenata e durante l’accelerazione; la carcassa in raion super 2, un filato di eccezionale robustezza appositamente prodotto da Pirelli; o ancora la particolare struttura dei cerchietti del tallone. Nel 1965 Sempione ha una vasta applicazione per Fiat 850 e nel 1967/68 viene rilanciato con la campagna “Sempione P” che è “Più pneumatico”: più aderente, più flessibile, più robusto, più sicuro e dunque il più venduto. Ma la tecnologia radiale sta per prendere il sopravvento e con essa le innovazioni provenienti dalle competizioni rally, che lanceranno Pirelli nel mondo delle alte prestazioni, dove è leader ancora oggi.

Multimedia

Images
CIAO, COME POSSO AIUTARTI?