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La storia delle Industrie Pirelli degli anni Quaranta: un patrimonio d’impresa da oggi consultabile anche online

Da oggi nuovi documenti dell’Archivio Storico Pirelli sono disponibili online. Si estende infatti agli anni Quaranta la pubblicazione dei Documenti per la storia delle Industrie Pirelli, raccolta documentaria che ripercorre la storia dell’azienda dalla sua fondazione agli anni Ottanta del Novecento. Sui circa 580 documenti resi disponibili, oltre ai consueti listini, cataloghi di prodotto e brevetti,  spiccano quelli sul difficile periodo della Seconda Guerra Mondiale, dell’occupazione tedesca del Nord Italia, della ricostruzione dopo la Liberazione. Le fotografie degli stabilimenti di Milano in via Ponte Seveso e Milano Bicocca prima e dopo i bombardamenti dell’agosto del 1943 firmate da Emilio Calcagni, Mario Crimella, Giulio Galimberti mostrano, sullo sfondo della Stazione Centrale, inediti scorci della fabbrica Pirelli e la distruzione seguita alle incursioni aeree, che porterà alla decisione, nel Dopoguerra, di concentrare la produzione in Bicocca e di realizzare il Grattacielo Pirelli sulle macerie dello stabilimento accanto alla stazione.

Diversi documenti ripercorrono i mesi dell’occupazione nazifascista seguita all’8 settembre 1943. Il fascicolo n. 2194 dal titolo “Documenti risalenti al periodo dell’occupazione germanica in Italia riguardanti l’azione di Resistenza della nostra società nei riguardi delle truppe germaniche di occupazione” contiene lettere e relazioni sulla resistenza attuata dall’azienda e dai lavoratori nei confronti dei tentativi dei nazisti di sfruttare lo stabilimento per i propri fini bellici e di trasferire in fabbriche tedesche parte della forza lavoro. In evidenza anche il contributo dato alla lotta di Liberazione, non solo con un sostegno economico ma anche con la partecipazione alle proteste e agli scioperi del 1943-1944, che costarono a molti lavoratori l’arresto e la deportazione nei campi di concentramento nazisti.

Pirelli fu “uno dei più importanti centri della riscossa”, come ricordano le parole di Cesare Merzagora – direttore centrale  dal 1938 e dirigente de Clnai dal 1944, poi commissario della società dal maggio 1945 fino al rientro in carica di Piero e Alberto Pirelli nel maggio 1946 – ai soci riuniti in Assemblea l’11 dicembre 1945 e riportate in un fascicolo a stampa archiviato al n. 2214.

La raccolta documenta anche le difficoltà per la ripresa della produzione dopo la guerra, dovute alla mancanza di materie prime, e il loro superamento grazie agli aiuti degli Alleati americani e inglesi. Come racconta la rassegna stampa conservata al n. 2225.  il 25 gennaio 1946 vengono presentati i primi pneumatici prodotti, dopo l’interruzione di oltre un anno, grazie alla gomma sintetica di provenienza americana e alla gomma naturale di provenienza inglese.

Lasciatasi alle spalle le difficoltà del periodo bellico, la Pirelli può dedicarsi alla celebrazione di un importante traguardo: i 75 anni di vita dell’impresa. Numerose le iniziative, dalla inaugurazione della colonia marina di Pietra Ligure, alle manifestazioni sportive, alla realizzazione di una cartolina celebrativa, di francobolli e portachiavi, di cui si conservano i bozzetti. L’azienda è ora pronta a rinascere, in un clima di ritrovato ottimismo: nel 1948 nascono la Rivista Pirelli, il Centro Culturale, e viene lanciato un concorso per le nuove campagne pubblicitarie del pneumatico Stella Bianca e della gommapiuma.  L’inizio di una nuova era.

Da oggi nuovi documenti dell’Archivio Storico Pirelli sono disponibili online. Si estende infatti agli anni Quaranta la pubblicazione dei Documenti per la storia delle Industrie Pirelli, raccolta documentaria che ripercorre la storia dell’azienda dalla sua fondazione agli anni Ottanta del Novecento. Sui circa 580 documenti resi disponibili, oltre ai consueti listini, cataloghi di prodotto e brevetti,  spiccano quelli sul difficile periodo della Seconda Guerra Mondiale, dell’occupazione tedesca del Nord Italia, della ricostruzione dopo la Liberazione. Le fotografie degli stabilimenti di Milano in via Ponte Seveso e Milano Bicocca prima e dopo i bombardamenti dell’agosto del 1943 firmate da Emilio Calcagni, Mario Crimella, Giulio Galimberti mostrano, sullo sfondo della Stazione Centrale, inediti scorci della fabbrica Pirelli e la distruzione seguita alle incursioni aeree, che porterà alla decisione, nel Dopoguerra, di concentrare la produzione in Bicocca e di realizzare il Grattacielo Pirelli sulle macerie dello stabilimento accanto alla stazione.

Diversi documenti ripercorrono i mesi dell’occupazione nazifascista seguita all’8 settembre 1943. Il fascicolo n. 2194 dal titolo “Documenti risalenti al periodo dell’occupazione germanica in Italia riguardanti l’azione di Resistenza della nostra società nei riguardi delle truppe germaniche di occupazione” contiene lettere e relazioni sulla resistenza attuata dall’azienda e dai lavoratori nei confronti dei tentativi dei nazisti di sfruttare lo stabilimento per i propri fini bellici e di trasferire in fabbriche tedesche parte della forza lavoro. In evidenza anche il contributo dato alla lotta di Liberazione, non solo con un sostegno economico ma anche con la partecipazione alle proteste e agli scioperi del 1943-1944, che costarono a molti lavoratori l’arresto e la deportazione nei campi di concentramento nazisti.

Pirelli fu “uno dei più importanti centri della riscossa”, come ricordano le parole di Cesare Merzagora – direttore centrale  dal 1938 e dirigente de Clnai dal 1944, poi commissario della società dal maggio 1945 fino al rientro in carica di Piero e Alberto Pirelli nel maggio 1946 – ai soci riuniti in Assemblea l’11 dicembre 1945 e riportate in un fascicolo a stampa archiviato al n. 2214.

La raccolta documenta anche le difficoltà per la ripresa della produzione dopo la guerra, dovute alla mancanza di materie prime, e il loro superamento grazie agli aiuti degli Alleati americani e inglesi. Come racconta la rassegna stampa conservata al n. 2225.  il 25 gennaio 1946 vengono presentati i primi pneumatici prodotti, dopo l’interruzione di oltre un anno, grazie alla gomma sintetica di provenienza americana e alla gomma naturale di provenienza inglese.

Lasciatasi alle spalle le difficoltà del periodo bellico, la Pirelli può dedicarsi alla celebrazione di un importante traguardo: i 75 anni di vita dell’impresa. Numerose le iniziative, dalla inaugurazione della colonia marina di Pietra Ligure, alle manifestazioni sportive, alla realizzazione di una cartolina celebrativa, di francobolli e portachiavi, di cui si conservano i bozzetti. L’azienda è ora pronta a rinascere, in un clima di ritrovato ottimismo: nel 1948 nascono la Rivista Pirelli, il Centro Culturale, e viene lanciato un concorso per le nuove campagne pubblicitarie del pneumatico Stella Bianca e della gommapiuma.  L’inizio di una nuova era.

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Sguardi d’artista: i grandi nomi della fotografia per il Calendario Pirelli

Sessant’anni fa, nella “Swinging Londondei Beatles e di Mary Quant, l’Ufficio Pubblicità della consociata britannica Pirelli UK Limited dà vita a un innovativo strumento di promozione commerciale, destinato a entrare nella storia della cultura e dell’arte contemporanea: il Calendario Pirelli. Icona della comunicazione d’impresa, fenomeno di costume e, grazie alla tiratura limitata, status symbol e oggetto di culto per i collezionisti, “The Cal” ha contrassegnato – e continua a farlo – un’epoca della storia della fotografia, riunendo ogni anno i nomi più significativi del panorama culturale internazionale: non solo maestri dell’obiettivo come Richard Avedon, Helmut Newton e Bruce Weber, ma anche fashion designer come Karl Lagerfeld o artisti “pop” come Allen Jones.
Ognuno di questi autori-interpreti è stato chiamato a confrontarsi e a declinare secondo la propria sensibilità il tema cardine della figura della donna, fulcro iconografico del progetto. La bellezza femminile ha assunto negli anni forme ed estetiche differenti e il Calendario, testimone e specchio dei tempi capace talvolta anche di anticiparli, ha documentato attraverso i suoi scatti i mutamenti del gusto, della moda e del costume della società contemporanea.

Nato nel 1964, “The Cal” delinea sin da subito la formula del suo successo: fotografi prestigiosi, un’alta qualità grafica, scenari naturali esotici – le spiagge assolate di Maiorca, il mare cristallino delle Bahamas e i paesaggi suggestivi della Giamaica – e la celebrazione del mondo femminile, colto inizialmente con tagli arditi e primi piani dei volti. Le prime edizioni si pongono il fine di condurre gli spettatori verso una dimensione altra rispetto alla quotidianità, fuori dal tempo e più vicina al sogno.
Il Calendario legge la realtà, si trasforma e si adatta al tempo che passa: dopo le contestazioni del Sessantotto e le lotte per l’emancipazione femminile, negli anni Settanta si assiste a un cambiamento radicale. Il 1972 vede la firma della prima fotografa donna, Sarah Moon, che imprime ai suoi scatti uno stile fortemente personale, caratterizzato da atmosfere oniriche, una luce diffusa di ispirazione impressionista e tonalità color seppia dal marcato effetto vintage. Immagini eteree da cui emerge un’esplorazione romantica della femminilità. Nel 1973 un’altra rivoluzione: Allen Jones, esponente della pop art britannica, introduce una sensualità più esplicita.

Tra gli anni Ottanta e Novanta il Calendario gioca con i modelli estetici dominanti, gli stereotipi del mondo della moda e i classici dell’immaginario maschile, tra provocazione e hardcore. La trasgressione emerge anche dal punto di vista grafico, con una fotografia glamour dalle spettacolari suggestioni visive, stimolate dalle cromie brillanti dei tableau vivant di Barry Lategan, dai drammatici chiaroscuri dei giochi olimpici di Arthur Elgort e dal virtuosismo tecnico di Norman Parkinson. Nonostante la distanza che ci separa dalle fantasie e dagli ideali collettivi dei tempi immortalati dall’obiettivo, nei decenni il Calendario diventa sinonimo di innovazione continua, ricerca dell’eccellenza e attenzione alle evoluzioni culturali.

Il nuovo millennio porta con sé importanti trasformazioni: l’immagine della donna esce dai ruoli in cui era stata relegata, passando da oggetto del desiderio a soggetto attivo all’interno della società. I primi indizi di cambiamento si colgono già nel 1998, quando Bruce Weber introduce per la prima volta protagonisti maschili come Ewan McGregor e Bono, scelta sottolineata anche dall’emblematico titolo “Le donne per cui vivono gli uomini. Gli uomini per cui vivono le donne”. Nel Calendario del 2000 Annie Leibovitz demitizza la forza seduttiva del corpo con inquadrature scorciate di grande precisione anatomica, aprendo le porte alla rinuncia al nudo due anni dopo. L’edizione 2007 sposta definitivamente l’attenzione sull’interiorità, scavando nell’essenza e nella psiche di cinque donne che si “raccontano” senza filtri davanti all’obiettivo del duo olandese Inez e Vinoodh.
Il decennio seguente dà forma ai più moderni significati di bellezza, battendosi per imporre una nuova estetica: nel 2013 Steve McCurry associa il mondo muliebre all’impegno sociale, mentre l’edizione 2016 firmata nuovamente da Annie Leibovitz fa dell’empowerment femminile il suo principale messaggio: 12 donne di successo di tutte l’età – tra cui Serena Williams, Patti Smith e Yoko Ono – ognuna con una storia costellata di difficoltà e traguardi raggiunti. Nel 2017 invece Peter Lindbergh afferma con decisione che “l’ideale della bellezza perfetta promossa dalla società è un obiettivo irraggiungibile”, facendo del suo Calendario “un urlo contro la bellezza stereotipata, contro il terrore della giovinezza”. Kate Winslet, Julienne Moore e Helen Mirren, tra le altre, sono ritratte in atteggiamenti naturali e spontanei mostrando le proprie fragilità e sensibilità, colte in un bianco e nero che rompe il taboo di una perfezione artefatta e mette a nudo l’anima piuttosto che il corpo. Si giunge così all’edizione 2023, intitolata “Love Letters to the Muse”. Un sentito omaggio di Emma Summerton alle muse – poetesse, registe, pittrici e attrici – che hanno influenzato il suo percorso umano e professionale, in un’atmosfera onirica che molte deve al Realismo magico e al Surrealismo. Una celebrazione delle bellezza senza tempo che ha ispirato quest’anno anche il Calendario “Timeless” del fotografo ghanese Prince Gyasi.

Sessant’anni fa, nella “Swinging Londondei Beatles e di Mary Quant, l’Ufficio Pubblicità della consociata britannica Pirelli UK Limited dà vita a un innovativo strumento di promozione commerciale, destinato a entrare nella storia della cultura e dell’arte contemporanea: il Calendario Pirelli. Icona della comunicazione d’impresa, fenomeno di costume e, grazie alla tiratura limitata, status symbol e oggetto di culto per i collezionisti, “The Cal” ha contrassegnato – e continua a farlo – un’epoca della storia della fotografia, riunendo ogni anno i nomi più significativi del panorama culturale internazionale: non solo maestri dell’obiettivo come Richard Avedon, Helmut Newton e Bruce Weber, ma anche fashion designer come Karl Lagerfeld o artisti “pop” come Allen Jones.
Ognuno di questi autori-interpreti è stato chiamato a confrontarsi e a declinare secondo la propria sensibilità il tema cardine della figura della donna, fulcro iconografico del progetto. La bellezza femminile ha assunto negli anni forme ed estetiche differenti e il Calendario, testimone e specchio dei tempi capace talvolta anche di anticiparli, ha documentato attraverso i suoi scatti i mutamenti del gusto, della moda e del costume della società contemporanea.

Nato nel 1964, “The Cal” delinea sin da subito la formula del suo successo: fotografi prestigiosi, un’alta qualità grafica, scenari naturali esotici – le spiagge assolate di Maiorca, il mare cristallino delle Bahamas e i paesaggi suggestivi della Giamaica – e la celebrazione del mondo femminile, colto inizialmente con tagli arditi e primi piani dei volti. Le prime edizioni si pongono il fine di condurre gli spettatori verso una dimensione altra rispetto alla quotidianità, fuori dal tempo e più vicina al sogno.
Il Calendario legge la realtà, si trasforma e si adatta al tempo che passa: dopo le contestazioni del Sessantotto e le lotte per l’emancipazione femminile, negli anni Settanta si assiste a un cambiamento radicale. Il 1972 vede la firma della prima fotografa donna, Sarah Moon, che imprime ai suoi scatti uno stile fortemente personale, caratterizzato da atmosfere oniriche, una luce diffusa di ispirazione impressionista e tonalità color seppia dal marcato effetto vintage. Immagini eteree da cui emerge un’esplorazione romantica della femminilità. Nel 1973 un’altra rivoluzione: Allen Jones, esponente della pop art britannica, introduce una sensualità più esplicita.

Tra gli anni Ottanta e Novanta il Calendario gioca con i modelli estetici dominanti, gli stereotipi del mondo della moda e i classici dell’immaginario maschile, tra provocazione e hardcore. La trasgressione emerge anche dal punto di vista grafico, con una fotografia glamour dalle spettacolari suggestioni visive, stimolate dalle cromie brillanti dei tableau vivant di Barry Lategan, dai drammatici chiaroscuri dei giochi olimpici di Arthur Elgort e dal virtuosismo tecnico di Norman Parkinson. Nonostante la distanza che ci separa dalle fantasie e dagli ideali collettivi dei tempi immortalati dall’obiettivo, nei decenni il Calendario diventa sinonimo di innovazione continua, ricerca dell’eccellenza e attenzione alle evoluzioni culturali.

Il nuovo millennio porta con sé importanti trasformazioni: l’immagine della donna esce dai ruoli in cui era stata relegata, passando da oggetto del desiderio a soggetto attivo all’interno della società. I primi indizi di cambiamento si colgono già nel 1998, quando Bruce Weber introduce per la prima volta protagonisti maschili come Ewan McGregor e Bono, scelta sottolineata anche dall’emblematico titolo “Le donne per cui vivono gli uomini. Gli uomini per cui vivono le donne”. Nel Calendario del 2000 Annie Leibovitz demitizza la forza seduttiva del corpo con inquadrature scorciate di grande precisione anatomica, aprendo le porte alla rinuncia al nudo due anni dopo. L’edizione 2007 sposta definitivamente l’attenzione sull’interiorità, scavando nell’essenza e nella psiche di cinque donne che si “raccontano” senza filtri davanti all’obiettivo del duo olandese Inez e Vinoodh.
Il decennio seguente dà forma ai più moderni significati di bellezza, battendosi per imporre una nuova estetica: nel 2013 Steve McCurry associa il mondo muliebre all’impegno sociale, mentre l’edizione 2016 firmata nuovamente da Annie Leibovitz fa dell’empowerment femminile il suo principale messaggio: 12 donne di successo di tutte l’età – tra cui Serena Williams, Patti Smith e Yoko Ono – ognuna con una storia costellata di difficoltà e traguardi raggiunti. Nel 2017 invece Peter Lindbergh afferma con decisione che “l’ideale della bellezza perfetta promossa dalla società è un obiettivo irraggiungibile”, facendo del suo Calendario “un urlo contro la bellezza stereotipata, contro il terrore della giovinezza”. Kate Winslet, Julienne Moore e Helen Mirren, tra le altre, sono ritratte in atteggiamenti naturali e spontanei mostrando le proprie fragilità e sensibilità, colte in un bianco e nero che rompe il taboo di una perfezione artefatta e mette a nudo l’anima piuttosto che il corpo. Si giunge così all’edizione 2023, intitolata “Love Letters to the Muse”. Un sentito omaggio di Emma Summerton alle muse – poetesse, registe, pittrici e attrici – che hanno influenzato il suo percorso umano e professionale, in un’atmosfera onirica che molte deve al Realismo magico e al Surrealismo. Una celebrazione delle bellezza senza tempo che ha ispirato quest’anno anche il Calendario “Timeless” del fotografo ghanese Prince Gyasi.

Europa, le scelte contro il declino, pensando insieme riforma delle istituzioni, difesa e politica industriale 

L’Europa bisogna pensarla, finalmente, nella sua intera complessità. E costruirne, come parte di un unico disegno politico, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile, il rafforzamento delle libertà e la diffusione del welfare più giusto ed equilibrato, le capacità di investimento (a cominciare dall’Intelligenza Artificiale, la nuova condizione della conoscenza e della competitività, con tutte le loro conseguenze) e l’equilibrio di lungo periodo dei conti pubblici. Per dirla in sintesi: serve tenere finalmente insieme la moneta e la spada, pilastri di ogni organizzazione statuale o struttura unitaria di stati (la prima ce l’abbiamo già, un miracolo di ingegneria politica e finanziaria; la seconda è velocemente da costruire e affilare). Ma anche le istituzioni e l’economia, come motore di produzione e distribuzione della ricchezza.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo le cronache dalle varie aree delle crisi geopolitiche in corso (Ucraina, Medio Oriente…) e riflettendo sui dati e sui fatti che testimoniano la fragilità della Ue di fronte alle scelte di fondo degli Usa e della Cina, dell’India, della Russia aggressiva ed espansiva e degli altri vecchi e nuovi protagonisti della scena mondiale.

Sono evidenti, insomma, i rischi crescenti di declino. Uno tra i principali: quello demografico. “Un’Europa senza figli”, documenta “Il Sole24Ore”, citando Eurostat che mostra come la popolazione europea in età di lavoro diminuirà dai 265 milioni del 2022 ai 258 milioni nel 2030 e senza interventi correttivi potrebbe scendere ancora ai 250 milioni nel 2050. “Servono 7 milioni di lavoratori al 2030”, calcola il quotidiano della Confindustria (3 marzo). E dunque sono indispensabili e urgenti nuove politiche di riforma del mercato del lavoro (immettendovi quei milioni di donne e di giovani che, per esempio in Italia, sono ancora tagliati fuori) e soprattutto migliori politiche dell’immigrazione, per milioni di nuove persone dall’Africa e dall’Asia.

“I flussi in entrata sono una necessità”, insiste Alessandro Rosina, competente demografo. Con persone da formare, qualificare, includere nel circuito virtuoso della produzione e della cittadinanza, dei diritti e dei doveri. Compito immenso, responsabilità storica.

Sono questi i temi su cui è essenziale riflettere, proprio in questi mesi che precedono le elezioni di giugno per il nuovo Parlamento Ue. E anche se sembra che il discorso pubblico, non solo in Italia ma anche negli altri principali paesi europei, privilegi le questioni di politica interna nazionale e troppo spesso cerchi di fare leva sulle paure, i risentimenti localistici e le ideologie escludenti, cerchi cioè di stimolare gli “istinti di pancia” e non l’intelligenza progettuale essenziale per costruire un futuro migliore, è indispensabile fare capire, responsabilmente, agli elettori, che siamo all’inizio di un nuovo ciclo storico. In cui la scelta di fondo è chiara: o sapremo avere più Europa e un’Europa migliore, o andremo incontro a una crisi radicale dell’Europa che abbiamo sinora voluto, costruito, vissuto: la decadenza europea, il tramonto del nostro modello di civiltà democratica e, tutto sommato, prospera.

Vale allora la pena, proprio in una stagione così carica di incertezze e timori, tornare agli atti fondativi. Il Manifesto di Ventotene (firmato nel 1941 da tre straordinari intellettuali italiani, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, mentre il mondo era nella morsa della guerra e della violenza nazista e fascista e i tre erano chiusi al confino, appunto nell’isola di Ventotene, perché antifascisti; un Manifesto poi diffuso da due donne coraggiose, Ursula Hirschmann e Ada Rossi). Gli scritti dei “padri fondatori”, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, Jean Monnet e Robert Schuman, Paul Henri Spaak e Joseph Beck. I Trattati, a cominciare da quello di Roma con cui, nel 1957, nasce la CEE (Comunità Economica Europea) tra Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. E, ancora, tutti gli altri atti che rafforzano le istituzioni comunitarie e rendono più efficace ed efficiente la costruzione europea, che via via si allarga, sino all’attuale struttura con 27 paesi (in vista dell’ulteriore allargamento a 35). Le scelte ispirate da grandi europei come Jacques Delors e leader politici come Charles De Gaulle e poi François Mitterrand ed Helmut Kohl. La nascita dell’Euro e della Banca Centrale Europea. Le scelte contemporanee, compresa la Costituzione.

Un percorso complesso. Tutt’altro che privo di ombre, conflitti, limiti, cadute burocratiche, scarso spirito di collaborazione, egoismi nazionali (d’altronde la storia umana non è mai lineare e trionfale). Ma è un percorso di grande valore, da non svalutare né accantonare. Gli stessi inglesi, adesso, stanno ripensando criticamente la scelta della Brexit, la rottura con la Ue che ne ha indebolito economia e relazioni sociali e culturali.

E’ l’Europa di settant’anni di pace e di sviluppo economico. In cui siamo stati capaci di fare convivere la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare State e cioè la libertà, la crescita e il benessere diffuso. Un patrimonio unico al mondo. Che è necessario studiare, rivendicare, difendere, valorizzare. Un patrimonio per le nuove generazioni.

Al nuovo Parlamento e alla nuova Commissione, dunque, toccheranno compiti di rifondazione e rilancio, in un mix originale di continuità e innovazione. Un rilancio istituzionale (superando l’attuale lenta e spesso paralizzante governance all’unanimità e passando a decisioni a maggioranza). E una riforma dei processi di governo, a cominciare dal Patto di Stabilità e dagli altri strumenti in mano alla Commissione. Un rinnovamento finanziario (dal bilancio pluriennale Ue ‘24-‘27 da potenziare agli eurobond da lanciare sui mercati internazionali, per finanziare i programmi di rafforzamento e sviluppo). E progettuale.

Ecco il punto: un grande progetto europeo che pensi all’Europa dal punto di vista della difesa comune (nello schieramento atlantico, naturalmente, ma con maggiore autonomia rispetto agli Usa, come peraltro gli Usa stessi pretendono) e dell’energia (l’energia atomica europea). Della transizione ambientale da rendere compatibile con la competitività delle imprese europee e con la sostenibilità sociale. Dello sviluppo dell’economia digitale e dell’Intelligenza Artificiale (un’AI europea, da costruire rapidamente per fare fronte agli scelte di Usa, Cina e India; ne abbiamo già parlato nei blog delle scorse settimane). Della scienza e della cultura aperta e inclusiva, secondo i canoni migliori della cultura occidentale.

Sono in discussione, insomma, cambiamenti economici e sociali di lungo periodo. Da affrontare in una prospettiva di lungo periodo e cioè con la gradualità necessaria, ma con la chiara e impegnativa visione del futuro. Serve dunque una politica industriale europea (ne abbiamo scritto più volte) che abbia un perno nell’industria della difesa e insista sui fattori di produttività e competitività, lasciando alle imprese le scelte degli strumenti di investimento nei vari settori e di crescita (un esempio? la neutralità tecnologica per il mondo automotive, senza vincoli sul primato dell’auto elettrica). E servirono politiche fiscali comuni, che si riflettano sul bilancio, evitino le asimmetrie tra paesi (che incoraggiano evasioni ed elusioni fiscali) e rimodulino la spesa pubblica, rendendola più efficiente e produttiva (l’agricoltura è uno dei settori chiave).

Troppo difficile? Marco Buti e Marcello Messori (Il Sole24Ore, 3 marzo) ricordano che negli anni passati gli ambizioni principi di riforma e rilancio della Ue hanno trovato realizzazione. Nella costruzione del Mercato unico, con il Libro Bianco del 1985 e con le conseguenze che si sono riflesse nel Trattato di Maastricht del 1992 e poi sull’unione monetaria. Nel whatever it takes di Mario Draghi nel luglio 2012, “che ha superato la politica monetaria convenzionale e ha evitato una crisi irreversibile dell’euro”. Nell’iniziativa di Merkel e Macron e della Commissione Ue che ha portato al Recovery Plan post Covid ed è sfociata nel varo di Next Generation Ue nell’estate del 2020: “Si è resa così elastica la dotazione del capitale politico esistente, attraversando ‘linee rosse’ che apparivano invalicabili”.

Esperienze da ripetere. Superando – dicono Buti e Messori – anche “il tabù della riforma dei Trattati” e dunque dando all’Europa una struttura di governo migliore ed efficace, più in linea con i tempi di crisi e cambiamenti. Più Europa, nonostante tutto.

(foto Getty Images)

L’Europa bisogna pensarla, finalmente, nella sua intera complessità. E costruirne, come parte di un unico disegno politico, la sicurezza e lo sviluppo sostenibile, il rafforzamento delle libertà e la diffusione del welfare più giusto ed equilibrato, le capacità di investimento (a cominciare dall’Intelligenza Artificiale, la nuova condizione della conoscenza e della competitività, con tutte le loro conseguenze) e l’equilibrio di lungo periodo dei conti pubblici. Per dirla in sintesi: serve tenere finalmente insieme la moneta e la spada, pilastri di ogni organizzazione statuale o struttura unitaria di stati (la prima ce l’abbiamo già, un miracolo di ingegneria politica e finanziaria; la seconda è velocemente da costruire e affilare). Ma anche le istituzioni e l’economia, come motore di produzione e distribuzione della ricchezza.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo le cronache dalle varie aree delle crisi geopolitiche in corso (Ucraina, Medio Oriente…) e riflettendo sui dati e sui fatti che testimoniano la fragilità della Ue di fronte alle scelte di fondo degli Usa e della Cina, dell’India, della Russia aggressiva ed espansiva e degli altri vecchi e nuovi protagonisti della scena mondiale.

Sono evidenti, insomma, i rischi crescenti di declino. Uno tra i principali: quello demografico. “Un’Europa senza figli”, documenta “Il Sole24Ore”, citando Eurostat che mostra come la popolazione europea in età di lavoro diminuirà dai 265 milioni del 2022 ai 258 milioni nel 2030 e senza interventi correttivi potrebbe scendere ancora ai 250 milioni nel 2050. “Servono 7 milioni di lavoratori al 2030”, calcola il quotidiano della Confindustria (3 marzo). E dunque sono indispensabili e urgenti nuove politiche di riforma del mercato del lavoro (immettendovi quei milioni di donne e di giovani che, per esempio in Italia, sono ancora tagliati fuori) e soprattutto migliori politiche dell’immigrazione, per milioni di nuove persone dall’Africa e dall’Asia.

“I flussi in entrata sono una necessità”, insiste Alessandro Rosina, competente demografo. Con persone da formare, qualificare, includere nel circuito virtuoso della produzione e della cittadinanza, dei diritti e dei doveri. Compito immenso, responsabilità storica.

Sono questi i temi su cui è essenziale riflettere, proprio in questi mesi che precedono le elezioni di giugno per il nuovo Parlamento Ue. E anche se sembra che il discorso pubblico, non solo in Italia ma anche negli altri principali paesi europei, privilegi le questioni di politica interna nazionale e troppo spesso cerchi di fare leva sulle paure, i risentimenti localistici e le ideologie escludenti, cerchi cioè di stimolare gli “istinti di pancia” e non l’intelligenza progettuale essenziale per costruire un futuro migliore, è indispensabile fare capire, responsabilmente, agli elettori, che siamo all’inizio di un nuovo ciclo storico. In cui la scelta di fondo è chiara: o sapremo avere più Europa e un’Europa migliore, o andremo incontro a una crisi radicale dell’Europa che abbiamo sinora voluto, costruito, vissuto: la decadenza europea, il tramonto del nostro modello di civiltà democratica e, tutto sommato, prospera.

Vale allora la pena, proprio in una stagione così carica di incertezze e timori, tornare agli atti fondativi. Il Manifesto di Ventotene (firmato nel 1941 da tre straordinari intellettuali italiani, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, mentre il mondo era nella morsa della guerra e della violenza nazista e fascista e i tre erano chiusi al confino, appunto nell’isola di Ventotene, perché antifascisti; un Manifesto poi diffuso da due donne coraggiose, Ursula Hirschmann e Ada Rossi). Gli scritti dei “padri fondatori”, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, Jean Monnet e Robert Schuman, Paul Henri Spaak e Joseph Beck. I Trattati, a cominciare da quello di Roma con cui, nel 1957, nasce la CEE (Comunità Economica Europea) tra Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. E, ancora, tutti gli altri atti che rafforzano le istituzioni comunitarie e rendono più efficace ed efficiente la costruzione europea, che via via si allarga, sino all’attuale struttura con 27 paesi (in vista dell’ulteriore allargamento a 35). Le scelte ispirate da grandi europei come Jacques Delors e leader politici come Charles De Gaulle e poi François Mitterrand ed Helmut Kohl. La nascita dell’Euro e della Banca Centrale Europea. Le scelte contemporanee, compresa la Costituzione.

Un percorso complesso. Tutt’altro che privo di ombre, conflitti, limiti, cadute burocratiche, scarso spirito di collaborazione, egoismi nazionali (d’altronde la storia umana non è mai lineare e trionfale). Ma è un percorso di grande valore, da non svalutare né accantonare. Gli stessi inglesi, adesso, stanno ripensando criticamente la scelta della Brexit, la rottura con la Ue che ne ha indebolito economia e relazioni sociali e culturali.

E’ l’Europa di settant’anni di pace e di sviluppo economico. In cui siamo stati capaci di fare convivere la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare State e cioè la libertà, la crescita e il benessere diffuso. Un patrimonio unico al mondo. Che è necessario studiare, rivendicare, difendere, valorizzare. Un patrimonio per le nuove generazioni.

Al nuovo Parlamento e alla nuova Commissione, dunque, toccheranno compiti di rifondazione e rilancio, in un mix originale di continuità e innovazione. Un rilancio istituzionale (superando l’attuale lenta e spesso paralizzante governance all’unanimità e passando a decisioni a maggioranza). E una riforma dei processi di governo, a cominciare dal Patto di Stabilità e dagli altri strumenti in mano alla Commissione. Un rinnovamento finanziario (dal bilancio pluriennale Ue ‘24-‘27 da potenziare agli eurobond da lanciare sui mercati internazionali, per finanziare i programmi di rafforzamento e sviluppo). E progettuale.

Ecco il punto: un grande progetto europeo che pensi all’Europa dal punto di vista della difesa comune (nello schieramento atlantico, naturalmente, ma con maggiore autonomia rispetto agli Usa, come peraltro gli Usa stessi pretendono) e dell’energia (l’energia atomica europea). Della transizione ambientale da rendere compatibile con la competitività delle imprese europee e con la sostenibilità sociale. Dello sviluppo dell’economia digitale e dell’Intelligenza Artificiale (un’AI europea, da costruire rapidamente per fare fronte agli scelte di Usa, Cina e India; ne abbiamo già parlato nei blog delle scorse settimane). Della scienza e della cultura aperta e inclusiva, secondo i canoni migliori della cultura occidentale.

Sono in discussione, insomma, cambiamenti economici e sociali di lungo periodo. Da affrontare in una prospettiva di lungo periodo e cioè con la gradualità necessaria, ma con la chiara e impegnativa visione del futuro. Serve dunque una politica industriale europea (ne abbiamo scritto più volte) che abbia un perno nell’industria della difesa e insista sui fattori di produttività e competitività, lasciando alle imprese le scelte degli strumenti di investimento nei vari settori e di crescita (un esempio? la neutralità tecnologica per il mondo automotive, senza vincoli sul primato dell’auto elettrica). E servirono politiche fiscali comuni, che si riflettano sul bilancio, evitino le asimmetrie tra paesi (che incoraggiano evasioni ed elusioni fiscali) e rimodulino la spesa pubblica, rendendola più efficiente e produttiva (l’agricoltura è uno dei settori chiave).

Troppo difficile? Marco Buti e Marcello Messori (Il Sole24Ore, 3 marzo) ricordano che negli anni passati gli ambizioni principi di riforma e rilancio della Ue hanno trovato realizzazione. Nella costruzione del Mercato unico, con il Libro Bianco del 1985 e con le conseguenze che si sono riflesse nel Trattato di Maastricht del 1992 e poi sull’unione monetaria. Nel whatever it takes di Mario Draghi nel luglio 2012, “che ha superato la politica monetaria convenzionale e ha evitato una crisi irreversibile dell’euro”. Nell’iniziativa di Merkel e Macron e della Commissione Ue che ha portato al Recovery Plan post Covid ed è sfociata nel varo di Next Generation Ue nell’estate del 2020: “Si è resa così elastica la dotazione del capitale politico esistente, attraversando ‘linee rosse’ che apparivano invalicabili”.

Esperienze da ripetere. Superando – dicono Buti e Messori – anche “il tabù della riforma dei Trattati” e dunque dando all’Europa una struttura di governo migliore ed efficace, più in linea con i tempi di crisi e cambiamenti. Più Europa, nonostante tutto.

(foto Getty Images)

Capitalismo: passato, presente e futuro

L’ultimo libro di Pierluigi Ciocca come guida per comprendere la crisi di oggi e le prospettive di domani

Un sistema dalla formidabile capacità produttiva, eppure con innumerevoli problemi che rischiano di portarlo all’implosione. Il capitalismo, che ha davvero cambiato il mondo ormai qualche secolo fa, è sempre sotto i riflettori di chi lo critica e di chi lo esalta. Tema importante, che rischia ogni volta di essere affrontato solo parzialmente, e quindi sfocato, male interpretato, frainteso. Demone per alcuni, soluzione imprescindibile per altri, il capitalismo – oggi in particolare – va compreso senza demagogie. E a questo serve l’ultima fatica letteraria di Pierluigi Ciocca – “Del capitalismo. Un pregio e tre difetti” – da poco data alle stampe.

Ciocca ha l’obiettivo di rimettere al centro dei ragionamenti sull’oggi l’idea del capitalismo, ma ben intesa: le interpretazioni che la rifiutano si affidano all’idea di mercato, variamente arricchita da riferimenti storico-empirici alle istituzioni, alla cultura e alla politica nei singoli paesi. Ma, spiega l’autore, il capitalismo si presenta come una più precisa e meglio configurata formazione storica, di cui si può seguire bene la lunga parabola, evidenziandone i punti di forza e quelli di debolezza, i rischi, le distorsioni e le possibili correzioni. Ed è proprio sulle correzioni, e quindi sugli strumenti per aggiornarlo e dargli una prospettiva, che si concentra Ciocca nella parte finale del libro. Tenendo conto che proprio oggi la stessa crescita economica non è garantita, e rischia di appannarsi. È quindi urgente, è il messaggio dell’autore, una politica, un governo dell’economia, che però non può che trascendere lo Stato nazionale.

Nelle circa 150 pagine del libro, il capitalismo viene prima lucidamente raccontato dal punto di vista storico e, poi, analizzato sulla base di diverse sue interpretazioni per arrivare quindi a questione cruciali come quelle della crescita, della diseguaglianza, della povertà e dell’instabilità oltre che dell’ambiente.

Il libro di Pierluigi Ciocca ha il grande pregio di sintetizzare in un numero contenuto di pagine un tema complesso e vario e di renderlo accessibile – seppur con grande attenzione – a chi legge. Ed è un libro che lascia aperta la porta ad un futuro migliore del presente: la crisi, se non addirittura la implosione, del capitalismo deve, e può, essere evitata.

Del capitalismo. Un pregio e tre difetti

Pierluigi Ciocca

Donzelli, 2024

L’ultimo libro di Pierluigi Ciocca come guida per comprendere la crisi di oggi e le prospettive di domani

Un sistema dalla formidabile capacità produttiva, eppure con innumerevoli problemi che rischiano di portarlo all’implosione. Il capitalismo, che ha davvero cambiato il mondo ormai qualche secolo fa, è sempre sotto i riflettori di chi lo critica e di chi lo esalta. Tema importante, che rischia ogni volta di essere affrontato solo parzialmente, e quindi sfocato, male interpretato, frainteso. Demone per alcuni, soluzione imprescindibile per altri, il capitalismo – oggi in particolare – va compreso senza demagogie. E a questo serve l’ultima fatica letteraria di Pierluigi Ciocca – “Del capitalismo. Un pregio e tre difetti” – da poco data alle stampe.

Ciocca ha l’obiettivo di rimettere al centro dei ragionamenti sull’oggi l’idea del capitalismo, ma ben intesa: le interpretazioni che la rifiutano si affidano all’idea di mercato, variamente arricchita da riferimenti storico-empirici alle istituzioni, alla cultura e alla politica nei singoli paesi. Ma, spiega l’autore, il capitalismo si presenta come una più precisa e meglio configurata formazione storica, di cui si può seguire bene la lunga parabola, evidenziandone i punti di forza e quelli di debolezza, i rischi, le distorsioni e le possibili correzioni. Ed è proprio sulle correzioni, e quindi sugli strumenti per aggiornarlo e dargli una prospettiva, che si concentra Ciocca nella parte finale del libro. Tenendo conto che proprio oggi la stessa crescita economica non è garantita, e rischia di appannarsi. È quindi urgente, è il messaggio dell’autore, una politica, un governo dell’economia, che però non può che trascendere lo Stato nazionale.

Nelle circa 150 pagine del libro, il capitalismo viene prima lucidamente raccontato dal punto di vista storico e, poi, analizzato sulla base di diverse sue interpretazioni per arrivare quindi a questione cruciali come quelle della crescita, della diseguaglianza, della povertà e dell’instabilità oltre che dell’ambiente.

Il libro di Pierluigi Ciocca ha il grande pregio di sintetizzare in un numero contenuto di pagine un tema complesso e vario e di renderlo accessibile – seppur con grande attenzione – a chi legge. Ed è un libro che lascia aperta la porta ad un futuro migliore del presente: la crisi, se non addirittura la implosione, del capitalismo deve, e può, essere evitata.

Del capitalismo. Un pregio e tre difetti

Pierluigi Ciocca

Donzelli, 2024

Navigare controvento nei marosi industriali

Presentata l’edizione numero cinque dell’indagine Nomisma, CRIF e CRIBIS

Imprese che – per organizzazione, risultati e cultura – rappresentano esempi da seguire. Aziende che non devono essere imitate per forza, ma che possono, con ragione, essere modelli a cui ispirarsi. Per far crescere altre imprese e quindi creare benessere. E’ tutto sommato questo il motivo per il quale continua ad essere importante la ricerca “Controvento: le aziende che guidano il Paese”, curata da Nomisma in collaborazione con CRIF e CRIBIS, la cui quinta edizione è stata presentata da qualche giorno.

Aziende “controvento”, dunque. E cioè capaci, non solo di navigare ma di farlo nonostante le difficoltà e sfruttando magari quelle occasioni di fare impresa che altre non riescono a cogliere. Non un nucleo sparuto di organizzazioni della produzione ma, come la stessa ricerca spiega, un gruppo che nel corso degli anni si è rafforzato, in maniera molto più marcata rispetto al resto del settore manifatturiero del Paese. Perché, e occorre notarlo, l’indagine prende in considerazione aziende capaci di crescere sfidando la corrente e superando gli ostacoli del mercato di oggi, aziende pur sempre manifatturiere e cioè quelle che bene o male costituiscono il nucleo forte del sistema industriale nazionale.

La ricerca, come ormai consuetudine, racconta strategie e numeri di queste imprese esemplari e ne fornisce un’istantanea significativa. Dall’analisi aggregata sui bilanci 2022 (gli ultimi disponibili) emerge quindi come il 6,5% delle aziende italiane riesca a garantire parametri di competitività tali da farle rientrare nelle imprese “controvento”. Complessivamente queste generano il 9,4% dei ricavi e il 14,2% del valore aggiunto complessivo della manifattura italiana. Dall’indagine, emergono poi tratti particolari che devono fare ragionare, come quello della classe dimensionale oppure il rapporto tra nord e sud dello Stivale con le imprese del Sud che dimostrano di avere una maggiore propensione a navigare controvento rispetto al resto del Paese.

Capacità di saper produrre e crescere fuori dal comune, quindi, quella raccontata dall’indagine Nomisma, CRIF e CRIBIS ma non così rara da trovare nell’economia italiana. Che l’Osservatorio Controvento ha l’obiettivo di individuare e valorizzare. E che il rapporto annuale riesce a condensare efficacemente.

Controvento: le aziende che guidano il Paese

AA.VV.

Nomisma, CRIF e CRIBIS, 2024

Presentata l’edizione numero cinque dell’indagine Nomisma, CRIF e CRIBIS

Imprese che – per organizzazione, risultati e cultura – rappresentano esempi da seguire. Aziende che non devono essere imitate per forza, ma che possono, con ragione, essere modelli a cui ispirarsi. Per far crescere altre imprese e quindi creare benessere. E’ tutto sommato questo il motivo per il quale continua ad essere importante la ricerca “Controvento: le aziende che guidano il Paese”, curata da Nomisma in collaborazione con CRIF e CRIBIS, la cui quinta edizione è stata presentata da qualche giorno.

Aziende “controvento”, dunque. E cioè capaci, non solo di navigare ma di farlo nonostante le difficoltà e sfruttando magari quelle occasioni di fare impresa che altre non riescono a cogliere. Non un nucleo sparuto di organizzazioni della produzione ma, come la stessa ricerca spiega, un gruppo che nel corso degli anni si è rafforzato, in maniera molto più marcata rispetto al resto del settore manifatturiero del Paese. Perché, e occorre notarlo, l’indagine prende in considerazione aziende capaci di crescere sfidando la corrente e superando gli ostacoli del mercato di oggi, aziende pur sempre manifatturiere e cioè quelle che bene o male costituiscono il nucleo forte del sistema industriale nazionale.

La ricerca, come ormai consuetudine, racconta strategie e numeri di queste imprese esemplari e ne fornisce un’istantanea significativa. Dall’analisi aggregata sui bilanci 2022 (gli ultimi disponibili) emerge quindi come il 6,5% delle aziende italiane riesca a garantire parametri di competitività tali da farle rientrare nelle imprese “controvento”. Complessivamente queste generano il 9,4% dei ricavi e il 14,2% del valore aggiunto complessivo della manifattura italiana. Dall’indagine, emergono poi tratti particolari che devono fare ragionare, come quello della classe dimensionale oppure il rapporto tra nord e sud dello Stivale con le imprese del Sud che dimostrano di avere una maggiore propensione a navigare controvento rispetto al resto del Paese.

Capacità di saper produrre e crescere fuori dal comune, quindi, quella raccontata dall’indagine Nomisma, CRIF e CRIBIS ma non così rara da trovare nell’economia italiana. Che l’Osservatorio Controvento ha l’obiettivo di individuare e valorizzare. E che il rapporto annuale riesce a condensare efficacemente.

Controvento: le aziende che guidano il Paese

AA.VV.

Nomisma, CRIF e CRIBIS, 2024

L’Intelligenza Artificiale come e perché

Un libro appena presentato fornisce una prima guida per capire meglio plurima tecnologia arrivata

E’ l’Intelligenza Artificiale il nuovo orizzonte per le imprese e per la società in generale. Opportunità per molti, terrore per altrettanti, l’IA deve essere, come ogni tecnologia, ben compresa per essere applicata correttamente. A questo serve leggere buone guide. Eugenio Zuccarelli, data scientist, e Gabriele Di Matteo, giornalista, hanno scritto per questo “Intelligenza artificiale. Come usarla a favore dell’Umanità”, un buon libro per iniziare a capir qualcosa di più dell’IA.

Il libro vuole essere una sorta di viaggio nell’universo dell’IA, dal suo ruolo nella nostra società a tutte le sue possibili applicazioni, dalla sanità alla comunicazione, dalla nutrizione alla sostenibilità ambientale, dall’educazione alla bionica. E’ un libro accurato e ricco di informazioni quello scritto da Zuccarelli e Di Matteo, dedicato a chiunque voglia scoprire o approfondire il mondo dell’Intelligenza Artificiale.

Gli autori partono da una considerazione: senza dubbio l’intelligenza artificiale scatenerà una nuova rivoluzione tecnologica; e come tutte le grandi innovazioni sarà disruptive, dirompente, e potrà essere usata per l’interesse di pochi oppure a favore di tutti. Tutto tenendo conto che l’Intelligenza artificiale è già tra noi. Mentre spopola ChatGPT, i grandi fondi si preparano a investimenti miliardari. I filosofi si interrogano sui rischi e le implicazioni morali, gli economisti su come cambieranno lavoro e produzione, gli insegnanti sulle conseguenze  per l’istruzione, gli scienziati sociali su informazione, democrazia e rapporti umani. E c’è chi suona l’allarme, diffondendo timori ben motivati ma anche fuorvianti distopie e paranoie. Detto in altri termini, la strada verso una possibile nuova età dell’oro è disseminata di ostacoli e rischi da non trascurare. Per affrontare il tema, il libro racconta passo dopo passo tutte le applicazioni dell’IA ad oggi possibili.

Quanto scritto da Zuccarelli e Di Matteo non è certamente una pietra miliare degli studi sulla IA, ma fornisce una guida perfetta per iniziare a comprenderle. E per questo va letto. E con attenzione.

Intelligenza artificiale. Come usarla a favore dell’Umanità

Gabriele Di Matteo, Eugenio Zuccarelli

Mondadori, 2024

Un libro appena presentato fornisce una prima guida per capire meglio plurima tecnologia arrivata

E’ l’Intelligenza Artificiale il nuovo orizzonte per le imprese e per la società in generale. Opportunità per molti, terrore per altrettanti, l’IA deve essere, come ogni tecnologia, ben compresa per essere applicata correttamente. A questo serve leggere buone guide. Eugenio Zuccarelli, data scientist, e Gabriele Di Matteo, giornalista, hanno scritto per questo “Intelligenza artificiale. Come usarla a favore dell’Umanità”, un buon libro per iniziare a capir qualcosa di più dell’IA.

Il libro vuole essere una sorta di viaggio nell’universo dell’IA, dal suo ruolo nella nostra società a tutte le sue possibili applicazioni, dalla sanità alla comunicazione, dalla nutrizione alla sostenibilità ambientale, dall’educazione alla bionica. E’ un libro accurato e ricco di informazioni quello scritto da Zuccarelli e Di Matteo, dedicato a chiunque voglia scoprire o approfondire il mondo dell’Intelligenza Artificiale.

Gli autori partono da una considerazione: senza dubbio l’intelligenza artificiale scatenerà una nuova rivoluzione tecnologica; e come tutte le grandi innovazioni sarà disruptive, dirompente, e potrà essere usata per l’interesse di pochi oppure a favore di tutti. Tutto tenendo conto che l’Intelligenza artificiale è già tra noi. Mentre spopola ChatGPT, i grandi fondi si preparano a investimenti miliardari. I filosofi si interrogano sui rischi e le implicazioni morali, gli economisti su come cambieranno lavoro e produzione, gli insegnanti sulle conseguenze  per l’istruzione, gli scienziati sociali su informazione, democrazia e rapporti umani. E c’è chi suona l’allarme, diffondendo timori ben motivati ma anche fuorvianti distopie e paranoie. Detto in altri termini, la strada verso una possibile nuova età dell’oro è disseminata di ostacoli e rischi da non trascurare. Per affrontare il tema, il libro racconta passo dopo passo tutte le applicazioni dell’IA ad oggi possibili.

Quanto scritto da Zuccarelli e Di Matteo non è certamente una pietra miliare degli studi sulla IA, ma fornisce una guida perfetta per iniziare a comprenderle. E per questo va letto. E con attenzione.

Intelligenza artificiale. Come usarla a favore dell’Umanità

Gabriele Di Matteo, Eugenio Zuccarelli

Mondadori, 2024

Cultura del distretto industriale

Una ricerca condotta tra Ca’ Foscari e Università di Padova delinea l’evoluzione di una forma di organizzazione della produzione e del territorio ancora oggi originale

Imprese e territori che arrivano ad essere un tutt’uno produttivo e sociale. Esperimento di economia diventato realtà in numerosi luoghi della Penisola, quello dei distretti industriali italiani è diventato ormai un esempio di cultura d’impresa diffusa, di costruzione economica e sociale che ha dato molti frutti. E che continua a svilupparsi, magari non in quantità ma in qualità. E’ attorno a questo tema che hanno ragionato Giancarlo Corò e Roberto Grandinetti (rispettivamente del dipartimento di economia di Ca’ Foscari e del dipartimento di scienze economiche e aziendali dell’Università di Padova), con il loro intervento pubblicato da poco in Economia e Società Regionale.

“I distretti industriali nelle trasformazioni dell’economia italiana: dalla crescita estensiva alle sfide della nuova globalizzazione” è un’analisi a tutto tondo del fenomeno dei distretti industriali in Italia, dallo loro crescita in termini “estensivi” allo loro sviluppo in termini “qualitativi”. Si tratta, in altre parole, di un’indagine sui distretti industriali lungo un percorso storico ed economico che va dalla loro la nascita e crescita fino al loro sviluppo qualitativo alle prese con la globalizzazione.

Dalla grande trasformazione dell’economia italiana, Corò e Grandinetti arrivano quindi ai giorni nostri, sommando all’esame degli elementi costitutivi dei distretti (imprese, territorio, persone, capacità di fare), anche le novità degli ultimi tempi: non solo gli effetti generali della globalizzazione, ma anche le nuove tecnologie e la necessità di una costante attenzione agli aspetti sociali compresi quelli legati alla formazione e alla conoscenza. Ed è proprio dall’attenzione posta sull’unione delle caratteristiche originali dei distretti con i nuovi elementi che ne connotano l’attività, che nasce l’originalità della ricerca di Corò e Grandinetti.

Si delinea così il profilo di un distretto industriale italiano capace non solo di resistere alle nuove spinte economiche e sociali, ma anche di innovarsi e svilupparsi dal punto di vista qualitativo e umano. Il distretto industriale italiano evolvendosi senza perdere le caratteristiche originali che gli sono proprie, delinea un cultura d’impresa capace di aggiornarsi e migliorarsi.

I distretti industriali nelle trasformazioni dell’economia italiana: dalla crescita estensiva alle sfide della nuova globalizzazione 

Giancarlo Corò, Roberto Grandinetti
Economia e Società Regionale, 2023/2

Una ricerca condotta tra Ca’ Foscari e Università di Padova delinea l’evoluzione di una forma di organizzazione della produzione e del territorio ancora oggi originale

Imprese e territori che arrivano ad essere un tutt’uno produttivo e sociale. Esperimento di economia diventato realtà in numerosi luoghi della Penisola, quello dei distretti industriali italiani è diventato ormai un esempio di cultura d’impresa diffusa, di costruzione economica e sociale che ha dato molti frutti. E che continua a svilupparsi, magari non in quantità ma in qualità. E’ attorno a questo tema che hanno ragionato Giancarlo Corò e Roberto Grandinetti (rispettivamente del dipartimento di economia di Ca’ Foscari e del dipartimento di scienze economiche e aziendali dell’Università di Padova), con il loro intervento pubblicato da poco in Economia e Società Regionale.

“I distretti industriali nelle trasformazioni dell’economia italiana: dalla crescita estensiva alle sfide della nuova globalizzazione” è un’analisi a tutto tondo del fenomeno dei distretti industriali in Italia, dallo loro crescita in termini “estensivi” allo loro sviluppo in termini “qualitativi”. Si tratta, in altre parole, di un’indagine sui distretti industriali lungo un percorso storico ed economico che va dalla loro la nascita e crescita fino al loro sviluppo qualitativo alle prese con la globalizzazione.

Dalla grande trasformazione dell’economia italiana, Corò e Grandinetti arrivano quindi ai giorni nostri, sommando all’esame degli elementi costitutivi dei distretti (imprese, territorio, persone, capacità di fare), anche le novità degli ultimi tempi: non solo gli effetti generali della globalizzazione, ma anche le nuove tecnologie e la necessità di una costante attenzione agli aspetti sociali compresi quelli legati alla formazione e alla conoscenza. Ed è proprio dall’attenzione posta sull’unione delle caratteristiche originali dei distretti con i nuovi elementi che ne connotano l’attività, che nasce l’originalità della ricerca di Corò e Grandinetti.

Si delinea così il profilo di un distretto industriale italiano capace non solo di resistere alle nuove spinte economiche e sociali, ma anche di innovarsi e svilupparsi dal punto di vista qualitativo e umano. Il distretto industriale italiano evolvendosi senza perdere le caratteristiche originali che gli sono proprie, delinea un cultura d’impresa capace di aggiornarsi e migliorarsi.

I distretti industriali nelle trasformazioni dell’economia italiana: dalla crescita estensiva alle sfide della nuova globalizzazione 

Giancarlo Corò, Roberto Grandinetti
Economia e Società Regionale, 2023/2

Quei 500 miliardi per la transizione verde e digitale e una politica europea non ideologica ma sostenibile

Vale la pena dare retta, anche stavolta, alle parole di Mario Draghi: “I bisogni delle transizioni verde e digitale sono stimati in almeno 500 miliardi di euro all’anno”. Lo ha detto sabato a Gand, alla riunione dei ministri dell’Economia dei paesi Ue, parlando di competitività europea rispetto ai due protagonisti della scena mondiale, gli Usa e la Cina e riconfermando concetti già espressi in più occasioni. Draghi ha aggiunto che a quegli investimenti vanno aggiunti gli stanziamenti per la difesa ma anche quelli “produttivi”, per l’industria e i servizi. Spiegando che “il divario della Ue rispetto agli Usa si sta allargando soprattutto dopo il 2010”, la fine della Grande Crisi finanziaria globale. Agli Usa “sono serviti due anni per tornare ai livelli precedenti, alla Ue invece nove anni. E da allora non siamo saliti”. C’è, appunto, “un gap di investimenti dell’1,5% del Pil pari a 500 miliardi di euro”. Insomma, “dovremo investire somme enormi in tempi brevi”. Con una partecipazione sia della mano pubblica che degli investitori privati, delle imprese che, appunto su una equilibrata transizione, potranno costruire nuove e migliori ragioni di competitività internazionale.

Ci sono parecchi problemi su cui fare chiarezza, assumendosi la responsabilità di scelte impegnative. Innanzitutto, dove trovare somme così ingenti? Una risposta sta nel dare seguito al ricorso ai mercati finanziari già sperimentato con successo per i 250 miliardi necessari a spesare il Recovery Plan dedicato alla “Next Generation Eu” dopo la pandemia da Covid. E dunque nel fare ricorso agli eurobond. Sia per la difesa, secondo i suggerimenti di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue (una ipotesi che però, alle prime battute, suscita le perplessità di Berlino; la Repubblica, 24 febbraio). Sia per finanziare efficacemente la twin transition ambientale e digitale, di cui parla Draghi.
Una seconda risposta sta nel fare crescere l’importo del Bilancio Ue e nel destinarne risorse adeguate agli investimenti, anche nei singoli paesi europei. E una terza risposta chiede di trarre le conseguenze d’una evidente constatazione: in un clima di incertezze e di “policrisi” o “permacrisi” che dir si voglia, gli altri grandi attori internazionali, gli Usa e la Cina innanzitutto, si muovono secondo strategie geopolitiche che tengono insieme le grandi questioni della sicurezza e dell’energia, dell’innovazione e della competitività, investendo risorse gigantesche. E l’Europa non può stare a guardare, pena la perdita del suo ruolo economico e il declino del suo prestigio politico (fondato, come abbiamo più volte scritto in questo blog, sulla capacità storica e futuribile di tenere insieme in modo virtuoso la democrazia politica, il mercato e il welfare State e cioè libertà, crescita economica e benessere diffuso).

Serve dunque un’ambiziosa politica Ue (con relativa opportuna riforma della governance, abbandonando l’obbligo delle decisioni all’unanimità tra i 27 paesi membri): difesa e sicurezza, energia e industria, transizione ambientale e digitale, lavoro e nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale sono capitoli di un’unica, lungimirante strategia di sviluppo sostenibile (nel blog delle ultime due settimane abbiamo parlato, appunto, di “umanesimo digitale” e della necessità di un’Intelligenza Artificiale europea, per fare fronte alla potenza degli Usa con le sue Big Tech, della Cina e, adesso, anche dell’India). Una sfida politica ed economica che guardi, appunto, in modo ampio, soprattutto alla “Next Generation Eu”.
Investimenti, dunque. Ma anche ricerca. Scienza. Cultura. Una strategia che renda politicamente spendibile e accettabile la sostenibilità, come sistema di valori e come concretezza di progetti di intervento e impegno. E partecipazione.
Una partecipazione su cui proprio le nuove generazioni mostrano una generosa disponibilità d’impegno.
Un segnale, tra i tanti, arriva dal mondo universitario italiano. Sono stati 2.062 i partecipanti al bando “Dieci tesi per la sostenibilità”, provenienti da oltre 80 atenei, per una iniziativa promossa da Fondazione Symbola, Unioncamere e Luiss con il sostegno di Deloitte Climate & Sustainability, con il patrocinio del Ministero dell’Università e Ricerca e della Conferenza dei Rettori. I partecipanti sono per il 62% donne e per il 38% uomini. E il comitato scientifico, presieduto da Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna e da Paola Severino, presidente della Luiss School of Law è già al lavoro per individuare le tesi migliori, in ambiti che investono economia e statistica, ingegneria civile, architettura e design, scienze giuridiche, politiche e sociali, ingegneria industriale e dell’informazione, chimica e biologia e, naturalmente, tutti gli aspetti delle scienze umanistiche.

Una partecipazione “straordinaria che vale molto più di un sondaggio”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Ci potrà fornire informazioni e stimoli importanti. La possibilità di affrontare le sfide che abbiamo davanti può contare anche sulle energie pulite e rinnovabili dei saperi e delle intelligenze giovani presenti nel nostro Paese”. Ma è anche “un’occasione per dare forza a un’Italia che fa l’Italia”: “Affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario ma potrà rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro”. Perché, sulla scia delle esortazioni all’impegno venute dal Papa e dal presidente della Repubblica Mattarella, è necessario – secondo Realacci – rendere concreto l’impegno dell’Europa, “indicando coesione, transizione verde e digitale come la strada per rafforzare la nostra economia”.
Ecco il punto cardine, su cui insistono anche le posizioni degli imprenditori europei, che legano il Green Deal a un Industrial Deal che coniughi le scelte irrinunciabili per evitare l’aggravarsi della crisi climatica ai temi dello sviluppo economico e della sostenibilità sociale. Ci sono, d’altronde, chiare testimonianze nel documento “Fabbrica Europa” preparato da Confindustria come piattaforma di confronto in vista delle elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento Ue e nella Carta firmata la scorsa settimana ad Anversa da 73 associazioni d’impresa e multinazionali energivore (Il Sole24Ore, 21 febbraio).

C’è una chiara indicazione di metodo: la neutralità tecnologica per le scelte da fare. L’obiettivo sta nei punti ESG. Come arrivarci, però, non deve dipendere dalla scelta di una tecnologia particolare. Per l’energia, anche in termini di sicurezza degli approvvigionamenti (con un’attenzione per l’atomica di nuova generazione). O per le politiche Ue ossessivamente orientate al “riuso” contro “il riciclo” e cioè contro gli imballaggi riciclabili (un primato virtuoso proprio dell’industria italiana). O, per fare ancora un altro esempio di pesante impatto, per la scelta radicale di privilegio dell’auto elettrica invece che dell’uso di motori a combustione con carburanti non inquinanti (una indicazione che, peraltro, danneggerebbe tutta l’industria europea della componentistica automotive, con drammatiche, inaccettabili ricadute sociali).
Meno ideologia green, maggiore e migliore politica industriale e sociale in chiave di concreta sostenibilità. “Un Rinascimento dell’industria per una Ue competitiva”, sintetizza Confindustria. Una strada chiara, su cui il dibattito politico ed economico europeo dovrà andare avanti.

(Foto Getty Images)

Vale la pena dare retta, anche stavolta, alle parole di Mario Draghi: “I bisogni delle transizioni verde e digitale sono stimati in almeno 500 miliardi di euro all’anno”. Lo ha detto sabato a Gand, alla riunione dei ministri dell’Economia dei paesi Ue, parlando di competitività europea rispetto ai due protagonisti della scena mondiale, gli Usa e la Cina e riconfermando concetti già espressi in più occasioni. Draghi ha aggiunto che a quegli investimenti vanno aggiunti gli stanziamenti per la difesa ma anche quelli “produttivi”, per l’industria e i servizi. Spiegando che “il divario della Ue rispetto agli Usa si sta allargando soprattutto dopo il 2010”, la fine della Grande Crisi finanziaria globale. Agli Usa “sono serviti due anni per tornare ai livelli precedenti, alla Ue invece nove anni. E da allora non siamo saliti”. C’è, appunto, “un gap di investimenti dell’1,5% del Pil pari a 500 miliardi di euro”. Insomma, “dovremo investire somme enormi in tempi brevi”. Con una partecipazione sia della mano pubblica che degli investitori privati, delle imprese che, appunto su una equilibrata transizione, potranno costruire nuove e migliori ragioni di competitività internazionale.

Ci sono parecchi problemi su cui fare chiarezza, assumendosi la responsabilità di scelte impegnative. Innanzitutto, dove trovare somme così ingenti? Una risposta sta nel dare seguito al ricorso ai mercati finanziari già sperimentato con successo per i 250 miliardi necessari a spesare il Recovery Plan dedicato alla “Next Generation Eu” dopo la pandemia da Covid. E dunque nel fare ricorso agli eurobond. Sia per la difesa, secondo i suggerimenti di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue (una ipotesi che però, alle prime battute, suscita le perplessità di Berlino; la Repubblica, 24 febbraio). Sia per finanziare efficacemente la twin transition ambientale e digitale, di cui parla Draghi.
Una seconda risposta sta nel fare crescere l’importo del Bilancio Ue e nel destinarne risorse adeguate agli investimenti, anche nei singoli paesi europei. E una terza risposta chiede di trarre le conseguenze d’una evidente constatazione: in un clima di incertezze e di “policrisi” o “permacrisi” che dir si voglia, gli altri grandi attori internazionali, gli Usa e la Cina innanzitutto, si muovono secondo strategie geopolitiche che tengono insieme le grandi questioni della sicurezza e dell’energia, dell’innovazione e della competitività, investendo risorse gigantesche. E l’Europa non può stare a guardare, pena la perdita del suo ruolo economico e il declino del suo prestigio politico (fondato, come abbiamo più volte scritto in questo blog, sulla capacità storica e futuribile di tenere insieme in modo virtuoso la democrazia politica, il mercato e il welfare State e cioè libertà, crescita economica e benessere diffuso).

Serve dunque un’ambiziosa politica Ue (con relativa opportuna riforma della governance, abbandonando l’obbligo delle decisioni all’unanimità tra i 27 paesi membri): difesa e sicurezza, energia e industria, transizione ambientale e digitale, lavoro e nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale sono capitoli di un’unica, lungimirante strategia di sviluppo sostenibile (nel blog delle ultime due settimane abbiamo parlato, appunto, di “umanesimo digitale” e della necessità di un’Intelligenza Artificiale europea, per fare fronte alla potenza degli Usa con le sue Big Tech, della Cina e, adesso, anche dell’India). Una sfida politica ed economica che guardi, appunto, in modo ampio, soprattutto alla “Next Generation Eu”.
Investimenti, dunque. Ma anche ricerca. Scienza. Cultura. Una strategia che renda politicamente spendibile e accettabile la sostenibilità, come sistema di valori e come concretezza di progetti di intervento e impegno. E partecipazione.
Una partecipazione su cui proprio le nuove generazioni mostrano una generosa disponibilità d’impegno.
Un segnale, tra i tanti, arriva dal mondo universitario italiano. Sono stati 2.062 i partecipanti al bando “Dieci tesi per la sostenibilità”, provenienti da oltre 80 atenei, per una iniziativa promossa da Fondazione Symbola, Unioncamere e Luiss con il sostegno di Deloitte Climate & Sustainability, con il patrocinio del Ministero dell’Università e Ricerca e della Conferenza dei Rettori. I partecipanti sono per il 62% donne e per il 38% uomini. E il comitato scientifico, presieduto da Stefano Zamagni, docente di Economia politica all’Università di Bologna e da Paola Severino, presidente della Luiss School of Law è già al lavoro per individuare le tesi migliori, in ambiti che investono economia e statistica, ingegneria civile, architettura e design, scienze giuridiche, politiche e sociali, ingegneria industriale e dell’informazione, chimica e biologia e, naturalmente, tutti gli aspetti delle scienze umanistiche.

Una partecipazione “straordinaria che vale molto più di un sondaggio”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola: “Ci potrà fornire informazioni e stimoli importanti. La possibilità di affrontare le sfide che abbiamo davanti può contare anche sulle energie pulite e rinnovabili dei saperi e delle intelligenze giovani presenti nel nostro Paese”. Ma è anche “un’occasione per dare forza a un’Italia che fa l’Italia”: “Affrontare con coraggio la crisi climatica non è solo necessario ma potrà rendere la nostra economia e la nostra società più a misura d’uomo e per questo più capaci di futuro”. Perché, sulla scia delle esortazioni all’impegno venute dal Papa e dal presidente della Repubblica Mattarella, è necessario – secondo Realacci – rendere concreto l’impegno dell’Europa, “indicando coesione, transizione verde e digitale come la strada per rafforzare la nostra economia”.
Ecco il punto cardine, su cui insistono anche le posizioni degli imprenditori europei, che legano il Green Deal a un Industrial Deal che coniughi le scelte irrinunciabili per evitare l’aggravarsi della crisi climatica ai temi dello sviluppo economico e della sostenibilità sociale. Ci sono, d’altronde, chiare testimonianze nel documento “Fabbrica Europa” preparato da Confindustria come piattaforma di confronto in vista delle elezioni di giugno per il rinnovo del Parlamento Ue e nella Carta firmata la scorsa settimana ad Anversa da 73 associazioni d’impresa e multinazionali energivore (Il Sole24Ore, 21 febbraio).

C’è una chiara indicazione di metodo: la neutralità tecnologica per le scelte da fare. L’obiettivo sta nei punti ESG. Come arrivarci, però, non deve dipendere dalla scelta di una tecnologia particolare. Per l’energia, anche in termini di sicurezza degli approvvigionamenti (con un’attenzione per l’atomica di nuova generazione). O per le politiche Ue ossessivamente orientate al “riuso” contro “il riciclo” e cioè contro gli imballaggi riciclabili (un primato virtuoso proprio dell’industria italiana). O, per fare ancora un altro esempio di pesante impatto, per la scelta radicale di privilegio dell’auto elettrica invece che dell’uso di motori a combustione con carburanti non inquinanti (una indicazione che, peraltro, danneggerebbe tutta l’industria europea della componentistica automotive, con drammatiche, inaccettabili ricadute sociali).
Meno ideologia green, maggiore e migliore politica industriale e sociale in chiave di concreta sostenibilità. “Un Rinascimento dell’industria per una Ue competitiva”, sintetizza Confindustria. Una strada chiara, su cui il dibattito politico ed economico europeo dovrà andare avanti.

(Foto Getty Images)

Operosità d’impresa

Un libro pubblicato da poco racconta il “quinto capitalismo” italiano

 

Operosità. E poi determinazione, lavoro e impegno. Possono essere molti i vocaboli in grado di indicare la natura dell’essere imprenditori. Questione anche di visione e di progetti da realizzare. E anche di “silenzio”, cioè di riservatezza, attenzione al proprio lavoro, cultura del fare e dell’essere e non dell’apparire. Gli esempi non mancano e sono raccontati da Roberto Mania nel suo “Capitalisti sileziosi”, libro appena pubblicato che ha un sottotitolo importante: “La rivincita delle imprese familiari”. Perché quello è il focus delle poco più di 130 pagine che si leggono agevolmente: tornare a scoprire ruolo e significato delle famiglie imprenditoriali che, spesso senza apparire più di tanto, hanno fatto la storia dell’industria e dell’economia italiane.

E’ infatti l’Italia delle medie (e anche grandi) imprese perlopiù familiari, quella che viene raccontata da Mania. Imprese che delineano un modello i cui protagonisti, quasi senza farsene accorgere, hanno cambiato il tessuto produttivo del Paese permettendogli di competere nelle acque (sempre più) agitate del mondo globalizzato. E’ quello che alcuni chiamano “quinto capitalismo italiano” ciò che viene raccontato: un sistema strutturato di medie-grandi imprese, innovative, globalizzate (per quanto radicate nel locale, nei piccoli centri più che nelle grandi aree urbane), patrimonialmente solide, digitalizzate, tendenzialmente attente all’ambiente, capaci di trascinare con sé una larga fetta dei subfornitori di piccola dimensione. E soprattutto, nella stragrande maggioranza dei casi, a salda proprietà familiare.

Cultura d’impresa che si fa cultura di famiglia, dunque, e dalla quale arriva complessivamente quasi la metà della produzione industriale nazionale. E’ da questo nucleo forte che, poi, deriva gran parte delle oltre quattromila medie-grandi imprese manifatturiere che di fronte alla crisi provocata dalla pandemia hanno dimostrato di saper reagire meglio delle altre, adattandosi più rapidamente al nuovo scenario, salvaguardando l’occupazione e mantenendo le fabbriche aperte nel segno della resilienza. Tutto “lavorando in silenzio”, appunto.

Roberto Mania di questo particolare capitalismo racconta storie e attualità e spiega: “Questo non è il vecchio capitalismo familiare che ritorna. Questa è un’altra storia che merita di essere raccontata. Raccontata anche con la voce dei protagonisti”. Ed è quello che il libro fa coinvolgendo nomi come Bombassei, Illy, Squinzi, Rana, Marcegaglia, Nocivelli, Bauli, Lunelli, Barilla, Garrone, Scavolini, Vacchi, Ferrero, Bonfiglioli. Tutti caratterizzati da alcuni tratti: parlano poco, disdegnano la politica, non amano la finanza, si sono aperti ai manager esterni, competono con qualità nei mercati globali, concentrandosi sui loro settori tradizionali senza cercare improvvisate diversificazioni, reinvestono gli utili, sono europeisti e antipopulisti, ma non sono i nuovi poteri forti. Così – dice Mania -, sono riusciti a trasformare (da tempo) le proprie aziende in multinazionali tascabili, rafforzandole e passando finora indenni dalle guerre ereditarie.

Capitalisti silenziosi. La rivincita delle imprese familiari

Roberto Mania

Egea, 2024

Un libro pubblicato da poco racconta il “quinto capitalismo” italiano

 

Operosità. E poi determinazione, lavoro e impegno. Possono essere molti i vocaboli in grado di indicare la natura dell’essere imprenditori. Questione anche di visione e di progetti da realizzare. E anche di “silenzio”, cioè di riservatezza, attenzione al proprio lavoro, cultura del fare e dell’essere e non dell’apparire. Gli esempi non mancano e sono raccontati da Roberto Mania nel suo “Capitalisti sileziosi”, libro appena pubblicato che ha un sottotitolo importante: “La rivincita delle imprese familiari”. Perché quello è il focus delle poco più di 130 pagine che si leggono agevolmente: tornare a scoprire ruolo e significato delle famiglie imprenditoriali che, spesso senza apparire più di tanto, hanno fatto la storia dell’industria e dell’economia italiane.

E’ infatti l’Italia delle medie (e anche grandi) imprese perlopiù familiari, quella che viene raccontata da Mania. Imprese che delineano un modello i cui protagonisti, quasi senza farsene accorgere, hanno cambiato il tessuto produttivo del Paese permettendogli di competere nelle acque (sempre più) agitate del mondo globalizzato. E’ quello che alcuni chiamano “quinto capitalismo italiano” ciò che viene raccontato: un sistema strutturato di medie-grandi imprese, innovative, globalizzate (per quanto radicate nel locale, nei piccoli centri più che nelle grandi aree urbane), patrimonialmente solide, digitalizzate, tendenzialmente attente all’ambiente, capaci di trascinare con sé una larga fetta dei subfornitori di piccola dimensione. E soprattutto, nella stragrande maggioranza dei casi, a salda proprietà familiare.

Cultura d’impresa che si fa cultura di famiglia, dunque, e dalla quale arriva complessivamente quasi la metà della produzione industriale nazionale. E’ da questo nucleo forte che, poi, deriva gran parte delle oltre quattromila medie-grandi imprese manifatturiere che di fronte alla crisi provocata dalla pandemia hanno dimostrato di saper reagire meglio delle altre, adattandosi più rapidamente al nuovo scenario, salvaguardando l’occupazione e mantenendo le fabbriche aperte nel segno della resilienza. Tutto “lavorando in silenzio”, appunto.

Roberto Mania di questo particolare capitalismo racconta storie e attualità e spiega: “Questo non è il vecchio capitalismo familiare che ritorna. Questa è un’altra storia che merita di essere raccontata. Raccontata anche con la voce dei protagonisti”. Ed è quello che il libro fa coinvolgendo nomi come Bombassei, Illy, Squinzi, Rana, Marcegaglia, Nocivelli, Bauli, Lunelli, Barilla, Garrone, Scavolini, Vacchi, Ferrero, Bonfiglioli. Tutti caratterizzati da alcuni tratti: parlano poco, disdegnano la politica, non amano la finanza, si sono aperti ai manager esterni, competono con qualità nei mercati globali, concentrandosi sui loro settori tradizionali senza cercare improvvisate diversificazioni, reinvestono gli utili, sono europeisti e antipopulisti, ma non sono i nuovi poteri forti. Così – dice Mania -, sono riusciti a trasformare (da tempo) le proprie aziende in multinazionali tascabili, rafforzandole e passando finora indenni dalle guerre ereditarie.

Capitalisti silenziosi. La rivincita delle imprese familiari

Roberto Mania

Egea, 2024

La non facile inclusione d’impresa

Messi a fuoco percorsi e difficoltà della valorizzazione del capitale morale e della diversità nelle organizzazioni

Capitale morale. E cioè capitale immateriale, impalpabile, forse, ma assolutamente presente e importante nelle organizzazioni della produzione. Aziende che diventano imprese, in altri termini, proprio sulla base del capitale umano e morale che si portano dentro. Condizione determinante, quella del capitale umano e morale, che dà l’impronta all’impresa e che viene studiata da Stella Pinna Pintor e Raffaele Alberto Ventura nel loro “Il Capitale Morale. L’inclusività nelle organizzazioni tra incentivi economici e resistenze culturali”, intervento pubblicato recentemente che riesce, in poche pagine, a fornire la sintesi del tema.

L’idea da cui partono i due autori è che i cambiamenti sociologici e culturali che travolgono le società di oggi stanno portando a profondi cambiamenti anche nelle organizzazioni. Cambiamenti in positivo. La crescente attenzione all’inclusione e all’uguaglianza sta infatti incoraggiando le organizzazioni a sviluppare programmi per una gestione più efficace della diversità.

La ricerca ha l’obiettivo di fornire un’istantanea completa dell’argomento, concentrandosi sui vari attori coinvolti nell’economia dell’inclusione, sui vincoli e gli incentivi per l’attuazione delle politiche di gestione della diversità e, infine, sulle principali critiche alle politiche di inclusione. A pesare ancora molto è il fitto intreccio di differenze economiche, simboliche, culturali e morali che entrano in gioco insieme a quelle di genere. La riposta sta in un insieme di strategie di compromesso dei protagonisti di volta in volta coinvolti che, a seconda dei casi, riescono ad arrivare a soluzioni oppure si fermano bloccati da attriti e scontri.

Il bilancio che viene tratto dall’analisi della situazione non è del tutto positivo: molta strada rimane ancora da compiere per arrivare alla creazione di ambienti davvero inclusivi. La ricerca di Stella Pinna Pintor e Raffaele Alberto Ventura ha il merito di fornire una guida per capire meglio come fare.

Il Capitale Morale. L’inclusività nelle organizzazioni tra incentivi economici e resistenze culturali

Stella Pinna Pintor, Raffaele Alberto Ventura

Firenze University Press, 2023

Messi a fuoco percorsi e difficoltà della valorizzazione del capitale morale e della diversità nelle organizzazioni

Capitale morale. E cioè capitale immateriale, impalpabile, forse, ma assolutamente presente e importante nelle organizzazioni della produzione. Aziende che diventano imprese, in altri termini, proprio sulla base del capitale umano e morale che si portano dentro. Condizione determinante, quella del capitale umano e morale, che dà l’impronta all’impresa e che viene studiata da Stella Pinna Pintor e Raffaele Alberto Ventura nel loro “Il Capitale Morale. L’inclusività nelle organizzazioni tra incentivi economici e resistenze culturali”, intervento pubblicato recentemente che riesce, in poche pagine, a fornire la sintesi del tema.

L’idea da cui partono i due autori è che i cambiamenti sociologici e culturali che travolgono le società di oggi stanno portando a profondi cambiamenti anche nelle organizzazioni. Cambiamenti in positivo. La crescente attenzione all’inclusione e all’uguaglianza sta infatti incoraggiando le organizzazioni a sviluppare programmi per una gestione più efficace della diversità.

La ricerca ha l’obiettivo di fornire un’istantanea completa dell’argomento, concentrandosi sui vari attori coinvolti nell’economia dell’inclusione, sui vincoli e gli incentivi per l’attuazione delle politiche di gestione della diversità e, infine, sulle principali critiche alle politiche di inclusione. A pesare ancora molto è il fitto intreccio di differenze economiche, simboliche, culturali e morali che entrano in gioco insieme a quelle di genere. La riposta sta in un insieme di strategie di compromesso dei protagonisti di volta in volta coinvolti che, a seconda dei casi, riescono ad arrivare a soluzioni oppure si fermano bloccati da attriti e scontri.

Il bilancio che viene tratto dall’analisi della situazione non è del tutto positivo: molta strada rimane ancora da compiere per arrivare alla creazione di ambienti davvero inclusivi. La ricerca di Stella Pinna Pintor e Raffaele Alberto Ventura ha il merito di fornire una guida per capire meglio come fare.

Il Capitale Morale. L’inclusività nelle organizzazioni tra incentivi economici e resistenze culturali

Stella Pinna Pintor, Raffaele Alberto Ventura

Firenze University Press, 2023

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