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Ecco perché serve un’Intelligenza Artificiale europea: investimenti, algoritmi, strutture per difesa e sviluppo 

E se ci fosse un’Intelligenza Artificiale europea? Un sistema in grado di fare fronte all’attuale predominio degli Usa e della Cina? Un insieme di algoritmi, codici, reti, servizi, data center e meccanismi nati dalla collaborazione, a Bruxelles, tra Parigi e Berlino, Roma e Madrid, Amsterdam e naturalmente le città degli altri paesi della Ue, magari convincendo anche Londra a mettere finalmente da canto le scelte e i pregiudizi anti europei e fare parte del club?

Potremmo darle un nome carico di valori simbolici, chiamarla “Montaigne” o “Kant”, “Marie Curie” o, perché no?, “Leonardo”, genio universale e trasversale, l’interprete più noto e significativo del Rinascimento, con la sua molteplice cultura politecnica densa di saperi umanistici, senso della bellezza e inclinazione d’avanguardia per le conoscenze scientifiche. E dire così al mondo che l’Uomo Vitruviano e i disegni del “Codice atlantico”, già considerati patrimoni dell’umanità, sono oggi ottimi esempi di un mondo che guarda al futuro, segni dell’Umanesimo che adesso si declina in “Umanesimo digitale”: la persona umana al centro di tutto, le macchine al suo servizio (dando così risposte rassicuranti ai timori di Martin Heidegger e, in Italia, a quelli di Primo Levi e Italo Calvino nelle sue profetiche “Lezioni americane”). E l’intelligenza, anche quella artificiale, rivolta al “fare, fare bene e fare del bene”. Al servizio dei diritti e dei bisogni dei cittadini (a cominciare dalla conoscenza critica, dalla ricerca e dalla buona informazione) e delle esigenze competitive delle imprese europee.

Viviamo in un mondo inquieto, multipolare, segnato da equilibri politici ed economici quanto mai fragili, sottoporti a usure e rotture di ogni tipo, dalle catastrofi ambientali alle pandemie, dalle guerre alle crescenti tensioni sociali. Il vecchio ordine bipolare (l’equilibrio del terrore atomico tra Usa e Urss) è saltato 35 anni fa con il crollo del Muro di Berlino. E un nuovo equilibrio è ben lontano dal mostrarsi all’orizzonte. La globalizzazione dominata dalla finanza rampante e rapace è finita, la neo-globalizzazione “regionale” è in cerca di assetti meno instabili. Il futuro, insomma, è quanto mai incerto.

E oggi, proprio qui, in Europa, sappiamo che il sistema dei valori e degli interessi che ha inspirato il nostro cammino comune (in sintesi, la capacità di tenere insieme la democrazia liberale, il mercato e il welfare e cioè la libertà, il benessere e l’inclusione sociale) rischia seriamente di entrare in crisi.

Usa e Cina si muovono lungo strade conflittuali e divergenti (anche senza rinunciare, comunque, alle possibilità di dialoghi e scambi). Le autocrazie, a cominciare dalla Russia di Putin, mostrano volti minacciosi. E sovranismi e populismi, come termiti infestanti, rischiano di corrodono le fondamenta delle nostre democrazie. Gli squilibri demografici aggravano il quadro.

L’Europa, insomma, gigante economico, ricco mercato con i suoi 450 milioni di abitanti, culla di civiltà, vede davanti a sé un cupo orizzonte.

Nasce da questa consapevolezza l’idea che la Ue deve aprire una nuova pagina della sua storia, definire un nuovo percorso politico e istituzionale (con una governance a maggioranza), decidere di investire massicciamente sul suo futuro. E proprio le questioni della sicurezza e della difesa, oltre che quelli dello sviluppo sostenibile, sono i temi principali. Ben sapendo che difesa e sicurezza significano anche energia, ricerca scientifica, economia digitale e, appunto, Intelligenza Artificiale europea. Tutte questioni fondamentali. Che ci si augura siano al centro dei dibattiti politici nei paesi della Ue, prima del voto del prossimo giugno per rinnovare il Parlamento Europeo e decidere assetti e programmi della futura Commissione Ue.

Questioni, d’altronde, che chiedono massicci investimenti, in grado di fare fronte alle massicce dosi di spesa pubblica e privata Usa e alle strategie finanziarie della Cina.

Da Bruxelles arrivano, proprio in questo scorcio di fine legislatura, indicazioni rassicuranti. Come quelle relative a una “Strategia industriale per la Difesa europea” che sarà discusso alla fine di febbrai e potrà essere finanziato da un Fondo Ue in grado di raccogliere risorse sui mercati (un nuovo fondo, dopo l’esperienza positiva dei fondi “Sure” per l’assistenza sociale ai lavoratori messi in difficoltà dalle conseguenze economiche del Covid e “Next Generation Ue” per le riforme e gli investimenti necessari alla ripresa e alla modernizzazione europea, di cui l’Italia ha avito le risorse maggiori).

“Eurobond e maggiori risorse per spese militari comuni”, dichiara la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, parlando della necessità di “un fondo da 100 miliardi di euro”  (La Stampa, 17 febbraio). “Il debito comune, a cominciare dalla difesa, oggi è possibile”, commenta Francesco Giavazzi, economista attento alle prospettive europee (Corriere della Sera, 18 febbraio). “Un Commissario Ue alla Difesa sarebbe un passo importante per rafforzare l’Europa”, sostiene Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo, impresa italiana strategica anche nel settore militare (Il Foglio, 17 febbraio).

Le minacce di Donald Trump di rompere, se eletto alla Casa Bianca, gli attuali equilibri Nato, lasciando l’Europa indifesa di fronte all’aggressività di Putin, sono state solo l’ultimo campanello d’allarme. E anche se l’ipotesi di una difesa comune trova resistenze dei governi e degli apparati militari nei singoli paesi (in Francia e in Germania, innanzitutto), l’Eurobarometro rivela che i cittadini sono più avanti dei loro politici: il 77% degli europei si dichiarano a favore di una difesa comune e il 66% sostiene che servirebbero più fondi. Una difesa che riguarda anche gli aspetti cyber. E ha bisogno di elaborare efficacemente dati, trovare risposte, organizzare contromisure. Tutte dimensioni in cui l’Intelligenza Artificiale è essenziale.

Analoghe le ragioni che spingono per il Fondo comune Ue per l’energia e le materie prime strategiche. E, appunto, per un Fondo sull’Intelligenza Artificiale.

Risorse, dunque. Strategie politiche e regole. E una vera e propria scelta culturale di fondo, sulle caratteristiche che dovrà avere un’IA europea.

E’ un percorso lungo strada stretta. Gli Usa si muovono in un contesto connotato dalle Big Tech ricche e potenti, sinora dominanti, in un quadro comunque di valori liberali. La Cina usa massicce risorse pubbliche, solido capitale umano tecnologicamente agguerrito, la forza del dirigismo determinato e la disciplina di partito.

E l’Europa? La Ue vanta la prima normativa mondiale di regolazione sistemica dell’Intelligenza Artificiale (ne scrive con competenza Giusella Finocchiaro, esperta giurista, nelle pagine di “Quali regole per l’Intelligenza Artificiale?”, Il Mulino) e i suoi esperti hanno chiara la necessità di un “approccio multilaterale” nei confronti degli altri attori mondiali. Ma, oltre alle regole, serve una vera e propria politica industriale che metta rapidamente le nostre imprese in grado di usare strutture e servizi Ue, senza dipendere troppo dalle Big Tech americane o almeno collaborando in posizioni di parità. Ed è necessaria una strategia che coinvolga, oltre alle imprese, le università, ile istituzioni della ricerca, i data center europei e i grandi centri di calcolo, come per esempio “Leonardo”, il Centro nazionale di supercalcolo del Tecnopolo di Bologna.

Investimenti. Tecnologie. Ma anche cultura e linguaggio, secondo i valori europei (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana, “Riparlare di umanesimo, ricerca e cultura”). Perché proprio i nostri Paesi, forti delle loro cultura politecnica e del gusto per la libertà e lo sviluppo sostenibile, possono mettere insieme, più e meglio di Usa e Cina, competenze e saperi diversi e impostare algoritmi scritti, con capacità multidisciplinare, da ingegneri e filosofi, economisti e cyberscienziati, fisici e giuristi, statistici e sociologhi, anche nel segno di un pensiero critico consapevole non solo degli effetti pratici, ma anche delle implicazioni etiche derivanti dalle nuove frontiere della conoscenza.

L’obiettivo: una Intelligenza Artificiale, anche generativa, che non schiacci la persona umana sotto “il dominio della tecnica” e anzi ne liberi le energie e la fantasia creativa. Un progetto umanistico, appunto. Alla Leonardo.

(immagine Getty Images)

E se ci fosse un’Intelligenza Artificiale europea? Un sistema in grado di fare fronte all’attuale predominio degli Usa e della Cina? Un insieme di algoritmi, codici, reti, servizi, data center e meccanismi nati dalla collaborazione, a Bruxelles, tra Parigi e Berlino, Roma e Madrid, Amsterdam e naturalmente le città degli altri paesi della Ue, magari convincendo anche Londra a mettere finalmente da canto le scelte e i pregiudizi anti europei e fare parte del club?

Potremmo darle un nome carico di valori simbolici, chiamarla “Montaigne” o “Kant”, “Marie Curie” o, perché no?, “Leonardo”, genio universale e trasversale, l’interprete più noto e significativo del Rinascimento, con la sua molteplice cultura politecnica densa di saperi umanistici, senso della bellezza e inclinazione d’avanguardia per le conoscenze scientifiche. E dire così al mondo che l’Uomo Vitruviano e i disegni del “Codice atlantico”, già considerati patrimoni dell’umanità, sono oggi ottimi esempi di un mondo che guarda al futuro, segni dell’Umanesimo che adesso si declina in “Umanesimo digitale”: la persona umana al centro di tutto, le macchine al suo servizio (dando così risposte rassicuranti ai timori di Martin Heidegger e, in Italia, a quelli di Primo Levi e Italo Calvino nelle sue profetiche “Lezioni americane”). E l’intelligenza, anche quella artificiale, rivolta al “fare, fare bene e fare del bene”. Al servizio dei diritti e dei bisogni dei cittadini (a cominciare dalla conoscenza critica, dalla ricerca e dalla buona informazione) e delle esigenze competitive delle imprese europee.

Viviamo in un mondo inquieto, multipolare, segnato da equilibri politici ed economici quanto mai fragili, sottoporti a usure e rotture di ogni tipo, dalle catastrofi ambientali alle pandemie, dalle guerre alle crescenti tensioni sociali. Il vecchio ordine bipolare (l’equilibrio del terrore atomico tra Usa e Urss) è saltato 35 anni fa con il crollo del Muro di Berlino. E un nuovo equilibrio è ben lontano dal mostrarsi all’orizzonte. La globalizzazione dominata dalla finanza rampante e rapace è finita, la neo-globalizzazione “regionale” è in cerca di assetti meno instabili. Il futuro, insomma, è quanto mai incerto.

E oggi, proprio qui, in Europa, sappiamo che il sistema dei valori e degli interessi che ha inspirato il nostro cammino comune (in sintesi, la capacità di tenere insieme la democrazia liberale, il mercato e il welfare e cioè la libertà, il benessere e l’inclusione sociale) rischia seriamente di entrare in crisi.

Usa e Cina si muovono lungo strade conflittuali e divergenti (anche senza rinunciare, comunque, alle possibilità di dialoghi e scambi). Le autocrazie, a cominciare dalla Russia di Putin, mostrano volti minacciosi. E sovranismi e populismi, come termiti infestanti, rischiano di corrodono le fondamenta delle nostre democrazie. Gli squilibri demografici aggravano il quadro.

L’Europa, insomma, gigante economico, ricco mercato con i suoi 450 milioni di abitanti, culla di civiltà, vede davanti a sé un cupo orizzonte.

Nasce da questa consapevolezza l’idea che la Ue deve aprire una nuova pagina della sua storia, definire un nuovo percorso politico e istituzionale (con una governance a maggioranza), decidere di investire massicciamente sul suo futuro. E proprio le questioni della sicurezza e della difesa, oltre che quelli dello sviluppo sostenibile, sono i temi principali. Ben sapendo che difesa e sicurezza significano anche energia, ricerca scientifica, economia digitale e, appunto, Intelligenza Artificiale europea. Tutte questioni fondamentali. Che ci si augura siano al centro dei dibattiti politici nei paesi della Ue, prima del voto del prossimo giugno per rinnovare il Parlamento Europeo e decidere assetti e programmi della futura Commissione Ue.

Questioni, d’altronde, che chiedono massicci investimenti, in grado di fare fronte alle massicce dosi di spesa pubblica e privata Usa e alle strategie finanziarie della Cina.

Da Bruxelles arrivano, proprio in questo scorcio di fine legislatura, indicazioni rassicuranti. Come quelle relative a una “Strategia industriale per la Difesa europea” che sarà discusso alla fine di febbrai e potrà essere finanziato da un Fondo Ue in grado di raccogliere risorse sui mercati (un nuovo fondo, dopo l’esperienza positiva dei fondi “Sure” per l’assistenza sociale ai lavoratori messi in difficoltà dalle conseguenze economiche del Covid e “Next Generation Ue” per le riforme e gli investimenti necessari alla ripresa e alla modernizzazione europea, di cui l’Italia ha avito le risorse maggiori).

“Eurobond e maggiori risorse per spese militari comuni”, dichiara la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, parlando della necessità di “un fondo da 100 miliardi di euro”  (La Stampa, 17 febbraio). “Il debito comune, a cominciare dalla difesa, oggi è possibile”, commenta Francesco Giavazzi, economista attento alle prospettive europee (Corriere della Sera, 18 febbraio). “Un Commissario Ue alla Difesa sarebbe un passo importante per rafforzare l’Europa”, sostiene Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo, impresa italiana strategica anche nel settore militare (Il Foglio, 17 febbraio).

Le minacce di Donald Trump di rompere, se eletto alla Casa Bianca, gli attuali equilibri Nato, lasciando l’Europa indifesa di fronte all’aggressività di Putin, sono state solo l’ultimo campanello d’allarme. E anche se l’ipotesi di una difesa comune trova resistenze dei governi e degli apparati militari nei singoli paesi (in Francia e in Germania, innanzitutto), l’Eurobarometro rivela che i cittadini sono più avanti dei loro politici: il 77% degli europei si dichiarano a favore di una difesa comune e il 66% sostiene che servirebbero più fondi. Una difesa che riguarda anche gli aspetti cyber. E ha bisogno di elaborare efficacemente dati, trovare risposte, organizzare contromisure. Tutte dimensioni in cui l’Intelligenza Artificiale è essenziale.

Analoghe le ragioni che spingono per il Fondo comune Ue per l’energia e le materie prime strategiche. E, appunto, per un Fondo sull’Intelligenza Artificiale.

Risorse, dunque. Strategie politiche e regole. E una vera e propria scelta culturale di fondo, sulle caratteristiche che dovrà avere un’IA europea.

E’ un percorso lungo strada stretta. Gli Usa si muovono in un contesto connotato dalle Big Tech ricche e potenti, sinora dominanti, in un quadro comunque di valori liberali. La Cina usa massicce risorse pubbliche, solido capitale umano tecnologicamente agguerrito, la forza del dirigismo determinato e la disciplina di partito.

E l’Europa? La Ue vanta la prima normativa mondiale di regolazione sistemica dell’Intelligenza Artificiale (ne scrive con competenza Giusella Finocchiaro, esperta giurista, nelle pagine di “Quali regole per l’Intelligenza Artificiale?”, Il Mulino) e i suoi esperti hanno chiara la necessità di un “approccio multilaterale” nei confronti degli altri attori mondiali. Ma, oltre alle regole, serve una vera e propria politica industriale che metta rapidamente le nostre imprese in grado di usare strutture e servizi Ue, senza dipendere troppo dalle Big Tech americane o almeno collaborando in posizioni di parità. Ed è necessaria una strategia che coinvolga, oltre alle imprese, le università, ile istituzioni della ricerca, i data center europei e i grandi centri di calcolo, come per esempio “Leonardo”, il Centro nazionale di supercalcolo del Tecnopolo di Bologna.

Investimenti. Tecnologie. Ma anche cultura e linguaggio, secondo i valori europei (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana, “Riparlare di umanesimo, ricerca e cultura”). Perché proprio i nostri Paesi, forti delle loro cultura politecnica e del gusto per la libertà e lo sviluppo sostenibile, possono mettere insieme, più e meglio di Usa e Cina, competenze e saperi diversi e impostare algoritmi scritti, con capacità multidisciplinare, da ingegneri e filosofi, economisti e cyberscienziati, fisici e giuristi, statistici e sociologhi, anche nel segno di un pensiero critico consapevole non solo degli effetti pratici, ma anche delle implicazioni etiche derivanti dalle nuove frontiere della conoscenza.

L’obiettivo: una Intelligenza Artificiale, anche generativa, che non schiacci la persona umana sotto “il dominio della tecnica” e anzi ne liberi le energie e la fantasia creativa. Un progetto umanistico, appunto. Alla Leonardo.

(immagine Getty Images)

Mimit, in mostra più di 100 brand iconici

Pirelli “sulle strade” della Cina

La storia della presenza di Pirelli in Cina è recente ma non per questo meno appassionante. Senza parlare del fatto che, più in generale, le occasioni di incontro tra la P Lunga e il vasto paese asiatico non risalgono certo agli ultimi decenni, ma hanno oltre un secolo.

Perché, a ben vedere, le strade cinesi sono state percorse da pneumatici Pirelli già nel 1907.  Quando la Itala del principe Scipione Borghese, accompagnato dal suo autista e meccanico Ettore Guizzardi, vince una stupefacente gara tra cinque equipaggi di pionieri dell’automobile: la Pechino-Parigi. A far correre l’auto del principe sulle più impervie strade cinesi e poi di tutto il continente asiatico per arrivare fino alla capitale francese, sono i pneumatici Pirelli. Una corsa entrata nella leggenda e raccontata con maestria letteraria da Luigi Barzini del “Corriere della Sera”, altro membro dell’equipaggio italiano e dunque testimone diretto dell’impresa.

Una decina di anni dopo, Pirelli torna in Cina. Lo testimonia un fascicolo dal titolo “Fiera Campionaria Cina” che contiene una serie di relazioni e comunicazioni, minute e appunti che danno conto della presenza dell’azienda alla Fiera del 1918. L’azienda partecipa alla manifestazione inviando materiali e, come sempre, esplorando un mercato nuovo.

Le relazioni con la Cina continuano nel 1971 quando Alessandro Signorini, Direttore generale delle Industrie Pirelli, prende parte a una “missione economica” organizzata dal Governo: è la prima missione ufficiale italiana a mettere piede in Cina da quando, nel 1949, è stata proclamata la Repubblica Popolare. Le impressioni sull’incontro con il Paese asiatico sono riportate dallo stesso Signorini intervistato da “Fatti e Notizie”.

Dagli anni Duemila, poi, il salto che porta la Pirelli a produrre in Cina. Nel 2005 l’azienda entra infatti nel mercato cinese, in società con imprenditori locali, come produttore di pneumatici all’avanguardia. Nell’arco di 15 anni Pirelli amplia la sua presenza produttiva a tre stabilimenti, a Yanzhou, Jiaozuo e Shenzhou, con oltre 4.500 posti di lavoro e più di 3.700 punti di vendita.  La Cina diventa un mercato estremamente dinamico a livello globale e Pirelli nel 2015 trova proprio in un gruppo cinese, ChemChina poi divenuta Sinochem, uno dei maggiori investitori, affiancato dal fondo cinese Silk Road Fund. Tecnologia italiana  che soprattutto sul fronte dei pneumatici premium, e oggi anche di quelli destinati all’elettrico, trova in Cina un mercato in crescita. Una presenza che non dimentica l’ambiente  e la sostenibilità. Impegno nel recupero dei rifiuti, nell’uso di energia a basse emissioni di carbonio e nella riduzione del prelievo specifico di acqua sono, per esempio, le motivazioni che hanno consentito allo stabilimento Pirelli di Yanzhou di ottenere nel 2023 la certificazione “Classe A” da parte del governo dello stato dello Shandong. Un riconoscimento che arriva dopo quello del 2020 con la nomina a Green Factory.

La storia della presenza di Pirelli in Cina è recente ma non per questo meno appassionante. Senza parlare del fatto che, più in generale, le occasioni di incontro tra la P Lunga e il vasto paese asiatico non risalgono certo agli ultimi decenni, ma hanno oltre un secolo.

Perché, a ben vedere, le strade cinesi sono state percorse da pneumatici Pirelli già nel 1907.  Quando la Itala del principe Scipione Borghese, accompagnato dal suo autista e meccanico Ettore Guizzardi, vince una stupefacente gara tra cinque equipaggi di pionieri dell’automobile: la Pechino-Parigi. A far correre l’auto del principe sulle più impervie strade cinesi e poi di tutto il continente asiatico per arrivare fino alla capitale francese, sono i pneumatici Pirelli. Una corsa entrata nella leggenda e raccontata con maestria letteraria da Luigi Barzini del “Corriere della Sera”, altro membro dell’equipaggio italiano e dunque testimone diretto dell’impresa.

Una decina di anni dopo, Pirelli torna in Cina. Lo testimonia un fascicolo dal titolo “Fiera Campionaria Cina” che contiene una serie di relazioni e comunicazioni, minute e appunti che danno conto della presenza dell’azienda alla Fiera del 1918. L’azienda partecipa alla manifestazione inviando materiali e, come sempre, esplorando un mercato nuovo.

Le relazioni con la Cina continuano nel 1971 quando Alessandro Signorini, Direttore generale delle Industrie Pirelli, prende parte a una “missione economica” organizzata dal Governo: è la prima missione ufficiale italiana a mettere piede in Cina da quando, nel 1949, è stata proclamata la Repubblica Popolare. Le impressioni sull’incontro con il Paese asiatico sono riportate dallo stesso Signorini intervistato da “Fatti e Notizie”.

Dagli anni Duemila, poi, il salto che porta la Pirelli a produrre in Cina. Nel 2005 l’azienda entra infatti nel mercato cinese, in società con imprenditori locali, come produttore di pneumatici all’avanguardia. Nell’arco di 15 anni Pirelli amplia la sua presenza produttiva a tre stabilimenti, a Yanzhou, Jiaozuo e Shenzhou, con oltre 4.500 posti di lavoro e più di 3.700 punti di vendita.  La Cina diventa un mercato estremamente dinamico a livello globale e Pirelli nel 2015 trova proprio in un gruppo cinese, ChemChina poi divenuta Sinochem, uno dei maggiori investitori, affiancato dal fondo cinese Silk Road Fund. Tecnologia italiana  che soprattutto sul fronte dei pneumatici premium, e oggi anche di quelli destinati all’elettrico, trova in Cina un mercato in crescita. Una presenza che non dimentica l’ambiente  e la sostenibilità. Impegno nel recupero dei rifiuti, nell’uso di energia a basse emissioni di carbonio e nella riduzione del prelievo specifico di acqua sono, per esempio, le motivazioni che hanno consentito allo stabilimento Pirelli di Yanzhou di ottenere nel 2023 la certificazione “Classe A” da parte del governo dello stato dello Shandong. Un riconoscimento che arriva dopo quello del 2020 con la nomina a Green Factory.

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Inclusioni d’impresa

Il rapporto su DE&I fotografa un sistema industriale attento alle diversità, anche se molta strada deve essere ancora percorsa

 

Diversity, Equity & Inclusion (DE&I) come altro fronte importante per la crescita di una cultura d’impresa davvero a tutto tondo. Riconoscere e valorizzare le molteplici qualità e caratteristiche che vanno a formare l’identità unica di ciascuna persona sul posto di lavoro – questo è il DE&I – costituisce un ambito d’azione e di impegno per le aziende complesso da affrontare e certamente difficile, ma che deve essere esplorato e percorso fino in fondo. Comprendere “a che punto si è” lungo questo percorso, è cosa importante da fare perché aiuta a capire quanta strada è necessario ancora compiere. E a questo serve il rapporto “Diversity, Equity & Inclusion. Stato dell’arte nelle aziende italiane” che, appunto, ricostruisce l’impegno delle aziende italiane su questo tema.

L’indagine (fornita nella formula open access) è basata sul confronto con i risultati di una ricerca analoga svolta nel 2010; su questa base statistica, lo studio consente poi di rilevare l’evoluzione dell’impegno delle aziende a favore di DE&I nel tempo. L’analisi è stata realizzata Working Group Employee Communication 2022-2024 attivo presso il Centre for Employee Relations and Communication (CERC) e arriva ad una conclusione: a distanza di dieci anni l’approccio delle imprese alla DE&I è cambiato e si è evoluto. Anche se molta strada deve essere ancora percorsa.

Il 56% delle imprese, in ogni caso, adotta per quanto riguarda la DE&I “pratiche coerenti con l’obiettivo dichiarato come prevalente”. Anche se di fronte al tema, non tutte le imprese possono dire di avere un “approccio consolidato” e quindi davvero concreto, ma di essere solo in grado di “aspirare” ad una reale applicazione dei principi di DE&I. Le indicazioni generali vanno poi declinate nel particolare di ogni singolo caso aziendale, anche se indicano un percorso avviato.

Guardando al principale obiettivo visto come indicatore fondamentale del tipo di approccio di DE&I, la ricerca sottolinea la presenza della “valorizzazione della varietà” piuttosto che quello di dieci anni prima: “Rispondere alle aspettative interne”.

È così – come si è già detto – un percorso variegato, tortuoso e complesso quello che porta passo dopo passo le imprese italiane verso il traguardo di una piena realizzazione degli obiettivi DE&I, un percorso che deve essere proseguito e che costituisce non solo una via verso una migliore inclusione della vita d’impresa, ma anche un elemento in più di competitività. Il rapporto riesce in un numero limitato di pagine a fornire il punto di questo cammino.

Diversity, equity & inclusion   stato dell’arte nelle aziende italiane

Silvia Ravazzani Alessandra Mazzei Alfonsa Butera Chiara Fisichella

Franco Angeli open acces, 2023

Il rapporto su DE&I fotografa un sistema industriale attento alle diversità, anche se molta strada deve essere ancora percorsa

 

Diversity, Equity & Inclusion (DE&I) come altro fronte importante per la crescita di una cultura d’impresa davvero a tutto tondo. Riconoscere e valorizzare le molteplici qualità e caratteristiche che vanno a formare l’identità unica di ciascuna persona sul posto di lavoro – questo è il DE&I – costituisce un ambito d’azione e di impegno per le aziende complesso da affrontare e certamente difficile, ma che deve essere esplorato e percorso fino in fondo. Comprendere “a che punto si è” lungo questo percorso, è cosa importante da fare perché aiuta a capire quanta strada è necessario ancora compiere. E a questo serve il rapporto “Diversity, Equity & Inclusion. Stato dell’arte nelle aziende italiane” che, appunto, ricostruisce l’impegno delle aziende italiane su questo tema.

L’indagine (fornita nella formula open access) è basata sul confronto con i risultati di una ricerca analoga svolta nel 2010; su questa base statistica, lo studio consente poi di rilevare l’evoluzione dell’impegno delle aziende a favore di DE&I nel tempo. L’analisi è stata realizzata Working Group Employee Communication 2022-2024 attivo presso il Centre for Employee Relations and Communication (CERC) e arriva ad una conclusione: a distanza di dieci anni l’approccio delle imprese alla DE&I è cambiato e si è evoluto. Anche se molta strada deve essere ancora percorsa.

Il 56% delle imprese, in ogni caso, adotta per quanto riguarda la DE&I “pratiche coerenti con l’obiettivo dichiarato come prevalente”. Anche se di fronte al tema, non tutte le imprese possono dire di avere un “approccio consolidato” e quindi davvero concreto, ma di essere solo in grado di “aspirare” ad una reale applicazione dei principi di DE&I. Le indicazioni generali vanno poi declinate nel particolare di ogni singolo caso aziendale, anche se indicano un percorso avviato.

Guardando al principale obiettivo visto come indicatore fondamentale del tipo di approccio di DE&I, la ricerca sottolinea la presenza della “valorizzazione della varietà” piuttosto che quello di dieci anni prima: “Rispondere alle aspettative interne”.

È così – come si è già detto – un percorso variegato, tortuoso e complesso quello che porta passo dopo passo le imprese italiane verso il traguardo di una piena realizzazione degli obiettivi DE&I, un percorso che deve essere proseguito e che costituisce non solo una via verso una migliore inclusione della vita d’impresa, ma anche un elemento in più di competitività. Il rapporto riesce in un numero limitato di pagine a fornire il punto di questo cammino.

Diversity, equity & inclusion   stato dell’arte nelle aziende italiane

Silvia Ravazzani Alessandra Mazzei Alfonsa Butera Chiara Fisichella

Franco Angeli open acces, 2023

Riparlare di umanesimo, ricerca e cultura, per dare senso critico all’Intelligenza Artificiale  

“Un umanesimo approfondito e rigenerato è necessario se vogliamo anche riumanizzare e rigenerare i nostri paesi, i nostri continenti, il nostro pianeta”, scrive Edgar Morin nelle pagine del suo ultimo libro, “Ancora un momento”, pubblicato da Raffaello Cortina, una raccolta di “testi personali, politici, sociologici, filosofici e letterati” scritti da una delle intelligenze europee più longeve e comunque ancora lucida, spregiudicata e creativa.

“Impiantare l’umanesimo nell’Intelligenza Artificiale”, sostiene il cardinale Gianfranco Ravasi (“la Repubblica”, 9 febbraio), spiegando che “la differenza radicale forse non è nella ragione, che l’Intelligenza Artificiale può avere più sofisticata dell’uomo, ma nell’umanesimo, cioè nella coscienza, nel sentimento, nella passione, nella tenerezza”, seguendo i richiami “antropologici” di Papa Francesco sull’etica e sul senso di responsabilità che devono ispirare anche chi lavora nel mondo della scienza e della tecnologia.

Ecco la parola chiave su cui riflettere, dunque – umanesimo – in tempi in cui gli straordinari e controversi sviluppi dell’Intelligenza Artificiale generativa pongono a tutti noi domande di senso e di prospettiva sui vari campi coinvolti: la scienza e la conoscenza in generale, la politica, l’informazione e la formazione, l’economia e il lavoro, le stesse forme della convivenza civile che nel tempo abbiamo sviluppato. Umanesimo come visione del mondo che ha al centro la persona umana, con il complesso delle relazioni tra libertà e responsabilità, diritti e doveri (il richiamo di Morin va a una rilettura necessaria e a un rilancio della “trinità ‘Libertà, Uguaglianza, Fraternità’ che diventi la nostra norma di vita personale e sociale e non la maschera che copre l’aumento delle servitù, delle disuguaglianze e degli egoismi”).

Umanesimo come incrocio tra senso della bellezza e rigore scientifico. Umanesimo, ancora, come consapevolezza profonda della complessità dell’essere umani, compreso lo sguardo verso l’abisso del “cuore di tenebra” e come coscienza “del cielo stellato sopra di me e della legge morale dentro di me” secondo la lezione sempre attuale di Immanuel Kant.

Morin, che ha la “complessità” come parola chiave del suo lessico filosofico (nota Massimiliano Panerari su “La Stampa”, 10 febbraio) richiama gli scritti di Michel Eyquem de Montaigne e ricorda, appunto, che “nella fondazione della razionalità scettica risiede il suo carattere di padre dell’umanesimo”, insistendo sulla necessità di espandere le capacità di pensiero critico per affrontare le questioni poste da una impetuosa e travolgente modernità, Intelligenza Artificiale compresa.

Il cardinale Ravasi, ragionando sull’annuncio di Elon Musk sull’impianto, da parte di Neuralink, di un microchip nel cervello di un paziente, ricorda che “la tradizione classica distingue tra cervello e mente, mentre ora domina la visione fisicalista che riduce tutto a neuroni e sinapsi e considera il cervello come un computer straordinario” e dunque si chiede: “E l’io, la coscienza, la libertà, l’estetica, la volontà, l’anima?”.

La risposta può essere trovata anche nelle parole di un uomo di tecnologia e d’impresa come Steve Jobs, citato da Ravasi per ricordarne l’attenzione alla “necessità di un connubio tra la scienza e l’umanesimo”, secondo la lezione del suo modello, Leonardo da Vinci, “perché – diceva Jobs – solo attraverso questo connubio siamo in grado di fare uscire un canto dal cuore”. Commenta Ravasi: “Al di là dell’immagine un po’ nazional-popolare, Jobs dice una cosa vera: la tecnica procede in modo binario, vedi il caso Oppenheimer, ma è necessario che ci sia l’umanità. L’umanesimo”.

Dalle grandi riflessioni alla cronaca delle iniziative imprenditoriali: ArtGlass, del gruppo Capitale Cultura, una sede a Monza e un’altra negli Usa, prodotti high tech nel mondo della realtà aumentata, racconta di essere alla ricerca di laureati in materie umanistiche (artisti, storici, archeologi), da fare lavorare con ingegneri e sofisticati tecnologi per creare “esperienze interattive” nei settori del turismo e della conoscenza (“Corriere della Sera”, 11 febbraio): “Partendo da una nostra piattaforma tecnologica basata su cinque brevetti – spiega Antonio Scuderi, uno dei fondatori di ArtGlass – abbiamo creato un linguaggio che valorizza la cultura attraverso lo strumento della tecnologia”. Cultura politecnica, potremmo aggiungere, come sintesi originale tra conoscenze scientifiche e saperi umanistici. Scrittura multidisciplinare degli algoritmi.

Proprio perché l’Intelligenza Artificiale sta radicalmente cambiando conoscenza e lavoro, meccanismi di socialità, strumenti per l’orientamento politico e sociale, è indispensabile chiedersi come e perché tutto questo sta già succedendo, come provare a governare i processi, come utilizzarne bene i vantaggi e reagire alle conseguenze che non ci piacciono, alle “esternatità negative”.

È una questione che chiama in causa l’etica, il sistema di valori, i giudizi di fondo secondo cui indirizzare gli strumenti che abbiamo a disposizione. Ha senso profondo, adesso, che il presidente della Commissione italiana per l’Intelligenza Artificiale per l’informazione sia un teologo di grande sapienza, come padre Benanti, esperto di tecnologie, l’unico membro italiano del Comitato sull’AI delle Nazioni Unite e consigliere di Papa Francesco sui temi dell’etica delle tecnologie. Così come ha un particolare valore che eccellenti giuristi come Giusella Finocchiaro, professoressa all’università di Bologna e fondatrice e partner di DigitalMediaLaws (una boutique legale specializzata in diritto delle nuove tecnologie), nelle pagine di “Intelligenza artificiale. Quali regole?” per la casa editrice Il Mulino, ragioni sulle norme nazionali e Ue che cercano di governare fenomeni di complessa regolazione internazionale.

Etica, cultura critica, diritto, sono in primo piano, cercando una strada, impervia per quanto sia, che consenta alla scienza, alla ricerca tecnologica e all’attività di impresa di andare avanti in modo competitivo rispetto ad altre aree del mondo più disinvolte, senza dimenticare la sfera dei diritti e degli interessi dei ceti sociali e delle persone più in difficoltà o comunque più svantaggiate dalle evoluzioni di tecnologie e mercati.

Ecco perché è indispensabile ragionare a fondo di umanesimo. Di libertà e responsabilità. Di sviluppo. Di qualità della vita e dunque di libertà critica di pensiero. Nel segno di Galileo, umanista scienziato. O, appunto, alla Steve Jobs, di Leonardo. E della sua intelligenza del cuore. Un’intelligenza tutt’altro che artificiale. Semmai, profondamente umana.

(Foto Getty Images)

“Un umanesimo approfondito e rigenerato è necessario se vogliamo anche riumanizzare e rigenerare i nostri paesi, i nostri continenti, il nostro pianeta”, scrive Edgar Morin nelle pagine del suo ultimo libro, “Ancora un momento”, pubblicato da Raffaello Cortina, una raccolta di “testi personali, politici, sociologici, filosofici e letterati” scritti da una delle intelligenze europee più longeve e comunque ancora lucida, spregiudicata e creativa.

“Impiantare l’umanesimo nell’Intelligenza Artificiale”, sostiene il cardinale Gianfranco Ravasi (“la Repubblica”, 9 febbraio), spiegando che “la differenza radicale forse non è nella ragione, che l’Intelligenza Artificiale può avere più sofisticata dell’uomo, ma nell’umanesimo, cioè nella coscienza, nel sentimento, nella passione, nella tenerezza”, seguendo i richiami “antropologici” di Papa Francesco sull’etica e sul senso di responsabilità che devono ispirare anche chi lavora nel mondo della scienza e della tecnologia.

Ecco la parola chiave su cui riflettere, dunque – umanesimo – in tempi in cui gli straordinari e controversi sviluppi dell’Intelligenza Artificiale generativa pongono a tutti noi domande di senso e di prospettiva sui vari campi coinvolti: la scienza e la conoscenza in generale, la politica, l’informazione e la formazione, l’economia e il lavoro, le stesse forme della convivenza civile che nel tempo abbiamo sviluppato. Umanesimo come visione del mondo che ha al centro la persona umana, con il complesso delle relazioni tra libertà e responsabilità, diritti e doveri (il richiamo di Morin va a una rilettura necessaria e a un rilancio della “trinità ‘Libertà, Uguaglianza, Fraternità’ che diventi la nostra norma di vita personale e sociale e non la maschera che copre l’aumento delle servitù, delle disuguaglianze e degli egoismi”).

Umanesimo come incrocio tra senso della bellezza e rigore scientifico. Umanesimo, ancora, come consapevolezza profonda della complessità dell’essere umani, compreso lo sguardo verso l’abisso del “cuore di tenebra” e come coscienza “del cielo stellato sopra di me e della legge morale dentro di me” secondo la lezione sempre attuale di Immanuel Kant.

Morin, che ha la “complessità” come parola chiave del suo lessico filosofico (nota Massimiliano Panerari su “La Stampa”, 10 febbraio) richiama gli scritti di Michel Eyquem de Montaigne e ricorda, appunto, che “nella fondazione della razionalità scettica risiede il suo carattere di padre dell’umanesimo”, insistendo sulla necessità di espandere le capacità di pensiero critico per affrontare le questioni poste da una impetuosa e travolgente modernità, Intelligenza Artificiale compresa.

Il cardinale Ravasi, ragionando sull’annuncio di Elon Musk sull’impianto, da parte di Neuralink, di un microchip nel cervello di un paziente, ricorda che “la tradizione classica distingue tra cervello e mente, mentre ora domina la visione fisicalista che riduce tutto a neuroni e sinapsi e considera il cervello come un computer straordinario” e dunque si chiede: “E l’io, la coscienza, la libertà, l’estetica, la volontà, l’anima?”.

La risposta può essere trovata anche nelle parole di un uomo di tecnologia e d’impresa come Steve Jobs, citato da Ravasi per ricordarne l’attenzione alla “necessità di un connubio tra la scienza e l’umanesimo”, secondo la lezione del suo modello, Leonardo da Vinci, “perché – diceva Jobs – solo attraverso questo connubio siamo in grado di fare uscire un canto dal cuore”. Commenta Ravasi: “Al di là dell’immagine un po’ nazional-popolare, Jobs dice una cosa vera: la tecnica procede in modo binario, vedi il caso Oppenheimer, ma è necessario che ci sia l’umanità. L’umanesimo”.

Dalle grandi riflessioni alla cronaca delle iniziative imprenditoriali: ArtGlass, del gruppo Capitale Cultura, una sede a Monza e un’altra negli Usa, prodotti high tech nel mondo della realtà aumentata, racconta di essere alla ricerca di laureati in materie umanistiche (artisti, storici, archeologi), da fare lavorare con ingegneri e sofisticati tecnologi per creare “esperienze interattive” nei settori del turismo e della conoscenza (“Corriere della Sera”, 11 febbraio): “Partendo da una nostra piattaforma tecnologica basata su cinque brevetti – spiega Antonio Scuderi, uno dei fondatori di ArtGlass – abbiamo creato un linguaggio che valorizza la cultura attraverso lo strumento della tecnologia”. Cultura politecnica, potremmo aggiungere, come sintesi originale tra conoscenze scientifiche e saperi umanistici. Scrittura multidisciplinare degli algoritmi.

Proprio perché l’Intelligenza Artificiale sta radicalmente cambiando conoscenza e lavoro, meccanismi di socialità, strumenti per l’orientamento politico e sociale, è indispensabile chiedersi come e perché tutto questo sta già succedendo, come provare a governare i processi, come utilizzarne bene i vantaggi e reagire alle conseguenze che non ci piacciono, alle “esternatità negative”.

È una questione che chiama in causa l’etica, il sistema di valori, i giudizi di fondo secondo cui indirizzare gli strumenti che abbiamo a disposizione. Ha senso profondo, adesso, che il presidente della Commissione italiana per l’Intelligenza Artificiale per l’informazione sia un teologo di grande sapienza, come padre Benanti, esperto di tecnologie, l’unico membro italiano del Comitato sull’AI delle Nazioni Unite e consigliere di Papa Francesco sui temi dell’etica delle tecnologie. Così come ha un particolare valore che eccellenti giuristi come Giusella Finocchiaro, professoressa all’università di Bologna e fondatrice e partner di DigitalMediaLaws (una boutique legale specializzata in diritto delle nuove tecnologie), nelle pagine di “Intelligenza artificiale. Quali regole?” per la casa editrice Il Mulino, ragioni sulle norme nazionali e Ue che cercano di governare fenomeni di complessa regolazione internazionale.

Etica, cultura critica, diritto, sono in primo piano, cercando una strada, impervia per quanto sia, che consenta alla scienza, alla ricerca tecnologica e all’attività di impresa di andare avanti in modo competitivo rispetto ad altre aree del mondo più disinvolte, senza dimenticare la sfera dei diritti e degli interessi dei ceti sociali e delle persone più in difficoltà o comunque più svantaggiate dalle evoluzioni di tecnologie e mercati.

Ecco perché è indispensabile ragionare a fondo di umanesimo. Di libertà e responsabilità. Di sviluppo. Di qualità della vita e dunque di libertà critica di pensiero. Nel segno di Galileo, umanista scienziato. O, appunto, alla Steve Jobs, di Leonardo. E della sua intelligenza del cuore. Un’intelligenza tutt’altro che artificiale. Semmai, profondamente umana.

(Foto Getty Images)

Sbagliando si impara, davvero

La capacità di apprendere dagli errori come risorsa fondamentale per il buon manager

 

Imparare a sbagliare. E imparare ad apprendere dall’errore. Compiti fondamentali per tutti. Anche, e soprattutto, per chi ha responsabilità. Obiettivo il cui raggiungimento aiuta la costruzione di una cultura d’impresa davvero completa, che evolve, cresce, si sviluppa. Imparare a sbagliare, tuttavia, non è facile. Leggere “Gli errori del manager. Come evitarli e costruire una leadership consapevole” scritto da Andrea Lipparini, Massimo Franceschetti e Massimiliano Ghini (docenti a vario titolo nell’ambito dei temi relativi alle risorse umane)  è un buon inizio per capire come fare per “sbagliare bene” e imparare meglio.

Lipparini, Franceschetti e Ghini partono da una considerazione: ciò che fa grande un manager non è l’infallibilità, ma l’atteggiamento nei confronti degli errori commessi. Al contrario di chi tende a evitarli o minimizzarli, vedendone solo gli aspetti negativi, il manager di successo è determinato nel comprendere e valorizzare l’errore come tappa cruciale dell’apprendimento e della crescita.

Nel libro gli autori guidano così chi legge a considerare l’errore come un’opportunità per stimolare l’innovazione, consolidare i processi di cambiamento, sviluppare una condizione di sicurezza psicologica e perfezionare le doti di leadership.

La narrazione inizia dalle basi: dalla definizione di errore, definizione in positivo a patto che il valore dell’errore venga compreso. Sbagliare, quindi, può essere un’opportunità per apprendere, cambiare, essere psicologicamente più sicuri, esercitarsi ad essere punti di riferimento. Stabilite le definizioni, gli autori passano ad approfondire cosa accade quando i manager “non vedono”, “non sentono” e “non parlano”; cioè quando chi deve governare o dirigere si chiude e non vede l’errore nei suoi comportamenti oppure nelle sue decisioni. Di ogni aspetto, vengono descritte cause, conseguenze e correzioni dei difetti di percezione oppure di comportamento. Non solo teoria, ma anche numerosi casi concreti e suggerimenti pratici aiutano a riflettere e intervenire sulle principali cause dei propri errori, in particolare: il deficit percettivo, che ostacola la pronta e accurata comprensione delle diverse situazioni; il deficit emotivo, che induce a sottovalutare o negare le proprie e altrui emozioni; il deficit comunicativo, correlato alla mancanza di chiarezza, rispetto e critica costruttiva nelle relazioni interpersonali. Nella parte conclusiva, vengono evidenziati i benefici di uno stato mentale consapevole che, focalizzando l’attenzione sugli eventi e sulle persone, prepara il manager alla leadership.

Il libro è di quelli da tenere sul tavolo di lavoro, magari con qualche segno nelle pagine che rispecchiano di più gli errori più frequenti di chi legge. Ed è bella la citazione di Karl Popper all’inizio del primo capitolo: “Nessuno può evitare di fare errori; la cosa più grande è imparare da essi”.

Gli errori del manager. Come evitarli e costruire una leadership consapevole

Andrea Lipparini, Massimo Franceschetti, Massimiliano Ghini

il Mulino, 2024

La capacità di apprendere dagli errori come risorsa fondamentale per il buon manager

 

Imparare a sbagliare. E imparare ad apprendere dall’errore. Compiti fondamentali per tutti. Anche, e soprattutto, per chi ha responsabilità. Obiettivo il cui raggiungimento aiuta la costruzione di una cultura d’impresa davvero completa, che evolve, cresce, si sviluppa. Imparare a sbagliare, tuttavia, non è facile. Leggere “Gli errori del manager. Come evitarli e costruire una leadership consapevole” scritto da Andrea Lipparini, Massimo Franceschetti e Massimiliano Ghini (docenti a vario titolo nell’ambito dei temi relativi alle risorse umane)  è un buon inizio per capire come fare per “sbagliare bene” e imparare meglio.

Lipparini, Franceschetti e Ghini partono da una considerazione: ciò che fa grande un manager non è l’infallibilità, ma l’atteggiamento nei confronti degli errori commessi. Al contrario di chi tende a evitarli o minimizzarli, vedendone solo gli aspetti negativi, il manager di successo è determinato nel comprendere e valorizzare l’errore come tappa cruciale dell’apprendimento e della crescita.

Nel libro gli autori guidano così chi legge a considerare l’errore come un’opportunità per stimolare l’innovazione, consolidare i processi di cambiamento, sviluppare una condizione di sicurezza psicologica e perfezionare le doti di leadership.

La narrazione inizia dalle basi: dalla definizione di errore, definizione in positivo a patto che il valore dell’errore venga compreso. Sbagliare, quindi, può essere un’opportunità per apprendere, cambiare, essere psicologicamente più sicuri, esercitarsi ad essere punti di riferimento. Stabilite le definizioni, gli autori passano ad approfondire cosa accade quando i manager “non vedono”, “non sentono” e “non parlano”; cioè quando chi deve governare o dirigere si chiude e non vede l’errore nei suoi comportamenti oppure nelle sue decisioni. Di ogni aspetto, vengono descritte cause, conseguenze e correzioni dei difetti di percezione oppure di comportamento. Non solo teoria, ma anche numerosi casi concreti e suggerimenti pratici aiutano a riflettere e intervenire sulle principali cause dei propri errori, in particolare: il deficit percettivo, che ostacola la pronta e accurata comprensione delle diverse situazioni; il deficit emotivo, che induce a sottovalutare o negare le proprie e altrui emozioni; il deficit comunicativo, correlato alla mancanza di chiarezza, rispetto e critica costruttiva nelle relazioni interpersonali. Nella parte conclusiva, vengono evidenziati i benefici di uno stato mentale consapevole che, focalizzando l’attenzione sugli eventi e sulle persone, prepara il manager alla leadership.

Il libro è di quelli da tenere sul tavolo di lavoro, magari con qualche segno nelle pagine che rispecchiano di più gli errori più frequenti di chi legge. Ed è bella la citazione di Karl Popper all’inizio del primo capitolo: “Nessuno può evitare di fare errori; la cosa più grande è imparare da essi”.

Gli errori del manager. Come evitarli e costruire una leadership consapevole

Andrea Lipparini, Massimo Franceschetti, Massimiliano Ghini

il Mulino, 2024

Campiello Junior – 3^ edizione: i libri finalisti raccontati dai loro autori

Sono già trascorsi tre anni da quando la Fondazione Il Campiello e la Fondazione Pirelli hanno ideato il Campiello Junior, riconoscimento letterario per opere italiane di narrativa e poesia scritte per ragazzi e ragazze, con l’obiettivo di incentivare la lettura e contribuire alla diffusione del libro tra i giovanissimi.

Anche quest’anno si avvicina il momento in cui la giuria dei giovani lettori, composta da 240 ragazzi, dovrà votare per scegliere i vincitori delle due categorie del premio: 7-10 e 11-14 anni.

Per conoscere i sei finalisti, che sono stati scelti il 10 novembre 2023 dalla Giuria dei Selezione, presieduta da Pino Boero, Fondazione Pirelli ha realizzato sei video interviste che potrete trovare a partire da oggi su questa pagina e sul canale YouTube del Premio Campiello:

13 febbraio: Angelo Petrosino, Un bambino, una gatta e un cane, Einaudi Ragazzi (Terna 7-10 anni)
20 febbraio: Alice Keller, Fuori è quasi buio, Risma (Terna 11-14 anni)
27 febbraio: Elisa Ruotolo, Il lungo inverno di Ugo Singer, Bompiani (Terna 7-10 anni)
5 marzo: Andrea Molesini, Storia del pirata col mal di denti e del drago senza fuoco, HarperCollins (Terna 11-14 anni)
12 marzo: Fabrizio Silei, Il grande discorso di Cocco Tartaglia, Emme Edizioni (Terna 7-10 anni)
19 marzo: Daniela Palumbo, La notte più bella, Il Battello a Vapore (Terna 11-14 anni)

La Cerimonia di proclamazione dei vincitori si svolgerà martedì 26 marzo 2024 alle ore 11.00 presso il Teatro Comunale di Vicenza – Sala del Ridotto e sarà presentata dalla giornalista Valentina De Poli con la partecipazione di Davide Stefanato. Interverranno Mariacristina Gribaudi, Presidente del comitato di gestione del Premio Campiello e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

L’evento è aperto a tutti i giovani appassionati di lettura e anche alle loro classi primarie e secondarie di secondo grado. L’ingresso è libero fino a esaurimento posti con prenotazione obbligatoria al seguente link.

Per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior potete trovare maggiori informazioni sui siti: www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Sono già trascorsi tre anni da quando la Fondazione Il Campiello e la Fondazione Pirelli hanno ideato il Campiello Junior, riconoscimento letterario per opere italiane di narrativa e poesia scritte per ragazzi e ragazze, con l’obiettivo di incentivare la lettura e contribuire alla diffusione del libro tra i giovanissimi.

Anche quest’anno si avvicina il momento in cui la giuria dei giovani lettori, composta da 240 ragazzi, dovrà votare per scegliere i vincitori delle due categorie del premio: 7-10 e 11-14 anni.

Per conoscere i sei finalisti, che sono stati scelti il 10 novembre 2023 dalla Giuria dei Selezione, presieduta da Pino Boero, Fondazione Pirelli ha realizzato sei video interviste che potrete trovare a partire da oggi su questa pagina e sul canale YouTube del Premio Campiello:

13 febbraio: Angelo Petrosino, Un bambino, una gatta e un cane, Einaudi Ragazzi (Terna 7-10 anni)
20 febbraio: Alice Keller, Fuori è quasi buio, Risma (Terna 11-14 anni)
27 febbraio: Elisa Ruotolo, Il lungo inverno di Ugo Singer, Bompiani (Terna 7-10 anni)
5 marzo: Andrea Molesini, Storia del pirata col mal di denti e del drago senza fuoco, HarperCollins (Terna 11-14 anni)
12 marzo: Fabrizio Silei, Il grande discorso di Cocco Tartaglia, Emme Edizioni (Terna 7-10 anni)
19 marzo: Daniela Palumbo, La notte più bella, Il Battello a Vapore (Terna 11-14 anni)

La Cerimonia di proclamazione dei vincitori si svolgerà martedì 26 marzo 2024 alle ore 11.00 presso il Teatro Comunale di Vicenza – Sala del Ridotto e sarà presentata dalla giornalista Valentina De Poli con la partecipazione di Davide Stefanato. Interverranno Mariacristina Gribaudi, Presidente del comitato di gestione del Premio Campiello e Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli.

L’evento è aperto a tutti i giovani appassionati di lettura e anche alle loro classi primarie e secondarie di secondo grado. L’ingresso è libero fino a esaurimento posti con prenotazione obbligatoria al seguente link.

Per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior potete trovare maggiori informazioni sui siti: www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

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“Identitalia”: Pirelli tra le icone del Made in Italy

In occasione dei 140 anni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, si è inaugurata presso Palazzo Piacentini a Roma “Identitalia – The Iconic Italian brands”, l’esposizione dedicata ai grandi marchi che hanno fatto la storia del nostro Paese. Organizzata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy nell’ambito di una rinnovata politica di sostegno e promozione dell’industria e delle eccellenze italiane, la mostra, che sarà aperta al pubblico fino al 6 aprile 2024, ha la finalità di valorizzare il ricco patrimonio di storie imprenditoriali di successo, prodotti innovativi, designer e grafici d’avanguardia e marchi iconici del Belpaese. Il progetto espositivo si configura come un ideale cammino attraverso le fasi della giornata – risveglio, mattina, pomeriggio, sera e notte – tra riti e ritualità del nostro vivere quotidiano, indagando le celebri “4A” del Made in Italy: Arredamento, Abbigliamento e cura, Agro-alimentare e Automotive.

Simbolo impresso nell’immaginario collettivo e marchio globale dalle forti radici italiane, Pirelli è stata chiamata a contribuire all’iniziativa con un’accurata selezione di documenti, oggetti, fotografie e materiali audiovisivi che ripercorrono la storia e l’attualità dell’impresa. Si delineano innanzitutto le trasformazioni dell’iconica “P lunga”, sinonimo di identità e longevità del Gruppo, dalle prime versioni del logo di fine Ottocento fino all’attuale disegno di Salvatore Gregoretti e ai riferimenti cromatici di Pierluigi Cerri.

L’impegno dell’azienda nel mondo delle corse è poi raccontato attraverso una fotografia del raid Pechino-Parigi del 1907: la vittoria della “Itala” di Scipione Borghese gommata Pirelli sancisce il suo prestigio a livello mondiale nel settore pneumatici, proiettandola in una lunga storia di successi sportivi.
Si ripercorre inoltre l’evoluzione della comunicazione visiva del brand partendo dal bozzetto di Renzo Bassi del 1931 per il pneumatico Superflex Stella Bianca – nel quale emergono i nuovi canoni stilistici dei cartellonisti influenzati dal manifesto futurista dell’arte pubblicitaria – passando dall’immagine dei pneumatici Pirelli per bicicletta di Lora Lamm, un ritratto della ragazza moderna della fine degli anni Cinquanta dai colori vivaci e dal tratto veloce, giungendo fino alla fotografia del 1994 di Annie Leibovitz che ritrae Carl Lewis in tacchi a spillo accompagnato dall’headline “Power is Nothing without Control”, pietra miliare della pubblicità internazionale.
Tra gli oggetti esposti in mostra anche l’iconico Calendario Pirelli: l’edizione del 2007, realizzata dal duo olandese di fotografi di moda Inez van Lamsweerde e Vinoodh Matadin, dedica la copertina a Sophia Loren, intramontabile diva del cinema italiano, in uno scatto in bianco e nero, essenziale e quasi intimo.

L’inclusione di Pirelli alla mostra “Identitalia” sancisce l’impegno di un’azienda – fondata 152 anni fa ma continuamente proiettata nel futuro – che ha fatto e continua a fare la storia del Made in Italy nel mondo.

In occasione dei 140 anni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, si è inaugurata presso Palazzo Piacentini a Roma “Identitalia – The Iconic Italian brands”, l’esposizione dedicata ai grandi marchi che hanno fatto la storia del nostro Paese. Organizzata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy nell’ambito di una rinnovata politica di sostegno e promozione dell’industria e delle eccellenze italiane, la mostra, che sarà aperta al pubblico fino al 6 aprile 2024, ha la finalità di valorizzare il ricco patrimonio di storie imprenditoriali di successo, prodotti innovativi, designer e grafici d’avanguardia e marchi iconici del Belpaese. Il progetto espositivo si configura come un ideale cammino attraverso le fasi della giornata – risveglio, mattina, pomeriggio, sera e notte – tra riti e ritualità del nostro vivere quotidiano, indagando le celebri “4A” del Made in Italy: Arredamento, Abbigliamento e cura, Agro-alimentare e Automotive.

Simbolo impresso nell’immaginario collettivo e marchio globale dalle forti radici italiane, Pirelli è stata chiamata a contribuire all’iniziativa con un’accurata selezione di documenti, oggetti, fotografie e materiali audiovisivi che ripercorrono la storia e l’attualità dell’impresa. Si delineano innanzitutto le trasformazioni dell’iconica “P lunga”, sinonimo di identità e longevità del Gruppo, dalle prime versioni del logo di fine Ottocento fino all’attuale disegno di Salvatore Gregoretti e ai riferimenti cromatici di Pierluigi Cerri.

L’impegno dell’azienda nel mondo delle corse è poi raccontato attraverso una fotografia del raid Pechino-Parigi del 1907: la vittoria della “Itala” di Scipione Borghese gommata Pirelli sancisce il suo prestigio a livello mondiale nel settore pneumatici, proiettandola in una lunga storia di successi sportivi.
Si ripercorre inoltre l’evoluzione della comunicazione visiva del brand partendo dal bozzetto di Renzo Bassi del 1931 per il pneumatico Superflex Stella Bianca – nel quale emergono i nuovi canoni stilistici dei cartellonisti influenzati dal manifesto futurista dell’arte pubblicitaria – passando dall’immagine dei pneumatici Pirelli per bicicletta di Lora Lamm, un ritratto della ragazza moderna della fine degli anni Cinquanta dai colori vivaci e dal tratto veloce, giungendo fino alla fotografia del 1994 di Annie Leibovitz che ritrae Carl Lewis in tacchi a spillo accompagnato dall’headline “Power is Nothing without Control”, pietra miliare della pubblicità internazionale.
Tra gli oggetti esposti in mostra anche l’iconico Calendario Pirelli: l’edizione del 2007, realizzata dal duo olandese di fotografi di moda Inez van Lamsweerde e Vinoodh Matadin, dedica la copertina a Sophia Loren, intramontabile diva del cinema italiano, in uno scatto in bianco e nero, essenziale e quasi intimo.

L’inclusione di Pirelli alla mostra “Identitalia” sancisce l’impegno di un’azienda – fondata 152 anni fa ma continuamente proiettata nel futuro – che ha fatto e continua a fare la storia del Made in Italy nel mondo.

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Più ambiente e più competitività

Una tesi di laurea discussa recentemente a Padova mette a fuoco i vantaggi di cui le imprese B-Corp godono

 

Imprese non avulse dal contesto sociale e ambientale in cui operano, ma totalmente impegnate anche nel rispetto e nel miglioramento dell’ecosistema in cui sono. Indicazione ormai non solo acquisita ma, spesso, resa obbligatoria. Comprendere a fondo cosa tutto questo significhi, è imperativo importante, che Edoardo Sbrogiò, con la sua tesi discussa presso l’Università di Padova, cerca di affrontare.

La ricerca – Employer branding e B-Corp – è condotta prima con una instantanea teorica sul tema e, poi, con due casi studiosi aziendali. Sbrogiò sottolinea, all’inizio, come le aziende non possano più permettersi di ignorare il loro impatto sull’ambiente e sulla società e, come accennato prima, come diventi d’obbligo includere la sostenibilità tra gli obiettivi d’impresa. Da questo assunto prende le mosse la ricerca con una messa fuoco del panorama delle B Corp di cui viene analizzata la storia, l’evoluzione della certificazione e i passaggi che ne portano al conseguimento. Successivamente viene affrontato il tema dei vantaggi e delle criticità che derivano dallo status di Benefit Corporation. Il secondo passaggio è invece dedicato al Employer Branding, presentata come disciplina chiave nel vasto mondo del marketing e incentrata sull’attrazione e la ritenzione dei talenti in azienda. Anche qui, prima di tutto viene presentata la struttura teorica del tema con l’obiettivo di comprendere – spiega Sbrogiò – le dinamiche proprie di un processo fondamentale per una società, ovvero la costruzione di una reputazione che renda il marchio aziendale attraente agli occhi dei dipendenti e, più generalmente, degli stakeholders. L’indagine quindi si spinge fino agli ultimi confini del tema e quindi all’uso dell’intelligenza artificiale e delle “tecnologie 4.0”. Si passa così all’ultimo parte della ricerca e cioè alla discussione di due casi aziendali: Patagonia e Perlage. Si tratta di due imprese certificate B Corp di cui sono discussi la missione aziendale e il profilo sul mercato del lavoro. L’attenzione qui è focalizzata sul ruolo che la certificazione B Corp assume nel processo di promozione dell’immagine aziendale, a seconda dei diversi contesti nei quali le due aziende operano.

Una delle conclusioni di Edoardo Sbrogiò mette a fuoco l’importanza dei collegamenti tra attenzione all’ambiente e alle persone e corretta loro comunicazione con l’obiettivo di valorizzare l’immagine dell’impresa e acquisire nuovi spazi di mercato. L’indagine di Sbrogiò non aggiunge elementi nuovi alla teoria, ma ha il merito di porre due esempi calzanti che la illustrano con chiarezza e precisione.

 

Employer branding e B-Corp

Edoardo Sbrogiò

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche e aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia, 2023

Una tesi di laurea discussa recentemente a Padova mette a fuoco i vantaggi di cui le imprese B-Corp godono

 

Imprese non avulse dal contesto sociale e ambientale in cui operano, ma totalmente impegnate anche nel rispetto e nel miglioramento dell’ecosistema in cui sono. Indicazione ormai non solo acquisita ma, spesso, resa obbligatoria. Comprendere a fondo cosa tutto questo significhi, è imperativo importante, che Edoardo Sbrogiò, con la sua tesi discussa presso l’Università di Padova, cerca di affrontare.

La ricerca – Employer branding e B-Corp – è condotta prima con una instantanea teorica sul tema e, poi, con due casi studiosi aziendali. Sbrogiò sottolinea, all’inizio, come le aziende non possano più permettersi di ignorare il loro impatto sull’ambiente e sulla società e, come accennato prima, come diventi d’obbligo includere la sostenibilità tra gli obiettivi d’impresa. Da questo assunto prende le mosse la ricerca con una messa fuoco del panorama delle B Corp di cui viene analizzata la storia, l’evoluzione della certificazione e i passaggi che ne portano al conseguimento. Successivamente viene affrontato il tema dei vantaggi e delle criticità che derivano dallo status di Benefit Corporation. Il secondo passaggio è invece dedicato al Employer Branding, presentata come disciplina chiave nel vasto mondo del marketing e incentrata sull’attrazione e la ritenzione dei talenti in azienda. Anche qui, prima di tutto viene presentata la struttura teorica del tema con l’obiettivo di comprendere – spiega Sbrogiò – le dinamiche proprie di un processo fondamentale per una società, ovvero la costruzione di una reputazione che renda il marchio aziendale attraente agli occhi dei dipendenti e, più generalmente, degli stakeholders. L’indagine quindi si spinge fino agli ultimi confini del tema e quindi all’uso dell’intelligenza artificiale e delle “tecnologie 4.0”. Si passa così all’ultimo parte della ricerca e cioè alla discussione di due casi aziendali: Patagonia e Perlage. Si tratta di due imprese certificate B Corp di cui sono discussi la missione aziendale e il profilo sul mercato del lavoro. L’attenzione qui è focalizzata sul ruolo che la certificazione B Corp assume nel processo di promozione dell’immagine aziendale, a seconda dei diversi contesti nei quali le due aziende operano.

Una delle conclusioni di Edoardo Sbrogiò mette a fuoco l’importanza dei collegamenti tra attenzione all’ambiente e alle persone e corretta loro comunicazione con l’obiettivo di valorizzare l’immagine dell’impresa e acquisire nuovi spazi di mercato. L’indagine di Sbrogiò non aggiunge elementi nuovi alla teoria, ma ha il merito di porre due esempi calzanti che la illustrano con chiarezza e precisione.

 

Employer branding e B-Corp

Edoardo Sbrogiò

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche e aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia, 2023

Umiltà competitiva

La nuova edizione di un libro ripropone il tema dell’ascolto come strumento per imparare e far crescere la priorità cultura (anche d’impresa)

 

Ascoltare e non parlare. Ascoltare per imparare. Essere umili. E quindi crescere. Atteggiamento importante, quello dell’ascolto. Anche per chi è “al comando”. Anche, quindi, per imprenditori e manager che vogliano per davvero essere tali. Atteggiamento, tuttavia, che non sempre viene naturale assumere e che, anzi, spesso, è più facile dimenticare che ricordare. Questione di cultura (pure d’impresa). E’ da tutto questo che deriva l’importanza di leggere l’edizione aggiornata di “L’arte di far domande. Quando ascoltare è meglio che parlare”, scritto a quattro mani da Edgar H. Schein e Peter A. Schein e appena pubblicato in Italia.

Dal punto di vista dell’impresa e del suo mondo, ma anche dell’economia e del vivere civile, l’assunto da cui partire è semplice: può essere difficile per un capo riconoscere la propria dipendenza dai collaboratori e dai colleghi, comprendere che non deve solo saper orientare, dare direttive ed esprimere valori, ma anche capire quando è il momento di domandare e di mettersi in ascolto con umiltà. E non solo. Perché ci si può spingere anche ad affermare che la capacità di ascolto potrebbe essere la cosa più importante da imparare: solo così si accresce la propria conoscenza e si creano rapporti solidi e di valore, si acquisiscono elementi per far sviluppare correttamente la propria attività, si è “capi a tutto tondo”.

Il libro degli Schein è una guida all’ascolto che parte dal concetto di umiltà e lo fa cardine di una capacità di gestione potente. Ed è proprio attorno all’umiltà che si sviluppa buona parte del libro che inizia dalla risposta alla domanda su cosa sia per davvero “l’umile ricerca di informazioni” e continua ragionando sulla distinzione tra “affermare recisamente” e “indagare umilmente” per passare poi ad approfondire la dinamica di una conversazione e quindi a cercare di capire come fare a sviluppare l’atteggiamento dell’ascolto negli ambiti di lavoro e non solo. Il libro degli Schein, poi, accanto alla teoria pone una serie di casi pratici e di veri “esercizi” d’ascolto che costituiscono parte integrante dell’insegnamento.

Libro da leggere con attenzione quello di Edgar Schein e Peter Schein. Libro che può cambiare arricchendola la cultura dell’impresa che vuole davvero essere funzionale allo sviluppo. Umiltà come leva di competitività, dunque. Bello, a questo proposito, uno dei primi passaggi del libro: “I nostri stereotipi culturali continuano a spingerci nella direzione sbagliata, facendoci credere di conoscere la risposta e pensare che sia appropriato ‘venderla’ come se fosse la verità”.

L’arte di far domande. Quando ascoltare è meglio che parlare

Edgar H. Schein e Peter A. Schein

Guerini Next, 2024

La nuova edizione di un libro ripropone il tema dell’ascolto come strumento per imparare e far crescere la priorità cultura (anche d’impresa)

 

Ascoltare e non parlare. Ascoltare per imparare. Essere umili. E quindi crescere. Atteggiamento importante, quello dell’ascolto. Anche per chi è “al comando”. Anche, quindi, per imprenditori e manager che vogliano per davvero essere tali. Atteggiamento, tuttavia, che non sempre viene naturale assumere e che, anzi, spesso, è più facile dimenticare che ricordare. Questione di cultura (pure d’impresa). E’ da tutto questo che deriva l’importanza di leggere l’edizione aggiornata di “L’arte di far domande. Quando ascoltare è meglio che parlare”, scritto a quattro mani da Edgar H. Schein e Peter A. Schein e appena pubblicato in Italia.

Dal punto di vista dell’impresa e del suo mondo, ma anche dell’economia e del vivere civile, l’assunto da cui partire è semplice: può essere difficile per un capo riconoscere la propria dipendenza dai collaboratori e dai colleghi, comprendere che non deve solo saper orientare, dare direttive ed esprimere valori, ma anche capire quando è il momento di domandare e di mettersi in ascolto con umiltà. E non solo. Perché ci si può spingere anche ad affermare che la capacità di ascolto potrebbe essere la cosa più importante da imparare: solo così si accresce la propria conoscenza e si creano rapporti solidi e di valore, si acquisiscono elementi per far sviluppare correttamente la propria attività, si è “capi a tutto tondo”.

Il libro degli Schein è una guida all’ascolto che parte dal concetto di umiltà e lo fa cardine di una capacità di gestione potente. Ed è proprio attorno all’umiltà che si sviluppa buona parte del libro che inizia dalla risposta alla domanda su cosa sia per davvero “l’umile ricerca di informazioni” e continua ragionando sulla distinzione tra “affermare recisamente” e “indagare umilmente” per passare poi ad approfondire la dinamica di una conversazione e quindi a cercare di capire come fare a sviluppare l’atteggiamento dell’ascolto negli ambiti di lavoro e non solo. Il libro degli Schein, poi, accanto alla teoria pone una serie di casi pratici e di veri “esercizi” d’ascolto che costituiscono parte integrante dell’insegnamento.

Libro da leggere con attenzione quello di Edgar Schein e Peter Schein. Libro che può cambiare arricchendola la cultura dell’impresa che vuole davvero essere funzionale allo sviluppo. Umiltà come leva di competitività, dunque. Bello, a questo proposito, uno dei primi passaggi del libro: “I nostri stereotipi culturali continuano a spingerci nella direzione sbagliata, facendoci credere di conoscere la risposta e pensare che sia appropriato ‘venderla’ come se fosse la verità”.

L’arte di far domande. Quando ascoltare è meglio che parlare

Edgar H. Schein e Peter A. Schein

Guerini Next, 2024

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