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L’Italian Touch e i fattori della politica industriale: innovazione e sostenibilità

Di cosa parliamo quando diciamo che serve una “politica industriale”? A quali categorie politiche ed economiche è necessario fare riferimento, per dare sostanza concreta alla necessità di rafforzare la competitività e la produttività del sistema Italia, in un mondo segnato dalla “policrisi”, dal conflitto Usa-Cina e dalle difficoltà dell’Europa? Per provare a rispondere, potremmo partire da una frase che gira nel mondo Bmw nell’anno dei record di auto vendute, oltre 2,5 milioni sui mercati internazionali: l’Italian Touch. Un modo per parlare di bellezza, eleganza, design, ma anche di tecnologia d’avanguardia e inclinazione alla sostenibilità (ne ha scritto Il Foglio il 30 gennaio, in un dialogo con il presidente e Ceo di Bmw Italia Massimiliano Di Silvestro).

Che l’Italian Touch sia un modo di dire positivo a Monaco di Baviera, nell’head quartier d’una delle case automobilistiche più sofisticate e innovatrice non significa solo celebrare un omaggio a firme italiane come Giovanni Michelotto e Giorgetto Giugiaro che dagli anni Sessanta agli Ottanta collaborarono al successo della Bmw o ribadire l’apprezzamento per la componentistica automotive italiana (che contribuisce mediamente per un buon terzo al valore di una Bmw). Significa soprattutto dare atto all’industria italiana di una sua inclinazione vincente alla capacità di tenere insieme “bello e ben fatto”, ovvero qualità, estetica, innovazione e sostenibilità.

Ecco il punto: una politica industriale per il made in Italy non può non essere fondata sul sostegno strategico a questi quattro “fattori” di competitività, piuttosto che indicare dei settori specifici su cui investire risorse pubbliche e mettere in campo sostegni fiscali.

In sintesi, una politica industriale utile all’Italia, nel contesto di efficaci scelte di politica industriale della Ue, dovrebbe oggi insistere su quei fattori che siano in grado di rendere le nostre imprese, italiane ed europee, più competitive, in grado cioè di stare su mercati sempre più esigenti e selettivi di fronte alla potenza delle imprese degli Usa, della Cina e, in alcuni settori, anche dell’India.

Un economista attento alle nuove sfide competitive, come Daniel Gros, spiega come l’economia Usa stia crescendo più delle aspettative perché ha saputo puntare non tanto sull’industria (anche se non mancano provvedimenti della Casa Bianca di chiaro stampo protezionista) quanto soprattutto sulle nuove tecnologie (ce ne sono riscontri in un interessante numero della rivista Aspenia, dedicata all’America a un anno dal voto e intitolata “La debolezza della potenza”, acuto ossimoro per invitarci ad andare oltre le letture correnti dell’attuale controversa stagione americana). Nuove tecnologie high tech che, a partire dalla diffusione dell’AI (Artificial Intelligence) e dai servizi digitali, sono fattori che stanno modificando radicalmente produzione, lavoro, consumi, stili di vita, conoscenze, ambiente: una vera e propria “quarta rivoluzione industriale” dopo la macchina a vapore, l’elettricità e Internet.

È l’economia dominata dalle big tech Google, Amazon, Apple, Meta e Microsoft e dalle imprese di Elon Musk, con attenzione speciale per l’Intelligenza Artificiale Generativa e per le ricadute sulla ricerca, la cultura, l’informazione, la comunicazione (con tutti i problemi di ordine etico, sociale e politico correlati). È l’economia che brucia milioni di posti di lavoro e altri ne crea. È l’economia, insomma, su cui si consuma la sfida Usa-Cina e secondo cui si definiscono nuovi equilibri globali (anche da questo punto di vista, mai perdere d’occhio l’India).

E l’Europa? È un grande attore industriale. Il mercato più ricco del mondo. Il centro di un sistema di valori che sinora hanno ispirato una sintesi originale e quanto mai preziosa tra democrazia liberale, mercato e welfare, tra libertà e solidarietà sociale. Ma non è un soggetto politico incisivo, ancora in cerca di ruolo ed equilibrio. E proprio sulle nuove tecnologie è molto indietro rispetto ai grandi protagonisti della “nuova globalizzazione”. Ha un recente sistema di regole, l’Artificial Intelligence Act, che ha avuto il via libera da Commissione, Parlamento e Consiglio d’Europa. Ma non può contare su imprese europee di dimensioni tali da poter fronteggiare la forza dei colossi imprenditoriali americani.

All’orizzonte della Ue c’è dunque una scelta da fare: quella di capire come tenere insieme forza industriale e innovazione high tech e come diventare più compatta, unitaria, efficace. Un attore globale, finalmente. E non un classico vaso di coccio. Una sfida radicale, cui saranno chiamati a rispondere il nuovo Parlamento che eleggeremo a giugno e la nuova Commissione (sperando che non prevalgano le forze nazionaliste, populiste e sovraniste che pensano all’Europa solo come un mercato su cui bilanciare, tra Stati, interessi e convenienze locali ma non come uno spazio politico e  culturale in cui fare crescere valori e da proporre come paradigma democratico dialogante con il resto del mondo).

In questo senso parlare di politica industriale europea (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana) significa definire politiche per l’energia, la sicurezza e dunque la difesa, l’approvvigionamento di materie prime strategiche, la sostenibilità (e quindi anche l’industria e l’agricoltura, superando i limiti dell’attuale Pac, la politica agricola comune contestata dagli agricoltori in inquietante rivolta). E definire gli strumenti finanziari per sostenerla, dagli eurobond al potenziamento del bilancio Ue e alle regole e le prospettive del nuovo Patto di Stabilità e Crescita. Una “strategia di competitività, che non sia però a discapito del welfare e della transizione verde”, per usare le parole di Mario Draghi, che sta preparando un rapporto sul tema, su incarico della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen.

E in Italia? I fattori di competitività, oltre a quelli generali europei, sono legati alla necessità di superare i punti di debolezza della nostra industria. Gli stimoli all’innovazione, innanzitutto, con i vantaggi fiscali per chi investe, innova, brevetta e lavora sulla transizione digitale, secondo lo schema delle misure ex Industria 4.0 e, adesso, Industria 5.0 (ci sono 6,3 miliardi, nel Pnrr, da spendere bene). E poi la diffusione delle applicazioni legate all’Intelligenza artificiale e agli algoritmi per quel che riguarda sia i processi produttivi sia i prodotti. Un lavoro di lunga lena che investe anche la collaborazione tra l’impresa, le università e i centri di ricerca pubblici e privati.

Il secondo fattore di politica industriale su cui investire ha a che fare con la transizione ambientale, superando le ristrettezze di vincoli regolatori e amministrativi tipici delle burocrazie, sia europee che nazionali. Il raccordo con le questioni dell’energia è essenziale, con il rilancio dell’energia atomica. Così come la scelta sulla neutralità tecnologica. Per dirla con un esempio: l’auto elettrica è un’opzione, non un destino generale, lasciando aperte le opzioni sull’uso dell’idrogeno, dei biocarburanti, etc.

Il terzo fattore è relativo alla risposte indispensabili per fare fronte alle carenze di mano d’opera specializzata e con le strategie di formazione necessarie: dalla metallurgia al mobile, dal turismo alle costruzioni, nel Nord Ovest e nel Nord Est le imprese faticano a trovare un profilo su due, in media, tra quelli ricercati (Il Sole24Ore, 29 gennaio).

Serve una formazione di lungo periodo, on the job ma anche segnata da relazioni virtuose tra imprese, Academy aziendali e agenti formativi qualificati (le università, innanzitutto). E con un’idea di fondo, relativa alla crescente diffusione dell’Intelligenza Artificiale di cui abbiamo detto: chi scrive gli algoritmi?

La risposta non può che essere legata alla connotazione dell’industria italiana e alla sua capacità competitiva: la sua “cultura politecnica” che tiene insieme saperi umanistici e conoscenze scientifiche, senso della bellezza e qualità tecnologica, design e ingegneria d’avanguardia. Un algoritmo dunque scritto da ingegneri e cyberscienziati, economisti e sociologi, fisici e statistici, filosofi e giuristi. Persone con una profonda conoscenza delle questioni tecnologiche ma anche sensibili ai temi dell’etica. Sapienza complessa d’un mondo in trasformazione.

L’orizzonte della trasformazione competitiva e dunque delle politiche industriali è ampio. Il nuovo Rinascimento è il nostro orizzonte. Ma è un orizzonte tutt’altro che sereno.

(Foto Getty Images)

Di cosa parliamo quando diciamo che serve una “politica industriale”? A quali categorie politiche ed economiche è necessario fare riferimento, per dare sostanza concreta alla necessità di rafforzare la competitività e la produttività del sistema Italia, in un mondo segnato dalla “policrisi”, dal conflitto Usa-Cina e dalle difficoltà dell’Europa? Per provare a rispondere, potremmo partire da una frase che gira nel mondo Bmw nell’anno dei record di auto vendute, oltre 2,5 milioni sui mercati internazionali: l’Italian Touch. Un modo per parlare di bellezza, eleganza, design, ma anche di tecnologia d’avanguardia e inclinazione alla sostenibilità (ne ha scritto Il Foglio il 30 gennaio, in un dialogo con il presidente e Ceo di Bmw Italia Massimiliano Di Silvestro).

Che l’Italian Touch sia un modo di dire positivo a Monaco di Baviera, nell’head quartier d’una delle case automobilistiche più sofisticate e innovatrice non significa solo celebrare un omaggio a firme italiane come Giovanni Michelotto e Giorgetto Giugiaro che dagli anni Sessanta agli Ottanta collaborarono al successo della Bmw o ribadire l’apprezzamento per la componentistica automotive italiana (che contribuisce mediamente per un buon terzo al valore di una Bmw). Significa soprattutto dare atto all’industria italiana di una sua inclinazione vincente alla capacità di tenere insieme “bello e ben fatto”, ovvero qualità, estetica, innovazione e sostenibilità.

Ecco il punto: una politica industriale per il made in Italy non può non essere fondata sul sostegno strategico a questi quattro “fattori” di competitività, piuttosto che indicare dei settori specifici su cui investire risorse pubbliche e mettere in campo sostegni fiscali.

In sintesi, una politica industriale utile all’Italia, nel contesto di efficaci scelte di politica industriale della Ue, dovrebbe oggi insistere su quei fattori che siano in grado di rendere le nostre imprese, italiane ed europee, più competitive, in grado cioè di stare su mercati sempre più esigenti e selettivi di fronte alla potenza delle imprese degli Usa, della Cina e, in alcuni settori, anche dell’India.

Un economista attento alle nuove sfide competitive, come Daniel Gros, spiega come l’economia Usa stia crescendo più delle aspettative perché ha saputo puntare non tanto sull’industria (anche se non mancano provvedimenti della Casa Bianca di chiaro stampo protezionista) quanto soprattutto sulle nuove tecnologie (ce ne sono riscontri in un interessante numero della rivista Aspenia, dedicata all’America a un anno dal voto e intitolata “La debolezza della potenza”, acuto ossimoro per invitarci ad andare oltre le letture correnti dell’attuale controversa stagione americana). Nuove tecnologie high tech che, a partire dalla diffusione dell’AI (Artificial Intelligence) e dai servizi digitali, sono fattori che stanno modificando radicalmente produzione, lavoro, consumi, stili di vita, conoscenze, ambiente: una vera e propria “quarta rivoluzione industriale” dopo la macchina a vapore, l’elettricità e Internet.

È l’economia dominata dalle big tech Google, Amazon, Apple, Meta e Microsoft e dalle imprese di Elon Musk, con attenzione speciale per l’Intelligenza Artificiale Generativa e per le ricadute sulla ricerca, la cultura, l’informazione, la comunicazione (con tutti i problemi di ordine etico, sociale e politico correlati). È l’economia che brucia milioni di posti di lavoro e altri ne crea. È l’economia, insomma, su cui si consuma la sfida Usa-Cina e secondo cui si definiscono nuovi equilibri globali (anche da questo punto di vista, mai perdere d’occhio l’India).

E l’Europa? È un grande attore industriale. Il mercato più ricco del mondo. Il centro di un sistema di valori che sinora hanno ispirato una sintesi originale e quanto mai preziosa tra democrazia liberale, mercato e welfare, tra libertà e solidarietà sociale. Ma non è un soggetto politico incisivo, ancora in cerca di ruolo ed equilibrio. E proprio sulle nuove tecnologie è molto indietro rispetto ai grandi protagonisti della “nuova globalizzazione”. Ha un recente sistema di regole, l’Artificial Intelligence Act, che ha avuto il via libera da Commissione, Parlamento e Consiglio d’Europa. Ma non può contare su imprese europee di dimensioni tali da poter fronteggiare la forza dei colossi imprenditoriali americani.

All’orizzonte della Ue c’è dunque una scelta da fare: quella di capire come tenere insieme forza industriale e innovazione high tech e come diventare più compatta, unitaria, efficace. Un attore globale, finalmente. E non un classico vaso di coccio. Una sfida radicale, cui saranno chiamati a rispondere il nuovo Parlamento che eleggeremo a giugno e la nuova Commissione (sperando che non prevalgano le forze nazionaliste, populiste e sovraniste che pensano all’Europa solo come un mercato su cui bilanciare, tra Stati, interessi e convenienze locali ma non come uno spazio politico e  culturale in cui fare crescere valori e da proporre come paradigma democratico dialogante con il resto del mondo).

In questo senso parlare di politica industriale europea (ne abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana) significa definire politiche per l’energia, la sicurezza e dunque la difesa, l’approvvigionamento di materie prime strategiche, la sostenibilità (e quindi anche l’industria e l’agricoltura, superando i limiti dell’attuale Pac, la politica agricola comune contestata dagli agricoltori in inquietante rivolta). E definire gli strumenti finanziari per sostenerla, dagli eurobond al potenziamento del bilancio Ue e alle regole e le prospettive del nuovo Patto di Stabilità e Crescita. Una “strategia di competitività, che non sia però a discapito del welfare e della transizione verde”, per usare le parole di Mario Draghi, che sta preparando un rapporto sul tema, su incarico della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen.

E in Italia? I fattori di competitività, oltre a quelli generali europei, sono legati alla necessità di superare i punti di debolezza della nostra industria. Gli stimoli all’innovazione, innanzitutto, con i vantaggi fiscali per chi investe, innova, brevetta e lavora sulla transizione digitale, secondo lo schema delle misure ex Industria 4.0 e, adesso, Industria 5.0 (ci sono 6,3 miliardi, nel Pnrr, da spendere bene). E poi la diffusione delle applicazioni legate all’Intelligenza artificiale e agli algoritmi per quel che riguarda sia i processi produttivi sia i prodotti. Un lavoro di lunga lena che investe anche la collaborazione tra l’impresa, le università e i centri di ricerca pubblici e privati.

Il secondo fattore di politica industriale su cui investire ha a che fare con la transizione ambientale, superando le ristrettezze di vincoli regolatori e amministrativi tipici delle burocrazie, sia europee che nazionali. Il raccordo con le questioni dell’energia è essenziale, con il rilancio dell’energia atomica. Così come la scelta sulla neutralità tecnologica. Per dirla con un esempio: l’auto elettrica è un’opzione, non un destino generale, lasciando aperte le opzioni sull’uso dell’idrogeno, dei biocarburanti, etc.

Il terzo fattore è relativo alla risposte indispensabili per fare fronte alle carenze di mano d’opera specializzata e con le strategie di formazione necessarie: dalla metallurgia al mobile, dal turismo alle costruzioni, nel Nord Ovest e nel Nord Est le imprese faticano a trovare un profilo su due, in media, tra quelli ricercati (Il Sole24Ore, 29 gennaio).

Serve una formazione di lungo periodo, on the job ma anche segnata da relazioni virtuose tra imprese, Academy aziendali e agenti formativi qualificati (le università, innanzitutto). E con un’idea di fondo, relativa alla crescente diffusione dell’Intelligenza Artificiale di cui abbiamo detto: chi scrive gli algoritmi?

La risposta non può che essere legata alla connotazione dell’industria italiana e alla sua capacità competitiva: la sua “cultura politecnica” che tiene insieme saperi umanistici e conoscenze scientifiche, senso della bellezza e qualità tecnologica, design e ingegneria d’avanguardia. Un algoritmo dunque scritto da ingegneri e cyberscienziati, economisti e sociologi, fisici e statistici, filosofi e giuristi. Persone con una profonda conoscenza delle questioni tecnologiche ma anche sensibili ai temi dell’etica. Sapienza complessa d’un mondo in trasformazione.

L’orizzonte della trasformazione competitiva e dunque delle politiche industriali è ampio. Il nuovo Rinascimento è il nostro orizzonte. Ma è un orizzonte tutt’altro che sereno.

(Foto Getty Images)

Obiettivo Milano: Pirelli e la città attraverso lo sguardo dei fotografi

Il rapporto tra Milano e la fotografia comincia con l’invenzione dei primi procedimenti per lo sviluppo di immagini nel 1839. Da quel momento la città diventa un polo di attrazione per le grandi agenzie fotogiornalistiche italiane, gli atelier, le riviste specializzate e le associazioni del settore, con l’intento comune di costruire racconti visivi capaci di narrare il capoluogo lombardo attraverso i suoi panorami, scorci e dettagli.
L’obiettivo di questi artisti si posa anche sul mondo Pirelli – rappresentando edifici, prodotti, persone ed eventi per illustrare le riviste aziendali o realizzare campagne pubblicitarie e cataloghi – sancendo uno stretto legame tra fotografia e impresa. È proprio a partire dal ricco patrimonio di negativi, stampe e diapositive custodito nel nostro Archivio Storico che è possibile scoprire la natura sfaccettata e poliedrica della città meneghina.

Milano è innanzitutto arte, con le numerose istituzioni culturali del territorio intese come servizio pubblico per i cittadini. Non solo musei e fondazioni – come lo spazio espositivo di arte contemporanea Pirelli HangarBicocca – ma anche teatri come il Piccolo Teatro di Milano. Il primo Stabile pubblico in Italia si pone sin dal 1947 “a servizio della comunità”, come recita un articolo della Rivista Pirelli in cui le fotografie a corredo del testo mostrano non solo il palcoscenico, spazio principale dell’azione, ma anche il “dietro le quinte” necessario alla realizzazione di uno spettacolo, come la sartoria e le lezioni alla scuola d’arte drammatica del teatro. Oppure come il Teatro Franco Parenti, punto di riferimento artistico e culturale della città dal 1972.
Accanto alle architetture più celebri come il Duomo e la Galleria Vittorio Emanuele II, icone dello skyline meneghino, Milano affianca bellezze artistiche meno esibite, custodite gelosamente nelle residenze private della città. A cavallo del XX secolo il nuovo quartiere di corso Venezia vede ad esempio la costruzione di dimore in linea con le formule più aggiornate del modernismo internazionale. È in particolare Palazzo Castiglioni a interessare l’obiettivo di Arno Hammacher nel 1970: l’elaborata cancellata d’ingresso, il maestoso lucernario e la straordinaria varietà dei ferri battuti dello scalone centrale sono indagati con minuzia dal fotografo olandese, nel cui lavoro la scultura è sempre una presenza costante.
Milano è quindi città d’arte e delle arti – amata da scrittori, registi e artisti – con una vocazione spiccatamente multidisciplinare. Questa pluralità si ritrova nelle attività dello storico Centro Culturale Pirelli – impostosi negli anni Cinquanta sin da subito come “un fatto della cultura cittadina” con convegni, mostre, rassegne cinematografiche ed eventi musicali e teatrali – e nelle Esposizioni Internazionali della Triennale. È possibile ricostruire con precisione alcune edizioni della rassegna attraverso le fotografie scattate nelle sale e negli esterni del Palazzo dell’Arte: l’XI Triennale del 1957 è ad esempio documentata dalla Mostra di Architettura Contemporanea, dal Padiglione di plastica sperimentale Pirelli in Parco Sempione progettato da Roberto Menghi e dal paramento di Nelly Krauss e Giulio Minoletti che cela, dietro 20 metri di lamiere d’acciaio, il monumentale portale tripartito dell’edificio.

Milano è anche innovazione e tecnologia, come mostrano le fotografie dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e dell’Headquarters di Pirelli con il centro di Ricerca e Sviluppo del Gruppo. “La città che sale” di boccioniana memoria emerge invece dagli scatti di Hammacher del Grattacielo Pirelli – dai primi scavi allo sviluppo del cantiere sino alle ultime fasi della costruzione, solo in parte pubblicati sulla Rivista Pirelli – che colgono pienamente la misura umana dell’impresa. Un punto di vista insieme artistico e di documentazione aziendale sul momento di massima vitalità progettuale di una Milano in piena espansione post-bellica.

La città del lavoro e del “Made in Italy”, espressione di una realtà creativa ed economica d’eccellenza, si ritrova nelle immagini delle operaie intente alla filatura del tessuto di gomma nello stabilimento Pirelli di Bicocca così come nei servizi fotografici per gli impermeabili Pirelli. Il “fare” e il “saper fare” vengono valorizzati dall’obiettivo soprattutto nel secondo dopoguerra, quando la fotografia di moda affronta importanti cambiamenti: gli scatti artificiosi in studio e le pose statiche delle modelle dei decenni precedenti lasciano il posto a un’estetica nuova, più spontanea ed energica. Milano e i suoi luoghi simbolo – i Navigli, le colonne di San Lorenzo e la Ca’ Granda – diventano lo sfondo per gli shooting all’aperto delle campagne pubblicitarie dei soprabiti Pirelli. Composizioni dinamiche, movimento e un nuovo senso di realtà sono le caratteristiche delle vivaci scene di strada catturate tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta.

Milano è inoltre una città che si muove e “mette in relazione”, ieri come oggi. È a partire dagli anni Cinquanta, con il boom economico, che il capoluogo lombardo comincia a spostarsi “su gomma”, dando il via all’epoca della motorizzazione di massa. Il numero di automobili si triplica e Pirelli risponde con una gamma di pneumatici sempre più specializzati. Accanto agli storici tram, monumenti cittadini dal fascino Belle Époque, gli scatti dei fotografi degli anni Cinquanta e Sessanta catturano anche le code di veicoli lungo via Dante, il traffico in piazza Cordusio e gli ingorghi di fronte al Duomo. Protagonista di queste immagini diventa anche il “ghisa”, il vigile della tradizione milanese dal caratteristico cappello, che si trova ad affrontare le nuove problematiche legate all’aumento della circolazione stradale. A ogni epoca le sue icone: la Fiat 600 è il mito della motorizzazione di massa, a cui segue dopo due anni la nuova FIAT 500, simbolo indiscusso del design italiano – è quest’ultima a essere ritratta insieme alle più popolari utilitarie italiane sul mercato in una fotografia del 1969 davanti alla Stazione Centrale – mentre la Vespa e la Lambretta sostituiscono in parte la bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano. L’inaugurazione nel 1964 della prima linea metropolitana di Milano, esempio di modernità per tutta Europa, apre un ulteriore capitolo: è ancora una volta Hammacher a documentarne la costruzione in un reportage fatto di “immagini vive, umane, quasi dimesse”. Lo sguardo dei fotografi diviene quindi un elemento fondamentale per raccontare la storia della mobilità, seguendone l’evoluzione sino ai giorni nostri.

Il rapporto tra Milano e la fotografia comincia con l’invenzione dei primi procedimenti per lo sviluppo di immagini nel 1839. Da quel momento la città diventa un polo di attrazione per le grandi agenzie fotogiornalistiche italiane, gli atelier, le riviste specializzate e le associazioni del settore, con l’intento comune di costruire racconti visivi capaci di narrare il capoluogo lombardo attraverso i suoi panorami, scorci e dettagli.
L’obiettivo di questi artisti si posa anche sul mondo Pirelli – rappresentando edifici, prodotti, persone ed eventi per illustrare le riviste aziendali o realizzare campagne pubblicitarie e cataloghi – sancendo uno stretto legame tra fotografia e impresa. È proprio a partire dal ricco patrimonio di negativi, stampe e diapositive custodito nel nostro Archivio Storico che è possibile scoprire la natura sfaccettata e poliedrica della città meneghina.

Milano è innanzitutto arte, con le numerose istituzioni culturali del territorio intese come servizio pubblico per i cittadini. Non solo musei e fondazioni – come lo spazio espositivo di arte contemporanea Pirelli HangarBicocca – ma anche teatri come il Piccolo Teatro di Milano. Il primo Stabile pubblico in Italia si pone sin dal 1947 “a servizio della comunità”, come recita un articolo della Rivista Pirelli in cui le fotografie a corredo del testo mostrano non solo il palcoscenico, spazio principale dell’azione, ma anche il “dietro le quinte” necessario alla realizzazione di uno spettacolo, come la sartoria e le lezioni alla scuola d’arte drammatica del teatro. Oppure come il Teatro Franco Parenti, punto di riferimento artistico e culturale della città dal 1972.
Accanto alle architetture più celebri come il Duomo e la Galleria Vittorio Emanuele II, icone dello skyline meneghino, Milano affianca bellezze artistiche meno esibite, custodite gelosamente nelle residenze private della città. A cavallo del XX secolo il nuovo quartiere di corso Venezia vede ad esempio la costruzione di dimore in linea con le formule più aggiornate del modernismo internazionale. È in particolare Palazzo Castiglioni a interessare l’obiettivo di Arno Hammacher nel 1970: l’elaborata cancellata d’ingresso, il maestoso lucernario e la straordinaria varietà dei ferri battuti dello scalone centrale sono indagati con minuzia dal fotografo olandese, nel cui lavoro la scultura è sempre una presenza costante.
Milano è quindi città d’arte e delle arti – amata da scrittori, registi e artisti – con una vocazione spiccatamente multidisciplinare. Questa pluralità si ritrova nelle attività dello storico Centro Culturale Pirelli – impostosi negli anni Cinquanta sin da subito come “un fatto della cultura cittadina” con convegni, mostre, rassegne cinematografiche ed eventi musicali e teatrali – e nelle Esposizioni Internazionali della Triennale. È possibile ricostruire con precisione alcune edizioni della rassegna attraverso le fotografie scattate nelle sale e negli esterni del Palazzo dell’Arte: l’XI Triennale del 1957 è ad esempio documentata dalla Mostra di Architettura Contemporanea, dal Padiglione di plastica sperimentale Pirelli in Parco Sempione progettato da Roberto Menghi e dal paramento di Nelly Krauss e Giulio Minoletti che cela, dietro 20 metri di lamiere d’acciaio, il monumentale portale tripartito dell’edificio.

Milano è anche innovazione e tecnologia, come mostrano le fotografie dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e dell’Headquarters di Pirelli con il centro di Ricerca e Sviluppo del Gruppo. “La città che sale” di boccioniana memoria emerge invece dagli scatti di Hammacher del Grattacielo Pirelli – dai primi scavi allo sviluppo del cantiere sino alle ultime fasi della costruzione, solo in parte pubblicati sulla Rivista Pirelli – che colgono pienamente la misura umana dell’impresa. Un punto di vista insieme artistico e di documentazione aziendale sul momento di massima vitalità progettuale di una Milano in piena espansione post-bellica.

La città del lavoro e del “Made in Italy”, espressione di una realtà creativa ed economica d’eccellenza, si ritrova nelle immagini delle operaie intente alla filatura del tessuto di gomma nello stabilimento Pirelli di Bicocca così come nei servizi fotografici per gli impermeabili Pirelli. Il “fare” e il “saper fare” vengono valorizzati dall’obiettivo soprattutto nel secondo dopoguerra, quando la fotografia di moda affronta importanti cambiamenti: gli scatti artificiosi in studio e le pose statiche delle modelle dei decenni precedenti lasciano il posto a un’estetica nuova, più spontanea ed energica. Milano e i suoi luoghi simbolo – i Navigli, le colonne di San Lorenzo e la Ca’ Granda – diventano lo sfondo per gli shooting all’aperto delle campagne pubblicitarie dei soprabiti Pirelli. Composizioni dinamiche, movimento e un nuovo senso di realtà sono le caratteristiche delle vivaci scene di strada catturate tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta.

Milano è inoltre una città che si muove e “mette in relazione”, ieri come oggi. È a partire dagli anni Cinquanta, con il boom economico, che il capoluogo lombardo comincia a spostarsi “su gomma”, dando il via all’epoca della motorizzazione di massa. Il numero di automobili si triplica e Pirelli risponde con una gamma di pneumatici sempre più specializzati. Accanto agli storici tram, monumenti cittadini dal fascino Belle Époque, gli scatti dei fotografi degli anni Cinquanta e Sessanta catturano anche le code di veicoli lungo via Dante, il traffico in piazza Cordusio e gli ingorghi di fronte al Duomo. Protagonista di queste immagini diventa anche il “ghisa”, il vigile della tradizione milanese dal caratteristico cappello, che si trova ad affrontare le nuove problematiche legate all’aumento della circolazione stradale. A ogni epoca le sue icone: la Fiat 600 è il mito della motorizzazione di massa, a cui segue dopo due anni la nuova FIAT 500, simbolo indiscusso del design italiano – è quest’ultima a essere ritratta insieme alle più popolari utilitarie italiane sul mercato in una fotografia del 1969 davanti alla Stazione Centrale – mentre la Vespa e la Lambretta sostituiscono in parte la bicicletta come mezzo di trasporto quotidiano. L’inaugurazione nel 1964 della prima linea metropolitana di Milano, esempio di modernità per tutta Europa, apre un ulteriore capitolo: è ancora una volta Hammacher a documentarne la costruzione in un reportage fatto di “immagini vive, umane, quasi dimesse”. Lo sguardo dei fotografi diviene quindi un elemento fondamentale per raccontare la storia della mobilità, seguendone l’evoluzione sino ai giorni nostri.

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Fondazione Pirelli a MuseoCity 2024 con “Obiettivo Milano”

Dall’1 al 5 marzo 2024 torna MuseoCity, la manifestazione diffusa organizzata dall’Associazione MuseoCity ETS in collaborazione con il Comune di Milano che promuove le realtà museali e culturali della città e del suo Hinterland. “Mondi a Milano” è il tema-guida dell’edizione 2024. Fondazione Pirelli rinnova la sua partecipazione per l’ottavo anno consecutivo con due iniziative che si svolgeranno venerdì 1 marzo 2024, di cui una dedicata ai ragazzi.

Obiettivo Milano: Pirelli e la città attraverso lo sguardo dei fotografi
Ore 16.30 e 19.00 (due turni di visita – durata 60 minuti circa)

Una visita guidata che racconta la città di Milano attraverso le fotografie e i documenti storici e contemporanei conservati nell’Archivio aziendale. Si potranno scoprire i diversi volti del capoluogo lombardo: Milano città in movimento, nei reportage della Rivista Pirelli con la trasformazione della mobilità dal Dopoguerra a oggi; Milano città del lavoro e dell’innovazione, nelle immagini dei luoghi della ricerca e della produzione, del Grattacielo Pirelli e delle Università; Milano città delle arti, nelle attività culturali di Fondazione Pirelli, dello spazio espositivo di arte contemporanea Pirelli HangarBicocca e delle numerose istituzioni del territorio; Milano città del Made in Italy, nei servizi fotografici di moda e delle fiere ed esposizioni internazionali.

Per la prenotazione utilizzare l’apposito modulo disponibile a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria, ingresso libero fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 28 febbraio 2024.

Un salto a Milano
Laboratorio per ragazzi e ragazze dai 7 e agli 11 anni
Ore 17.30 (durata 60 minuti circa)

Un viaggio tra passato e presente alla scoperta di alcuni dei luoghi più iconici di Milano visti attraverso lo sguardo di grandi fotografi. Seguiamoli in cima al Grattacielo Pirelli che domina su piazza Duca d’Aosta, scendiamo dove si sta scavando per la costruzione della metropolitana di Milano, raggiungiamoli in mezzo al traffico di piazza del Duomo e della Stazione Centrale, e ancora tra le opere della Triennale e di Pirelli HangarBicocca. Con carta, matite e una buona dose d’immaginazione, coloriamo e animiamo uno dei loro scatti creando un “pop up” che ci renderà protagonisti. Nel frattempo, gli adulti accompagnatori avranno modo di visitare la Fondazione Pirelli e le sue mostre.

Per la prenotazione utilizzare l’apposito modulo disponibile a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria e fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 28 febbraio 2024.

Ingresso visitatori: Fondazione Pirelli, Viale Sarca 220, Milano.

Per ulteriori informazioni è possibile scrivere all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org

Dall’1 al 5 marzo 2024 torna MuseoCity, la manifestazione diffusa organizzata dall’Associazione MuseoCity ETS in collaborazione con il Comune di Milano che promuove le realtà museali e culturali della città e del suo Hinterland. “Mondi a Milano” è il tema-guida dell’edizione 2024. Fondazione Pirelli rinnova la sua partecipazione per l’ottavo anno consecutivo con due iniziative che si svolgeranno venerdì 1 marzo 2024, di cui una dedicata ai ragazzi.

Obiettivo Milano: Pirelli e la città attraverso lo sguardo dei fotografi
Ore 16.30 e 19.00 (due turni di visita – durata 60 minuti circa)

Una visita guidata che racconta la città di Milano attraverso le fotografie e i documenti storici e contemporanei conservati nell’Archivio aziendale. Si potranno scoprire i diversi volti del capoluogo lombardo: Milano città in movimento, nei reportage della Rivista Pirelli con la trasformazione della mobilità dal Dopoguerra a oggi; Milano città del lavoro e dell’innovazione, nelle immagini dei luoghi della ricerca e della produzione, del Grattacielo Pirelli e delle Università; Milano città delle arti, nelle attività culturali di Fondazione Pirelli, dello spazio espositivo di arte contemporanea Pirelli HangarBicocca e delle numerose istituzioni del territorio; Milano città del Made in Italy, nei servizi fotografici di moda e delle fiere ed esposizioni internazionali.

Per la prenotazione utilizzare l’apposito modulo disponibile a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria, ingresso libero fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 28 febbraio 2024.

Un salto a Milano
Laboratorio per ragazzi e ragazze dai 7 e agli 11 anni
Ore 17.30 (durata 60 minuti circa)

Un viaggio tra passato e presente alla scoperta di alcuni dei luoghi più iconici di Milano visti attraverso lo sguardo di grandi fotografi. Seguiamoli in cima al Grattacielo Pirelli che domina su piazza Duca d’Aosta, scendiamo dove si sta scavando per la costruzione della metropolitana di Milano, raggiungiamoli in mezzo al traffico di piazza del Duomo e della Stazione Centrale, e ancora tra le opere della Triennale e di Pirelli HangarBicocca. Con carta, matite e una buona dose d’immaginazione, coloriamo e animiamo uno dei loro scatti creando un “pop up” che ci renderà protagonisti. Nel frattempo, gli adulti accompagnatori avranno modo di visitare la Fondazione Pirelli e le sue mostre.

Per la prenotazione utilizzare l’apposito modulo disponibile a questo link. La prenotazione all’evento è obbligatoria e fino a esaurimento posti. Le iscrizioni si chiuderanno mercoledì 28 febbraio 2024.

Ingresso visitatori: Fondazione Pirelli, Viale Sarca 220, Milano.

Per ulteriori informazioni è possibile scrivere all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org

Quale vita? Quale società?

Le relazioni tra sistema sociale e economico, tra progresso e libertà raccontate in un libro denso e originale

Guardare sempre e con ostinazione oltre il contingente (che spesso soffoca oppure illude). Cercare un orizzonte diverso da quello che si vede. Avere fiducia nell’umanità (anche quando davvero non pare vi siano gli elementi per farlo). Si tratta non di elementi per costruire un’utopia inutile ma per delineare una vita e un sistema sociale migliori (oggi e domani). Compito che vale per tutti, anche per chi ha l’onere di governare un’impresa, oppure un’istituzione, una famiglia. Lo conferma la lettura di “Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo” libro scritto a quattro mani da Chiara Giaccardi e Mauro Magatti che inizia da una constatazione forte eppure quasi banale: “Siamo in un interregno”. Cioè siamo in un periodo di crisi, in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” (citando Antonio Gramsci) e quindi siamo in un “chiaroscuro” dove “nascono i mostri”. Ed è proprio per evitare la nascita dei mostri e, anzi, per agevolare la nascita di “più vita”, che Giaccardi e Magatti conducono chi legge lungo un percorso fatto di suggestioni e analisi, ma anche di proposte e ma di di imposizioni.
I due autori partono dalla realtà che reagisce al nostro modello di sviluppo e ci sollecita con forza a cambiare. Occorre, secondo i due, arrivare a ridefinire il rapporto tra la libertà di ciascuno, la società e l’ambiente. Detto in altri termini, è vero che siamo più di prima e che viviamo meglio e più a lungo, ma la vorticosa crescita economica dell’ultimo secolo si sta ora scontrando con le sue contraddizioni – cambiamento climatico, migrazioni, squilibri demografici, disuguaglianze – minacciando la vita stessa del pianeta e ponendo con urgenza il problema della sostenibilità.
Cosa rispondere? Non solo con la tecnica, ma con la revisione delle premesse su cui la crescita si basa, colmando un ritardo culturale nella consapevolezza che non esiste forma vivente che non sia in relazione. Lo dice la scienza e lo dicono da sempre le religioni: solo in rapporto con gli altri diventiamo noi stessi ed esercitiamo la vera libertà, in modo transitivo e generativo e non estrattivo e predatorio. Per dimostrare tutto questo, il libro pone alcuni capisaldi lungo il percorso – il concetto che la vita è relazione ma anche creazione, intelligenza ed etica – arrivando a delineare una “supersocietà” che è modello di convivenza e di produzione.
E’ una logica diversa, quindi, quella che Giaccardi e Magatti propongono. Logica non così scontata e poco accettabile in molti ambienti. Che non è contro qualcuno o qualcosa, ma per tutti. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti hanno scritto un libro che non è per nulla facile in alcuni suoi passaggi, che è sfidante in molti altri, che è un’avventura intellettuale leggere. E che fa bene a tutti leggere.

Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo

Chiara Giaccardi, Mauro Magatti
Il Mulino, 2024

Le relazioni tra sistema sociale e economico, tra progresso e libertà raccontate in un libro denso e originale

Guardare sempre e con ostinazione oltre il contingente (che spesso soffoca oppure illude). Cercare un orizzonte diverso da quello che si vede. Avere fiducia nell’umanità (anche quando davvero non pare vi siano gli elementi per farlo). Si tratta non di elementi per costruire un’utopia inutile ma per delineare una vita e un sistema sociale migliori (oggi e domani). Compito che vale per tutti, anche per chi ha l’onere di governare un’impresa, oppure un’istituzione, una famiglia. Lo conferma la lettura di “Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo” libro scritto a quattro mani da Chiara Giaccardi e Mauro Magatti che inizia da una constatazione forte eppure quasi banale: “Siamo in un interregno”. Cioè siamo in un periodo di crisi, in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” (citando Antonio Gramsci) e quindi siamo in un “chiaroscuro” dove “nascono i mostri”. Ed è proprio per evitare la nascita dei mostri e, anzi, per agevolare la nascita di “più vita”, che Giaccardi e Magatti conducono chi legge lungo un percorso fatto di suggestioni e analisi, ma anche di proposte e ma di di imposizioni.
I due autori partono dalla realtà che reagisce al nostro modello di sviluppo e ci sollecita con forza a cambiare. Occorre, secondo i due, arrivare a ridefinire il rapporto tra la libertà di ciascuno, la società e l’ambiente. Detto in altri termini, è vero che siamo più di prima e che viviamo meglio e più a lungo, ma la vorticosa crescita economica dell’ultimo secolo si sta ora scontrando con le sue contraddizioni – cambiamento climatico, migrazioni, squilibri demografici, disuguaglianze – minacciando la vita stessa del pianeta e ponendo con urgenza il problema della sostenibilità.
Cosa rispondere? Non solo con la tecnica, ma con la revisione delle premesse su cui la crescita si basa, colmando un ritardo culturale nella consapevolezza che non esiste forma vivente che non sia in relazione. Lo dice la scienza e lo dicono da sempre le religioni: solo in rapporto con gli altri diventiamo noi stessi ed esercitiamo la vera libertà, in modo transitivo e generativo e non estrattivo e predatorio. Per dimostrare tutto questo, il libro pone alcuni capisaldi lungo il percorso – il concetto che la vita è relazione ma anche creazione, intelligenza ed etica – arrivando a delineare una “supersocietà” che è modello di convivenza e di produzione.
E’ una logica diversa, quindi, quella che Giaccardi e Magatti propongono. Logica non così scontata e poco accettabile in molti ambienti. Che non è contro qualcuno o qualcosa, ma per tutti. Chiara Giaccardi e Mauro Magatti hanno scritto un libro che non è per nulla facile in alcuni suoi passaggi, che è sfidante in molti altri, che è un’avventura intellettuale leggere. E che fa bene a tutti leggere.

Generare libertà. Accrescere la vita senza distruggere il mondo

Chiara Giaccardi, Mauro Magatti
Il Mulino, 2024

Dalla moneta alla società e all’impresa

Un intervento del Governatore della Banca d’Italia indica il filo che unisce economia, vivere civile e produzione

Cultura d’impresa che va oltre le fabbriche e gli uffici, che si allarga all’economia in senso più vasto e, a ben vedere, al mondo in tutte le sue espressioni. Consapevolezza di dove si è, da dove si è arrivati e dove si andrà. Per questo, il buon imprenditore e il bravo manager devono avere capacità di osservare, conoscenza del passato oltre che del presente e, soprattutto, curiosità di affacciarsi fuori dalle finestre dei propri uffici. Allargare il proprio orizzonte. Leggere uno degli ultimi interventi del Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, serve proprio a questo.

“Oltre i confini della moneta: il ruolo strategico dell’euro nell’Europa del futuro” – tema che Panetta ha affrontato il 26 gennaio 2024 a Riga nell’ambito di Ten years with The euro     – solo in apparenza è lontano dagli argomenti propri delle organizzazioni della produzione e della cultura del produrre. Parlare di euro, e parlarne oltre il suo perimetro di moneta, significa invece parlare di una comunità che nel tempo si è costruita e del suo significato forte per tutti gli aspetti del vivere civile. Anche, quindi, per quanto riguarda l’economia e il benessere.

Panetta parla di euro toccando tre aspetti: l’importanza del suo ruolo internazionale oltre l’economia in senso stretto, il mutamento di questo ruolo nel tempo e, infine, il percorso che è necessario intraprendere per rafforzarlo.

Il Governatore della Banca d’Italia approfondisce ognuno di questi temi guardandoli soprattutto in termini di significato per la coesione e la sicurezza dell’Europa, raccontandone l’evoluzione e il rafforzamento, cercando di delineare quali possano essere gli strumenti per consolidare proprio la “forza” dell’euro in quanto strumento di coesione e protezione.

Scrive Panetta nelle sue conclusioni: “In una fase di tensioni geopolitiche, la UEM (Unione Economica Monetaria) rappresenta (…) una sorta di clausola di difesa collettiva: ogni attacco rivolto a un suo membro colpisce la moneta unica, un elemento essenziale della nostra sovranità condivisa, ed equivale a un attacco a tutta l’Unione”. Bellissima è poi l’ultima affermazione del Governatore: l’euro “incarna il desiderio di progredire e lavorare insieme sulla scena mondiale”.

Oltre i confini della moneta: il ruolo strategico dell’euro nell’Europa del futuro

Fabio Panetta

Intervento alla conferenza Ten years with the euro

Riga, 26 gennaio 2026

Un intervento del Governatore della Banca d’Italia indica il filo che unisce economia, vivere civile e produzione

Cultura d’impresa che va oltre le fabbriche e gli uffici, che si allarga all’economia in senso più vasto e, a ben vedere, al mondo in tutte le sue espressioni. Consapevolezza di dove si è, da dove si è arrivati e dove si andrà. Per questo, il buon imprenditore e il bravo manager devono avere capacità di osservare, conoscenza del passato oltre che del presente e, soprattutto, curiosità di affacciarsi fuori dalle finestre dei propri uffici. Allargare il proprio orizzonte. Leggere uno degli ultimi interventi del Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, serve proprio a questo.

“Oltre i confini della moneta: il ruolo strategico dell’euro nell’Europa del futuro” – tema che Panetta ha affrontato il 26 gennaio 2024 a Riga nell’ambito di Ten years with The euro     – solo in apparenza è lontano dagli argomenti propri delle organizzazioni della produzione e della cultura del produrre. Parlare di euro, e parlarne oltre il suo perimetro di moneta, significa invece parlare di una comunità che nel tempo si è costruita e del suo significato forte per tutti gli aspetti del vivere civile. Anche, quindi, per quanto riguarda l’economia e il benessere.

Panetta parla di euro toccando tre aspetti: l’importanza del suo ruolo internazionale oltre l’economia in senso stretto, il mutamento di questo ruolo nel tempo e, infine, il percorso che è necessario intraprendere per rafforzarlo.

Il Governatore della Banca d’Italia approfondisce ognuno di questi temi guardandoli soprattutto in termini di significato per la coesione e la sicurezza dell’Europa, raccontandone l’evoluzione e il rafforzamento, cercando di delineare quali possano essere gli strumenti per consolidare proprio la “forza” dell’euro in quanto strumento di coesione e protezione.

Scrive Panetta nelle sue conclusioni: “In una fase di tensioni geopolitiche, la UEM (Unione Economica Monetaria) rappresenta (…) una sorta di clausola di difesa collettiva: ogni attacco rivolto a un suo membro colpisce la moneta unica, un elemento essenziale della nostra sovranità condivisa, ed equivale a un attacco a tutta l’Unione”. Bellissima è poi l’ultima affermazione del Governatore: l’euro “incarna il desiderio di progredire e lavorare insieme sulla scena mondiale”.

Oltre i confini della moneta: il ruolo strategico dell’euro nell’Europa del futuro

Fabio Panetta

Intervento alla conferenza Ten years with the euro

Riga, 26 gennaio 2026

Il valore d’una politica industriale europea per Intelligenza Artificiale, sicurezza ed energia 

“E’ tempo di parlare di Europa”, è la sollecitazione che Lucrezia Reichlin, da economista lungimirante e competente, rivolge ai responsabili della politica italiana, guardando all’orizzonte delle prossime elezioni dell’8 giugno per il nuovo parlamento della Ue (Corriere della Sera, 28 gennaio). Parlare cioè di mutamenti della geopolitica globale e dunque di conflitti e di tensioni internazionali e della cosiddetta “policrisi” (le guerre in Ucraina e in Medio Oriente ne sono gli aspetti più evidenti e drammatici, ma certamente non gli unici) e di grandi questioni ambientali e sociali. Della stagione di crisi e rischi di declino delle democrazie occidentali, sotto i colpi di sovranismi e populisti e le ostilità della galassia del cosiddetto Global South. E naturalmente di economia e cioè di come impostare una politica economica comune sulle questioni della competitività, dell’innovazione e del lavoro, nella stagione di radicali trasformazioni dominate dalla imperiosa diffusione dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi impatti sulla conoscenza, la ricerca, la produzione, i consumi, l’evoluzione delle relazioni economiche e sociali.

Una partita prioritaria, appunto, questa. Che non può essere affrontata soltanto con gli strumenti della regolazione legislativa, su cui la Ue si sta muovendo per prima ma che deve essere guardata in chiave di competitività, di ricerca scientifica e tecnologica, di investimenti e di sostegno alla politica industriale europea: le maggiore imprese sui mercati globali sono, sinora, quelle Usa e è indispensabile fare crescere imprese europee in grado di fare fronte alla sfida.

L’Europa, grande complesso economico ma anche debole consesso politico, è quanto mai fragile, di fronte alle scelte degli Usa e della Cina, ai loro conflitti ma anche alle possibili convergenze di interessi e di volontà di dominio. Per non dire del ruolo crescente, economicamente e dunque anche politicamente, dell’India, attore che da “potenza regionale” aspira a muoversi come “potenza globale”. Ma anche degli espansionismi neo-imperiali della Russia e neo-ottomani della Turchia. In un mondo multipolare, proprio un’autorevole presenza europea può fare la differenza e suggerire strade praticabili per definire nuovi e migliori equilibri di pace e sviluppo.

“L’Europa dovrà decidere se ha la forza di fare quel salto di coesione necessario ad affrontare il nuovo contesto internazionale, che la vede oggi esposta su più fronti”, sostiene la Reichlin. Aggiungendo che “i temi economici sono al solito importanti”, perché “è difficile pensare a una politica estera e di sicurezza comune senza una maggiore condivisione degli strumenti economici” e “senza scelte che non saranno indolori”, sul piano sia economico che sociale”.

Quali scelte? Quelle che riguardano le politiche economiche e fiscali per affrontare, con visione unitaria, i problemi della sicurezza, della crescita economica, della gestione di tutte le complesse partite dell’Intelligenza Artificiale di cui abbiamo parlato e dunque della competitività e del lavoro. Senza dimenticare i temi della salute: “Health is whealth”, ripete spesso Mario Draghi, ben consapevole del rapporto tra qualità della vita e benessere diffuso, ricchezza sociale, possibilità di un futuro più giusto ed equilibrato.

Guardiamo alcuni dati, per capire meglio.

Dal ‘21 al ‘27 la Ue, secondo uno studio del think tank Bruegel, ha avuto e avrà a disposizione, dal suo bilancio, 1.800 miliardi di euro (257 miliardi all’anno) per affrontare gli investimenti dedicati sui temi, considerati prioritari, della transizione verde e di quella digitale, alla difesa e alla sicurezza, alla salute e alla ricostruzione dell’Ucraina (una responsabilità che graverà soprattutto sulla Ue e i paesi europei). Troppo pochi, sostiene Lucrezia Reichlin, anche solo pensando che per il solo Green Deal  della Ue è stimato un fabbisogno di 356 miliardi all’anno.

Pochi, inoltre, rispetto alle politiche economiche messe in campo dagli Usa e dalla Cina. i 737 miliardi dell’Ira (Inflation Reduction Act) messi in campo da Washington per sostenere gli investimenti delle imprese sulle tecnologie per l’energia pulita (uno straordinario attrattore anche per imprese internazionali pronte ad andare a produrre negli Usa). E le ingenti risorse di Pechino per stimolare le imprese cinesi nei settori dell’alta tecnologia.

E dunque? E’ necessario ampliare il bilancio Ue. E mettere in campo uno strumento di cui si discute sempre più spesso: gli eurobond (l’ultimo a sollecitarne l’adozione, la scorsa settimana, è stato il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta). L’eredità dalla lezione di Jacques Delors, grande uomo di governo europeo, trova finalmente un ascolto di attualità.

Il Recovery Fund, per raccogliere, come Ue, risorse sui mercati finanziari, da destinare alla ripresa post Covid e alle riforme e agli investimenti necessari a una migliore condizione di sviluppo della Next Generation (alla quale era appunto intitolato il nuovo strumento di politica economica e di cui l’Italia gode delle destinazioni più ingenti), ha fatto da apripista. La Ue può muoversi con successo facendo debito comune per finanziare un comune destino di sviluppo sostenibile.

Adesso, è necessario continuare su questa strada. Costruire, appunto con gli eurobond, un fondo che finanzi gli investimenti per un esercito comune e una più robusta politica di sicurezza (nei giorni scorsi ne hanno parlato con insistenza il popolare tedesco Manfred Weber e il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani). E per tutte le scelte d’investimento legate all’approvvigionamento delle materie prime strategiche e dei prodotti indispensabili all’industria europea, a cominciare dai microchip. Le associazioni degli imprenditori italiani, tedeschi e francesi ne sono consapevoli. Ed è stata proprio Confindustria la più insistente nel sollecitare da tempo, a Bruxelles, l’adozione di strumenti comuni di investimento e intervento. Una strada su cui insistere.

Anche da questo punto di vista, l’orizzonte verso cui guardare e su cui giudicare le proposte delle forze politiche è quello di avere “più Europa e un’Europa migliore”, con maggiori politiche di coesione e competizione, crescita e sostenibilità. Un’Europa, finalmente, capace di essere attore globale, all’altezza dei suoi interessi e dei suoi valori, grazie alla capacità di tenere insieme democrazia, mercato e welfare, libertà e benessere. Un paradigma di rilievo nei confronti del resto del mondo.

Sono temi ricorrenti anche in vista della presidenza italiana del G7, che deve sentirsi impegnata a fare le scelte necessarie per cercare di sanare le divergenze evidenti all’interno del campo occidentale (gli Usa da una parte, con la vicinanza della Gran Bretagna e la Ue dall’altra). E che le imprese, riunite nel B7 guidato da Emma Marcegaglia per conto di Confindustria, hanno già cominciato a discutere.

Un punto di riferimento saranno anche i documenti sulla competitività e il mercato che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha affinato a due italiani che conoscono bene le condizioni dell’Europa e le sue prospettive, Mario Draghi ed Enrico Letta. Un orizzonte su cui, fuori dalle beghe politiche localistiche e provinciali, è necessario discutere a fondo.

(foto Getty Images)

“E’ tempo di parlare di Europa”, è la sollecitazione che Lucrezia Reichlin, da economista lungimirante e competente, rivolge ai responsabili della politica italiana, guardando all’orizzonte delle prossime elezioni dell’8 giugno per il nuovo parlamento della Ue (Corriere della Sera, 28 gennaio). Parlare cioè di mutamenti della geopolitica globale e dunque di conflitti e di tensioni internazionali e della cosiddetta “policrisi” (le guerre in Ucraina e in Medio Oriente ne sono gli aspetti più evidenti e drammatici, ma certamente non gli unici) e di grandi questioni ambientali e sociali. Della stagione di crisi e rischi di declino delle democrazie occidentali, sotto i colpi di sovranismi e populisti e le ostilità della galassia del cosiddetto Global South. E naturalmente di economia e cioè di come impostare una politica economica comune sulle questioni della competitività, dell’innovazione e del lavoro, nella stagione di radicali trasformazioni dominate dalla imperiosa diffusione dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi impatti sulla conoscenza, la ricerca, la produzione, i consumi, l’evoluzione delle relazioni economiche e sociali.

Una partita prioritaria, appunto, questa. Che non può essere affrontata soltanto con gli strumenti della regolazione legislativa, su cui la Ue si sta muovendo per prima ma che deve essere guardata in chiave di competitività, di ricerca scientifica e tecnologica, di investimenti e di sostegno alla politica industriale europea: le maggiore imprese sui mercati globali sono, sinora, quelle Usa e è indispensabile fare crescere imprese europee in grado di fare fronte alla sfida.

L’Europa, grande complesso economico ma anche debole consesso politico, è quanto mai fragile, di fronte alle scelte degli Usa e della Cina, ai loro conflitti ma anche alle possibili convergenze di interessi e di volontà di dominio. Per non dire del ruolo crescente, economicamente e dunque anche politicamente, dell’India, attore che da “potenza regionale” aspira a muoversi come “potenza globale”. Ma anche degli espansionismi neo-imperiali della Russia e neo-ottomani della Turchia. In un mondo multipolare, proprio un’autorevole presenza europea può fare la differenza e suggerire strade praticabili per definire nuovi e migliori equilibri di pace e sviluppo.

“L’Europa dovrà decidere se ha la forza di fare quel salto di coesione necessario ad affrontare il nuovo contesto internazionale, che la vede oggi esposta su più fronti”, sostiene la Reichlin. Aggiungendo che “i temi economici sono al solito importanti”, perché “è difficile pensare a una politica estera e di sicurezza comune senza una maggiore condivisione degli strumenti economici” e “senza scelte che non saranno indolori”, sul piano sia economico che sociale”.

Quali scelte? Quelle che riguardano le politiche economiche e fiscali per affrontare, con visione unitaria, i problemi della sicurezza, della crescita economica, della gestione di tutte le complesse partite dell’Intelligenza Artificiale di cui abbiamo parlato e dunque della competitività e del lavoro. Senza dimenticare i temi della salute: “Health is whealth”, ripete spesso Mario Draghi, ben consapevole del rapporto tra qualità della vita e benessere diffuso, ricchezza sociale, possibilità di un futuro più giusto ed equilibrato.

Guardiamo alcuni dati, per capire meglio.

Dal ‘21 al ‘27 la Ue, secondo uno studio del think tank Bruegel, ha avuto e avrà a disposizione, dal suo bilancio, 1.800 miliardi di euro (257 miliardi all’anno) per affrontare gli investimenti dedicati sui temi, considerati prioritari, della transizione verde e di quella digitale, alla difesa e alla sicurezza, alla salute e alla ricostruzione dell’Ucraina (una responsabilità che graverà soprattutto sulla Ue e i paesi europei). Troppo pochi, sostiene Lucrezia Reichlin, anche solo pensando che per il solo Green Deal  della Ue è stimato un fabbisogno di 356 miliardi all’anno.

Pochi, inoltre, rispetto alle politiche economiche messe in campo dagli Usa e dalla Cina. i 737 miliardi dell’Ira (Inflation Reduction Act) messi in campo da Washington per sostenere gli investimenti delle imprese sulle tecnologie per l’energia pulita (uno straordinario attrattore anche per imprese internazionali pronte ad andare a produrre negli Usa). E le ingenti risorse di Pechino per stimolare le imprese cinesi nei settori dell’alta tecnologia.

E dunque? E’ necessario ampliare il bilancio Ue. E mettere in campo uno strumento di cui si discute sempre più spesso: gli eurobond (l’ultimo a sollecitarne l’adozione, la scorsa settimana, è stato il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta). L’eredità dalla lezione di Jacques Delors, grande uomo di governo europeo, trova finalmente un ascolto di attualità.

Il Recovery Fund, per raccogliere, come Ue, risorse sui mercati finanziari, da destinare alla ripresa post Covid e alle riforme e agli investimenti necessari a una migliore condizione di sviluppo della Next Generation (alla quale era appunto intitolato il nuovo strumento di politica economica e di cui l’Italia gode delle destinazioni più ingenti), ha fatto da apripista. La Ue può muoversi con successo facendo debito comune per finanziare un comune destino di sviluppo sostenibile.

Adesso, è necessario continuare su questa strada. Costruire, appunto con gli eurobond, un fondo che finanzi gli investimenti per un esercito comune e una più robusta politica di sicurezza (nei giorni scorsi ne hanno parlato con insistenza il popolare tedesco Manfred Weber e il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani). E per tutte le scelte d’investimento legate all’approvvigionamento delle materie prime strategiche e dei prodotti indispensabili all’industria europea, a cominciare dai microchip. Le associazioni degli imprenditori italiani, tedeschi e francesi ne sono consapevoli. Ed è stata proprio Confindustria la più insistente nel sollecitare da tempo, a Bruxelles, l’adozione di strumenti comuni di investimento e intervento. Una strada su cui insistere.

Anche da questo punto di vista, l’orizzonte verso cui guardare e su cui giudicare le proposte delle forze politiche è quello di avere “più Europa e un’Europa migliore”, con maggiori politiche di coesione e competizione, crescita e sostenibilità. Un’Europa, finalmente, capace di essere attore globale, all’altezza dei suoi interessi e dei suoi valori, grazie alla capacità di tenere insieme democrazia, mercato e welfare, libertà e benessere. Un paradigma di rilievo nei confronti del resto del mondo.

Sono temi ricorrenti anche in vista della presidenza italiana del G7, che deve sentirsi impegnata a fare le scelte necessarie per cercare di sanare le divergenze evidenti all’interno del campo occidentale (gli Usa da una parte, con la vicinanza della Gran Bretagna e la Ue dall’altra). E che le imprese, riunite nel B7 guidato da Emma Marcegaglia per conto di Confindustria, hanno già cominciato a discutere.

Un punto di riferimento saranno anche i documenti sulla competitività e il mercato che la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha affinato a due italiani che conoscono bene le condizioni dell’Europa e le sue prospettive, Mario Draghi ed Enrico Letta. Un orizzonte su cui, fuori dalle beghe politiche localistiche e provinciali, è necessario discutere a fondo.

(foto Getty Images)

L’Europa degli “stati uniti”

Delineati in un libro appena pubblicato la storia, il presente e il futuro dell’Ue

Progetto e ideale, speranza e (per alcuni) pericolo, opera di costruzione e sfida: l’Unione Europea è stata, ed è tuttora, tante cose. E comunque qualcosa che, anche oggi (forse più oggi che in passato) è da proteggere e da tutelare. Anche per il suo significato economico oltre che culturale e sociale. Conoscerne storia e attualità fa bene a tutti. Nell’anno delle elezioni europee, Gianluca Passarelli – che insegna Scienza politica alla Sapienza Università di Roma – adotta per questo scopo un approccio insieme storico, culturale e politologico per narrarne le accidentate vicende in un nuovo libro appena pubblicato.

“Stati Uniti d’Europa. Un’epopea a dodici stelle” senza apologia oppure retorica, analizza dell’Europa unita non solo i problemi ma soprattutto le prospettive e il percorso ancora da intraprendere per giungere finalmente agli “Stati Uniti d’Europa”. Ed è proprio sul futuro che Passarelli ragiona con attenzione maggiore. Nel libro, infatti, vengono analizzate anche le principali sfide che l’Europa si trova di fronte: la crisi economica, le disuguaglianze tra paesi membri, l’ombra della guerra, la minaccia del nazionalismo e del populismo, l’enigma di una politica estera e di difesa ancora troppo sbilanciate sugli Stati ed esposte alle decisioni di Nato e Stati Uniti d’America. E ancora le tensioni economiche tra Nord e Sud, e quelle politiche tra euroscettici e sostenitori di una maggiore integrazione.  Tutti temi importanti non solo per ogni cittadino, ma anche per chi – nell’ambito delle imprese – ha il compito di curarne strategie e sviluppo.

La visione a cui tendere, secondo l’autore, è quella di “un’Unione che sia unita e comune soprattutto circa la democrazia, sua vera forza d’identità”, ma anche per quanto concerne il sistema delle imprese e la cultura stessa che deve improntare le organizzazioni della produzione.

Il libro di Gianluca Passarelli è un buon strumento per capire meglio lo stato dell’Unione europea e, quindi, per formarsi quel bagaglio di conoscenze indispensabili per essere componenti consapevoli del sistema economico e sociale odierno.

Bello l’incipit del libro: “La più grande costruzione istituzionale, politica, sociale ed economica degli ultimi cinquemila anni realizzata dall’essere umano sul pianeta Terra: questo è l’Unione europea”.

Stati Uniti d’Europa. Un’epopea a dodici stelle

Gianluca Passarelli

EGEA, 2024

Delineati in un libro appena pubblicato la storia, il presente e il futuro dell’Ue

Progetto e ideale, speranza e (per alcuni) pericolo, opera di costruzione e sfida: l’Unione Europea è stata, ed è tuttora, tante cose. E comunque qualcosa che, anche oggi (forse più oggi che in passato) è da proteggere e da tutelare. Anche per il suo significato economico oltre che culturale e sociale. Conoscerne storia e attualità fa bene a tutti. Nell’anno delle elezioni europee, Gianluca Passarelli – che insegna Scienza politica alla Sapienza Università di Roma – adotta per questo scopo un approccio insieme storico, culturale e politologico per narrarne le accidentate vicende in un nuovo libro appena pubblicato.

“Stati Uniti d’Europa. Un’epopea a dodici stelle” senza apologia oppure retorica, analizza dell’Europa unita non solo i problemi ma soprattutto le prospettive e il percorso ancora da intraprendere per giungere finalmente agli “Stati Uniti d’Europa”. Ed è proprio sul futuro che Passarelli ragiona con attenzione maggiore. Nel libro, infatti, vengono analizzate anche le principali sfide che l’Europa si trova di fronte: la crisi economica, le disuguaglianze tra paesi membri, l’ombra della guerra, la minaccia del nazionalismo e del populismo, l’enigma di una politica estera e di difesa ancora troppo sbilanciate sugli Stati ed esposte alle decisioni di Nato e Stati Uniti d’America. E ancora le tensioni economiche tra Nord e Sud, e quelle politiche tra euroscettici e sostenitori di una maggiore integrazione.  Tutti temi importanti non solo per ogni cittadino, ma anche per chi – nell’ambito delle imprese – ha il compito di curarne strategie e sviluppo.

La visione a cui tendere, secondo l’autore, è quella di “un’Unione che sia unita e comune soprattutto circa la democrazia, sua vera forza d’identità”, ma anche per quanto concerne il sistema delle imprese e la cultura stessa che deve improntare le organizzazioni della produzione.

Il libro di Gianluca Passarelli è un buon strumento per capire meglio lo stato dell’Unione europea e, quindi, per formarsi quel bagaglio di conoscenze indispensabili per essere componenti consapevoli del sistema economico e sociale odierno.

Bello l’incipit del libro: “La più grande costruzione istituzionale, politica, sociale ed economica degli ultimi cinquemila anni realizzata dall’essere umano sul pianeta Terra: questo è l’Unione europea”.

Stati Uniti d’Europa. Un’epopea a dodici stelle

Gianluca Passarelli

EGEA, 2024

Raccontare l’impresa da un punto di vista diverso

La comunicazione non finanziaria vista come utile complemento al bilancio

Raccontarsi non solo dal punto di vista finanziario ed economico ma anche guardando alla globalità di ciò che si fa. Con attenzione particolare alle persone e alla sostenibilità della propria attività. E’ l’orizzonte – ormai non nuovo ma certamente non molto diffuso – di fronte al quale si trovano molte imprese. Orizzonte comprensibile e accettabile, ma non certo facilmente raggiungibile. Anche perché per arrivarci non basta una buona teoria ma è necessaria molta pratica. Ed esempi da seguire.

E di esempi, importanti, parla Emma Pavanello nella sua ricerca (trasformatasi in tesi) discussa presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università di Padova.

“La comunicazione non finanziaria d’impresa: analisi dei casi aziendali Moncler s.p.a. E Ovs s.p.a.” è l’analisi di due casi studio d’impresa sotto il profilo del significato e delle strategie della comunicazione d’impresa non finanziaria: un modo per far trasparire anche la particolare cultura del produrre presente in azienda.

La ricerca ha un impianto semplice ed efficace. Dopo aver fissato i tratti essenziali della comunicazione non finanziaria, Pavanello affronta l’analisi di Moncler e di Ovs: entrambi valutate sia dal punto di vista dell’attenzione all’ambiente che da quello sociale. Nelle conclusioni, Pavanello effettua quindi un confronto tra le due tipologie di comunicazione non finanziaria basato sull’atteggiamento dedicato a: attenzione al cambiamento climatico, benessere animale, rifiuti e riciclo degli stessi, sicurezza e sostenibilità dei materiali, salute e sicurezza sul lavoro, diritti umani, lotta alle disparità, iniziative per lo sviluppo locale, catene di fornitura, comunicazione e altro ancora.

La ricerca di Emma Pavanello non contiene particolari elementi di innovatività sul tema della comunicazione non finanziaria d’impresa, ma ha il grande merito di sintetizzare con efficacia il tema e analizzarlo sotto il profilo di due significativi casi aziendali. Così facendo, Pavanello riesce a far comprendere l’importanza di questo strumento affiancato alle più tradizionali modalità di rendicontazione aziendale.

La comunicazione non finanziaria d’impresa: analisi dei casi aziendali Moncler s.p.a. E Ovs s.p.a.

Emma Pavanello

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali  “M. Fanno”,  Corso di laurea in Economia

La comunicazione non finanziaria vista come utile complemento al bilancio

Raccontarsi non solo dal punto di vista finanziario ed economico ma anche guardando alla globalità di ciò che si fa. Con attenzione particolare alle persone e alla sostenibilità della propria attività. E’ l’orizzonte – ormai non nuovo ma certamente non molto diffuso – di fronte al quale si trovano molte imprese. Orizzonte comprensibile e accettabile, ma non certo facilmente raggiungibile. Anche perché per arrivarci non basta una buona teoria ma è necessaria molta pratica. Ed esempi da seguire.

E di esempi, importanti, parla Emma Pavanello nella sua ricerca (trasformatasi in tesi) discussa presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università di Padova.

“La comunicazione non finanziaria d’impresa: analisi dei casi aziendali Moncler s.p.a. E Ovs s.p.a.” è l’analisi di due casi studio d’impresa sotto il profilo del significato e delle strategie della comunicazione d’impresa non finanziaria: un modo per far trasparire anche la particolare cultura del produrre presente in azienda.

La ricerca ha un impianto semplice ed efficace. Dopo aver fissato i tratti essenziali della comunicazione non finanziaria, Pavanello affronta l’analisi di Moncler e di Ovs: entrambi valutate sia dal punto di vista dell’attenzione all’ambiente che da quello sociale. Nelle conclusioni, Pavanello effettua quindi un confronto tra le due tipologie di comunicazione non finanziaria basato sull’atteggiamento dedicato a: attenzione al cambiamento climatico, benessere animale, rifiuti e riciclo degli stessi, sicurezza e sostenibilità dei materiali, salute e sicurezza sul lavoro, diritti umani, lotta alle disparità, iniziative per lo sviluppo locale, catene di fornitura, comunicazione e altro ancora.

La ricerca di Emma Pavanello non contiene particolari elementi di innovatività sul tema della comunicazione non finanziaria d’impresa, ma ha il grande merito di sintetizzare con efficacia il tema e analizzarlo sotto il profilo di due significativi casi aziendali. Così facendo, Pavanello riesce a far comprendere l’importanza di questo strumento affiancato alle più tradizionali modalità di rendicontazione aziendale.

La comunicazione non finanziaria d’impresa: analisi dei casi aziendali Moncler s.p.a. E Ovs s.p.a.

Emma Pavanello

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali  “M. Fanno”,  Corso di laurea in Economia

“A futura memoria”, per dare valore alla storia contro le passioni volubili e i superficiali like

A futura memoria”, è il titolo d’un sapido libro di Leonardo Sciascia, pubblicato da Bompiani nel 1989, per raccogliere una serie di scritti “su certi delitti, su certa amministrazione della giustizia e sulla mafia”. Scritti civili, animatamente discussi, controversi, comunque solidamente ispirati al bisogno di verità e, appunto, di giustizia di fronte a tanti, e irrisolti, misteri della recente storia italiana.

Quel titolo, monito severo di responsabilità non solo per i contemporanei ma soprattutto verso le nuove generazioni, ha una precisazione, pur se messa tra parentesi: (“se la memoria ha un futuro”). Una nota di preoccupazione, una cautela ragionevole, un’ombra sulla stessa forza d’un pensiero denso di spirito civico e di senso di responsabilità, soprattutto di fronte a un’Italia che un altro grande uomo di cultura, Pier Paolo Pasolini, nei suoi “Scritti corsari” del 1975, aveva definito così: “Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia”. Aggiungendo, con il consueto polemico pessimismo: “Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili”.

Rileggere oggi quelle parole intense, “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)” significa provare ad affinare gli strumenti culturali (e dunque politici) per fare fronte alle superficialità e alle contorsioni di una stagione in cui sembrano prevalere, nel gioco delle chiacchiere e delle inclinazioni di un’opinione pubblica disattenta e disorientata, il cosiddetto “presentismo”, le emozioni istantanee, le passioni bruciate in un solo momento, le opinioni volubili.

Surfare sulla superficie della cronaca, evitando ogni pensiero in profondità. Coltivare l’ossessione del “nuovismo” tanto caro ai demagoghi e ai populisti, come se la vicenda umana cominciasse da una improbabile tabula rasa e non da una faticosa e pur sempre dolorosa ricostruzione di sé stessi, delle relazioni sociali, dei rapporti economici.

Tradizione e innovazione si tengono insieme e si rafforzano reciprocamente (utilissimo, per questo, dedicare tempo alle puntate della fiction su Rai1, tratta da “La Storia” di Elsa Morante, uno dei romanzi più belli e importanti della letteratura italiana della seconda metà del Novecento).

Serve affinare gli strumenti culturali della conoscenza storica, dunque. Della consapevolezza dello spessore e della profondità dei fenomeni economici e sociali. Della coscienza di quanto la complessità della nostra stessa vita quotidiana non sia riducibile alla banalità delle semplificazioni più corrive, allo schematismo dei like e degli emoticon cari alla frenesia dei social. E’ una questione di valori. Di relazioni. Di senso profondo della nostra convivenza civile. Della nostra democrazia.

L’obiettivo di lavorare sulla memoria ha, appunto, un grande valore progettuale per il futuro. Non soltanto per la forza attuale della lezione d’un grande storico del Novecento come Fernand Braudel che ci ha insegnato come “essere stati è una condizione per essere”. Ma anche per la consapevolezza che tutti gli sviluppi dell’economia della conoscenza nell’epoca digitale e dei sorprendenti progressi dell’Intelligenza Artificiale hanno bisogno di pensiero critico, inclinazione costante alla ricerca libera, metodo scientifico e attitudine al dubbio sistematico. Coscienza storica. E curiosità intellettuale.

Sono quanto mai d’aiuto, in questo senso, ricorrenze come “il giorno della memoria”, il 27 gennaio, per riportare all’attenzione di noi tutti la tragedia della Shoah, rileggendo le ore più cupe del Novecento attraverso la rimemorazione del genocidio degli ebrei per mano della violenza nazifascista (indispensabile, riflettere, anche nelle scuole, sulle pagine di “Se questo è un uomo” di Primo Levi) e insistendo per cercare di approfondire le differenze tra quello sterminio razzista e le drammatiche stragi attuali in Medio Oriente e in Ucraina. O come “il giorno del ricordo”, il 10 febbraio, dedicato alle vittime delle foibe, per non dimenticare mai l’orrore d’una delle pagine più tremende della nostra guerra civile, per mano dei militari della Jugoslavia comunista e dei loro alleati tra i partigiani italiani.

Ecco il punto: le ricorrenze non sono formalismi ripetitivi. Ma occasioni di studio, di ricerca, di confronto. Opportunità di conoscenza e di approfondimento della storia. Spazi per il lavoro critico sulla memoria.

Memoria dei grandi drammi sociali. Dei conflitti politici e delle loro soluzioni. Dei progressi economici e dell’impegno del mondo del lavoro e dell’impresa per costruire benessere e innovazione. Dei progressi scientifici. E dei grandi movimenti culturali. Sapendo che nulla è lineare, nella storia umana, nulla è privo di fatica e di dolore.

Lavorare sulla memoria, proprio per rispondere positivamente al dubbio di Sciascia sulla possibilità che la memoria abbia un futuro, significa anche insistere sui valori della cultura. E fare tesoro, per esempio, delle preziose indicazioni contenute nel discorso pronunciato sabato scorso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia d’inaugurazione di Pesaro capitale della cultura italiana 2024: “La cultura non sopporta restrizioni o confini, pretende il rispetto delle opzioni di ogni cittadino, respinge la pretesa, sia di pubblici poteri o di grandi corporazioni, di indirizzare la sensibilità verso il monopolio di un pensiero unico”.

Sono indicazioni importanti, per la nostra convivenza civile, per la costruzione di una memoria condivisa raggiunta attraverso un libero confronto di opinioni e punti di vista diversi, per il rafforzamento di legami sociali che oggi, più che in passato, rischiano lo slabbramento per il prevalere di individualismi ed egoismi familisti, clientelari e corporativi. Ma sono anche sottolineature progettuali, per una società in cui le nuove tecnologie possono portare, se non ben governate in originali dialettiche tra libertà e responsabilità, a inediti e laceranti divari sociali, generazionali e culturali.

Mattarella insiste ricordando che, “se la cultura è sapere, creatività, emozione, passione, sentimento, ebbene è il presupposto delle nostre libertà, inclusa quella di stare insieme”. Con attenzione per “la pluralità delle culture che fanno così attraente la nostra Patria e che rendono inimitabile la nostra identità”.

Cultura come valore da società aperta, dialettica, inclusiva: “La cultura è soprattutto apertura anche fuori dai confini senza chiudersi a riccio solo sulle tradizioni di ciascuno. Quella cultura che, proprio per la natura dei processi storici che hanno caratterizzato il progressivo divenire dell’Italia, è fatta di rapporti con i Paesi vicini, con gli altri popoli, con le aspirazioni proprie della dimensione europea”.

Il Quirinale è luogo di consapevolezza storica e di attenzione alla memoria (come conferma anche la lezione di Carlo Azeglio Ciampi e di Giorgio Napolitano, presidenti della Repubblica per la preparazione e poi per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità italiana, con la valorizzazione della parola Patria, del Tricolore, dell’Inno nazionale). Di insistenza su tutto ciò che ci tiene insieme, a cominciare dalla Costituzione e sui valori delle diversità e del pluralismo culturale e sociale.

E proprio le parole del presidente Mattarella sulla cultura sono, in tempi così difficili, un buon viatico per chi continua a lavorare sulla custodia della memoria, sul rapporto critico con la storia, sul desiderio di cambiamento, trasformazione, innovazione. In sintesi, su come progettare e costruire un buon “avvenire della memoria”.

(foto Getty Images)

A futura memoria”, è il titolo d’un sapido libro di Leonardo Sciascia, pubblicato da Bompiani nel 1989, per raccogliere una serie di scritti “su certi delitti, su certa amministrazione della giustizia e sulla mafia”. Scritti civili, animatamente discussi, controversi, comunque solidamente ispirati al bisogno di verità e, appunto, di giustizia di fronte a tanti, e irrisolti, misteri della recente storia italiana.

Quel titolo, monito severo di responsabilità non solo per i contemporanei ma soprattutto verso le nuove generazioni, ha una precisazione, pur se messa tra parentesi: (“se la memoria ha un futuro”). Una nota di preoccupazione, una cautela ragionevole, un’ombra sulla stessa forza d’un pensiero denso di spirito civico e di senso di responsabilità, soprattutto di fronte a un’Italia che un altro grande uomo di cultura, Pier Paolo Pasolini, nei suoi “Scritti corsari” del 1975, aveva definito così: “Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia”. Aggiungendo, con il consueto polemico pessimismo: “Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili”.

Rileggere oggi quelle parole intense, “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)” significa provare ad affinare gli strumenti culturali (e dunque politici) per fare fronte alle superficialità e alle contorsioni di una stagione in cui sembrano prevalere, nel gioco delle chiacchiere e delle inclinazioni di un’opinione pubblica disattenta e disorientata, il cosiddetto “presentismo”, le emozioni istantanee, le passioni bruciate in un solo momento, le opinioni volubili.

Surfare sulla superficie della cronaca, evitando ogni pensiero in profondità. Coltivare l’ossessione del “nuovismo” tanto caro ai demagoghi e ai populisti, come se la vicenda umana cominciasse da una improbabile tabula rasa e non da una faticosa e pur sempre dolorosa ricostruzione di sé stessi, delle relazioni sociali, dei rapporti economici.

Tradizione e innovazione si tengono insieme e si rafforzano reciprocamente (utilissimo, per questo, dedicare tempo alle puntate della fiction su Rai1, tratta da “La Storia” di Elsa Morante, uno dei romanzi più belli e importanti della letteratura italiana della seconda metà del Novecento).

Serve affinare gli strumenti culturali della conoscenza storica, dunque. Della consapevolezza dello spessore e della profondità dei fenomeni economici e sociali. Della coscienza di quanto la complessità della nostra stessa vita quotidiana non sia riducibile alla banalità delle semplificazioni più corrive, allo schematismo dei like e degli emoticon cari alla frenesia dei social. E’ una questione di valori. Di relazioni. Di senso profondo della nostra convivenza civile. Della nostra democrazia.

L’obiettivo di lavorare sulla memoria ha, appunto, un grande valore progettuale per il futuro. Non soltanto per la forza attuale della lezione d’un grande storico del Novecento come Fernand Braudel che ci ha insegnato come “essere stati è una condizione per essere”. Ma anche per la consapevolezza che tutti gli sviluppi dell’economia della conoscenza nell’epoca digitale e dei sorprendenti progressi dell’Intelligenza Artificiale hanno bisogno di pensiero critico, inclinazione costante alla ricerca libera, metodo scientifico e attitudine al dubbio sistematico. Coscienza storica. E curiosità intellettuale.

Sono quanto mai d’aiuto, in questo senso, ricorrenze come “il giorno della memoria”, il 27 gennaio, per riportare all’attenzione di noi tutti la tragedia della Shoah, rileggendo le ore più cupe del Novecento attraverso la rimemorazione del genocidio degli ebrei per mano della violenza nazifascista (indispensabile, riflettere, anche nelle scuole, sulle pagine di “Se questo è un uomo” di Primo Levi) e insistendo per cercare di approfondire le differenze tra quello sterminio razzista e le drammatiche stragi attuali in Medio Oriente e in Ucraina. O come “il giorno del ricordo”, il 10 febbraio, dedicato alle vittime delle foibe, per non dimenticare mai l’orrore d’una delle pagine più tremende della nostra guerra civile, per mano dei militari della Jugoslavia comunista e dei loro alleati tra i partigiani italiani.

Ecco il punto: le ricorrenze non sono formalismi ripetitivi. Ma occasioni di studio, di ricerca, di confronto. Opportunità di conoscenza e di approfondimento della storia. Spazi per il lavoro critico sulla memoria.

Memoria dei grandi drammi sociali. Dei conflitti politici e delle loro soluzioni. Dei progressi economici e dell’impegno del mondo del lavoro e dell’impresa per costruire benessere e innovazione. Dei progressi scientifici. E dei grandi movimenti culturali. Sapendo che nulla è lineare, nella storia umana, nulla è privo di fatica e di dolore.

Lavorare sulla memoria, proprio per rispondere positivamente al dubbio di Sciascia sulla possibilità che la memoria abbia un futuro, significa anche insistere sui valori della cultura. E fare tesoro, per esempio, delle preziose indicazioni contenute nel discorso pronunciato sabato scorso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia d’inaugurazione di Pesaro capitale della cultura italiana 2024: “La cultura non sopporta restrizioni o confini, pretende il rispetto delle opzioni di ogni cittadino, respinge la pretesa, sia di pubblici poteri o di grandi corporazioni, di indirizzare la sensibilità verso il monopolio di un pensiero unico”.

Sono indicazioni importanti, per la nostra convivenza civile, per la costruzione di una memoria condivisa raggiunta attraverso un libero confronto di opinioni e punti di vista diversi, per il rafforzamento di legami sociali che oggi, più che in passato, rischiano lo slabbramento per il prevalere di individualismi ed egoismi familisti, clientelari e corporativi. Ma sono anche sottolineature progettuali, per una società in cui le nuove tecnologie possono portare, se non ben governate in originali dialettiche tra libertà e responsabilità, a inediti e laceranti divari sociali, generazionali e culturali.

Mattarella insiste ricordando che, “se la cultura è sapere, creatività, emozione, passione, sentimento, ebbene è il presupposto delle nostre libertà, inclusa quella di stare insieme”. Con attenzione per “la pluralità delle culture che fanno così attraente la nostra Patria e che rendono inimitabile la nostra identità”.

Cultura come valore da società aperta, dialettica, inclusiva: “La cultura è soprattutto apertura anche fuori dai confini senza chiudersi a riccio solo sulle tradizioni di ciascuno. Quella cultura che, proprio per la natura dei processi storici che hanno caratterizzato il progressivo divenire dell’Italia, è fatta di rapporti con i Paesi vicini, con gli altri popoli, con le aspirazioni proprie della dimensione europea”.

Il Quirinale è luogo di consapevolezza storica e di attenzione alla memoria (come conferma anche la lezione di Carlo Azeglio Ciampi e di Giorgio Napolitano, presidenti della Repubblica per la preparazione e poi per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità italiana, con la valorizzazione della parola Patria, del Tricolore, dell’Inno nazionale). Di insistenza su tutto ciò che ci tiene insieme, a cominciare dalla Costituzione e sui valori delle diversità e del pluralismo culturale e sociale.

E proprio le parole del presidente Mattarella sulla cultura sono, in tempi così difficili, un buon viatico per chi continua a lavorare sulla custodia della memoria, sul rapporto critico con la storia, sul desiderio di cambiamento, trasformazione, innovazione. In sintesi, su come progettare e costruire un buon “avvenire della memoria”.

(foto Getty Images)

Storia di un imprenditore

Vita e imprese di Filiberto Martinetto, da ragazzino apprendista a capo di un gruppo tessile

 

Memoria e quindi storia, ma anche insegnamenti per il presente e per il futuro. Ricordi non riposti in qualche cassetto pronti per essere dimenticati, ma riproposti un po’ per tutti in pagine dense, a volte quasi ingenue e candide, altre volte severe, mai banali, mai false. Storia di un’impresa e di un imprenditore. E’ tutto questo il libro di Filiberto Martinetto (imprenditore tessile) che con il titolo di “Tessere la vita. Un sogno come ordito, un’idea come trama” è da poco andato alle stampe.

Libro-diario per certi versi, di memorie per altri, manuale di buona imprenditoria per altri ancora. In circa duecento pagine scorrono il racconto autobiografico di un imprenditore pioniere dell’industria tessile, ma anche una storia d’impresa del Novecento, il memoir di un uomo tenace che ricompone i momenti più salienti della sua vita, intrecciando lavoro, aziende, politica e famiglia, tra sfide, traguardi raggiunti e perdite sofferte, ricordi personali e riflessioni sul senso delle cose in un mondo che cambia.

Tutto inizia il 14 novembre del 1934 a San Francesco al Campo (Torino), paese natale dell’autore, e da quel giorno il racconto va avanti tra ricordi d’infanzia che si fanno presto di lavoro e una grande storia che si dipana tra guerre, periodi di pace, voglia di fare, sfide (di cui molte vinte), gioie familiari, timori comuni a tutti, grandi lutti e sogni che passo dopo passo il protagonista cerca di far diventare realtà (riuscendoci in buona parte). Martinetto inizia a lavorare a 13 anni come apprendista operaio tessile e non si ferma più, nemmeno oggi a quasi 90 anni. Scorrono nella sua storia alcuni dei migliori nomi dell’industria tessile nazionale, come quello della Remmert, un tempo il più grande nastrificio d’Europa, acquistata e rilanciata quando era ormai sull’orlo della chiusura e che in qualche modo completa il profilo di un gruppo con più stabilimenti e sedi in Italia e all’estero.

Ma scorre nel libro, più di tutto, la vita di un imprenditore caparbio e visionario insieme a quella di una comunità locale che si estende poi alla grande città (la Torino città della grande industria è ad un passo) e quindi all’Italia. Una vicenda raccontata con alcuni capisaldi come quello della serietà e dell’impegno, della famiglia, del legame con i propri collaboratori. A ben vedere, caratteristiche proprie di migliaia di altri imprenditori, di una cultura d’impresa che si fa ogni giorno e che nelle pagine di Martinetto trova uno dei migliori racconti.

Il libro di Filiberto Martinetto non ha la pretesa di insegnare a fare impresa, non vuole essere un manuale di saggio management. Eppure riesce nell’uno e nell’altro intento: insegna a fare buona impresa con l’esempio. Da leggere come è stato scritto: con semplicità.

Tessere la vita. Un sogno come ordito, un’idea come trama

Filiberto Martinetto

Neos Edizioni, 2023

Vita e imprese di Filiberto Martinetto, da ragazzino apprendista a capo di un gruppo tessile

 

Memoria e quindi storia, ma anche insegnamenti per il presente e per il futuro. Ricordi non riposti in qualche cassetto pronti per essere dimenticati, ma riproposti un po’ per tutti in pagine dense, a volte quasi ingenue e candide, altre volte severe, mai banali, mai false. Storia di un’impresa e di un imprenditore. E’ tutto questo il libro di Filiberto Martinetto (imprenditore tessile) che con il titolo di “Tessere la vita. Un sogno come ordito, un’idea come trama” è da poco andato alle stampe.

Libro-diario per certi versi, di memorie per altri, manuale di buona imprenditoria per altri ancora. In circa duecento pagine scorrono il racconto autobiografico di un imprenditore pioniere dell’industria tessile, ma anche una storia d’impresa del Novecento, il memoir di un uomo tenace che ricompone i momenti più salienti della sua vita, intrecciando lavoro, aziende, politica e famiglia, tra sfide, traguardi raggiunti e perdite sofferte, ricordi personali e riflessioni sul senso delle cose in un mondo che cambia.

Tutto inizia il 14 novembre del 1934 a San Francesco al Campo (Torino), paese natale dell’autore, e da quel giorno il racconto va avanti tra ricordi d’infanzia che si fanno presto di lavoro e una grande storia che si dipana tra guerre, periodi di pace, voglia di fare, sfide (di cui molte vinte), gioie familiari, timori comuni a tutti, grandi lutti e sogni che passo dopo passo il protagonista cerca di far diventare realtà (riuscendoci in buona parte). Martinetto inizia a lavorare a 13 anni come apprendista operaio tessile e non si ferma più, nemmeno oggi a quasi 90 anni. Scorrono nella sua storia alcuni dei migliori nomi dell’industria tessile nazionale, come quello della Remmert, un tempo il più grande nastrificio d’Europa, acquistata e rilanciata quando era ormai sull’orlo della chiusura e che in qualche modo completa il profilo di un gruppo con più stabilimenti e sedi in Italia e all’estero.

Ma scorre nel libro, più di tutto, la vita di un imprenditore caparbio e visionario insieme a quella di una comunità locale che si estende poi alla grande città (la Torino città della grande industria è ad un passo) e quindi all’Italia. Una vicenda raccontata con alcuni capisaldi come quello della serietà e dell’impegno, della famiglia, del legame con i propri collaboratori. A ben vedere, caratteristiche proprie di migliaia di altri imprenditori, di una cultura d’impresa che si fa ogni giorno e che nelle pagine di Martinetto trova uno dei migliori racconti.

Il libro di Filiberto Martinetto non ha la pretesa di insegnare a fare impresa, non vuole essere un manuale di saggio management. Eppure riesce nell’uno e nell’altro intento: insegna a fare buona impresa con l’esempio. Da leggere come è stato scritto: con semplicità.

Tessere la vita. Un sogno come ordito, un’idea come trama

Filiberto Martinetto

Neos Edizioni, 2023

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