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Quando l’azienda si racconta

Analizzate in uno studio appena pubblicato origini, caratteristiche e sfide dei musei d’impresa

 

 Musei ma d’impresa. Diffusi, ormai, ma forse non abbastanza. E comunque molti comunque ancora da far nascere. Strumenti per raccontare una storia, ma anche per accrescere competitività e modernità. Entità già studiate, ma dalle potenzialità ancora da scoprire e approfondire. E’ attorno ai musei d’impresa che ha lavorato un gruppo di ricercatori dell’Università degli studi dell’Insubria

(Daniele Grechi, Anduela Gjoka, Enrica Pavione e Roberta Pezzetti) ragionando in particolare su come preservare e valorizzare il patrimonio di queste strutture.

“Musei d’impresa: sfide, opportunità e strategie per la preservazione e valorizzazione del patrimonio industriale e imprenditoriale”, da poco pubblicato, è un’utile analisi dello stato dell’arte, della realizzazione e dei problemi da affrontare sul tema.

La ricerca prende le mosse dal confronto tra museo tradizionale e museo d’impresa per passare poi ad approfondire funzioni e obiettivi specifici dei musei d’impresa e quindi la realtà dei musei aziendali in Italia (partendo, dopo alcuni esempi storici, dalla creazione dell’associazione Museimpresa). Della geografia di queste realtà diffuse nel Paese, viene fornito quindi un dettaglio più che esaustivo che serve per arrivare ad affrontare i modelli gestionali con cui i musei vengono progettati e condotti. Completa la ricerca una serie di “casi” tratti dal comparto dell’arredamento come quelli di Kartell, Gruppo Molteni, Poltrona Frau.

La fotografia di sintesi che gli autori traggono dall’analisi ha più aspetti da rilevare. “Ogni museo – viene sottolineato -, rappresenta un caso unico, dato che la storia imprenditoriale che raccontano è esclusiva e per questa ragione essi svolgono molteplici ruoli, dalla celebrazione di eventi legati alle aziende e famiglie, alla fornitura di servizi di comunicazione e formazione imprenditoriale, fino a contribuire alla promozione della responsabilità sociale e culturale delle imprese”. Ma, viene aggiunto che “i musei d’impresa sono anche motori di attività di ricerca, conservazione e trasmissione del patrimonio materiale e immateriale delle aziende”. Senza dimenticare che gli stessi “contribuiscono alla valorizzazione dell’identità dell’azienda e dei legami impresa-territorio-stakeholder, trasformando il passato industriale in risorse culturali, identitarie e formative per la comunità locale e il pubblico più vasto”. È tutto senza trascurare le “sfide finanziarie, gestionali e tecnologiche, che richiedono approcci innovativi per la loro sostenibilità a lungo termine”.

La ricerca condotta da Grechi, Gjoka, Pavione e Pezzetti ha il gran pregio di sintetizzare in poche pagine, e con chiarezza, un tema in divenire che deve essere ben compreso per non cadere in erronee interpretazioni che rischiano di falsarne il significato

Musei d’impresa: sfide, opportunità e strategie per la preservazione e valorizzazione del patrimonio industriale e imprenditoriale

Daniele Grechi, Anduela Gjoka, Enrica Pavione, Roberta Pezzetti

Economia Azienda Online, vol. 14, n. 4, 2023

Analizzate in uno studio appena pubblicato origini, caratteristiche e sfide dei musei d’impresa

 

 Musei ma d’impresa. Diffusi, ormai, ma forse non abbastanza. E comunque molti comunque ancora da far nascere. Strumenti per raccontare una storia, ma anche per accrescere competitività e modernità. Entità già studiate, ma dalle potenzialità ancora da scoprire e approfondire. E’ attorno ai musei d’impresa che ha lavorato un gruppo di ricercatori dell’Università degli studi dell’Insubria

(Daniele Grechi, Anduela Gjoka, Enrica Pavione e Roberta Pezzetti) ragionando in particolare su come preservare e valorizzare il patrimonio di queste strutture.

“Musei d’impresa: sfide, opportunità e strategie per la preservazione e valorizzazione del patrimonio industriale e imprenditoriale”, da poco pubblicato, è un’utile analisi dello stato dell’arte, della realizzazione e dei problemi da affrontare sul tema.

La ricerca prende le mosse dal confronto tra museo tradizionale e museo d’impresa per passare poi ad approfondire funzioni e obiettivi specifici dei musei d’impresa e quindi la realtà dei musei aziendali in Italia (partendo, dopo alcuni esempi storici, dalla creazione dell’associazione Museimpresa). Della geografia di queste realtà diffuse nel Paese, viene fornito quindi un dettaglio più che esaustivo che serve per arrivare ad affrontare i modelli gestionali con cui i musei vengono progettati e condotti. Completa la ricerca una serie di “casi” tratti dal comparto dell’arredamento come quelli di Kartell, Gruppo Molteni, Poltrona Frau.

La fotografia di sintesi che gli autori traggono dall’analisi ha più aspetti da rilevare. “Ogni museo – viene sottolineato -, rappresenta un caso unico, dato che la storia imprenditoriale che raccontano è esclusiva e per questa ragione essi svolgono molteplici ruoli, dalla celebrazione di eventi legati alle aziende e famiglie, alla fornitura di servizi di comunicazione e formazione imprenditoriale, fino a contribuire alla promozione della responsabilità sociale e culturale delle imprese”. Ma, viene aggiunto che “i musei d’impresa sono anche motori di attività di ricerca, conservazione e trasmissione del patrimonio materiale e immateriale delle aziende”. Senza dimenticare che gli stessi “contribuiscono alla valorizzazione dell’identità dell’azienda e dei legami impresa-territorio-stakeholder, trasformando il passato industriale in risorse culturali, identitarie e formative per la comunità locale e il pubblico più vasto”. È tutto senza trascurare le “sfide finanziarie, gestionali e tecnologiche, che richiedono approcci innovativi per la loro sostenibilità a lungo termine”.

La ricerca condotta da Grechi, Gjoka, Pavione e Pezzetti ha il gran pregio di sintetizzare in poche pagine, e con chiarezza, un tema in divenire che deve essere ben compreso per non cadere in erronee interpretazioni che rischiano di falsarne il significato

Musei d’impresa: sfide, opportunità e strategie per la preservazione e valorizzazione del patrimonio industriale e imprenditoriale

Daniele Grechi, Anduela Gjoka, Enrica Pavione, Roberta Pezzetti

Economia Azienda Online, vol. 14, n. 4, 2023

Ricostruire la fiducia, per affrontare divari sociali e diseguaglianze di genere e generazione

“Ricostruire la fiducia”, è la parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum, il convegno dei 2.800 principali protagonisti dell’economia mondiale riuniti, come ogni anno, a Davos, tra le montagne cariche di neve in Svizzera. La fiducia delle imprese, dei consumatori, dei mercati finanziari e delle istituzioni, per evitare i rischi di un forte indebolimento delle economie mondiali.

Come? Provando innanzitutto a costruire risposte credibili, di lungo periodo, ai tanti focolai di crisi aperti in tutto il mondo (Ucraina, Medio Oriente, area del Pacifico) e alle loro conseguenze economiche (il parziale blocco del Mar Rosso, per i conflitti scatenati dagli islamisti yemeniti Houthi, potrebbe portare a un forte rallentamento dell’industria europea e alla recessione).

Servono dunque rassicuranti prospettive di politica internazionale, anche se al momento non si intravvedono attori autorevoli e lungimiranti, capaci di costruire soluzioni diplomatiche ampiamente condivisibili. Ma, proprio in nome della fiducia, è necessario ragionare pure su scelte politiche in grado di dare risposte concrete non solo alla stentata crescita economica (la recessione in Germania, principale attore economico Ue, coinvolge pesantemente gli altri paesi europei, a cominciare proprio dall’Italia) ma anche al diffuso disagio sociale che nasce dall’aumento di divari e diseguaglianze (sociali, appunto, ma anche territoriali tra Nord e Sud del mondo, di genere e di generazione, di condizioni economiche e culturali, di conoscenza e di accesso ai beni primari, come la salute e l’istruzione).

Divari drammatici e crescenti (il Rapporto Oxfam diffuso appunto a Davos rivela che i 5 uomini più ricchi del mondo, dal 2020 a oggi, hanno più che raddoppiato le loro fortune, da 405 a 869 miliardi di dollari, mentre 5 miliardi di persone più povere hanno visto invariata la propria condizione). Divari sempre meno accettabili. Che minano profondamente le prospettive di futuro per le nuove generazioni e mettono radicalmente in crisi non solo gli assetti dell’economia, ma anche la stabilità politica di parecchi paesi e, dagli Usa all’Europa, le stesse prospettive di tenuta delle nostre democrazie (sotto la spinta perversa di populismi, sovranismi, localismi escludenti).

Il tema della fiducia, nel futuro, nelle istituzioni, nelle rappresentanze politiche e sindacali e nell’autorevolezza progettuale delle élites intellettuali tocca profondamente anche l’Italia. E da tempo, proprio sui media principali, il tema si propone con insistenza all’attenzione di un’opinione pubblica sensibile al crescere delle fragilità generali e personali e degli squilibri di vita quotidiana e di opportunità per il tempo che verrà. Una frattura di fiducia, appunto.

Ecco alcuni dati, per dare corpo “all’inverno del nostro scontento”, a un contesto di crescente disagio. La Banca d’Italia (Il Sole24Ore, 9 gennaio) documenta che il 5% delle famiglie italiane benestanti ha il 46% della ricchezza netta totale (il patrimonio, come somma di tutti i valori reali e finanziari della famiglia, al netto dell’indebitamento). La metà più povera del paese ne ha appena il 7,6%, legata in gran parte alla proprietà della casa di prima abitazione della famiglia, un valore importante, certo, ma poco utile per fare fronte a bisogni crescenti di vita e a spese e investimenti essenziali (la salute, l’educazione delle nuove generazioni). In sintesi: pur se padroni della casa in cui vivono, i ceti medi si impoveriscono e i loro figli rischiano di peggiorare ancora la propria condizione.

La diseguaglianza di ricchezza in Italia, è vero, è meno forte che in altri paesi, come la Germania o gli Usa (nell’Indice di Gini, che in una scala da 0 a 1 misura la distribuzione della ricchezza, il dato dell’Italia è cresciuto da 0,67 a 0,7). Ma in Germania e in Francia, tanto per ragionare su un altro dato, i salari negli ultimi vent’anni, sono cresciuti del 33%, al pari della produttività, mentre da noi sono rimasti sostanzialmente fermi (+0,36%, per l’esattezza). I provvedimenti per abbattere il cuneo fiscale vanno resi strutturali. E l’aggancio dell’aumento dei salari a quello della produttività sono strade da percorrere con decisione.  

Ancora qualche altro dato, per riflettere: l’Istat documenta che ci sono 1,3 milioni di contratti sotto la soglia del salario minimo (posti con retribuzione oraria inferiore a 7,79 euro, un vero e proprio “lavoro povero” che penalizza attività a tempo determinato, giovani sotto i trent’anni, donne e apprendisti; la Repubblica 11 gennaio). L’Assegno di inclusione, che ha sostituito il contestato Reddito di cittadinanza, raggiunge solo 450mila famiglie. E le condizioni di povertà (reddito medio mensile inferiore a 640 euro) riguarda 2,18 milioni di famiglie, l’8,3% del totale (erano il 7,7% nel ‘21) o, se vogliamo guardare un altro punto di vista, 5,6 milioni di persone (il 9,7% degli italiani, in crescita dal 9,1% degli anni precedenti).

“Un italiano su sei soffre la fame”, sintetizza Chiara Saraceno su La Stampa (11 gennaio), analizzando la spesa delle famiglie nei discount e documentando i tagli robusti alla quantità e alla qualità del cibo, con conseguenze sulla salute, anche dei bambini (il cibo spazzatura rafforza la diffusione dell’obesità). E sempre La Stampa (15 gennaio) racconta che per “farmaci e liste d’attesa è più povero un italiano su sei”. Secondo il Rapporto Asvis sui territori per il 2023, “in Italia aumentano le diseguaglianze: povertà crescente, rischi ambientali peggioranti, laureati in diminuzione” (la Repubblica, 13 dicembre ’23).

Servono, dunque, scelte politiche di grande rilievo, per fronteggiare la crisi e ricostruire, come dicevamo, la fiducia. Non solo dal punto di vista dell’emergenza. Ma soprattutto per dare una prospettiva all’Italia, nel contesto europeo. E per rimettere finalmente in moto un ascensore sociale fermo da trent’anni, ridando prospettive alle ragazze e ai ragazzi, evitando che si sentano sempre più costretti ad abbandonare l’Italia e cercare altrove migliori prospettive di lavoro e di vita.

Politiche di riforma. Fiscale, in primo piano (è intollerabile che il 42% degli italiani si faccia carico dell’Irpef di tutti, con larghe aree di evasione fiscale, soprattutto tra gli autonomi, come documenta Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, 15 gennaio). Del mercato del lavoro. Della formazione, migliorando qualità e diffusione della conoscenza. Dello sviluppo industriale. Le risorse del Pnrr, da spendere presto e bene, sono una leva indispensabile, così come l’uso accorto degli altri fondi della Ue.

Ecco il punto cardine: politiche che favoriscano l’impresa e non le rendite di posizione, stimolino l’innovazione, la produttività e la competitività e mettano l’Italia in condizione di continuare a giocare il proprio ruolo di secondo grande paese manifatturiero Ue, dopo la Germania. Ricordando che proprio la manifattura (lo abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana), grazie alla forza del suo export, è stata la forza principale della nostra crescita economica negli anni scorsi. In sintesi: politica industriale e non protezione clientelare delle corporazioni.

L’orizzonte deve continuare a restare l’Europa, con i suoi valori di sviluppo sostenibile e di inclusione sociale. Rivalutando il patrimonio culturale e morale di un continente che ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, il mercato, il welfare. Un patrimonio cui siamo da lungo tempo abituati. E che però l’usura nei nuovi processi storici e la crescita delle diseguaglianze di cui abbiamo parlato sta mettendo in crisi. 

Ricostruire fiducia, dunque. Senza rassegnarsi al declino.

(Photo Getty Images)

“Ricostruire la fiducia”, è la parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum, il convegno dei 2.800 principali protagonisti dell’economia mondiale riuniti, come ogni anno, a Davos, tra le montagne cariche di neve in Svizzera. La fiducia delle imprese, dei consumatori, dei mercati finanziari e delle istituzioni, per evitare i rischi di un forte indebolimento delle economie mondiali.

Come? Provando innanzitutto a costruire risposte credibili, di lungo periodo, ai tanti focolai di crisi aperti in tutto il mondo (Ucraina, Medio Oriente, area del Pacifico) e alle loro conseguenze economiche (il parziale blocco del Mar Rosso, per i conflitti scatenati dagli islamisti yemeniti Houthi, potrebbe portare a un forte rallentamento dell’industria europea e alla recessione).

Servono dunque rassicuranti prospettive di politica internazionale, anche se al momento non si intravvedono attori autorevoli e lungimiranti, capaci di costruire soluzioni diplomatiche ampiamente condivisibili. Ma, proprio in nome della fiducia, è necessario ragionare pure su scelte politiche in grado di dare risposte concrete non solo alla stentata crescita economica (la recessione in Germania, principale attore economico Ue, coinvolge pesantemente gli altri paesi europei, a cominciare proprio dall’Italia) ma anche al diffuso disagio sociale che nasce dall’aumento di divari e diseguaglianze (sociali, appunto, ma anche territoriali tra Nord e Sud del mondo, di genere e di generazione, di condizioni economiche e culturali, di conoscenza e di accesso ai beni primari, come la salute e l’istruzione).

Divari drammatici e crescenti (il Rapporto Oxfam diffuso appunto a Davos rivela che i 5 uomini più ricchi del mondo, dal 2020 a oggi, hanno più che raddoppiato le loro fortune, da 405 a 869 miliardi di dollari, mentre 5 miliardi di persone più povere hanno visto invariata la propria condizione). Divari sempre meno accettabili. Che minano profondamente le prospettive di futuro per le nuove generazioni e mettono radicalmente in crisi non solo gli assetti dell’economia, ma anche la stabilità politica di parecchi paesi e, dagli Usa all’Europa, le stesse prospettive di tenuta delle nostre democrazie (sotto la spinta perversa di populismi, sovranismi, localismi escludenti).

Il tema della fiducia, nel futuro, nelle istituzioni, nelle rappresentanze politiche e sindacali e nell’autorevolezza progettuale delle élites intellettuali tocca profondamente anche l’Italia. E da tempo, proprio sui media principali, il tema si propone con insistenza all’attenzione di un’opinione pubblica sensibile al crescere delle fragilità generali e personali e degli squilibri di vita quotidiana e di opportunità per il tempo che verrà. Una frattura di fiducia, appunto.

Ecco alcuni dati, per dare corpo “all’inverno del nostro scontento”, a un contesto di crescente disagio. La Banca d’Italia (Il Sole24Ore, 9 gennaio) documenta che il 5% delle famiglie italiane benestanti ha il 46% della ricchezza netta totale (il patrimonio, come somma di tutti i valori reali e finanziari della famiglia, al netto dell’indebitamento). La metà più povera del paese ne ha appena il 7,6%, legata in gran parte alla proprietà della casa di prima abitazione della famiglia, un valore importante, certo, ma poco utile per fare fronte a bisogni crescenti di vita e a spese e investimenti essenziali (la salute, l’educazione delle nuove generazioni). In sintesi: pur se padroni della casa in cui vivono, i ceti medi si impoveriscono e i loro figli rischiano di peggiorare ancora la propria condizione.

La diseguaglianza di ricchezza in Italia, è vero, è meno forte che in altri paesi, come la Germania o gli Usa (nell’Indice di Gini, che in una scala da 0 a 1 misura la distribuzione della ricchezza, il dato dell’Italia è cresciuto da 0,67 a 0,7). Ma in Germania e in Francia, tanto per ragionare su un altro dato, i salari negli ultimi vent’anni, sono cresciuti del 33%, al pari della produttività, mentre da noi sono rimasti sostanzialmente fermi (+0,36%, per l’esattezza). I provvedimenti per abbattere il cuneo fiscale vanno resi strutturali. E l’aggancio dell’aumento dei salari a quello della produttività sono strade da percorrere con decisione.  

Ancora qualche altro dato, per riflettere: l’Istat documenta che ci sono 1,3 milioni di contratti sotto la soglia del salario minimo (posti con retribuzione oraria inferiore a 7,79 euro, un vero e proprio “lavoro povero” che penalizza attività a tempo determinato, giovani sotto i trent’anni, donne e apprendisti; la Repubblica 11 gennaio). L’Assegno di inclusione, che ha sostituito il contestato Reddito di cittadinanza, raggiunge solo 450mila famiglie. E le condizioni di povertà (reddito medio mensile inferiore a 640 euro) riguarda 2,18 milioni di famiglie, l’8,3% del totale (erano il 7,7% nel ‘21) o, se vogliamo guardare un altro punto di vista, 5,6 milioni di persone (il 9,7% degli italiani, in crescita dal 9,1% degli anni precedenti).

“Un italiano su sei soffre la fame”, sintetizza Chiara Saraceno su La Stampa (11 gennaio), analizzando la spesa delle famiglie nei discount e documentando i tagli robusti alla quantità e alla qualità del cibo, con conseguenze sulla salute, anche dei bambini (il cibo spazzatura rafforza la diffusione dell’obesità). E sempre La Stampa (15 gennaio) racconta che per “farmaci e liste d’attesa è più povero un italiano su sei”. Secondo il Rapporto Asvis sui territori per il 2023, “in Italia aumentano le diseguaglianze: povertà crescente, rischi ambientali peggioranti, laureati in diminuzione” (la Repubblica, 13 dicembre ’23).

Servono, dunque, scelte politiche di grande rilievo, per fronteggiare la crisi e ricostruire, come dicevamo, la fiducia. Non solo dal punto di vista dell’emergenza. Ma soprattutto per dare una prospettiva all’Italia, nel contesto europeo. E per rimettere finalmente in moto un ascensore sociale fermo da trent’anni, ridando prospettive alle ragazze e ai ragazzi, evitando che si sentano sempre più costretti ad abbandonare l’Italia e cercare altrove migliori prospettive di lavoro e di vita.

Politiche di riforma. Fiscale, in primo piano (è intollerabile che il 42% degli italiani si faccia carico dell’Irpef di tutti, con larghe aree di evasione fiscale, soprattutto tra gli autonomi, come documenta Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera, 15 gennaio). Del mercato del lavoro. Della formazione, migliorando qualità e diffusione della conoscenza. Dello sviluppo industriale. Le risorse del Pnrr, da spendere presto e bene, sono una leva indispensabile, così come l’uso accorto degli altri fondi della Ue.

Ecco il punto cardine: politiche che favoriscano l’impresa e non le rendite di posizione, stimolino l’innovazione, la produttività e la competitività e mettano l’Italia in condizione di continuare a giocare il proprio ruolo di secondo grande paese manifatturiero Ue, dopo la Germania. Ricordando che proprio la manifattura (lo abbiamo scritto nel blog della scorsa settimana), grazie alla forza del suo export, è stata la forza principale della nostra crescita economica negli anni scorsi. In sintesi: politica industriale e non protezione clientelare delle corporazioni.

L’orizzonte deve continuare a restare l’Europa, con i suoi valori di sviluppo sostenibile e di inclusione sociale. Rivalutando il patrimonio culturale e morale di un continente che ha saputo tenere insieme la democrazia liberale, il mercato, il welfare. Un patrimonio cui siamo da lungo tempo abituati. E che però l’usura nei nuovi processi storici e la crescita delle diseguaglianze di cui abbiamo parlato sta mettendo in crisi. 

Ricostruire fiducia, dunque. Senza rassegnarsi al declino.

(Photo Getty Images)

Pneumatici dal fascino intellettuale

Frugalità per un futuro migliore

Sintetizzati in un libro appena pubblicato i principi teorici e pratici di una visione diversa della gestione d’impresa

Gestione frugale. Non necessariamente scarna, ma essenziale, attenta a non essere ridondante, eccessiva, sopra le righe. Nuova frontiera del gestire un’impresa, il frugal management deve essere compreso e poi applicato con attenzione. E soprattutto dà modo di ampliare concetto e applicazioni di quell’economia sostenibile che va di gran moda oggi.

Per questo serve leggere “Frugal management. Valore sostenibile per le generazioni future” scritto da Alessandro Martemucci che parte da una constatazione: il modello di management attuale è insostenibile, ha creato organizzazioni rigide, lente ad adattarsi ai cambiamenti, incapaci di trasmettere innovazione e benessere al contesto in cui operano. Adesso, in un momento così travagliato dei sistemi economici e sociali (senza dire dei rischi ambientali), è necessario secondo l’autore un nuovo approccio che passa, appunto, per una nuova strada di management, che unisce efficienza e solidarietà, beni materiali e beni relazionali, capitale economico e capitale sociale.

Il libro affronta il tema partendo da un’istantanea che fissa prima un management “sempre più incerto” e poi inizia ad avvicinare l’idea di un management frugale partendo dall’economia benedettina, poi da quella di san Francesco per arrivare ai giorni nostri. Sono quindi individuate quattro dimensioni del frugal management (economica, digitale, sociale e ambientale) per arrivare alla definizione del modello da mettere in pratica e da capire meglio attraverso alcuni “casi pratici”.

Come spesso accade per i libri originali, anche il libro di Martemucci può far discutere (e non è obbligatorio essere totalmente d’accordo con il suo contenuto): ma è proprio questo il suo contributo più importante.

Frugal management. Valore sostenibile per le generazioni future

Alessandro Martemucci

Guerini Next, 2023

Sintetizzati in un libro appena pubblicato i principi teorici e pratici di una visione diversa della gestione d’impresa

Gestione frugale. Non necessariamente scarna, ma essenziale, attenta a non essere ridondante, eccessiva, sopra le righe. Nuova frontiera del gestire un’impresa, il frugal management deve essere compreso e poi applicato con attenzione. E soprattutto dà modo di ampliare concetto e applicazioni di quell’economia sostenibile che va di gran moda oggi.

Per questo serve leggere “Frugal management. Valore sostenibile per le generazioni future” scritto da Alessandro Martemucci che parte da una constatazione: il modello di management attuale è insostenibile, ha creato organizzazioni rigide, lente ad adattarsi ai cambiamenti, incapaci di trasmettere innovazione e benessere al contesto in cui operano. Adesso, in un momento così travagliato dei sistemi economici e sociali (senza dire dei rischi ambientali), è necessario secondo l’autore un nuovo approccio che passa, appunto, per una nuova strada di management, che unisce efficienza e solidarietà, beni materiali e beni relazionali, capitale economico e capitale sociale.

Il libro affronta il tema partendo da un’istantanea che fissa prima un management “sempre più incerto” e poi inizia ad avvicinare l’idea di un management frugale partendo dall’economia benedettina, poi da quella di san Francesco per arrivare ai giorni nostri. Sono quindi individuate quattro dimensioni del frugal management (economica, digitale, sociale e ambientale) per arrivare alla definizione del modello da mettere in pratica e da capire meglio attraverso alcuni “casi pratici”.

Come spesso accade per i libri originali, anche il libro di Martemucci può far discutere (e non è obbligatorio essere totalmente d’accordo con il suo contenuto): ma è proprio questo il suo contributo più importante.

Frugal management. Valore sostenibile per le generazioni future

Alessandro Martemucci

Guerini Next, 2023

Olivetti, un viaggio per far nascere una cultura d’impresa nuova

Il Grand Tour statunitense degli Anni Venti alla base di molte innovazioni nell’azienda di Ivrea

 

L’impresa e l’organizzazione della fabbrica come un flusso ininterrotto di relazioni e passaggi materiali e immateriali. L’impresa come comunità. Concetti cari ad Adriano Olivetti. Idee ricordate e ribadite più volte e in più occasioni. Aspirazioni per capire meglio le quali vale anche leggere l’intervento di Sabrina Fava (Università Cattolica del Sacro Cuore) su “Adriano Olivetti. Un approccio pedagogico al lavoro” apparso di recente in Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education.

L’autrice indaga uno degli aspetti particolari dell’avventura umana e imprenditoriale di Olivetti: il suo “viaggio d’istruzione” negli Stati Uniti nel 1925 e i suoi legami con alcune delle iniziative che successivamente caratterizzeranno l’azione dell’imprenditore.

Olivetti, racconta Fava, inizia a pensare a scelte strategiche di organizzazione dell’impresa e di formazione delle risorse umane proprio durante il suo Grand Tour statunitense quando analizza i sistemi produttivi americani alla ricerca di soluzioni efficaci di superamento dell’alienazione lavorativa degli operai ripensando il sistema produttivo di stampo taylorista e ribaltando il luogo comune della priorità del profitto.

Da quei mesi nasce l’impulso a ragionare sull’organizzazione scientifica del lavoro secondo Adriano, sulla formazione professionale tramite l’apertura del Centro Formazione Meccanici e sulla formazione dei dirigenti d’azienda che darà vita negli anni Cinquanta a IPSOA. Tutte – dice Sabrina Fava – iniziative strutturali in grado di offrire una visione diversa dell’obiettivo d’impresa: non solo prioritariamente il profitto ma anche altro.

L’analisi di Fava, quindi ripercorre, attraverso le lettere di Olivetti ai familiari e altre testimonianze scritte, il farsi delle impressioni del giovane Adriano e, poi, la loro trasposizione nell’azienda di Ivrea. Quella di Sabrina Fava è una sintesi chiara e utile per capire di più della cultura d’impresa olivettiana a ancora oggi imitata e seguita.

 

Adriano Olivetti. Un approccio pedagogico al lavoro

Sabrina Fava (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education 18, 3 (2023)

Il Grand Tour statunitense degli Anni Venti alla base di molte innovazioni nell’azienda di Ivrea

 

L’impresa e l’organizzazione della fabbrica come un flusso ininterrotto di relazioni e passaggi materiali e immateriali. L’impresa come comunità. Concetti cari ad Adriano Olivetti. Idee ricordate e ribadite più volte e in più occasioni. Aspirazioni per capire meglio le quali vale anche leggere l’intervento di Sabrina Fava (Università Cattolica del Sacro Cuore) su “Adriano Olivetti. Un approccio pedagogico al lavoro” apparso di recente in Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education.

L’autrice indaga uno degli aspetti particolari dell’avventura umana e imprenditoriale di Olivetti: il suo “viaggio d’istruzione” negli Stati Uniti nel 1925 e i suoi legami con alcune delle iniziative che successivamente caratterizzeranno l’azione dell’imprenditore.

Olivetti, racconta Fava, inizia a pensare a scelte strategiche di organizzazione dell’impresa e di formazione delle risorse umane proprio durante il suo Grand Tour statunitense quando analizza i sistemi produttivi americani alla ricerca di soluzioni efficaci di superamento dell’alienazione lavorativa degli operai ripensando il sistema produttivo di stampo taylorista e ribaltando il luogo comune della priorità del profitto.

Da quei mesi nasce l’impulso a ragionare sull’organizzazione scientifica del lavoro secondo Adriano, sulla formazione professionale tramite l’apertura del Centro Formazione Meccanici e sulla formazione dei dirigenti d’azienda che darà vita negli anni Cinquanta a IPSOA. Tutte – dice Sabrina Fava – iniziative strutturali in grado di offrire una visione diversa dell’obiettivo d’impresa: non solo prioritariamente il profitto ma anche altro.

L’analisi di Fava, quindi ripercorre, attraverso le lettere di Olivetti ai familiari e altre testimonianze scritte, il farsi delle impressioni del giovane Adriano e, poi, la loro trasposizione nell’azienda di Ivrea. Quella di Sabrina Fava è una sintesi chiara e utile per capire di più della cultura d’impresa olivettiana a ancora oggi imitata e seguita.

 

Adriano Olivetti. Un approccio pedagogico al lavoro

Sabrina Fava (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Ricerche di Pedagogia e Didattica – Journal of Theories and Research in Education 18, 3 (2023)

Una politica industriale per l’Italia e la Ue per sviluppo economico ed equilibri sociali 

Epifania della crisi o d’una ripartenza? In questo inizio d’anno così carico di incertezze, cammineremo ancora nell’inverno del nostro scontento oppure avremo la possibilità di lavorare per una ripresa più solida? Abbiamo finito il 2023 leggendo documentate analisi del Censis sugli “italiani impauriti e inerti come sonnambuli” e cominciato il 2024 con il sondaggio di Nando Pagnoncelli, Ipsos (Corriere della Sera, 2 gennaio) sull’aumento dei “fronti che inquietano gli italiani”, il lavoro e l’economia, innanzitutto, ma poi anche la sanità e il risveglio del Covid 19, la “tenuta del potere d’acquisto” e “il funzionamento delle istituzioni e la situazione politica” (i temi dell’immigrazione sono scivolati al quinto posto e quelli della sicurezza al settimo). Sappiamo di “un paese in pausa e con poche speranze”, secondo un Rapporto Coop (la Repubblica, 6 gennaio) che parla di consumatori incerti, scarsamente fiduciosi nel cambiamento e dunque inclini a tenere sotto controllo i consumi e cercare invece di risparmiare. E leggiamo un po’ dovunque analisi preoccupate sul futuro che verrà, tra guerre in corso dall’Ucraina al Medio Oriente e pesanti squilibri ambientali, economici e sociali, tensioni legate ai tanti appuntamenti elettorali (nel 2024 si voterà in 76 paesi, dall’India al Brasile, dalla Cina alla Russia, dall’Europa per il Parlamento Ue agli Usa per la presidenza).

In un momento così controverso e difficile, l’Italia assume la presidenza del G7 e può e deve giocare un ruolo fondamentale per cercare di appianare le tensioni internazionali ma anche fare evolvere istituzioni e alleanze fuori dalle trappole del sovranismo e delle manovre contro le democrazie e i valori occidentali (“E se fossero gli Stati Uniti d’Europa il vero protagonista del secolo?”, si chiede giustamente, come mantra di buon augurio, Carlo Carboni su Il Sole24Ore).

Che clima si respira, dunque, nel Paese? Per dirla in sintesi, assistiamo a una “corsa sul filo del rasoio per un 2024 stretto tra crisi geopolitiche e spettri di recessione” (Il Sole24Ore, 18 dicembre 2023).

Come muoversi, allora? L’obiettivo è cercare di capire bene cosa abbiamo intorno, evitando la drammatizzazione dei fenomeni così cara agli irrequieti frequentatori dei social media (e soprattutto a chi, sfruttando proprio quei social e diffondendo fake news, è impegnato a destabilizzare le opinioni pubbliche) e insistendo invece su fatti concreti e non fattoidi, dati e analisi di autorevoli centri di ricerca. E lavorando per ricostruire un ragionevole clima di fiducia, indispensabile a stimolare investimenti e consumi.

Una fiducia che dipende molto anche dalle scelte che faranno responsabilmente sia i protagonisti della politica sia i principali attori sociali.

Dati e fatti, dunque.

L’Istat certifica per l’Italia una crescita ‘23 dello 0,7 per cento, migliorata di tre punti rispetto alle previsioni dello scorso anno, sempre debole ma comunque migliore della media Ue e lontana dalla recessione che ha colpito la Germania (e creato problemi a parecchie delle imprese italiane, che della grande industria tedesca, a cominciare dall’automotive, sono fornitrici qualificate). E per il ‘24 le previsioni non solo entusiasmanti, con un Pil sempre dello “zero virgola”: “Poca crescita e pochi investimenti. Così l’Italia è più fragile e diseguale”, sintetizza Mario Deaglio (La Stampa, 6 dicembre 2023), ricordando anche che “l’emigrazione è ricominciata: in vent’anni ottocentomila italiani sono andati via”, cercando altrove, in Europa e nel mondo, migliori condizioni di vita e lavoro.

Ma, accanto a quelli della crescita debole, ci sono altri dati da leggere. Per esempio, quelli dell’inflazione che frena sia negli Usa che nell’area dell’euro e fa meno paura, dei tassi che fermano la corsa al rialzo e potrebbero scendere e di un’economia che lentamente, faticosamente, si rimette in movimento. Restano i limiti imposti dal rallentamento del commercio mondiale a causa dell’aggravarsi delle tensioni geopolitiche dopo Ucraina e Medio Oriente (le aggressioni dei battelli degli estremisti islamici Houti alle navi che solcano il Mar Rosso stanno mettendo in serie difficoltà i passaggi dal Far East al Mediterraneo, lungo il Canale di Suez, facendo esplodere prezzi dei noli marittimi e tempi e dunque costi dei trasporti). E non si allentano le tensioni nel Pacifico attorno a Taiwan.

Non solo tensioni e paure, però. Anche segnali positivi. La riorganizzazione della globalizzazione e il ridisegno delle supply chain con i relativi fenomeni di back shoring e cioè di costruzione di “catene corte” di fornitura e di privilegio degli investimenti local for local (si produce il più possibile vicino ai mercati di sbocco) sta rianimando parecchie economie e spingendo i decisori politici, a cominciare da quelli Ue, a pensare a investimenti comuni europei sull’energia, le forniture di materie prime strategiche e la fabbricazione di semilavorati essenziali per l’industria, come i microchip.

Un mondo in movimento e in cambiamento.

Le Borse apprezzano questi cambiamenti e, pur scontando i rischi di crisi e di ripercussioni sulle economie, vedono i loro valori in crescita. Piazza Affari segna un aumento del 28%, con un listino che adesso vale più di 760 miliardi (Corriere della Sera, 30 dicembre).

Di sicuro, per quel che riguarda l’Italia, vale la pena concentrarsi sull’andamento positivo dell’export, che potrebbe superare il record del ‘23 arrivando, secondo le previsioni della Sace, a 660 miliardi di euro, con un incremento del 6,8%.

Il surplus di bilancia commerciale della manifattura supererà i 100 miliardi, dando un contributo fondamentale all’andamento della nostra bilancia dei pagamenti. L’Italia, insomma, è “terza per surplus in due terzi del commercio mondiale”, dopo Cina e Germania, in quei settori strategici che riguardano nautica, macchine utensili, macchine per imballaggi, apparecchiature di riscaldamento, piastrelle e macchinari di settore, pompe per liquidi e una lunga serie di prodotti per l’arredamento e l’agro-alimentare, etc. (Marco Fortis su Il Sole24Ore, 21 dicembre ‘23).

Dati nettamente positivi. Tanto da spingere giornalisti di buon carattere a parlare di “un anno bellissimo (o quasi)” (Claudio Cerasa su Il Foglio, 15 dicembre), mettendo insieme i dati sul Pil, l’inflazione e, appunto, le esportazioni.

Ecco un punto su cui fermare l’attenzione: l’export e il ruolo fondamentale della manifattura.

L’Italia non è andata in recessione, nonostante tutti i suoi limiti (a cominciare dalla produttività, stagnante da oltre vent’anni, anche per il mediocre funzionamento della macchina pubblica ) per il contribuito positivo dell’industria manifatturiera, del turismo estero e delle dinamiche dell’edilizia sollecitata dal “superbonus” (che però ha determinato, purtroppo, gravissime distorsioni sui mercati e soprattutto sull’andamento dei conti pubblici).

Ma “i due punti di forza dell’export industriale e del turismo non bastano più, né basteranno il prossimo calo dei tassi e la flessibilità concessa dal nuovo Patto di Stabilità europeo. La sfida da vincere è quella della produttività” (Oscar Giannino su Affari&Finanza, la Repubblica,dicembre). Conferma Gianmatteo Manghi, CEO di Cisco: “L’Italia è paese delle eccellenze, ma è indietro sulla produttività. Ed è necessario legare la transizione digitale a quella ecologica” (Corriere della Sera, 28 dicembre ‘23).

Parlare di produttività, legando alla sua crescita anche un miglioramento dei salari, significa impegnarsi per radicali e coraggiose riforme della pubblica amministrazione (burocrazia, fisco, appalti, giustizia, mercato del lavoro, formazione, sanità, etc.) ma anche per una politica industriale diretta a rafforzare il mondo dell’industria manifatturiera e dei servizi collegati nel corso della twin transition digitale e ambientale. Agevolare la concorrenza e la cultura del mercato (tutto il contrario della protezione di lobby elettoralmente rilevanti come i balneari, i tassisti, i commercianti ambulanti, i detentori di vari tipi di rendita, spesso al limite del parassitismo sociale). Insistere sulla modernizzazione del nostro apparato produttivo secondo i valori dalla “economia della conoscenza”.

Rimettere in piedi, per esempio, le agevolazioni fiscali per “Industria 4.0” e ampliarle a “Industria 5.0” e alla diffusione dell’Intelligenza Artificiale (in ambienti di governo si dice che il ‘24 sarà l’anno buono). E sciogliere i nodi delle crisi e delle transizioni di settori strategici, come l’acciaio e l’automotive, a partire dall’effettiva realizzazione degli investimenti in Italia di Stellantis.

Tutto questo ha un nome: politica industriale. Italiana. Ed europea.

Investimenti sull’innovazione, sulla ricerca, sui brevetti, sul capitale umano e sulla formazione (dunque anche sulle politiche di gestione dell’immigrazione). Sulla qualità, la sicurezza e la sostenibilità ambientale e sociale, da considerare come veri e propri asset di competitività. Sulla capitalizzazione delle imprese e sul potenziamento delle filiere industriali, guardando ai mercati internazionali. Sulle infrastrutture materiali e immateriali, logistiche, di diffusione della conoscenza (e dunque sulla spesa corretta delle risorse del Pnrr).

Di tutto questo ci sono scarse evidenze nel discorso pubblico, compresi i provvedimenti del governo (“Il grande rimosso di Meloni”, titola Il Foglio, 6 gennaio). Come se il privilegio e il supporto con bonus e sostegni per categorie e corporazioni della microeconomia possano garantire una solida crescita del Pil e il superamento degli squilibri sociali.

E’ necessario invece prendere atto che il futuro dell’economia italiana ha come pilastro portante proprio una moderna e competitiva industria manifatturiera, attorno a cui fare girare gran parte del resto dell’economia nazionale, finanza d’impresa e servizi high tech compresi. Lo dicono proprio tutti i dati che abbiamo esaminato, a partire dalla leva fondamentale dell’export.

Serve una lungimirante svolta industriale.

Epifania della crisi o d’una ripartenza? In questo inizio d’anno così carico di incertezze, cammineremo ancora nell’inverno del nostro scontento oppure avremo la possibilità di lavorare per una ripresa più solida? Abbiamo finito il 2023 leggendo documentate analisi del Censis sugli “italiani impauriti e inerti come sonnambuli” e cominciato il 2024 con il sondaggio di Nando Pagnoncelli, Ipsos (Corriere della Sera, 2 gennaio) sull’aumento dei “fronti che inquietano gli italiani”, il lavoro e l’economia, innanzitutto, ma poi anche la sanità e il risveglio del Covid 19, la “tenuta del potere d’acquisto” e “il funzionamento delle istituzioni e la situazione politica” (i temi dell’immigrazione sono scivolati al quinto posto e quelli della sicurezza al settimo). Sappiamo di “un paese in pausa e con poche speranze”, secondo un Rapporto Coop (la Repubblica, 6 gennaio) che parla di consumatori incerti, scarsamente fiduciosi nel cambiamento e dunque inclini a tenere sotto controllo i consumi e cercare invece di risparmiare. E leggiamo un po’ dovunque analisi preoccupate sul futuro che verrà, tra guerre in corso dall’Ucraina al Medio Oriente e pesanti squilibri ambientali, economici e sociali, tensioni legate ai tanti appuntamenti elettorali (nel 2024 si voterà in 76 paesi, dall’India al Brasile, dalla Cina alla Russia, dall’Europa per il Parlamento Ue agli Usa per la presidenza).

In un momento così controverso e difficile, l’Italia assume la presidenza del G7 e può e deve giocare un ruolo fondamentale per cercare di appianare le tensioni internazionali ma anche fare evolvere istituzioni e alleanze fuori dalle trappole del sovranismo e delle manovre contro le democrazie e i valori occidentali (“E se fossero gli Stati Uniti d’Europa il vero protagonista del secolo?”, si chiede giustamente, come mantra di buon augurio, Carlo Carboni su Il Sole24Ore).

Che clima si respira, dunque, nel Paese? Per dirla in sintesi, assistiamo a una “corsa sul filo del rasoio per un 2024 stretto tra crisi geopolitiche e spettri di recessione” (Il Sole24Ore, 18 dicembre 2023).

Come muoversi, allora? L’obiettivo è cercare di capire bene cosa abbiamo intorno, evitando la drammatizzazione dei fenomeni così cara agli irrequieti frequentatori dei social media (e soprattutto a chi, sfruttando proprio quei social e diffondendo fake news, è impegnato a destabilizzare le opinioni pubbliche) e insistendo invece su fatti concreti e non fattoidi, dati e analisi di autorevoli centri di ricerca. E lavorando per ricostruire un ragionevole clima di fiducia, indispensabile a stimolare investimenti e consumi.

Una fiducia che dipende molto anche dalle scelte che faranno responsabilmente sia i protagonisti della politica sia i principali attori sociali.

Dati e fatti, dunque.

L’Istat certifica per l’Italia una crescita ‘23 dello 0,7 per cento, migliorata di tre punti rispetto alle previsioni dello scorso anno, sempre debole ma comunque migliore della media Ue e lontana dalla recessione che ha colpito la Germania (e creato problemi a parecchie delle imprese italiane, che della grande industria tedesca, a cominciare dall’automotive, sono fornitrici qualificate). E per il ‘24 le previsioni non solo entusiasmanti, con un Pil sempre dello “zero virgola”: “Poca crescita e pochi investimenti. Così l’Italia è più fragile e diseguale”, sintetizza Mario Deaglio (La Stampa, 6 dicembre 2023), ricordando anche che “l’emigrazione è ricominciata: in vent’anni ottocentomila italiani sono andati via”, cercando altrove, in Europa e nel mondo, migliori condizioni di vita e lavoro.

Ma, accanto a quelli della crescita debole, ci sono altri dati da leggere. Per esempio, quelli dell’inflazione che frena sia negli Usa che nell’area dell’euro e fa meno paura, dei tassi che fermano la corsa al rialzo e potrebbero scendere e di un’economia che lentamente, faticosamente, si rimette in movimento. Restano i limiti imposti dal rallentamento del commercio mondiale a causa dell’aggravarsi delle tensioni geopolitiche dopo Ucraina e Medio Oriente (le aggressioni dei battelli degli estremisti islamici Houti alle navi che solcano il Mar Rosso stanno mettendo in serie difficoltà i passaggi dal Far East al Mediterraneo, lungo il Canale di Suez, facendo esplodere prezzi dei noli marittimi e tempi e dunque costi dei trasporti). E non si allentano le tensioni nel Pacifico attorno a Taiwan.

Non solo tensioni e paure, però. Anche segnali positivi. La riorganizzazione della globalizzazione e il ridisegno delle supply chain con i relativi fenomeni di back shoring e cioè di costruzione di “catene corte” di fornitura e di privilegio degli investimenti local for local (si produce il più possibile vicino ai mercati di sbocco) sta rianimando parecchie economie e spingendo i decisori politici, a cominciare da quelli Ue, a pensare a investimenti comuni europei sull’energia, le forniture di materie prime strategiche e la fabbricazione di semilavorati essenziali per l’industria, come i microchip.

Un mondo in movimento e in cambiamento.

Le Borse apprezzano questi cambiamenti e, pur scontando i rischi di crisi e di ripercussioni sulle economie, vedono i loro valori in crescita. Piazza Affari segna un aumento del 28%, con un listino che adesso vale più di 760 miliardi (Corriere della Sera, 30 dicembre).

Di sicuro, per quel che riguarda l’Italia, vale la pena concentrarsi sull’andamento positivo dell’export, che potrebbe superare il record del ‘23 arrivando, secondo le previsioni della Sace, a 660 miliardi di euro, con un incremento del 6,8%.

Il surplus di bilancia commerciale della manifattura supererà i 100 miliardi, dando un contributo fondamentale all’andamento della nostra bilancia dei pagamenti. L’Italia, insomma, è “terza per surplus in due terzi del commercio mondiale”, dopo Cina e Germania, in quei settori strategici che riguardano nautica, macchine utensili, macchine per imballaggi, apparecchiature di riscaldamento, piastrelle e macchinari di settore, pompe per liquidi e una lunga serie di prodotti per l’arredamento e l’agro-alimentare, etc. (Marco Fortis su Il Sole24Ore, 21 dicembre ‘23).

Dati nettamente positivi. Tanto da spingere giornalisti di buon carattere a parlare di “un anno bellissimo (o quasi)” (Claudio Cerasa su Il Foglio, 15 dicembre), mettendo insieme i dati sul Pil, l’inflazione e, appunto, le esportazioni.

Ecco un punto su cui fermare l’attenzione: l’export e il ruolo fondamentale della manifattura.

L’Italia non è andata in recessione, nonostante tutti i suoi limiti (a cominciare dalla produttività, stagnante da oltre vent’anni, anche per il mediocre funzionamento della macchina pubblica ) per il contribuito positivo dell’industria manifatturiera, del turismo estero e delle dinamiche dell’edilizia sollecitata dal “superbonus” (che però ha determinato, purtroppo, gravissime distorsioni sui mercati e soprattutto sull’andamento dei conti pubblici).

Ma “i due punti di forza dell’export industriale e del turismo non bastano più, né basteranno il prossimo calo dei tassi e la flessibilità concessa dal nuovo Patto di Stabilità europeo. La sfida da vincere è quella della produttività” (Oscar Giannino su Affari&Finanza, la Repubblica,dicembre). Conferma Gianmatteo Manghi, CEO di Cisco: “L’Italia è paese delle eccellenze, ma è indietro sulla produttività. Ed è necessario legare la transizione digitale a quella ecologica” (Corriere della Sera, 28 dicembre ‘23).

Parlare di produttività, legando alla sua crescita anche un miglioramento dei salari, significa impegnarsi per radicali e coraggiose riforme della pubblica amministrazione (burocrazia, fisco, appalti, giustizia, mercato del lavoro, formazione, sanità, etc.) ma anche per una politica industriale diretta a rafforzare il mondo dell’industria manifatturiera e dei servizi collegati nel corso della twin transition digitale e ambientale. Agevolare la concorrenza e la cultura del mercato (tutto il contrario della protezione di lobby elettoralmente rilevanti come i balneari, i tassisti, i commercianti ambulanti, i detentori di vari tipi di rendita, spesso al limite del parassitismo sociale). Insistere sulla modernizzazione del nostro apparato produttivo secondo i valori dalla “economia della conoscenza”.

Rimettere in piedi, per esempio, le agevolazioni fiscali per “Industria 4.0” e ampliarle a “Industria 5.0” e alla diffusione dell’Intelligenza Artificiale (in ambienti di governo si dice che il ‘24 sarà l’anno buono). E sciogliere i nodi delle crisi e delle transizioni di settori strategici, come l’acciaio e l’automotive, a partire dall’effettiva realizzazione degli investimenti in Italia di Stellantis.

Tutto questo ha un nome: politica industriale. Italiana. Ed europea.

Investimenti sull’innovazione, sulla ricerca, sui brevetti, sul capitale umano e sulla formazione (dunque anche sulle politiche di gestione dell’immigrazione). Sulla qualità, la sicurezza e la sostenibilità ambientale e sociale, da considerare come veri e propri asset di competitività. Sulla capitalizzazione delle imprese e sul potenziamento delle filiere industriali, guardando ai mercati internazionali. Sulle infrastrutture materiali e immateriali, logistiche, di diffusione della conoscenza (e dunque sulla spesa corretta delle risorse del Pnrr).

Di tutto questo ci sono scarse evidenze nel discorso pubblico, compresi i provvedimenti del governo (“Il grande rimosso di Meloni”, titola Il Foglio, 6 gennaio). Come se il privilegio e il supporto con bonus e sostegni per categorie e corporazioni della microeconomia possano garantire una solida crescita del Pil e il superamento degli squilibri sociali.

E’ necessario invece prendere atto che il futuro dell’economia italiana ha come pilastro portante proprio una moderna e competitiva industria manifatturiera, attorno a cui fare girare gran parte del resto dell’economia nazionale, finanza d’impresa e servizi high tech compresi. Lo dicono proprio tutti i dati che abbiamo esaminato, a partire dalla leva fondamentale dell’export.

Serve una lungimirante svolta industriale.

Fondazione Pirelli: un’impresa tra storia, cultura e innovazione

La fabbrica a tavola

Il racconto delle mese aziendali in una serie di approfondimenti di esempi virtuosi

 

La cultura d’impresa passa anche per le mense aziendali. Luogo d’incontro, occasione di dialogo, spazio di confronto informale ma non per questo meno sostanziale, le mense delle fabbriche e degli uffici hanno da sempre rappresentato aree particolari nell’organizzazione della produzione. Luoghi in cui l’attenzione dell’impresa verso chi vi lavora si fa più evidente, le mense (e il cibo che vi viene servito) oggi fanno parte di quel welfare che, tutto sommato, in molte realtà industriali è sempre esistito. Certo, in molte ma assolutamente non in tutte. Per questo, tornare alle vicende delle mense delle imprese che hanno dato buone prove anche in questo particolare settore, può essere utile un po’ per tutti. Ed è quello che si può fare leggendo “Il cibo e le mense aziendali delle grandi fabbriche del Novecento”, volumetto di poco più di 40 pagine densissime però di storia e di attualità. Storia perché di alcuni casi di mense aziendali si analizza il passato; e attualità perché di queste stesse mense si arriva a descrivere il presente.

Lega tutto il libro un filo rosso: quello dell’alimentazione degli addetti delle grandi fabbriche del Novecento, tema che necessita di alcune riflessioni in relazione alla varietà degli aspetti che caratterizzano le singole esperienze italiane. Perché, in effetti, tante e variegate sono state le realtà aziendali che si sono esercitate in questo ambito.

A questo tema, nel maggio 2023, è stata dedicata una giornata organizzata nell’ambito del Memo Festival 2023 alla quale è seguito il libro che raccoglie gli studi presentati (corredati anche di una interessante serie di immagini). Casi d’imprese virtuose – ben raccontati come quelli del Cantiere Navale Triestino di Monfalcone, della Olivetti di Ivrea, della Pirelli di Bicocca a Milano, della Ansaldo di Genova -, intrecciati ad approfondimenti sugli aspetti collegati all’alimentazione, alla rete degli spacci aziendali, all’organizzazione della produzione e alle relazioni tra questa e il sistema sociale che nelle fabbriche e negli uffici si crea. Un welfare, quello dell’alimentazione e delle mense, non sempre di facile applicazione, ma sempre elemento chiave per comprendere l’atteggiamento dell’impresa nei confronti dei lavoratori.

Cibo e mense come convivialità, quindi, ma anche come una delle espressioni di welfare che alcune aziende hanno messo in pratica da tempo e che torna oggi nell’esperienza di altre imprese. Il libro curato da Chiara Aglialoro ha il gran merito di sintetizzare in poche pagine decenni di vita di fabbrica colta nel particolare momento della “pausa pranzo”.

Il cibo e le mense aziendali delle grandi fabbriche del Novecento.
Chiara Aglialoro (a cura di)

Consorzio Culturale del Monfalconese, 2023

Il racconto delle mese aziendali in una serie di approfondimenti di esempi virtuosi

 

La cultura d’impresa passa anche per le mense aziendali. Luogo d’incontro, occasione di dialogo, spazio di confronto informale ma non per questo meno sostanziale, le mense delle fabbriche e degli uffici hanno da sempre rappresentato aree particolari nell’organizzazione della produzione. Luoghi in cui l’attenzione dell’impresa verso chi vi lavora si fa più evidente, le mense (e il cibo che vi viene servito) oggi fanno parte di quel welfare che, tutto sommato, in molte realtà industriali è sempre esistito. Certo, in molte ma assolutamente non in tutte. Per questo, tornare alle vicende delle mense delle imprese che hanno dato buone prove anche in questo particolare settore, può essere utile un po’ per tutti. Ed è quello che si può fare leggendo “Il cibo e le mense aziendali delle grandi fabbriche del Novecento”, volumetto di poco più di 40 pagine densissime però di storia e di attualità. Storia perché di alcuni casi di mense aziendali si analizza il passato; e attualità perché di queste stesse mense si arriva a descrivere il presente.

Lega tutto il libro un filo rosso: quello dell’alimentazione degli addetti delle grandi fabbriche del Novecento, tema che necessita di alcune riflessioni in relazione alla varietà degli aspetti che caratterizzano le singole esperienze italiane. Perché, in effetti, tante e variegate sono state le realtà aziendali che si sono esercitate in questo ambito.

A questo tema, nel maggio 2023, è stata dedicata una giornata organizzata nell’ambito del Memo Festival 2023 alla quale è seguito il libro che raccoglie gli studi presentati (corredati anche di una interessante serie di immagini). Casi d’imprese virtuose – ben raccontati come quelli del Cantiere Navale Triestino di Monfalcone, della Olivetti di Ivrea, della Pirelli di Bicocca a Milano, della Ansaldo di Genova -, intrecciati ad approfondimenti sugli aspetti collegati all’alimentazione, alla rete degli spacci aziendali, all’organizzazione della produzione e alle relazioni tra questa e il sistema sociale che nelle fabbriche e negli uffici si crea. Un welfare, quello dell’alimentazione e delle mense, non sempre di facile applicazione, ma sempre elemento chiave per comprendere l’atteggiamento dell’impresa nei confronti dei lavoratori.

Cibo e mense come convivialità, quindi, ma anche come una delle espressioni di welfare che alcune aziende hanno messo in pratica da tempo e che torna oggi nell’esperienza di altre imprese. Il libro curato da Chiara Aglialoro ha il gran merito di sintetizzare in poche pagine decenni di vita di fabbrica colta nel particolare momento della “pausa pranzo”.

Il cibo e le mense aziendali delle grandi fabbriche del Novecento.
Chiara Aglialoro (a cura di)

Consorzio Culturale del Monfalconese, 2023

Storie d’impresa oltre il passato

Una tesi discussa a Cà Foscari approfondisce le numerose funzioni dell’heritage marketing nell’ambito delle strategie aziendali

Valorizzare la propria storia e farne un potente strumento di marketing e più in generale di valorizzazione della propria attività. Strategia ormai diffusa, ma che deve sempre essere studiata a approfondita per capirne i risvolti che vanno al di là della teoria. E’ quanto ha fatto Chiara Centrella con la sua tesi discussa alla Cà Foscari nell’ambito del Corso di laurea magistrale in Economia e gestione delle aziende.

“Heritage marketing nell’alcoholic beverages sector. I casi Branca e Strega” è una ricerca basata sulla classica divisione tra teoria e lavoro sul campo. Obiettivo dell’indagine, come viene riferito nell’introduzione,

è quello di ricostruire come questi brand abbiano adoperato l’heritage marketing e i suoi strumenti, in particolar modo il museo d’impresa, come catalizzatore per la valorizzazione del patrimonio storico culturale e la formazione di una solida identità d’impresa.

Centrella affronta quindi prima la definizione e la declinazione teoria di heritage marketing (approfondendone anche le varie componenti come gli archivi d’impresa, le fondazioni e i musei d’impresa); successivamente vengono descritti e analizzati i casi di Branca e Strega preceduti da una carrellata storia sull’uso e sul ruolo dell’alcol nell’alimentazione e nei rituali sociali. Di ognuna delle due aziende, invece, la ricerche prende in considerazione la storia e l’attualità oltre che le componenti che costituiscono il particolare heritage marketing che ha contribuito a rilanciare marchio e fama.

L’indagine – sottolinea quindi Chiara Centrella -, ha reso evidenti i vuoti e le mancanze di informazioni nella letteratura in merito a queste recenti realtà, in modo particolare nel settore dell’alcoholic beverage. Nelle conclusioni viene scritto: “E’ necessario che le aziende, siano esse eredi di una lunga tradizione o di recente fondazione, colgano con uno sguardo lungimirante, la potenziale ricchezza contenuta nelle testimonianze del loro operato per rimanere competitive in un mondo in costante trasformazione ma che riconosce il valore di una solida identità costruita nel tempo”.

Heritage marketing nell’alcoholic beverages sector. I casi Branca e Strega.

Chia Centrella

Tesi, Università Cà Foscari, Corso di Laurea Magistrale in Economia e gestione delle aziende

Una tesi discussa a Cà Foscari approfondisce le numerose funzioni dell’heritage marketing nell’ambito delle strategie aziendali

Valorizzare la propria storia e farne un potente strumento di marketing e più in generale di valorizzazione della propria attività. Strategia ormai diffusa, ma che deve sempre essere studiata a approfondita per capirne i risvolti che vanno al di là della teoria. E’ quanto ha fatto Chiara Centrella con la sua tesi discussa alla Cà Foscari nell’ambito del Corso di laurea magistrale in Economia e gestione delle aziende.

“Heritage marketing nell’alcoholic beverages sector. I casi Branca e Strega” è una ricerca basata sulla classica divisione tra teoria e lavoro sul campo. Obiettivo dell’indagine, come viene riferito nell’introduzione,

è quello di ricostruire come questi brand abbiano adoperato l’heritage marketing e i suoi strumenti, in particolar modo il museo d’impresa, come catalizzatore per la valorizzazione del patrimonio storico culturale e la formazione di una solida identità d’impresa.

Centrella affronta quindi prima la definizione e la declinazione teoria di heritage marketing (approfondendone anche le varie componenti come gli archivi d’impresa, le fondazioni e i musei d’impresa); successivamente vengono descritti e analizzati i casi di Branca e Strega preceduti da una carrellata storia sull’uso e sul ruolo dell’alcol nell’alimentazione e nei rituali sociali. Di ognuna delle due aziende, invece, la ricerche prende in considerazione la storia e l’attualità oltre che le componenti che costituiscono il particolare heritage marketing che ha contribuito a rilanciare marchio e fama.

L’indagine – sottolinea quindi Chiara Centrella -, ha reso evidenti i vuoti e le mancanze di informazioni nella letteratura in merito a queste recenti realtà, in modo particolare nel settore dell’alcoholic beverage. Nelle conclusioni viene scritto: “E’ necessario che le aziende, siano esse eredi di una lunga tradizione o di recente fondazione, colgano con uno sguardo lungimirante, la potenziale ricchezza contenuta nelle testimonianze del loro operato per rimanere competitive in un mondo in costante trasformazione ma che riconosce il valore di una solida identità costruita nel tempo”.

Heritage marketing nell’alcoholic beverages sector. I casi Branca e Strega.

Chia Centrella

Tesi, Università Cà Foscari, Corso di Laurea Magistrale in Economia e gestione delle aziende

Guardare Milano oltre le mille luci di Natale e governare crisi, povertà e innovazione

Milano è le mille luci di Natale, in Montenapoleone e nelle strade affollate del quadrilatero della moda e dello shopping. Milano è la lunga coda di donne e uomini che entrano nel Refettorio Ambrosiano della Caritas nella piazza del quartiere di Greco, passando sotto il portale scolpito da Mimmo Paladino, la croce, i pani, i pesci, i simboli dell’accoglienza.

Milano, il lusso. Milano, la povertà. E, in mezzo, centinaia di migliaia di persone che ogni giorno costruiscono, nella metropoli inquieta, quel che serve a un miglior destino comune: il lavoro, l’impresa, la conoscenza, le relazioni sociali, l’assistenza, le strutture essenziali dei valori che fanno una comunità. Una civitas e non più soltanto una urbs di strade e piazze, palazzi e negozi. Un insieme di persone. Non una folla di gente. Persone che meritano attenzione, considerazione, rispetto.

C’è “un disagio sociale che mette in crisi il modello Milano”, scrive giustamente Aldo Bonomi su “Il Sole24Ore” (19 dicembre), notando come il dinamismo post Expo si stia esaurendo e come “la città premium” del cosiddetto “primo cerchio”, il centro cittadino, non “sgocciola” più verso il basso, smettendo di creare coesione e opportunità diffuse e determinando invece nuove povertà, più accentuate disuguaglianze.

Turismo, investimenti immobiliari, eventi, producono ricchezza, è vero. Ma cresce la preoccupazione sulle incrinature, oramai vistose, di un sistema che da sempre ha connotato la natura profonda di Milano: la capacità di costruire originali sintesi tra crescita economica e virtù civili della solidarietà, competitività e inclusione sociale.

Sbaglia, naturalmente, chi dipinge Milano, come “l’inverno del nostro scontento”, chi esaspera i nodi dei problemi sociali (a cominciare dalla sicurezza, reale o anche solo percepita che sia) dimenticando le caratteristiche di fragilità e complessità tipiche di ogni metropoli. Così come sbaglia chi si affida, consolatoriamente, alla “Classifica sulla qualità della vita” (“Il Sole24Ore”, 4 dicembre) che anche quest’anno vede Milano tra le prime dieci province (la prima è Udine, seguita da Bologna e Trento), soprattutto per merito degli indicatori legati alle dinamiche dell’economia e degli affari. Ma certo, in questa complessità di contrasti, è necessario trovare un senso, un indirizzo, una vocazione. Prendere atto che nell’opinione corrente Milano non è più “the place to be” proclamato da “The New York Times” alcuni anni fa, ma nemmeno una città da contestare, criticare aspramente, condannare.

Se ne discute da tempo, oramai. E forse, proprio questa capacità di analisi critica e autocritica è una delle leve indispensabili per ripensare Milano, mettendo da parte l’idea di “modello” (vissuta come arrogante pretesa di primato d’una città che finisce per essere invidiata e detestata) e ragionando invece di sviluppo sostenibile, accoglienza, ascensore sociale, opportunità. Meno comunicazione frettolosa e arrembante, più cultura. Meno storytelling da propaganda e più fantasia politica per cercare di costruire, anche con il buon governo metropolitano, nuovi e più giusti equilibri economici e sociali.

E’ un’attitudine diffusa, d’altronde, la capacità di Milano di fare severamente i conti con la propria storia e l’attualità. Come sostiene Piero Borghini, sindaco per una troppo breve stagione nella tempesta politica e istituzionale dei primi anni Novanta (i tempi della bufera di Tangentopoli) e poi comunque intelligenza sempre lucida e vivace: “Non c’è città al mondo che studi sé stessa allo stesso modo di Milano. Roma si fotografa perché è bella. Milano non si fotografa ma si studia. I libri sull’economia di Milano, le ricerche… c’è una classe intellettuale che studia e che propone. Basterebbe leggerli, quei libri…” (Il Foglio, 14 dicembre). Perché “Milano sta vivendo una fase di riflessione, ma non è una città smarrita. La politica, al massimo, è smarrita”.

Quel che serve è non fermarsi al mito di fine Ottocento della “capitale morale” costruito “sullo spirito dell’imprenditoria, dell’etica del lavoro e del buon governo” e pensare semmai a come coniugare economia della conoscenza, ambientalismo e produttività.

Sono temi impegnativi, che trovano eco crescente nel discorso pubblico (anche negli incontri del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini: come evitare, lungo il cammino sul crinale, di precipitare nella crisi invece che scendere pur faticosamente lungo i sentieri che portano alla ripresa?). E che vanno approfonditi e indirizzati verso risposte politiche e sociali, con quel “coraggio” e quell’esercizio di “fiducia” che proprio l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini ha indicato come virtù necessarie, nel discorso alla città in Sant’Ambrogio, chiedendo ai politici e ai cittadini di “ricominciare da giovani, demografia, immigrati”. Sviluppo, accoglienza, integrazione, appunto. Altro che le sole luminarie….

Discutere, dunque. Spregiudicatamente. Facendo buon uso degli strumenti della conoscenza e della dialettica. Stando alla larga dalle corrive semplificazioni propagandiste. E tenendo bene a mente la lezione di un grande milanese come Umberto Eco: “La libertà di parola significa libertà dalla retorica”.

Si può, giustamente provare a valorizzare il passato, come si nota nell’idea (cara al finanziere Francesco Micheli, uomo di sofisticata cultura) di proporre il centro storico di Milano come “patrimonio dell’Unesco”, dando un giusto riconoscimento a quell’insieme di tesori monumentali e culturali che vanno dal Duomo alla Scala, da Brera e dal Palazzo Reale al Poldi Pezzoli, alle Gallerie d’Italia, al Museo del Novecento e alla Pinacoteca Ambrosiana con i disegni del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci.

Si può insistere per legare i progetti urbanistici a Sesto San Giovanni e a Lambrate, negli ex scali ferroviari di Porta Genova, Scalo Farini e Porta Romana e nell’area ex Expo anche a impegni di social housing e servizi di valore pubblico (il Comune si muove già in questa direzione). E soprattutto vale la pena ragionare su quali siano le scelte politiche e amministrative e quali le responsabilità degli attori sociali, a cominciare dalle imprese, per fare di Milano una smart city della conoscenza e dell’innovazione, una metropoli dei flussi che, nello spazio tra Europa e Mediterraneo, leghi persone, idee, affari, ricerche, relazioni coinvolgendo tutto il ricco tessuto delle città intermedie, da Torino a Genova (lungo le linee del “progetto GeMiTo” promosso da Unione Industriali torinese, Assolombarda e Confindustria genovese), da Bergamo a Brescia e al Nord Est, dall’asse Como – Varese all’Emilia: un territorio di imprese, università, comunità impegnate a coniugare innovazione e inclusione, creazione di ricchezza e diffusione del benessere. Democrazia liberale ed economia sociale di mercato, per dirla in sintesi, con sguardo europeo.

Servono dunque scelte di promozione dell’intraprendenza e dell’innovazione. E di valorizzazione di conoscenze e competenze, di sostegno a tutto quanto sviluppi e diffonda nuove tecnologie ambientalmente e socialmente sostenibili.

Se questo è l’orizzonte, Milano deve ricominciare a imparare come tenere legate le nuove generazioni, come essere ospitale e inclusiva. Come ridiventare, insomma, capace di fare “diventare milanesi” tutti coloro che qui arrivano dal resto d’Italia, dall’Europa, dal bacino grande del Mediterraneo, coste dell’Africa comprese.

Un grande progetto, costruito, per citare ancora Bonomi, su “virtù civiche e passione sociale”. Una lungimirante strategia di sapiente politica ed efficace amministrazione pubblica, sulla gestione urbanistica e dei servizi della “grande Milano”. Il buon governo della trasformazione.

Milano è le mille luci di Natale, in Montenapoleone e nelle strade affollate del quadrilatero della moda e dello shopping. Milano è la lunga coda di donne e uomini che entrano nel Refettorio Ambrosiano della Caritas nella piazza del quartiere di Greco, passando sotto il portale scolpito da Mimmo Paladino, la croce, i pani, i pesci, i simboli dell’accoglienza.

Milano, il lusso. Milano, la povertà. E, in mezzo, centinaia di migliaia di persone che ogni giorno costruiscono, nella metropoli inquieta, quel che serve a un miglior destino comune: il lavoro, l’impresa, la conoscenza, le relazioni sociali, l’assistenza, le strutture essenziali dei valori che fanno una comunità. Una civitas e non più soltanto una urbs di strade e piazze, palazzi e negozi. Un insieme di persone. Non una folla di gente. Persone che meritano attenzione, considerazione, rispetto.

C’è “un disagio sociale che mette in crisi il modello Milano”, scrive giustamente Aldo Bonomi su “Il Sole24Ore” (19 dicembre), notando come il dinamismo post Expo si stia esaurendo e come “la città premium” del cosiddetto “primo cerchio”, il centro cittadino, non “sgocciola” più verso il basso, smettendo di creare coesione e opportunità diffuse e determinando invece nuove povertà, più accentuate disuguaglianze.

Turismo, investimenti immobiliari, eventi, producono ricchezza, è vero. Ma cresce la preoccupazione sulle incrinature, oramai vistose, di un sistema che da sempre ha connotato la natura profonda di Milano: la capacità di costruire originali sintesi tra crescita economica e virtù civili della solidarietà, competitività e inclusione sociale.

Sbaglia, naturalmente, chi dipinge Milano, come “l’inverno del nostro scontento”, chi esaspera i nodi dei problemi sociali (a cominciare dalla sicurezza, reale o anche solo percepita che sia) dimenticando le caratteristiche di fragilità e complessità tipiche di ogni metropoli. Così come sbaglia chi si affida, consolatoriamente, alla “Classifica sulla qualità della vita” (“Il Sole24Ore”, 4 dicembre) che anche quest’anno vede Milano tra le prime dieci province (la prima è Udine, seguita da Bologna e Trento), soprattutto per merito degli indicatori legati alle dinamiche dell’economia e degli affari. Ma certo, in questa complessità di contrasti, è necessario trovare un senso, un indirizzo, una vocazione. Prendere atto che nell’opinione corrente Milano non è più “the place to be” proclamato da “The New York Times” alcuni anni fa, ma nemmeno una città da contestare, criticare aspramente, condannare.

Se ne discute da tempo, oramai. E forse, proprio questa capacità di analisi critica e autocritica è una delle leve indispensabili per ripensare Milano, mettendo da parte l’idea di “modello” (vissuta come arrogante pretesa di primato d’una città che finisce per essere invidiata e detestata) e ragionando invece di sviluppo sostenibile, accoglienza, ascensore sociale, opportunità. Meno comunicazione frettolosa e arrembante, più cultura. Meno storytelling da propaganda e più fantasia politica per cercare di costruire, anche con il buon governo metropolitano, nuovi e più giusti equilibri economici e sociali.

E’ un’attitudine diffusa, d’altronde, la capacità di Milano di fare severamente i conti con la propria storia e l’attualità. Come sostiene Piero Borghini, sindaco per una troppo breve stagione nella tempesta politica e istituzionale dei primi anni Novanta (i tempi della bufera di Tangentopoli) e poi comunque intelligenza sempre lucida e vivace: “Non c’è città al mondo che studi sé stessa allo stesso modo di Milano. Roma si fotografa perché è bella. Milano non si fotografa ma si studia. I libri sull’economia di Milano, le ricerche… c’è una classe intellettuale che studia e che propone. Basterebbe leggerli, quei libri…” (Il Foglio, 14 dicembre). Perché “Milano sta vivendo una fase di riflessione, ma non è una città smarrita. La politica, al massimo, è smarrita”.

Quel che serve è non fermarsi al mito di fine Ottocento della “capitale morale” costruito “sullo spirito dell’imprenditoria, dell’etica del lavoro e del buon governo” e pensare semmai a come coniugare economia della conoscenza, ambientalismo e produttività.

Sono temi impegnativi, che trovano eco crescente nel discorso pubblico (anche negli incontri del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini: come evitare, lungo il cammino sul crinale, di precipitare nella crisi invece che scendere pur faticosamente lungo i sentieri che portano alla ripresa?). E che vanno approfonditi e indirizzati verso risposte politiche e sociali, con quel “coraggio” e quell’esercizio di “fiducia” che proprio l’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini ha indicato come virtù necessarie, nel discorso alla città in Sant’Ambrogio, chiedendo ai politici e ai cittadini di “ricominciare da giovani, demografia, immigrati”. Sviluppo, accoglienza, integrazione, appunto. Altro che le sole luminarie….

Discutere, dunque. Spregiudicatamente. Facendo buon uso degli strumenti della conoscenza e della dialettica. Stando alla larga dalle corrive semplificazioni propagandiste. E tenendo bene a mente la lezione di un grande milanese come Umberto Eco: “La libertà di parola significa libertà dalla retorica”.

Si può, giustamente provare a valorizzare il passato, come si nota nell’idea (cara al finanziere Francesco Micheli, uomo di sofisticata cultura) di proporre il centro storico di Milano come “patrimonio dell’Unesco”, dando un giusto riconoscimento a quell’insieme di tesori monumentali e culturali che vanno dal Duomo alla Scala, da Brera e dal Palazzo Reale al Poldi Pezzoli, alle Gallerie d’Italia, al Museo del Novecento e alla Pinacoteca Ambrosiana con i disegni del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci.

Si può insistere per legare i progetti urbanistici a Sesto San Giovanni e a Lambrate, negli ex scali ferroviari di Porta Genova, Scalo Farini e Porta Romana e nell’area ex Expo anche a impegni di social housing e servizi di valore pubblico (il Comune si muove già in questa direzione). E soprattutto vale la pena ragionare su quali siano le scelte politiche e amministrative e quali le responsabilità degli attori sociali, a cominciare dalle imprese, per fare di Milano una smart city della conoscenza e dell’innovazione, una metropoli dei flussi che, nello spazio tra Europa e Mediterraneo, leghi persone, idee, affari, ricerche, relazioni coinvolgendo tutto il ricco tessuto delle città intermedie, da Torino a Genova (lungo le linee del “progetto GeMiTo” promosso da Unione Industriali torinese, Assolombarda e Confindustria genovese), da Bergamo a Brescia e al Nord Est, dall’asse Como – Varese all’Emilia: un territorio di imprese, università, comunità impegnate a coniugare innovazione e inclusione, creazione di ricchezza e diffusione del benessere. Democrazia liberale ed economia sociale di mercato, per dirla in sintesi, con sguardo europeo.

Servono dunque scelte di promozione dell’intraprendenza e dell’innovazione. E di valorizzazione di conoscenze e competenze, di sostegno a tutto quanto sviluppi e diffonda nuove tecnologie ambientalmente e socialmente sostenibili.

Se questo è l’orizzonte, Milano deve ricominciare a imparare come tenere legate le nuove generazioni, come essere ospitale e inclusiva. Come ridiventare, insomma, capace di fare “diventare milanesi” tutti coloro che qui arrivano dal resto d’Italia, dall’Europa, dal bacino grande del Mediterraneo, coste dell’Africa comprese.

Un grande progetto, costruito, per citare ancora Bonomi, su “virtù civiche e passione sociale”. Una lungimirante strategia di sapiente politica ed efficace amministrazione pubblica, sulla gestione urbanistica e dei servizi della “grande Milano”. Il buon governo della trasformazione.

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