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Si conclude un anno ricco di iniziative….

Ripercorriamo insieme le principali novità del 2023

lo spettacolo teatrale L’umana impresa. La fabbrica degli attori in scena al Teatro Franco Parenti che ha preso le mosse dalla riflessione su alcuni termini comuni sia alla cultura di impresa sia alle arti: visione, identità, trasformazione, ricerca, capacità umana di creare manufatti e storie. Allo spettacolo è stato assegnato il Corporate Heritage Awards 2023 nella sezione degli eventi culturali

il podcast “Risuona”, la serie in quattro episodi promossa da Fondazione Pirelli e prodotta da Chora Media, che racconta attraverso la voce di Gino De Crescenzo, in arte Pacifico le risonanze tra passato e futuro, in una Milano che scorre veloce come le ruote di una bicicletta

la presentazione in anteprima nell’ambito del festival “Visioni dal Mondo” e durante le visite guidate organizzate per la XXII Settimana della Cultura d’Impresa del cortometraggio “NOI SIAMO”, un progetto di Fondazione Pirelli prodotto da Muse Factory of Projects, che racconta attraverso il linguaggio cinematografico la cultura d’impresa della Pirelli, rappresentata come “palcoscenico delle arti e della tecnica”.

tra le attività formative: la partecipazione all’ XI Festival dell’Innovazione e della Scienza, organizzato dal Comune di Settimo Torinese con un incontro dedicato alle scuole di II grado dal titolo “Il mondo delle corse dalla A alla Z”.

tra gli eventi speciali per le scuole e dedicati alla lettura: l’iniziativa “Parole in viaggio”  dedicata alle ragazze e ai ragazzi tra i 10 e i 14 anni con Nicola Cinquetti e Davide Rigiani, vincitori del Premio Campiello Junior 2023.

….e continuate a seguirci per scoprire tutte le novità “in cantiere” per il 2024!

Buone Feste – Fondazione Pirelli on Vimeo

Buone feste a tutti

Ripercorriamo insieme le principali novità del 2023

lo spettacolo teatrale L’umana impresa. La fabbrica degli attori in scena al Teatro Franco Parenti che ha preso le mosse dalla riflessione su alcuni termini comuni sia alla cultura di impresa sia alle arti: visione, identità, trasformazione, ricerca, capacità umana di creare manufatti e storie. Allo spettacolo è stato assegnato il Corporate Heritage Awards 2023 nella sezione degli eventi culturali

il podcast “Risuona”, la serie in quattro episodi promossa da Fondazione Pirelli e prodotta da Chora Media, che racconta attraverso la voce di Gino De Crescenzo, in arte Pacifico le risonanze tra passato e futuro, in una Milano che scorre veloce come le ruote di una bicicletta

la presentazione in anteprima nell’ambito del festival “Visioni dal Mondo” e durante le visite guidate organizzate per la XXII Settimana della Cultura d’Impresa del cortometraggio “NOI SIAMO”, un progetto di Fondazione Pirelli prodotto da Muse Factory of Projects, che racconta attraverso il linguaggio cinematografico la cultura d’impresa della Pirelli, rappresentata come “palcoscenico delle arti e della tecnica”.

tra le attività formative: la partecipazione all’ XI Festival dell’Innovazione e della Scienza, organizzato dal Comune di Settimo Torinese con un incontro dedicato alle scuole di II grado dal titolo “Il mondo delle corse dalla A alla Z”.

tra gli eventi speciali per le scuole e dedicati alla lettura: l’iniziativa “Parole in viaggio”  dedicata alle ragazze e ai ragazzi tra i 10 e i 14 anni con Nicola Cinquetti e Davide Rigiani, vincitori del Premio Campiello Junior 2023.

….e continuate a seguirci per scoprire tutte le novità “in cantiere” per il 2024!

Buone Feste – Fondazione Pirelli on Vimeo

Buone feste a tutti

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La P Lunga a stelle e strisce

“Per concludere dirò che il mercato americano certamente offre una grande opportunità per la vendita di prodotti di altissima qualità; questo si riferisce tanto a pneumatici d’automobile, quanto ai conduttori isolati in gomma (…). Per raggiungere questo però non bisogna dimenticare che la vendita negli Stati Uniti deve essere fatta con una organizzazione di vendita che segue i sistemi americani e non certo con una organizzazione che seguisse i sistemi di vendita europei”. Si tratta di una relazione minuziosa dell’azienda, a seguito di un viaggio negli Stati Uniti tra il 5 agosto e il 20 dicembre 1916 che dà conto di incontri, analisi di mercato e di prodotto e che indica la strategia adottata da Pirelli: comprendere a fondo le condizioni di un nuovo mercato per pianificare bene le future azioni da intraprendere. Negli anni successivi, anche Alberto Pirelli – nel 1928 – e altri dirigenti effettueranno diversi viaggi nel Nord America, le cui relazioni sono conservate in archivio.

La storia dei rapporti tra Pirelli e gli Usa era già iniziata qualche anno prima. Nel 1904, infatti, l’azienda partecipa all’Esposizione Internazionale della Louisiana a Saint Louis. Si tratta di un evento importante, nel quale Pirelli non solo espone una serie notevole di prodotti a base di caoutchouc (articoli tecnici, articoli sanitari e di merceria, giocattoli, palloni colorati e un vestito da palombaro) insieme a fili e cavi elettrici isolati, ma intesse anche relazioni in ambito commerciale e produttivo. E risale al 1908 la nascita, proprio a New York, dell’iconico marchio della P lunga.

Racconta infatti Vittorio Sereni in un articolo apparso sul n. 2 della Rivista Pirelli del 1958: “…l’idea della maiuscola che allungandosi in orizzontale copre a tettoia le altre lettere che compongono il nome, nacque a New York in un giorno del lontano 1908. Fu una trovata del momento, dovuta a una richiesta del rappresentante che la Pirelli aveva allora sul posto. La selva commerciale e pubblicitaria già andava oltremodo infittendosi da quelle parti e un nome non proprio ignoto ma certo ancor giovane aveva necessità di spiccare con un suo segno preciso per non andare sommerso”. La P Lunga conquista così il mondo.

E poi ancora una storia di prodotto: nel 1967 un comunicato stampa informa dello sbarco negli Stati Uniti del CINTURATO per attrezzare la “nuova Camaro” bolide che dovrà gareggiare con la Ford Mustang. È l’atto di nascita del pneumatico CN72 che i tecnici Pirelli mettono a punto su misura per le strade americane con un complesso disegno composto da una “fioritura” di tasselli ad andamento longitudinale e trasversale.

Ma anche gli anni Duemila sono significativi per l’esperienza Pirelli negli States. Risale infatti al 2002 l’apertura dello stabilimento di Rome, in Georgia, una delle migliori sintesi della presenza dell’azienda oltreoceano. Nel 2005 “Fatti e Notizie” invece documenta, non solo l’accordo sottoscritto tra Pirelli Labs e il prestigioso Georgia Tech per lo sviluppo di soluzioni di home working, ma anche l’apertura del nuovo quartier generale dell’azienda, ad Atlanta. Nel 2016 viene aperto a Los Angeles il primo flagship store Pirelli al mondo, il “P Zero World”: un intero negozio monomarca dove storia e attualità dell’azienda si fondono e si raccontano.

Oggi il grande stabilimento produttivo di Rome è focalizzato su pneumatici speciali premium per auto, autocarri leggeri e SUV, con dimensioni da 19” fino a 30”. Questi prodotti incorporano la tecnologia a valore aggiunto più avanzata offerta da Pirelli. Quasi il 70% della produzione va a case automobilistiche premium e una parte significativa viene esportata al di fuori degli Stati Uniti”. America, terra di importanti sperimentazioni. Non per nulla, lo stabilimento Pirelli in Georgia è anche il primo stabilimento di pneumatici al mondo ad essere certificato FSC dal Forest Stewardship Council.

“Per concludere dirò che il mercato americano certamente offre una grande opportunità per la vendita di prodotti di altissima qualità; questo si riferisce tanto a pneumatici d’automobile, quanto ai conduttori isolati in gomma (…). Per raggiungere questo però non bisogna dimenticare che la vendita negli Stati Uniti deve essere fatta con una organizzazione di vendita che segue i sistemi americani e non certo con una organizzazione che seguisse i sistemi di vendita europei”. Si tratta di una relazione minuziosa dell’azienda, a seguito di un viaggio negli Stati Uniti tra il 5 agosto e il 20 dicembre 1916 che dà conto di incontri, analisi di mercato e di prodotto e che indica la strategia adottata da Pirelli: comprendere a fondo le condizioni di un nuovo mercato per pianificare bene le future azioni da intraprendere. Negli anni successivi, anche Alberto Pirelli – nel 1928 – e altri dirigenti effettueranno diversi viaggi nel Nord America, le cui relazioni sono conservate in archivio.

La storia dei rapporti tra Pirelli e gli Usa era già iniziata qualche anno prima. Nel 1904, infatti, l’azienda partecipa all’Esposizione Internazionale della Louisiana a Saint Louis. Si tratta di un evento importante, nel quale Pirelli non solo espone una serie notevole di prodotti a base di caoutchouc (articoli tecnici, articoli sanitari e di merceria, giocattoli, palloni colorati e un vestito da palombaro) insieme a fili e cavi elettrici isolati, ma intesse anche relazioni in ambito commerciale e produttivo. E risale al 1908 la nascita, proprio a New York, dell’iconico marchio della P lunga.

Racconta infatti Vittorio Sereni in un articolo apparso sul n. 2 della Rivista Pirelli del 1958: “…l’idea della maiuscola che allungandosi in orizzontale copre a tettoia le altre lettere che compongono il nome, nacque a New York in un giorno del lontano 1908. Fu una trovata del momento, dovuta a una richiesta del rappresentante che la Pirelli aveva allora sul posto. La selva commerciale e pubblicitaria già andava oltremodo infittendosi da quelle parti e un nome non proprio ignoto ma certo ancor giovane aveva necessità di spiccare con un suo segno preciso per non andare sommerso”. La P Lunga conquista così il mondo.

E poi ancora una storia di prodotto: nel 1967 un comunicato stampa informa dello sbarco negli Stati Uniti del CINTURATO per attrezzare la “nuova Camaro” bolide che dovrà gareggiare con la Ford Mustang. È l’atto di nascita del pneumatico CN72 che i tecnici Pirelli mettono a punto su misura per le strade americane con un complesso disegno composto da una “fioritura” di tasselli ad andamento longitudinale e trasversale.

Ma anche gli anni Duemila sono significativi per l’esperienza Pirelli negli States. Risale infatti al 2002 l’apertura dello stabilimento di Rome, in Georgia, una delle migliori sintesi della presenza dell’azienda oltreoceano. Nel 2005 “Fatti e Notizie” invece documenta, non solo l’accordo sottoscritto tra Pirelli Labs e il prestigioso Georgia Tech per lo sviluppo di soluzioni di home working, ma anche l’apertura del nuovo quartier generale dell’azienda, ad Atlanta. Nel 2016 viene aperto a Los Angeles il primo flagship store Pirelli al mondo, il “P Zero World”: un intero negozio monomarca dove storia e attualità dell’azienda si fondono e si raccontano.

Oggi il grande stabilimento produttivo di Rome è focalizzato su pneumatici speciali premium per auto, autocarri leggeri e SUV, con dimensioni da 19” fino a 30”. Questi prodotti incorporano la tecnologia a valore aggiunto più avanzata offerta da Pirelli. Quasi il 70% della produzione va a case automobilistiche premium e una parte significativa viene esportata al di fuori degli Stati Uniti”. America, terra di importanti sperimentazioni. Non per nulla, lo stabilimento Pirelli in Georgia è anche il primo stabilimento di pneumatici al mondo ad essere certificato FSC dal Forest Stewardship Council.

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Umanità d’impresa

Il racconto dele risorse umane nelle organizzazioni della produzione

 

Risorse umane capitale d’impresa. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi (per davvero). Questione non solo di cultura d’impresa, ma anche di vincoli, circostanze, accadimenti, influenze esterne all’azienda e tanto altro ancora. Vale comunque sempre la fatica cercare di comprendere come tentare di realizzare sul serio qualcosa che ormai dovrebbe essere alla base di ogni buona impresa. E per iniziare, è possibile leggere “Risorse (molto) umane” di Giorgio Pivetta che, partendo dalle letture su Adriano Olivetti oltre che di psicologia e sociologia del lavoro, ha intrapreso un percorso professionale nell’ambito delle risorse umane passando prima da Barilla e poi da Campari.

Il senso del libro è tutto nel sottotitolo (oltre che nella parentesi del titolo): “Miti, riti e dilemmi in un viaggio tra passato e futuro”. Perché, quello delle risorse umane nelle aziende è davvero un insieme di miti e riti ma anche di dilemmi e interrogativi.  E di immaginari collettivi.

Pivetta prova a raccontare tutto partendo naturalmente dalla globalizzazione per passare a guardare dentro le imprese oggi – tentando di mettere insieme persone, organizzazione e cultura -, e provare a guardare sempre dentro le imprese ma domani, quando la digitalizzazione la farà davvero da padrona.  Tutto per arrivare ad affermare che in fatto di risorse umane non ci sono precetti sempre validi o formule generali mentre quello che si può fare è proporre una prospettiva. Senza dimenticare il tratto fondamentale: l’umanità che vive dentro ogni impresa.

Scrive l’autore ad un certo punto del suo libro: “Il mio racconto utilizza da un lato il filtro dell’esperienza diretta sul campo e dall’altro il confronto con l’evoluzione del mondo, delle organizzazioni e soprattutto delle persone che le vivono”. Il risultato è qualcosa da leggere tutto. Interessante, al fondo, l’indicazione della “biblioteca dell’autore” con trenta titoli tra i più vari in cui spiccano Adriano Olivetti e Max Weber.

Risorse (molto) umane. Miti, riti e dilemmi in un viaggio tra passato e futuro

Giorgio Pivetta

Guerini Next, 2023

Il racconto dele risorse umane nelle organizzazioni della produzione

 

Risorse umane capitale d’impresa. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi (per davvero). Questione non solo di cultura d’impresa, ma anche di vincoli, circostanze, accadimenti, influenze esterne all’azienda e tanto altro ancora. Vale comunque sempre la fatica cercare di comprendere come tentare di realizzare sul serio qualcosa che ormai dovrebbe essere alla base di ogni buona impresa. E per iniziare, è possibile leggere “Risorse (molto) umane” di Giorgio Pivetta che, partendo dalle letture su Adriano Olivetti oltre che di psicologia e sociologia del lavoro, ha intrapreso un percorso professionale nell’ambito delle risorse umane passando prima da Barilla e poi da Campari.

Il senso del libro è tutto nel sottotitolo (oltre che nella parentesi del titolo): “Miti, riti e dilemmi in un viaggio tra passato e futuro”. Perché, quello delle risorse umane nelle aziende è davvero un insieme di miti e riti ma anche di dilemmi e interrogativi.  E di immaginari collettivi.

Pivetta prova a raccontare tutto partendo naturalmente dalla globalizzazione per passare a guardare dentro le imprese oggi – tentando di mettere insieme persone, organizzazione e cultura -, e provare a guardare sempre dentro le imprese ma domani, quando la digitalizzazione la farà davvero da padrona.  Tutto per arrivare ad affermare che in fatto di risorse umane non ci sono precetti sempre validi o formule generali mentre quello che si può fare è proporre una prospettiva. Senza dimenticare il tratto fondamentale: l’umanità che vive dentro ogni impresa.

Scrive l’autore ad un certo punto del suo libro: “Il mio racconto utilizza da un lato il filtro dell’esperienza diretta sul campo e dall’altro il confronto con l’evoluzione del mondo, delle organizzazioni e soprattutto delle persone che le vivono”. Il risultato è qualcosa da leggere tutto. Interessante, al fondo, l’indicazione della “biblioteca dell’autore” con trenta titoli tra i più vari in cui spiccano Adriano Olivetti e Max Weber.

Risorse (molto) umane. Miti, riti e dilemmi in un viaggio tra passato e futuro

Giorgio Pivetta

Guerini Next, 2023

L’assistente sociale in azienda

L’analisi di una figura importante anche nel welfare d’impresa condotta da una tesi di laurea

 

Welfare in azienda. Tema importante, ormai entrato nella contrattazione collettiva nazionale. Eppure tema non nuovo, anzi. Sul welfare, quindi, occorre ragionare sul presente ma senza dimenticare il passato. E’ un po’ quello che fa Michela Pozzato con la sua tesi discussa nell’ambito del corso di laurea magistrale in innovazione servizio sociale presso l’Università di Padova.

“L’assistente sociale d’azienda: tornare alle origini per innovare” – questo il titolo della tesi -, affronta un particolare aspetto del welfare d’impresa, quello dell’assistenza sociale in azienda. Più in generale, viene spiegato dalla stessa Pozzato, la ricerca si pone l’obiettivo di comprendere l’evoluzione delle politiche di welfare, del mondo del lavoro e del servizio sociale in relazione al mutamento socioeconomico. Lo sguardo

è stato posto quindi sui cambiamenti delle condizioni di lavoro, delle funzioni e degli ambiti nei quali

gli assistenti sociali sono occupati.

La ricerca inizia dalla storia del servizio sociale e dall’evoluzione delle politiche di welfare sia in Italia che in Europa. Particolare attenzione viene posta non solo agli aspetti teorici ma anche ad alcune esperienze d’impresa – Olivetti, Reale Mutua e Socomec – cercando di indagare il reale interesse delle aziende verso questa particolare figura. L’analisi, viene fatto notare, “assume uno sguardo bifocale: da un lato lo sguardo dei professionisti sociali e dall’altro lo sguardo del settore aziendale (dipendenti, dirigenti, titolari)”.

Il presente del welfare d’impresa e della figura dell’assistenza sociale in azienda, viene quindi indagato attraverso un caso studio: quello delle Cartiere del Polesine spa.

Il lavoro di Michela Pozzato è una ampia analisi di un aspetto particolare del welfare che probabilmente deve essere rivalutato. Particolarmente interessanti – forse la parte più interessante perché più viva dell’indagine -, sono le diverse decine di pagine dedicate alla restituzione integrale delle interviste svolte ai lavorartori dell’azienda presa come caso di studio.

L’assistente sociale d’azienda: tornare alle origini per innovare

Michela Pozzato

Tesi, Università degli studi di Padova. Corso di laurea magistrale in innovazione e servizio sociale, 2023

L’analisi di una figura importante anche nel welfare d’impresa condotta da una tesi di laurea

 

Welfare in azienda. Tema importante, ormai entrato nella contrattazione collettiva nazionale. Eppure tema non nuovo, anzi. Sul welfare, quindi, occorre ragionare sul presente ma senza dimenticare il passato. E’ un po’ quello che fa Michela Pozzato con la sua tesi discussa nell’ambito del corso di laurea magistrale in innovazione servizio sociale presso l’Università di Padova.

“L’assistente sociale d’azienda: tornare alle origini per innovare” – questo il titolo della tesi -, affronta un particolare aspetto del welfare d’impresa, quello dell’assistenza sociale in azienda. Più in generale, viene spiegato dalla stessa Pozzato, la ricerca si pone l’obiettivo di comprendere l’evoluzione delle politiche di welfare, del mondo del lavoro e del servizio sociale in relazione al mutamento socioeconomico. Lo sguardo

è stato posto quindi sui cambiamenti delle condizioni di lavoro, delle funzioni e degli ambiti nei quali

gli assistenti sociali sono occupati.

La ricerca inizia dalla storia del servizio sociale e dall’evoluzione delle politiche di welfare sia in Italia che in Europa. Particolare attenzione viene posta non solo agli aspetti teorici ma anche ad alcune esperienze d’impresa – Olivetti, Reale Mutua e Socomec – cercando di indagare il reale interesse delle aziende verso questa particolare figura. L’analisi, viene fatto notare, “assume uno sguardo bifocale: da un lato lo sguardo dei professionisti sociali e dall’altro lo sguardo del settore aziendale (dipendenti, dirigenti, titolari)”.

Il presente del welfare d’impresa e della figura dell’assistenza sociale in azienda, viene quindi indagato attraverso un caso studio: quello delle Cartiere del Polesine spa.

Il lavoro di Michela Pozzato è una ampia analisi di un aspetto particolare del welfare che probabilmente deve essere rivalutato. Particolarmente interessanti – forse la parte più interessante perché più viva dell’indagine -, sono le diverse decine di pagine dedicate alla restituzione integrale delle interviste svolte ai lavorartori dell’azienda presa come caso di studio.

L’assistente sociale d’azienda: tornare alle origini per innovare

Michela Pozzato

Tesi, Università degli studi di Padova. Corso di laurea magistrale in innovazione e servizio sociale, 2023

L’impegno contro la violenza sulle donne si lega a quello sul superamento del gender gap per lavoro e salari

Le donne. E il lavoro, la libertà, la sicurezza. Per provare a ragionare con una certa lucidità sui punti di crisi e le prospettive di migliori equilibri,  proprio nei giorni in cui tanto e giustamente si parla del rapporto tra impegno contro la violenza ai danni delle donne e attenzione ai dati essenziali dell’autonomia della vita femminile, si può partire dalle ultime notizie di cronaca e dai riferimenti alle scelte e alle prescrizioni della nostra legge fondamentale, la Costituzione.

Vale la pena, dunque, fare tesoro delle recenti indicazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Il tema delle disuguaglianze di genere e del danno che queste recano alla comunità è parte fondamentale delle preoccupazioni delle istituzioni…” ed è dunque necessario “porre l’accento su tre azioni chiave: lo stop alla violenza sulle donne, ignobile fenomeno tutt’ora tristemente presente, le pari possibilità per il raggiungimento di posizioni di vetrice nel mondo del lavoro e l’adozione di una prospettiva di genere in tutte le politiche europee” (dall’intervento all’incontro con una delegazione di partecipanti al Women Economic Forum, 23 novembre).

I riferimenti costituzionali sono appunto chiari: dall’articolo 1 sul lavoro come fondamento della Repubblica democratica (lavoro come cardine di cittadinanza, dignità, partecipazione responsabile) all’articolo 4 sul riconoscimento al diritto al lavoro e alla promozione delle “condizioni che rendano effettivo questo diritto” (vedremo nelle prossime righe quanto lontani si sia, su questo tema, proprio per le donne) e all’articolo 37, che vale la pena rileggere attentamente: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. E ancora: “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale protezione”. Anche da questo punto di vista, l’attuazione del dettato della Costituzione è ben lontano dalla realtà dei fatti.

Guardiamo alla cronaca, dunque. “Il lavoro espelle 44mila mamme”, documenta “La Stampa” (6 dicembre), raccontando come, secondo i dati dal Rapporto Annuale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2022 quasi 45mila madri lavoratrici si sono dimesse dal loro impiego. La maggior parte (il 63%) ha dato un’unica motivazione: troppo difficile conciliare occupazione e cura dei figli. E il 79,4% delle dimissionarie è nella fascia d’età fra i 29 e i 44 anni.

“La Stampa” ha dato seguito ai dati con inchieste, interviste, testimonianze di donne lavoratrici che di fronte alla scelta tra lavoro (dunque salario, carriera, autonomia, realizzazione dei propri progetti e aspirazioni di vita) e impegno/dovere a prendersi cura dei familiari, ha fatto una scelta netta. Difficile, molto spesso. Faticosa. E socialmente poco riconosciuta, apprezzata, valorizzata. Con conseguenze pesanti sul futuro: una donna senza autonomia finanziaria, nel corso della vita, dipende dalle scelte e dalle concessioni dell’uomo

Ecco il punto: nonostante i passi avanti compiuti sull’occupazione femminile, l’Italia è fanalino di coda per il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro, nella fascia tra 15 e 74 anni, con il 48,2%, rispetto a una media Ue del 59,5%.

Altri dati (World Economic Forum, 2022) dicono che sul gender gap l’Italia è al 63° posto su 146 paesi monitorati, senza progresso sull’anno precedente, dopo Uganda e Zambia. E se si guarda solo ai paesi europei, siamo al 25° posto su 35 paesi.

A ridurre i divari, non sono serviti finora gli incentivi per le assunzioni delle donne. “Il lavoro diseguale”, titola “la Repubblica” (12 dicembre), spiegando che “quando si parla di occupazione femminile la percentuale non si schioda dall’ormai strutturale divario con gli uomini: 40-60. Che significa 40% di occupate sul totale di chi lavora in Italia a fronte dell’ormai consolidato 60% maschile”. L’Inapp – l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche – conferma che la parità 50-50 rimane un sogno anche se andiamo a guardare i contratti incentivati dai vari bonus pubblici erogati in questi anni. E per di più “alle donne vengono proposti contratti a termine o part time forzati, con stipendi bassi che si trasformeranno un domani in pensioni poverissime”.

Nel suo commento, sempre su “la Republica”, Michela Marzano attacca l’assurdità di questo sistema che continua a penalizzare le donne “nonostante le competenze, gli studi, la buona volontà e tutte quelle capacità (vogliamo ricordare il multitasking?) che molte di loro sono state costrette a sviluppare nel corso dei secoli proprio per cercare di farsi spazio in un mondo che, di spazio alle donne, ne lascia ben poco”. “Non c’è niente da fare, non se ne esce: nonostante gli incentivi”.

Sul che fare, l’elenco dei provvedimenti da prendere è lungo e noto. A cominciare dai servizi alla famiglia, dagli asili nido, dalle politiche per il supporto dell’assistenza pubblica agli anziani che vivono a casa dei figli, da una diversa strutturazione degli orari di lavoro (la trasformazione digitale dell’economia può aiutare).

Ma non si tratta solo di assistenza. Quanto di una vera e propria svolta culturale, dei valori e delle abitudini di vita quotidiana sulla parità di genere, facendo leva sia sul tema dei diritti sia sul contribuito essenziale delle donne allo sviluppo sostenibile, da punto di vista sia qualitativo che quantitativo.

Serve, naturalmente, una scelta di lungo periodo anche da parte della cultura dell’impresa, nella stagione della prevalenza dei cosiddetti stakeholders values, i valori dei rapporti con dipendenti, fornitori, consumatori, territori e comunità di riferimento dell’impresa stessa, per la partecipazione attiva allo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.

Un’impresa, infatti, è una comunità attiva e intraprendente, al cui centro stanno le donne e gli uomini che ne fanno parte. Non solo “capitale umano”, un termine economico, ma soprattutto “persone”. Un tessuto vivo di relazioni, fatto da intelligenza, passione, creatività, amore per la ricerca, rigore professionale, orgoglio di appartenenza, consapevolezza storica e visione del futuro. Valori forti. In cui proprio le donne sanno esprimere un’originale lettura del cambiamento e una straordinaria forza nel promuoverne gli elementi essenziali.

La forza di un’impresa, con solide radici italiane e visione internazionale, sta nel valorizzare le diversità. Generazionali, di genere, provenienza, culture, formazione e identità. Una varietà di esperienze e letture del mondo, di memorie e progetti per un migliore futuro.

Lo sguardo femminile è una ricchezza particolare: ai vari livelli di partecipazione e di responsabilità, crescente nel tempo, dà all’azienda sensibilità, flessibilità, una vera e propria “intelligenza del cuore” che migliora non solo le nostre performance, ma soprattutto la nostra capacità di essere in sintonia con i cambiamenti sociali ed economici.

Sono le donne, il cardine dell’idea di “umanesimo industriale” secondo cui la migliore cultura economica italiana si sta muovendo. E su cui si fonda la competitività del nostro sistema economico. Da valorizzare e rafforzare.

(immagine Getty Images)

Le donne. E il lavoro, la libertà, la sicurezza. Per provare a ragionare con una certa lucidità sui punti di crisi e le prospettive di migliori equilibri,  proprio nei giorni in cui tanto e giustamente si parla del rapporto tra impegno contro la violenza ai danni delle donne e attenzione ai dati essenziali dell’autonomia della vita femminile, si può partire dalle ultime notizie di cronaca e dai riferimenti alle scelte e alle prescrizioni della nostra legge fondamentale, la Costituzione.

Vale la pena, dunque, fare tesoro delle recenti indicazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Il tema delle disuguaglianze di genere e del danno che queste recano alla comunità è parte fondamentale delle preoccupazioni delle istituzioni…” ed è dunque necessario “porre l’accento su tre azioni chiave: lo stop alla violenza sulle donne, ignobile fenomeno tutt’ora tristemente presente, le pari possibilità per il raggiungimento di posizioni di vetrice nel mondo del lavoro e l’adozione di una prospettiva di genere in tutte le politiche europee” (dall’intervento all’incontro con una delegazione di partecipanti al Women Economic Forum, 23 novembre).

I riferimenti costituzionali sono appunto chiari: dall’articolo 1 sul lavoro come fondamento della Repubblica democratica (lavoro come cardine di cittadinanza, dignità, partecipazione responsabile) all’articolo 4 sul riconoscimento al diritto al lavoro e alla promozione delle “condizioni che rendano effettivo questo diritto” (vedremo nelle prossime righe quanto lontani si sia, su questo tema, proprio per le donne) e all’articolo 37, che vale la pena rileggere attentamente: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”. E ancora: “Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale protezione”. Anche da questo punto di vista, l’attuazione del dettato della Costituzione è ben lontano dalla realtà dei fatti.

Guardiamo alla cronaca, dunque. “Il lavoro espelle 44mila mamme”, documenta “La Stampa” (6 dicembre), raccontando come, secondo i dati dal Rapporto Annuale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2022 quasi 45mila madri lavoratrici si sono dimesse dal loro impiego. La maggior parte (il 63%) ha dato un’unica motivazione: troppo difficile conciliare occupazione e cura dei figli. E il 79,4% delle dimissionarie è nella fascia d’età fra i 29 e i 44 anni.

“La Stampa” ha dato seguito ai dati con inchieste, interviste, testimonianze di donne lavoratrici che di fronte alla scelta tra lavoro (dunque salario, carriera, autonomia, realizzazione dei propri progetti e aspirazioni di vita) e impegno/dovere a prendersi cura dei familiari, ha fatto una scelta netta. Difficile, molto spesso. Faticosa. E socialmente poco riconosciuta, apprezzata, valorizzata. Con conseguenze pesanti sul futuro: una donna senza autonomia finanziaria, nel corso della vita, dipende dalle scelte e dalle concessioni dell’uomo

Ecco il punto: nonostante i passi avanti compiuti sull’occupazione femminile, l’Italia è fanalino di coda per il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro, nella fascia tra 15 e 74 anni, con il 48,2%, rispetto a una media Ue del 59,5%.

Altri dati (World Economic Forum, 2022) dicono che sul gender gap l’Italia è al 63° posto su 146 paesi monitorati, senza progresso sull’anno precedente, dopo Uganda e Zambia. E se si guarda solo ai paesi europei, siamo al 25° posto su 35 paesi.

A ridurre i divari, non sono serviti finora gli incentivi per le assunzioni delle donne. “Il lavoro diseguale”, titola “la Repubblica” (12 dicembre), spiegando che “quando si parla di occupazione femminile la percentuale non si schioda dall’ormai strutturale divario con gli uomini: 40-60. Che significa 40% di occupate sul totale di chi lavora in Italia a fronte dell’ormai consolidato 60% maschile”. L’Inapp – l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche – conferma che la parità 50-50 rimane un sogno anche se andiamo a guardare i contratti incentivati dai vari bonus pubblici erogati in questi anni. E per di più “alle donne vengono proposti contratti a termine o part time forzati, con stipendi bassi che si trasformeranno un domani in pensioni poverissime”.

Nel suo commento, sempre su “la Republica”, Michela Marzano attacca l’assurdità di questo sistema che continua a penalizzare le donne “nonostante le competenze, gli studi, la buona volontà e tutte quelle capacità (vogliamo ricordare il multitasking?) che molte di loro sono state costrette a sviluppare nel corso dei secoli proprio per cercare di farsi spazio in un mondo che, di spazio alle donne, ne lascia ben poco”. “Non c’è niente da fare, non se ne esce: nonostante gli incentivi”.

Sul che fare, l’elenco dei provvedimenti da prendere è lungo e noto. A cominciare dai servizi alla famiglia, dagli asili nido, dalle politiche per il supporto dell’assistenza pubblica agli anziani che vivono a casa dei figli, da una diversa strutturazione degli orari di lavoro (la trasformazione digitale dell’economia può aiutare).

Ma non si tratta solo di assistenza. Quanto di una vera e propria svolta culturale, dei valori e delle abitudini di vita quotidiana sulla parità di genere, facendo leva sia sul tema dei diritti sia sul contribuito essenziale delle donne allo sviluppo sostenibile, da punto di vista sia qualitativo che quantitativo.

Serve, naturalmente, una scelta di lungo periodo anche da parte della cultura dell’impresa, nella stagione della prevalenza dei cosiddetti stakeholders values, i valori dei rapporti con dipendenti, fornitori, consumatori, territori e comunità di riferimento dell’impresa stessa, per la partecipazione attiva allo sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.

Un’impresa, infatti, è una comunità attiva e intraprendente, al cui centro stanno le donne e gli uomini che ne fanno parte. Non solo “capitale umano”, un termine economico, ma soprattutto “persone”. Un tessuto vivo di relazioni, fatto da intelligenza, passione, creatività, amore per la ricerca, rigore professionale, orgoglio di appartenenza, consapevolezza storica e visione del futuro. Valori forti. In cui proprio le donne sanno esprimere un’originale lettura del cambiamento e una straordinaria forza nel promuoverne gli elementi essenziali.

La forza di un’impresa, con solide radici italiane e visione internazionale, sta nel valorizzare le diversità. Generazionali, di genere, provenienza, culture, formazione e identità. Una varietà di esperienze e letture del mondo, di memorie e progetti per un migliore futuro.

Lo sguardo femminile è una ricchezza particolare: ai vari livelli di partecipazione e di responsabilità, crescente nel tempo, dà all’azienda sensibilità, flessibilità, una vera e propria “intelligenza del cuore” che migliora non solo le nostre performance, ma soprattutto la nostra capacità di essere in sintonia con i cambiamenti sociali ed economici.

Sono le donne, il cardine dell’idea di “umanesimo industriale” secondo cui la migliore cultura economica italiana si sta muovendo. E su cui si fonda la competitività del nostro sistema economico. Da valorizzare e rafforzare.

(immagine Getty Images)

Addio casalinga di Voghera, nuovo spazio alle donne nell’Italia della crisi e delle possibilità di ripresa

C’era una volta la casalinga di Voghera, icona dell’immaginario sociologico tra gli anni Sessanta e Ottanta. Dotata di buon senso, qualità positiva, ben diversa dal senso comune che ha il sapore del familismo qualunquista (oggi diremmo populista). E poi, nel tempo, invece, sempre più disattenta ai temi sociali, diventando un archetipo del pubblico televisivo femminile di scarsa cultura. Oggi, cambiati radicalmente consumi e costumi, in un’Italia sempre in lacerante trasformazione, vale la pena fare un bilancio delle figure cardine della nostra controversa modernità. Parlando appunto della casalinga di Voghera, per esempio. E delle figure dell’universo femminile tra storia e contemporaneità.

Viviamo infatti giorni inquieti, carichi d’incertezza, densi di violenze e discriminazioni di genere, affollati da domande, cui però mancano un’infinità di risposte. Siamo diventati un paese di “sonnambuli”, incerti nella direzione da prendere, vecchi, fragili e sempre più soli, quasi tutti convinti che l’Italia sia un paese in declino, come racconta il Censis, lucido e severo analista dei nostri umori politici e sociali. Abbiamo paura della distruzione del mondo, per effetto dei cambiamenti climatici, ma anche delle guerre e delle incognite legate alle nuove tecnologie. Le nuove generazioni non fanno più figli (sono una coppia su quattro avrà un bambino, nel 2040) e volentieri abbandonano l’Italia, in cerca di un migliore destino di lavoro e di vita (sono 6 milioni, gli italiani residenti all’estero). Tutto negativo, dunque?

Il ritratto – stando sempre al Censis – è più complesso di così. Ci sentiamo coinvolti (tra i 70 e il 60%), nelle discussioni sui diritti civili, l’adozione per i single e le coppie omosessuali, il matrimonio egualitario tra persone dello stresso sesso e soprattutto lo ius soli, la cittadinanza italiana a chi nasce o studia in Italia). E manifestiamo un robusto senso di comunità (nelle realtà locali) e di spirito di assistenza e servizio pubblico (la diffusione del volontariato). Le donne, in queste dimensioni, hanno ruoli di primo piano.

L’Italia ha molte facce, insomma. Si può raccontare adeguatamente solo scavando tra contrasti e contraddizioni. Sapendo bene che le vecchie, rassicuranti mete piccolo-borghesi del benessere hanno lasciato il posto a un’infinita serie di timori e preoccupazioni. E ricordando comunque l’acuta riflessione di Ennio Flaiano: “In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”.

Siamo entrati davvero “nell’inverno del nostro scontento”?

Saranno utili, per capire meglio, anche le capacità delle casalinghe di Voghera, privilegiando il buon senso ed evitando le trappole del senso comune, cercando di ragionare sulle persone e non più sulla “ggente”?

Se ne parla al Teatro Sociale di Voghera, appena riaperto e subito intitolato a Valentino Garavani, famoso stilista (vogherese di nascita, appunto: forse di “casalinghe” ne aveva vestite poche, di belle e ricche donne del gran mondo invece tantissime). Per una “riflessione semiseria dal boom economico ai nuovi consumi”, con il contributo di personalità della cultura e dell’economia (Nando Pagnoncelli, Andrée Ruth Shammah, Maria Latella, Emanuela Scarpellini, Germano Lanzoni, protagonista della serie del “milanese imbruttito”, Camilla Sernagiotto e Andrea Zatti).

Il dibattito è organizzato da Assolombarda, tra le iniziative per “Pavia capitale della cultura d’impresa”. Per capire come stanno cambiando gli assetti sociali e culturali e come reagire allo sconforto diffuso sul nostro futuro. A individuare, cioè, quali scelte fare per non cedere alla generale crisi di nervi da desperate housewives (anche gli americani avevano il loro quasi equivalente delle nostre “casalinghe”). E insistere invece su prospettive, pur faticose, di ripresa e sviluppo.

C’è una virtù, che può essere d’aiuto: proprio quel buon senso pragmatico, molto lombardo, che Alberto Arbasino, inventore a metà degli anni Sessanta della definizione “casalinga di Voghera”, attribuiva alla sue zie, solide borghesi della provincia. “Ci salveranno le vecchie zie?”, d’altronde, s’era già chiesto, nei primi anni Cinquanta, Leo Longanesi, campione d’ironia dissacratoria, romagnolo, parlando di signore “tutte maestre”, “fusti di quercia dalle radici ben solide”, “fedeli gendarmi dello Stato”, “custodi dell’ordine classico” e inclini “all’avarizia come segno di decoro… atto di fede… norma pedagogica… e principio morale”. Pur parenti della “signorina Felicita” delle “piccole cose di pessimo giusto” messe in versi da Guido Gozzano (torinese, lui, però). E comunque, nel corso del Novecento, punto di riferimento borghese d’un paese che usciva dalla retorica fascista strapaesana della cosiddetta “Italietta” e s’inoltrava nella luccicante modernità della ricostruzione del dopoguerra, del “miracolo economico”, d’un mondo di stravolgenti cambiamenti politici, economici e sociali.

Eccola, l’Italia della Tv, dei quiz di Mike Buongiorno (“Lascia o raddoppia?”, “Campanile sera”) e di Mario Riva (“Il Musichiere”), delle pubblicità di “Carosello” e dei varietà del sabato sera con le fascinose Gemelle Kessler e le coreografie di Don Lurio. L’Italia dell’Oscar di moneta più stabile attribuito dal “Financial Times” alla lira nel 1959 e nel 1964. Del premio Nobel per la Chimica assegnato nel 1963 a Giulio Natta, padre della “plastica che svecchiò l’Italia” ( titola il “Corriere della Sera” nel ricordare la ricorrenza di sessant’anni fa). E del Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti e inaugurato nel 1960, simbolo metropolitano della modernità industriale. Ma anche l’Italia in cui, nel 1966, il Servizio Opinioni della Rai, in un’indagine sulla comprensibilità delle parole dette nei programmi del piccolo schermo, aveva individuato nelle “casalinghe di Voghera” il pubblico meno capace di capire termini come “leader” o “scrutinio”.

Stanno qui, forse, le radici dello stereotipo: donna di provincia, bassa scolarità, lavoro familiare o comunque poco qualificato, scarsa dimestichezza con i temi della politica e della società. Fastidioso, come tutti gli stereotipi. Eppur di successo. Con un richiamo polemico anche alla letteratura popolare di Carolina Invernizio, vogherese anche lei, lingua facile, emozioni a buon mercato.

Ci si ritornerà, negli anni Ottanta, con Beniamino Placido, puntuto e colto critico televisivo, per parlare su “la Repubblica” del pubblico che amava il salotto di Bruno Vespa.

Tutto un altro mondo, comunque, rispetto alle arbasiniane zie di Voghera.

Ne è passato, di tempo. Quelle casalinghe hanno attraversato la storia recente, hanno fatto buon viso alla durezza della crisi energetica del 1973 e ai primi tentativi di “austerità” (erano in piazza, con le loro famiglie, per le “domeniche a piedi”, cominciate nel dicembre di quell’anno, per limitare i consumi di benzina, il cui prezzo era schizzato al cielo). Hanno votato in maggioranza per dire “no” al tentativo clericale di abolire la legge sul divorzio, nel 1974. Hanno contributo, ognuna a suo modo, a tenere compatto il paese negli “anni di piombo” del terrorismo e dei durissimi conflitti sociali. E hanno respirato di soddisfazione quando sono arrivati gli anni Ottanta, soldi in tasca, consumi opulenti.

E oggi? Senza cedere alla nostalgia canaglia del bel tempo che fu, archiviate casalinghe vogheresi o “di Treviso” (evoluzione della categoria secondo “Sogni d’oro” di Nanni Moretti nel 1981), adesso vale la pena abbandonare etica ed estetica del “tinello” e dei salotti con i centrini ricamati sui tavolini e valorizzare, invece, tensioni e aspettative delle donne e delle ragazze di una provincia che sempre più spesso, anche in tempi incerti, si rivela tutt’altro che provinciale.

Donne decise, intraprendenti, capaci nei lavori dell’economia digitale, determinate nel rivendicare diritti e doveri, anche contro violenze e divari di genere. Donne ai vertici di istituzioni e imprese. Donne cuore della “onda fucsia” che ha animato le piazza italiane il 25 novembre, per dire basta alle violenze contro di loro e dunque anche contro democrazia e civiltà. Donne in cammino, felici di riconoscersi nel bel film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”. Un domani faticoso e contrastato, ma necessario e possibile.

Forse, varrà la pena di rileggere bene, con occhi nuovi, anche il pragmatismo lombardo caro ad Arbasino.

C’era una volta la casalinga di Voghera, icona dell’immaginario sociologico tra gli anni Sessanta e Ottanta. Dotata di buon senso, qualità positiva, ben diversa dal senso comune che ha il sapore del familismo qualunquista (oggi diremmo populista). E poi, nel tempo, invece, sempre più disattenta ai temi sociali, diventando un archetipo del pubblico televisivo femminile di scarsa cultura. Oggi, cambiati radicalmente consumi e costumi, in un’Italia sempre in lacerante trasformazione, vale la pena fare un bilancio delle figure cardine della nostra controversa modernità. Parlando appunto della casalinga di Voghera, per esempio. E delle figure dell’universo femminile tra storia e contemporaneità.

Viviamo infatti giorni inquieti, carichi d’incertezza, densi di violenze e discriminazioni di genere, affollati da domande, cui però mancano un’infinità di risposte. Siamo diventati un paese di “sonnambuli”, incerti nella direzione da prendere, vecchi, fragili e sempre più soli, quasi tutti convinti che l’Italia sia un paese in declino, come racconta il Censis, lucido e severo analista dei nostri umori politici e sociali. Abbiamo paura della distruzione del mondo, per effetto dei cambiamenti climatici, ma anche delle guerre e delle incognite legate alle nuove tecnologie. Le nuove generazioni non fanno più figli (sono una coppia su quattro avrà un bambino, nel 2040) e volentieri abbandonano l’Italia, in cerca di un migliore destino di lavoro e di vita (sono 6 milioni, gli italiani residenti all’estero). Tutto negativo, dunque?

Il ritratto – stando sempre al Censis – è più complesso di così. Ci sentiamo coinvolti (tra i 70 e il 60%), nelle discussioni sui diritti civili, l’adozione per i single e le coppie omosessuali, il matrimonio egualitario tra persone dello stresso sesso e soprattutto lo ius soli, la cittadinanza italiana a chi nasce o studia in Italia). E manifestiamo un robusto senso di comunità (nelle realtà locali) e di spirito di assistenza e servizio pubblico (la diffusione del volontariato). Le donne, in queste dimensioni, hanno ruoli di primo piano.

L’Italia ha molte facce, insomma. Si può raccontare adeguatamente solo scavando tra contrasti e contraddizioni. Sapendo bene che le vecchie, rassicuranti mete piccolo-borghesi del benessere hanno lasciato il posto a un’infinita serie di timori e preoccupazioni. E ricordando comunque l’acuta riflessione di Ennio Flaiano: “In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco”.

Siamo entrati davvero “nell’inverno del nostro scontento”?

Saranno utili, per capire meglio, anche le capacità delle casalinghe di Voghera, privilegiando il buon senso ed evitando le trappole del senso comune, cercando di ragionare sulle persone e non più sulla “ggente”?

Se ne parla al Teatro Sociale di Voghera, appena riaperto e subito intitolato a Valentino Garavani, famoso stilista (vogherese di nascita, appunto: forse di “casalinghe” ne aveva vestite poche, di belle e ricche donne del gran mondo invece tantissime). Per una “riflessione semiseria dal boom economico ai nuovi consumi”, con il contributo di personalità della cultura e dell’economia (Nando Pagnoncelli, Andrée Ruth Shammah, Maria Latella, Emanuela Scarpellini, Germano Lanzoni, protagonista della serie del “milanese imbruttito”, Camilla Sernagiotto e Andrea Zatti).

Il dibattito è organizzato da Assolombarda, tra le iniziative per “Pavia capitale della cultura d’impresa”. Per capire come stanno cambiando gli assetti sociali e culturali e come reagire allo sconforto diffuso sul nostro futuro. A individuare, cioè, quali scelte fare per non cedere alla generale crisi di nervi da desperate housewives (anche gli americani avevano il loro quasi equivalente delle nostre “casalinghe”). E insistere invece su prospettive, pur faticose, di ripresa e sviluppo.

C’è una virtù, che può essere d’aiuto: proprio quel buon senso pragmatico, molto lombardo, che Alberto Arbasino, inventore a metà degli anni Sessanta della definizione “casalinga di Voghera”, attribuiva alla sue zie, solide borghesi della provincia. “Ci salveranno le vecchie zie?”, d’altronde, s’era già chiesto, nei primi anni Cinquanta, Leo Longanesi, campione d’ironia dissacratoria, romagnolo, parlando di signore “tutte maestre”, “fusti di quercia dalle radici ben solide”, “fedeli gendarmi dello Stato”, “custodi dell’ordine classico” e inclini “all’avarizia come segno di decoro… atto di fede… norma pedagogica… e principio morale”. Pur parenti della “signorina Felicita” delle “piccole cose di pessimo giusto” messe in versi da Guido Gozzano (torinese, lui, però). E comunque, nel corso del Novecento, punto di riferimento borghese d’un paese che usciva dalla retorica fascista strapaesana della cosiddetta “Italietta” e s’inoltrava nella luccicante modernità della ricostruzione del dopoguerra, del “miracolo economico”, d’un mondo di stravolgenti cambiamenti politici, economici e sociali.

Eccola, l’Italia della Tv, dei quiz di Mike Buongiorno (“Lascia o raddoppia?”, “Campanile sera”) e di Mario Riva (“Il Musichiere”), delle pubblicità di “Carosello” e dei varietà del sabato sera con le fascinose Gemelle Kessler e le coreografie di Don Lurio. L’Italia dell’Oscar di moneta più stabile attribuito dal “Financial Times” alla lira nel 1959 e nel 1964. Del premio Nobel per la Chimica assegnato nel 1963 a Giulio Natta, padre della “plastica che svecchiò l’Italia” ( titola il “Corriere della Sera” nel ricordare la ricorrenza di sessant’anni fa). E del Grattacielo Pirelli, progettato da Gio Ponti e inaugurato nel 1960, simbolo metropolitano della modernità industriale. Ma anche l’Italia in cui, nel 1966, il Servizio Opinioni della Rai, in un’indagine sulla comprensibilità delle parole dette nei programmi del piccolo schermo, aveva individuato nelle “casalinghe di Voghera” il pubblico meno capace di capire termini come “leader” o “scrutinio”.

Stanno qui, forse, le radici dello stereotipo: donna di provincia, bassa scolarità, lavoro familiare o comunque poco qualificato, scarsa dimestichezza con i temi della politica e della società. Fastidioso, come tutti gli stereotipi. Eppur di successo. Con un richiamo polemico anche alla letteratura popolare di Carolina Invernizio, vogherese anche lei, lingua facile, emozioni a buon mercato.

Ci si ritornerà, negli anni Ottanta, con Beniamino Placido, puntuto e colto critico televisivo, per parlare su “la Repubblica” del pubblico che amava il salotto di Bruno Vespa.

Tutto un altro mondo, comunque, rispetto alle arbasiniane zie di Voghera.

Ne è passato, di tempo. Quelle casalinghe hanno attraversato la storia recente, hanno fatto buon viso alla durezza della crisi energetica del 1973 e ai primi tentativi di “austerità” (erano in piazza, con le loro famiglie, per le “domeniche a piedi”, cominciate nel dicembre di quell’anno, per limitare i consumi di benzina, il cui prezzo era schizzato al cielo). Hanno votato in maggioranza per dire “no” al tentativo clericale di abolire la legge sul divorzio, nel 1974. Hanno contributo, ognuna a suo modo, a tenere compatto il paese negli “anni di piombo” del terrorismo e dei durissimi conflitti sociali. E hanno respirato di soddisfazione quando sono arrivati gli anni Ottanta, soldi in tasca, consumi opulenti.

E oggi? Senza cedere alla nostalgia canaglia del bel tempo che fu, archiviate casalinghe vogheresi o “di Treviso” (evoluzione della categoria secondo “Sogni d’oro” di Nanni Moretti nel 1981), adesso vale la pena abbandonare etica ed estetica del “tinello” e dei salotti con i centrini ricamati sui tavolini e valorizzare, invece, tensioni e aspettative delle donne e delle ragazze di una provincia che sempre più spesso, anche in tempi incerti, si rivela tutt’altro che provinciale.

Donne decise, intraprendenti, capaci nei lavori dell’economia digitale, determinate nel rivendicare diritti e doveri, anche contro violenze e divari di genere. Donne ai vertici di istituzioni e imprese. Donne cuore della “onda fucsia” che ha animato le piazza italiane il 25 novembre, per dire basta alle violenze contro di loro e dunque anche contro democrazia e civiltà. Donne in cammino, felici di riconoscersi nel bel film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”. Un domani faticoso e contrastato, ma necessario e possibile.

Forse, varrà la pena di rileggere bene, con occhi nuovi, anche il pragmatismo lombardo caro ad Arbasino.

Imprese, lavoro e demografia

Le aziende hanno a che fare con un nuovo vincolo che influisce sui piani produttivi e sul loro sviluppo

Imprese alle prese con la demografia. Nuovo tema che, ormai, è entrato con prepotenza a far parte dei ragionamenti strategici delle organizzazioni della produzione e del quale un’avveduta cultura del produrre deve tenere conto.Sull’argomento il demografo Francesco Billari ha scritto un agile volume (poco più di un centinaio di pagine) che serve per iniziare a capire. L’autore parte da una constatazione: sentiamo parlare così spesso di inverno demografico e fuga di cervelli che ormai anche i più ottimisti sembrano essersi rassegnati: fra qualche decennio l’Italia sarà un Paese in cui gli over 65 rappresenteranno circa un terzo di una popolazione in declino. Billari però spiega come la demografia non sia un destino segnato, ma una scienza che ci permette non solo di leggere i grandi cambiamenti del mondo che ci circonda, ma soprattutto di agire per governarli.

Da qui, quindi, il ragionamento dipanato lungo il libro.Billari fa osservare a chi legge i possibili scenari di domani usando un approccio demografico, adatto a capire quanto le decisioni – in ambito politico, economico e sociale – di oggi possano influenzare il futuro dell’Italia, del suo assetto sociale e produttivo. Il libro, poi, consente di gettare uno sguardo anche su cosa accade in altri paesi e in particolare in quelli che si trovano in una situazione di bassa fecondità e alta longevità.L’autore osserva così l’orizzonte del Paese attraverso le lenti della sua scienza, condividendo politiche e proposte per invertire le rotte della crisi su diversi fronti: una scuola realmente inclusiva, un welfare più attento ai bisogni delle famiglie, una politica abitativa che aiuti i più giovani e una migliore gestione (e integrazione) dei flussi migratori.

Vista più in dettaglio, la diagnosi di Billari – basata su un’ampia mole di dati – mostra che servono urgenti interventi di cambiamento strutturale, vere e proprie riforme, in almeno tre ambiti: la scuola; l’autonomia residenziale degli studenti universitari e dei giovani in generale; l’immigrazione e l’integrazione nel Paese delle prime e seconde generazioni. Anche in altri campi la rotta necessita di correzioni importanti: natalità e famiglia, università, mercato del lavoro, digitalizzazione e formazione degli adulti, salute, cambiamento climatico.

Perché, è la conclusione di Billari, gli andamenti demografici “non sono ineluttabili”.

Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia

Francesco Billari

Egea, 2023

Le aziende hanno a che fare con un nuovo vincolo che influisce sui piani produttivi e sul loro sviluppo

Imprese alle prese con la demografia. Nuovo tema che, ormai, è entrato con prepotenza a far parte dei ragionamenti strategici delle organizzazioni della produzione e del quale un’avveduta cultura del produrre deve tenere conto.Sull’argomento il demografo Francesco Billari ha scritto un agile volume (poco più di un centinaio di pagine) che serve per iniziare a capire. L’autore parte da una constatazione: sentiamo parlare così spesso di inverno demografico e fuga di cervelli che ormai anche i più ottimisti sembrano essersi rassegnati: fra qualche decennio l’Italia sarà un Paese in cui gli over 65 rappresenteranno circa un terzo di una popolazione in declino. Billari però spiega come la demografia non sia un destino segnato, ma una scienza che ci permette non solo di leggere i grandi cambiamenti del mondo che ci circonda, ma soprattutto di agire per governarli.

Da qui, quindi, il ragionamento dipanato lungo il libro.Billari fa osservare a chi legge i possibili scenari di domani usando un approccio demografico, adatto a capire quanto le decisioni – in ambito politico, economico e sociale – di oggi possano influenzare il futuro dell’Italia, del suo assetto sociale e produttivo. Il libro, poi, consente di gettare uno sguardo anche su cosa accade in altri paesi e in particolare in quelli che si trovano in una situazione di bassa fecondità e alta longevità.L’autore osserva così l’orizzonte del Paese attraverso le lenti della sua scienza, condividendo politiche e proposte per invertire le rotte della crisi su diversi fronti: una scuola realmente inclusiva, un welfare più attento ai bisogni delle famiglie, una politica abitativa che aiuti i più giovani e una migliore gestione (e integrazione) dei flussi migratori.

Vista più in dettaglio, la diagnosi di Billari – basata su un’ampia mole di dati – mostra che servono urgenti interventi di cambiamento strutturale, vere e proprie riforme, in almeno tre ambiti: la scuola; l’autonomia residenziale degli studenti universitari e dei giovani in generale; l’immigrazione e l’integrazione nel Paese delle prime e seconde generazioni. Anche in altri campi la rotta necessita di correzioni importanti: natalità e famiglia, università, mercato del lavoro, digitalizzazione e formazione degli adulti, salute, cambiamento climatico.

Perché, è la conclusione di Billari, gli andamenti demografici “non sono ineluttabili”.

Domani è oggi. Costruire il futuro con le lenti della demografia

Francesco Billari

Egea, 2023

Patrimoni storici d’impresa, tra valorizzazione e marketing

Una recente ricerca mette in relazione le storie d’azienda con gli strumenti della comunicazione web

Avere un patrimonio storico e saperlo gestire bene, non solo per valorizzarlo ma anche per fondarvi il presente e il futuro. Indicazione aurea per le imprese che vogliono sviluppare una propria cultura d’impresa a tutto tondo, capace di guardare ai passi da compiere senza dimenticare nulla di quanto già fatto. Questione di capacità e di sensibilità, ma anche di esempio da seguire. E’ anche su questi aspetti che ha ragionato Sharon Carducci con la sua tesi “La valorizzazione del patrimonio storico d’impresa tra tradizione e innovazione. Una content analysis sulla comunicazione web dei marchi storici italiani del settore agroalimentare” discussa recentemente presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi Internazionali di Roma.

La ricerca ha ricevuto qualche giorno fa il Premio di Laurea Carpenè-Malvolti, istituito in collaborazione con l’UICI (Unione Imprese Centenarie Italiane), e finanziato dall’omonima azienda di Conegliano nell’ambito degli eventi delle Città Capitale Italiana della Cultura. Riconoscimento ben meritato per un lavoro che ha cercato di scavare nelle attività di valorizzazione del patrimonio storico delle imprese con particolare attenzione alle strategie comunicative e agli strumenti attraverso cui tale valorizzazione viene promossa. In particolare, la ricerca si è basata su una analisi empirica di tipo qualitativo per comprendere come attualmente le imprese longeve del settore agroalimentare comunicano la propria heritage in un’ottica di brand identity. Prima, però, Sharon Carducci ha sviluppato una analisi proprio del concetto di brand heritage inteso non tanto come un modo nostalgico di far rivivere il passato, ma come uno strumento in mano alle imprese per differenziarsi rispetto alle concorrenti.

Successivamente, sono stati analizzati i siti web delle 154 aziende agroalimentari iscritte al Registro Speciale dei “Marchi Storici di Interesse Nazionale”; un passaggio che ha permesso di individuare i testi più in grado di utilizzare le tecniche e i codici comunicativi migliori per raccontare la storia d’impresa. Attraverso una serie di elaborazioni lessicali, inoltre, si è arrivati ad individuare alcuni vocaboli ricorrenti e quindi i grandi argomenti su cui le imprese basano il loro racconto. In prima fila, quindi, temi come la storia dell’attività imprenditoriale, il concetto di “longevità”, le radici del marchio, i meccanismi dell’offerta e, infine, i principi e ai valori che costituiscono la base del codice morale dell’impresa. I risultati dell’analisi forniscono infine alcuni spunti di particolare interesse sul profilo manageriale.

Il lavoro di Sharon Carducci è un buon esempio di capacità di analisi (condotta anche con metodologie moderne) e sensibilità storica. Da leggere e da prendere a modello.

La valorizzazione del patrimonio storico d’impresa tra tradizione e innovazione. Una content analysis sulla comunicazione web dei marchi storici italiani del settore agroalimentare

Sharon Carducci

Facoltà di Economia, Università degli Studi Internazionali di Roma, 2023.

Una recente ricerca mette in relazione le storie d’azienda con gli strumenti della comunicazione web

Avere un patrimonio storico e saperlo gestire bene, non solo per valorizzarlo ma anche per fondarvi il presente e il futuro. Indicazione aurea per le imprese che vogliono sviluppare una propria cultura d’impresa a tutto tondo, capace di guardare ai passi da compiere senza dimenticare nulla di quanto già fatto. Questione di capacità e di sensibilità, ma anche di esempio da seguire. E’ anche su questi aspetti che ha ragionato Sharon Carducci con la sua tesi “La valorizzazione del patrimonio storico d’impresa tra tradizione e innovazione. Una content analysis sulla comunicazione web dei marchi storici italiani del settore agroalimentare” discussa recentemente presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi Internazionali di Roma.

La ricerca ha ricevuto qualche giorno fa il Premio di Laurea Carpenè-Malvolti, istituito in collaborazione con l’UICI (Unione Imprese Centenarie Italiane), e finanziato dall’omonima azienda di Conegliano nell’ambito degli eventi delle Città Capitale Italiana della Cultura. Riconoscimento ben meritato per un lavoro che ha cercato di scavare nelle attività di valorizzazione del patrimonio storico delle imprese con particolare attenzione alle strategie comunicative e agli strumenti attraverso cui tale valorizzazione viene promossa. In particolare, la ricerca si è basata su una analisi empirica di tipo qualitativo per comprendere come attualmente le imprese longeve del settore agroalimentare comunicano la propria heritage in un’ottica di brand identity. Prima, però, Sharon Carducci ha sviluppato una analisi proprio del concetto di brand heritage inteso non tanto come un modo nostalgico di far rivivere il passato, ma come uno strumento in mano alle imprese per differenziarsi rispetto alle concorrenti.

Successivamente, sono stati analizzati i siti web delle 154 aziende agroalimentari iscritte al Registro Speciale dei “Marchi Storici di Interesse Nazionale”; un passaggio che ha permesso di individuare i testi più in grado di utilizzare le tecniche e i codici comunicativi migliori per raccontare la storia d’impresa. Attraverso una serie di elaborazioni lessicali, inoltre, si è arrivati ad individuare alcuni vocaboli ricorrenti e quindi i grandi argomenti su cui le imprese basano il loro racconto. In prima fila, quindi, temi come la storia dell’attività imprenditoriale, il concetto di “longevità”, le radici del marchio, i meccanismi dell’offerta e, infine, i principi e ai valori che costituiscono la base del codice morale dell’impresa. I risultati dell’analisi forniscono infine alcuni spunti di particolare interesse sul profilo manageriale.

Il lavoro di Sharon Carducci è un buon esempio di capacità di analisi (condotta anche con metodologie moderne) e sensibilità storica. Da leggere e da prendere a modello.

La valorizzazione del patrimonio storico d’impresa tra tradizione e innovazione. Una content analysis sulla comunicazione web dei marchi storici italiani del settore agroalimentare

Sharon Carducci

Facoltà di Economia, Università degli Studi Internazionali di Roma, 2023.

Connessioni umane

L’importanza del “capitale umano” come vera base di successo in tutte le imprese

 

Connessione e legami, umani. Fondamento di tutto, anche della più innovativa e tecnologica delle imprese. Condivisione di idee, modelli e strategie che passa non dalla connettività digitale ma da quella che si crea tra persona e persone.

E’ sulla base di questi assunti che Benedetto Buono e Federico Frattini hanno scritto “Innovationship. L’innovazione guidata dal capitale relazionale” libro appena pubblicato.
Umanità prima di tutto, quindi. Perché siamo abituati a credere che gli ingredienti fondamentali per fare innovazione con successo siano due: il capitale finanziario e quello tecnologico. In realtà, oggi queste risorse sono ampiamente disponibili e accessibili. Per riuscire a emergere e distinguersi – è la tesi condivisibile di Buono e Frattini -, il valore aggiunto deve essere cercato altrove. Ad esempio, nel capitale relazionale di chi guida e governa l’innovazione.

Innovazione di pensiero e di relazione. Secondo i due autori è qui che si nasconde l’ingrediente segreto in grado di accelerare, rendere più efficaci ed efficienti tutte le fasi tipiche del processo produttivo.

Cosa facilissima  da dirsi, assolutamente complessa da farsi. Servono strategia e idee chiare, nonché modelli e schemi di lavoro replicabili e strutturati. Da qui, appunto il libro. Che è una narrazione e non un semplice “manuale” anche se il testo è corredato di strumenti e modelli da utilizzare nella pratica. Tre i passi fondamentali che vengono proposti: la costruzione, l’attivazione e l’utilizzo del capitale relazionale per l’innovazione. Il primo consiste in una attività che si sviluppa nel tempo e che richiede di alimentare continuativamente le relazioni attivate. Spiegano i due che non basta costruire relazioni, occorre gestirle e manutenerle nel tempo. Una volta costruito il capitale relazionale a scopi innovativi, occorre attivarlo, costituendo un nucleo ristretto di persone, connesse da relazioni sociali personali e professionali solide e durature. Poi si arriva all’utilizzo del capitale: anch’esso un passaggio da curare e sviluppare nel tempo.

Buono e Frattini, infine, individuano anche la figura del del “superconnettore”, un professionista capace di dare accesso a grandi bacini relazionali anche molto differenti dai nostri o comunque molto diversificati al loro interno.
“In definitiva – commentano gli autori -, questo libro parla di concetti incredibilmente semplici ma, come sempre accade quando si ha a che fare con qualcosa di semplice, molto potenti. Comprendere che il capitale relazionale ha la medesima dignità delle altre tipologie di risorse di cui dispone un’impresa, che è l’asset fondamentale per disegnare e realizzare una vera strategia di innovazione aperta e che, soprattutto, esiste un modello replicabile per conseguire questo obiettivo e delle modalità per approcciarlo strategicamente, è la chiave di tutto”. Libro da leggere quello di Buono e Frattini.

Innovationship. L’innovazione guidata dal capitale relazionale

Benedetto Buono, Federico Frattini

Egea, 2023

L’importanza del “capitale umano” come vera base di successo in tutte le imprese

 

Connessione e legami, umani. Fondamento di tutto, anche della più innovativa e tecnologica delle imprese. Condivisione di idee, modelli e strategie che passa non dalla connettività digitale ma da quella che si crea tra persona e persone.

E’ sulla base di questi assunti che Benedetto Buono e Federico Frattini hanno scritto “Innovationship. L’innovazione guidata dal capitale relazionale” libro appena pubblicato.
Umanità prima di tutto, quindi. Perché siamo abituati a credere che gli ingredienti fondamentali per fare innovazione con successo siano due: il capitale finanziario e quello tecnologico. In realtà, oggi queste risorse sono ampiamente disponibili e accessibili. Per riuscire a emergere e distinguersi – è la tesi condivisibile di Buono e Frattini -, il valore aggiunto deve essere cercato altrove. Ad esempio, nel capitale relazionale di chi guida e governa l’innovazione.

Innovazione di pensiero e di relazione. Secondo i due autori è qui che si nasconde l’ingrediente segreto in grado di accelerare, rendere più efficaci ed efficienti tutte le fasi tipiche del processo produttivo.

Cosa facilissima  da dirsi, assolutamente complessa da farsi. Servono strategia e idee chiare, nonché modelli e schemi di lavoro replicabili e strutturati. Da qui, appunto il libro. Che è una narrazione e non un semplice “manuale” anche se il testo è corredato di strumenti e modelli da utilizzare nella pratica. Tre i passi fondamentali che vengono proposti: la costruzione, l’attivazione e l’utilizzo del capitale relazionale per l’innovazione. Il primo consiste in una attività che si sviluppa nel tempo e che richiede di alimentare continuativamente le relazioni attivate. Spiegano i due che non basta costruire relazioni, occorre gestirle e manutenerle nel tempo. Una volta costruito il capitale relazionale a scopi innovativi, occorre attivarlo, costituendo un nucleo ristretto di persone, connesse da relazioni sociali personali e professionali solide e durature. Poi si arriva all’utilizzo del capitale: anch’esso un passaggio da curare e sviluppare nel tempo.

Buono e Frattini, infine, individuano anche la figura del del “superconnettore”, un professionista capace di dare accesso a grandi bacini relazionali anche molto differenti dai nostri o comunque molto diversificati al loro interno.
“In definitiva – commentano gli autori -, questo libro parla di concetti incredibilmente semplici ma, come sempre accade quando si ha a che fare con qualcosa di semplice, molto potenti. Comprendere che il capitale relazionale ha la medesima dignità delle altre tipologie di risorse di cui dispone un’impresa, che è l’asset fondamentale per disegnare e realizzare una vera strategia di innovazione aperta e che, soprattutto, esiste un modello replicabile per conseguire questo obiettivo e delle modalità per approcciarlo strategicamente, è la chiave di tutto”. Libro da leggere quello di Buono e Frattini.

Innovationship. L’innovazione guidata dal capitale relazionale

Benedetto Buono, Federico Frattini

Egea, 2023

Buona educazione per buona cultura del lavoro

Pubblicata una ricerca che cerca di definire i contorni nelle relazioni tra formazione, competenze e cultura professionale

 

Quale è la scuola migliore per preparare al lavoro? E quale può essere la formazione (professionale) maggiormente in grado di introdurre i giovani in azienda? Educazione, formazione, lavoro; ma anche scuola e impresa, imprenditorialità come vocazione oppure come formazione. Temi importanti, che si rincorrono non da oggi e che continuamente si contaminano. Temi che, tra l’altro, possono cambiare a seconda dei sistemi sociali nei quali vengono declinati.

E’ attorno a tutto questo che ragiona Robert Messanh Amavi (CIRNEF, Normandy University, Normandia, Francia) con il suo intervento “The Interactions Between “Business” Culture, “Professional” Culture and Training” pubblicato recentemente in Sociology Study.

L’autore assume a base della sua indagine una considerazione: le questioni fondamentali delle scienze dell’educazione rimangono sempre economiche e sociali. Detto questo, Amavi sottolinea come le interazioni tra cultura “business”, cultura “professionale” e formazione facciano parte di questo insieme di problemi e come occorra, per meglio comprenderli, andare “a vedere sul campo” il loro reale dipanarsi. Per questo, Amavi specifica che la sua riflessione è basata su una ricerca empirica (sulle professioni mediche che, tuttavia, fornisce elementi generalizzabili ad altri settori) che ha fornito il materiale sul quale provare a costruire un’interpretazione teorica della realtà osservata.

Amavi inizia quindi a ragionare sulle relazioni tra job culture e professional culture per arrivare quindi a chiedersi che cosa sia più “desiderabile” per attivare una formazione ad una cultura professionale che sia efficace e produttiva. Un passaggio che prelude all’approfondimento delle interazioni tra “pratica professionale” e “cultura professionale”e quindi dei tratti necessari che ogni persona deve acquisire per trovare una giusta collocazione nel mondo del lavoro.

Amavi conclude con un’osservazione: esiste una sorta di triangolo virtuoso tra formazione, competenze e lavoro che beneficia di costanti spunti positivi e che deve essere coltivato e sviluppato.

The Interactions Between “Business” Culture, “Professional” Culture and Training

Robert Messanh Amavi

Sociology Study, Sept.-Oct. 2023, Vol. 13, No. 5, 215-241

Pubblicata una ricerca che cerca di definire i contorni nelle relazioni tra formazione, competenze e cultura professionale

 

Quale è la scuola migliore per preparare al lavoro? E quale può essere la formazione (professionale) maggiormente in grado di introdurre i giovani in azienda? Educazione, formazione, lavoro; ma anche scuola e impresa, imprenditorialità come vocazione oppure come formazione. Temi importanti, che si rincorrono non da oggi e che continuamente si contaminano. Temi che, tra l’altro, possono cambiare a seconda dei sistemi sociali nei quali vengono declinati.

E’ attorno a tutto questo che ragiona Robert Messanh Amavi (CIRNEF, Normandy University, Normandia, Francia) con il suo intervento “The Interactions Between “Business” Culture, “Professional” Culture and Training” pubblicato recentemente in Sociology Study.

L’autore assume a base della sua indagine una considerazione: le questioni fondamentali delle scienze dell’educazione rimangono sempre economiche e sociali. Detto questo, Amavi sottolinea come le interazioni tra cultura “business”, cultura “professionale” e formazione facciano parte di questo insieme di problemi e come occorra, per meglio comprenderli, andare “a vedere sul campo” il loro reale dipanarsi. Per questo, Amavi specifica che la sua riflessione è basata su una ricerca empirica (sulle professioni mediche che, tuttavia, fornisce elementi generalizzabili ad altri settori) che ha fornito il materiale sul quale provare a costruire un’interpretazione teorica della realtà osservata.

Amavi inizia quindi a ragionare sulle relazioni tra job culture e professional culture per arrivare quindi a chiedersi che cosa sia più “desiderabile” per attivare una formazione ad una cultura professionale che sia efficace e produttiva. Un passaggio che prelude all’approfondimento delle interazioni tra “pratica professionale” e “cultura professionale”e quindi dei tratti necessari che ogni persona deve acquisire per trovare una giusta collocazione nel mondo del lavoro.

Amavi conclude con un’osservazione: esiste una sorta di triangolo virtuoso tra formazione, competenze e lavoro che beneficia di costanti spunti positivi e che deve essere coltivato e sviluppato.

The Interactions Between “Business” Culture, “Professional” Culture and Training

Robert Messanh Amavi

Sociology Study, Sept.-Oct. 2023, Vol. 13, No. 5, 215-241

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