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Bruno Munari, il Maestro del Design in mostra a Verona.
Una grande firma per Pirelli

Inaugura il 12 ottobre 2023 negli spazi espositivi de “La Rotonda” di Verona – ex Stazione Frigorifera Specializzata degli anni Trenta recentemente ristrutturata dall’architetto Mario Botta – la mostra “Bruno Munari. La leggerezza dell’arte”, organizzata da Eataly Art House (E.ART.H.), con la curatela scientifica di Alberto Salvadori e Luca Zaffarano, e con la collaborazione dell’Associazione Bruno Munari e della Repetto Gallery.

Il percorso allestitivo, che sarà aperto al pubblico dal 13 ottobre 2023 al 31 marzo 2024, ripercorre le principali sperimentazioni di Munari, e sarà suddiviso in sezioni tematiche, con l’obiettivo di documentare i processi creativi e i temi centrali della sua opera. Dalle origini futuriste alle sperimentazioni dadaiste, fino alla grafica e all’editoria, con un focus sulle ricerche di Munari sull’utilizzo della luce e la costruzione di ambienti.

Ci saranno anche i materiali del nostro Archivio Storico ideati, progettati e firmati dal grande artista milanese: cartelli vetrina, copertine e articoli della Rivista Pirelli, e la celebre Scimmietta Zizì. Designer, artista, scrittore, Bruno Munari (Milano 1907 – 1998), collabora con la Pirelli a partire dal 1949 sia firmando campagne pubblicitarie per diversi prodotti dell’azienda, come gli impermeabili e le suole Coria – il cui celebre manifesto è nella collezione permanente del MoMA di New York – sia nella progettazione di giocattoli in gommapiuma armata. Sono il gatto Meo Romeo e poi la scimmietta Zizì della linea Pirelli “Pigomma”, di cui Munari è direttore artistico, che nel 1954 vincerà la prima edizione del Compasso d’Oro. La giuria motiverà così la scelta: «Normalmente i giocattoli sono delle riduzioni “veristiche” o infantilizzate di mezzi meccanici, o imitazioni egualmente veristiche, o infantilisticamente ironizzate, di animali o di figure umane. […] Questo giocattolo appartiene ad una categoria elevata, che l’ha fatto oggetto di un interesse intellettuale». Munari otterrà l’ambito riconoscimento anche l’anno successivo, nel 1955, e poi ancora nel 1979. I suoi giocattoli sono protagonisti anche sulle pagine della Rivista Pirelli, come nella favola “C’era una volta un re…” o “Il gatto di gommapiuma ha i baffi di nailon”, début editoriale del gatto Meo Romeo che rivela già molti aspetti della poetica del Maestro Munari: “Per me, devo dirlo, è un piacere ideare e seguire la costruzione di libri o di giocattoli per bambini. I bambini sono un pubblico ideale, sanno quello che vogliono, non hanno preconcetti, se una cosa non gli piace lo dicono subito senza tanti complimenti. Se anche gli uomini fossero così sarebbero semplificati molti rapporti”.

Per l’azienda Munari curerà anche alcuni allestimenti fieristici, come quello per il padiglione delle Materie Plastiche alla Fiera di Milano del 1954, fino al 1956, anno in cui si chiude la collaborazione con l’artista, uno dei massimi protagonisti del design del Novecento.

Inaugura il 12 ottobre 2023 negli spazi espositivi de “La Rotonda” di Verona – ex Stazione Frigorifera Specializzata degli anni Trenta recentemente ristrutturata dall’architetto Mario Botta – la mostra “Bruno Munari. La leggerezza dell’arte”, organizzata da Eataly Art House (E.ART.H.), con la curatela scientifica di Alberto Salvadori e Luca Zaffarano, e con la collaborazione dell’Associazione Bruno Munari e della Repetto Gallery.

Il percorso allestitivo, che sarà aperto al pubblico dal 13 ottobre 2023 al 31 marzo 2024, ripercorre le principali sperimentazioni di Munari, e sarà suddiviso in sezioni tematiche, con l’obiettivo di documentare i processi creativi e i temi centrali della sua opera. Dalle origini futuriste alle sperimentazioni dadaiste, fino alla grafica e all’editoria, con un focus sulle ricerche di Munari sull’utilizzo della luce e la costruzione di ambienti.

Ci saranno anche i materiali del nostro Archivio Storico ideati, progettati e firmati dal grande artista milanese: cartelli vetrina, copertine e articoli della Rivista Pirelli, e la celebre Scimmietta Zizì. Designer, artista, scrittore, Bruno Munari (Milano 1907 – 1998), collabora con la Pirelli a partire dal 1949 sia firmando campagne pubblicitarie per diversi prodotti dell’azienda, come gli impermeabili e le suole Coria – il cui celebre manifesto è nella collezione permanente del MoMA di New York – sia nella progettazione di giocattoli in gommapiuma armata. Sono il gatto Meo Romeo e poi la scimmietta Zizì della linea Pirelli “Pigomma”, di cui Munari è direttore artistico, che nel 1954 vincerà la prima edizione del Compasso d’Oro. La giuria motiverà così la scelta: «Normalmente i giocattoli sono delle riduzioni “veristiche” o infantilizzate di mezzi meccanici, o imitazioni egualmente veristiche, o infantilisticamente ironizzate, di animali o di figure umane. […] Questo giocattolo appartiene ad una categoria elevata, che l’ha fatto oggetto di un interesse intellettuale». Munari otterrà l’ambito riconoscimento anche l’anno successivo, nel 1955, e poi ancora nel 1979. I suoi giocattoli sono protagonisti anche sulle pagine della Rivista Pirelli, come nella favola “C’era una volta un re…” o “Il gatto di gommapiuma ha i baffi di nailon”, début editoriale del gatto Meo Romeo che rivela già molti aspetti della poetica del Maestro Munari: “Per me, devo dirlo, è un piacere ideare e seguire la costruzione di libri o di giocattoli per bambini. I bambini sono un pubblico ideale, sanno quello che vogliono, non hanno preconcetti, se una cosa non gli piace lo dicono subito senza tanti complimenti. Se anche gli uomini fossero così sarebbero semplificati molti rapporti”.

Per l’azienda Munari curerà anche alcuni allestimenti fieristici, come quello per il padiglione delle Materie Plastiche alla Fiera di Milano del 1954, fino al 1956, anno in cui si chiude la collaborazione con l’artista, uno dei massimi protagonisti del design del Novecento.

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Curiosi e coraggiosi

Raccontata in un libro appena pubblicato la storia di un imprenditore particolare

Questione di cultura e di capacità di immaginare concretamente (che potrebbe apparire un ossimoro e invece non lo è). La vicenda di molti (tutti) gli imprenditori che sono davvero tali si riduce a queste due condizioni. Visione del futuro e del presente, voglia di mettersi in gioco, abilità nel scegliere le persone giuste e di coinvolgerle, gusto del rischio misurato, un po’ di follia.  Questi, e molti altri, sono poi gli ingredienti che, in misura diversa, contribuiscono a dar vita a chi – imprenditore, appunto -, riesce nell’intento di dare gambe e prospettive ad un progetto. Capirne le vicende, esplorarne i passaggi, comprenderne gli errori e i successi, serve a tutti (e non solo agli altri imprenditori). Da qui nasce l’interesse per “Le avventure di un innovatore” scritto a quattro mani tra Federico Marchetti (che è anche il protagonista della storia) e Daniela Hamaui (giornalista di lungo corso e appassionata di storie). Il libro ha un sottotitolo che dice quasi tutto del contenuto: “Il sogno americano, tutto italiano, del fondatore di YOOX”.

Tutto inizia nel Duemila – quando internet è ancora per pochi – una sorta di preistoria del mondo attuale in cui fare acquisti online è un’eccezione più che una regola. Ma qualcuno, in Italia, prevede il futuro. E’ Federico Marchetti che, da ragazzo di provincia, va a studiare in America, si appassiona del web e torna in Italia per fondare la sua azienda: YOOX. L’intuizione è semplice ma geniale: prendere gli abiti dei grandi marchi rimasti invenduti a fine stagione e dare loro una seconda possibilità. Un’idea che, vista dall’altra parte, significa pensare ad un mercato ancora da creare e fornirgli la possibilità di acquistare prodotti particolari attraverso un sito. La base della YOOX è un magazzino alla periferia di Bologna, che viene trasformato nel primo magazzino di e-commerce della moda al mondo. Da lì è il successo. Che Marchetti racconta (con l’aiuto di Hamaui) nel suo libro.

Scorrono così nelle circa 300 pagine del libro tutti i passaggi che Marchetti ha compiuto per arrivare fino ad oggi. Tanto da far diventare la sua impresa il primo «unicorno» italiano, senza per questo trascurare principi come il rispetto dell’ambiente e delle persone attraverso l’impegno in una serie di cause sociali.  Pagine dense, in cui scorre una vita piena di imprevisti e casualità, oltre che incontri con alcuni dei protagonisti del fashion e i giganti del tech, ma pure Re Carlo III. E senza trascurare sfide al limite come il progetto globale per una moda “sostenibile” che, mettendo insieme tecnologia, umanesimo e intelligenza artificiale, riesca ad affrontare una delle più grandi sfide del nostro tempo: la crisi climatica.

Da leggere tutto fino in fondo il libro di Marchetti- Hamaui, da leggere in modo disincantato, senza pretendere di approvare tutto ma cercando di acquisire la conoscenza di una vicenda forse inimitabile che può, tuttavia, dire molto a molti.  Bello, tra i tanti, un passaggio finale: “Apritevi, non abbiate paura (…). Siate curiosi e coraggiosi. Per fare impresa occorre essere temerari, sfidare il sentire comune e scoprire quello che non si conosce, inspirarsi a quello che colpisce la fantasia”.

Le avventure di un innovatore. Il sogno americano, tutto italiano, del fondatore di YOOX

Federico Marchetti (con Daniela Hamaui)

Longanesi, 2023

Raccontata in un libro appena pubblicato la storia di un imprenditore particolare

Questione di cultura e di capacità di immaginare concretamente (che potrebbe apparire un ossimoro e invece non lo è). La vicenda di molti (tutti) gli imprenditori che sono davvero tali si riduce a queste due condizioni. Visione del futuro e del presente, voglia di mettersi in gioco, abilità nel scegliere le persone giuste e di coinvolgerle, gusto del rischio misurato, un po’ di follia.  Questi, e molti altri, sono poi gli ingredienti che, in misura diversa, contribuiscono a dar vita a chi – imprenditore, appunto -, riesce nell’intento di dare gambe e prospettive ad un progetto. Capirne le vicende, esplorarne i passaggi, comprenderne gli errori e i successi, serve a tutti (e non solo agli altri imprenditori). Da qui nasce l’interesse per “Le avventure di un innovatore” scritto a quattro mani tra Federico Marchetti (che è anche il protagonista della storia) e Daniela Hamaui (giornalista di lungo corso e appassionata di storie). Il libro ha un sottotitolo che dice quasi tutto del contenuto: “Il sogno americano, tutto italiano, del fondatore di YOOX”.

Tutto inizia nel Duemila – quando internet è ancora per pochi – una sorta di preistoria del mondo attuale in cui fare acquisti online è un’eccezione più che una regola. Ma qualcuno, in Italia, prevede il futuro. E’ Federico Marchetti che, da ragazzo di provincia, va a studiare in America, si appassiona del web e torna in Italia per fondare la sua azienda: YOOX. L’intuizione è semplice ma geniale: prendere gli abiti dei grandi marchi rimasti invenduti a fine stagione e dare loro una seconda possibilità. Un’idea che, vista dall’altra parte, significa pensare ad un mercato ancora da creare e fornirgli la possibilità di acquistare prodotti particolari attraverso un sito. La base della YOOX è un magazzino alla periferia di Bologna, che viene trasformato nel primo magazzino di e-commerce della moda al mondo. Da lì è il successo. Che Marchetti racconta (con l’aiuto di Hamaui) nel suo libro.

Scorrono così nelle circa 300 pagine del libro tutti i passaggi che Marchetti ha compiuto per arrivare fino ad oggi. Tanto da far diventare la sua impresa il primo «unicorno» italiano, senza per questo trascurare principi come il rispetto dell’ambiente e delle persone attraverso l’impegno in una serie di cause sociali.  Pagine dense, in cui scorre una vita piena di imprevisti e casualità, oltre che incontri con alcuni dei protagonisti del fashion e i giganti del tech, ma pure Re Carlo III. E senza trascurare sfide al limite come il progetto globale per una moda “sostenibile” che, mettendo insieme tecnologia, umanesimo e intelligenza artificiale, riesca ad affrontare una delle più grandi sfide del nostro tempo: la crisi climatica.

Da leggere tutto fino in fondo il libro di Marchetti- Hamaui, da leggere in modo disincantato, senza pretendere di approvare tutto ma cercando di acquisire la conoscenza di una vicenda forse inimitabile che può, tuttavia, dire molto a molti.  Bello, tra i tanti, un passaggio finale: “Apritevi, non abbiate paura (…). Siate curiosi e coraggiosi. Per fare impresa occorre essere temerari, sfidare il sentire comune e scoprire quello che non si conosce, inspirarsi a quello che colpisce la fantasia”.

Le avventure di un innovatore. Il sogno americano, tutto italiano, del fondatore di YOOX

Federico Marchetti (con Daniela Hamaui)

Longanesi, 2023

Reti d’impresa, buoni strumenti da applicare bene

Gli effetti delle relazioni tra aziende dipendono da un insieme variabile di fattori

 

Collaborare per crescere insieme. Indicazione che dovrebbe ormai essere quasi scontata, ma che così non è. Troppi vincoli, troppe ritrosie. Eppure la strada è quella. Ed è su questa base che ha ragionato Arcangela Ricciardi con il suo lavoro apparso recentemente nei Quaderni di ricerca sull’artigianato.

“Microimprese e innovazione: il ruolo delle reti d’impresa”, è una ricerca che muove da una constatazione: negli ultimi anni, la capacità delle piccole e medie imprese (PMI) di avviare e gestire l’innovazione è un tema sotto i riflettori ma sul quale alla fine si sa ancora troppo poco. La domanda da farsi è soprattutto una: quali sono i fattori che promuovono e inibiscono l’innovazione in queste aziende? L’indagine di Ricciardi ha l’obiettivo di provare ad iniziare a colmare queste lacune, partendo dall’esame di quanto accade nelle reti d’imprese. L’applicazione dell’innovazione, infatti, può passare dalle relazioni virtuose tra organizzazioni della produzione. Sarebbero, in altri termini, proprio le reti ad essere gli strumenti strategici utili per accendere i motori dell’innovazione, soprattutto nel contesto specifico delle microimprese.

Alla sua tesi, Ricciardi ha cercato sostegni con una analisi sul campo basata su diverse interviste semi-strutturate condotte con microimprenditori e manager di reti italiane. I risultati sono duplici. Da una parte, viene mostrato il potenziale delle reti come motori d’innovazione; dall’altra le stesse funzionano pure come barriere all’innovazione. Un risultato solo in apparenza contraddittorio. A fare la differenza, infatti, sono le caratteristiche delle reti che agiscono sulle imprese che, a loro volta, rispondono in modi diversi alle sollecitazioni. Questione non solo di tecnologie, ma di persone. Che è come dire: essere posti in una rete costituisce una buona base per crescere, ma non è l’unica condizione per riuscirci.

Microimprese e innovazione: il ruolo delle reti d’impresa

Arcangela Ricciardi

Quaderni di ricerca sull’artigianato, Fascicolo 2/2023, maggio-agosto

Gli effetti delle relazioni tra aziende dipendono da un insieme variabile di fattori

 

Collaborare per crescere insieme. Indicazione che dovrebbe ormai essere quasi scontata, ma che così non è. Troppi vincoli, troppe ritrosie. Eppure la strada è quella. Ed è su questa base che ha ragionato Arcangela Ricciardi con il suo lavoro apparso recentemente nei Quaderni di ricerca sull’artigianato.

“Microimprese e innovazione: il ruolo delle reti d’impresa”, è una ricerca che muove da una constatazione: negli ultimi anni, la capacità delle piccole e medie imprese (PMI) di avviare e gestire l’innovazione è un tema sotto i riflettori ma sul quale alla fine si sa ancora troppo poco. La domanda da farsi è soprattutto una: quali sono i fattori che promuovono e inibiscono l’innovazione in queste aziende? L’indagine di Ricciardi ha l’obiettivo di provare ad iniziare a colmare queste lacune, partendo dall’esame di quanto accade nelle reti d’imprese. L’applicazione dell’innovazione, infatti, può passare dalle relazioni virtuose tra organizzazioni della produzione. Sarebbero, in altri termini, proprio le reti ad essere gli strumenti strategici utili per accendere i motori dell’innovazione, soprattutto nel contesto specifico delle microimprese.

Alla sua tesi, Ricciardi ha cercato sostegni con una analisi sul campo basata su diverse interviste semi-strutturate condotte con microimprenditori e manager di reti italiane. I risultati sono duplici. Da una parte, viene mostrato il potenziale delle reti come motori d’innovazione; dall’altra le stesse funzionano pure come barriere all’innovazione. Un risultato solo in apparenza contraddittorio. A fare la differenza, infatti, sono le caratteristiche delle reti che agiscono sulle imprese che, a loro volta, rispondono in modi diversi alle sollecitazioni. Questione non solo di tecnologie, ma di persone. Che è come dire: essere posti in una rete costituisce una buona base per crescere, ma non è l’unica condizione per riuscirci.

Microimprese e innovazione: il ruolo delle reti d’impresa

Arcangela Ricciardi

Quaderni di ricerca sull’artigianato, Fascicolo 2/2023, maggio-agosto

I valori dell’informazione per imprese e mercati e la responsabilità di formare giovani giornalisti

Alle imprese serve una buona informazione. Libera, indipendente, di qualità e dunque autorevole, capace di “dare voce a chi voce non ha”, di rappresentare, di fronte ai decisori politici e ai protagonisti dei vari poteri, i valori e gli interessi di cui si nutre una “società aperta”, una democrazia liberale. E, naturalmente, di dare spazio critico ai valori di chi intraprende, stimola ricerca e innovazione, costruisce lavoro e benessere, si rivela fattore di cambiamento. Perché i mercati su cui le imprese competono vivono di fiducia, basata appunto sulla possibilità di verificare fatti, dati, indicazioni secondo cui orientare gli investimenti e le scelte di produzione e consumo. Perché le “asimmetrie informative” sono nemiche di una competizione efficace. E perché l’incrocio tra diritti e doveri, libertà e responsabilità, interessi individuali e visioni generali, di cui appunto vive l’impresa, ha bisogno di luoghi e spazi in cui fare crescere il confronto delle idee, esprimere critiche, orientare in modo trasparente i giudizi.

Dette così, sono parole di buona teoria politica generale, solide nel corso del tempo, valide per tutti i processi politici, economici e culturali in cui siamo abituati a vivere.
Democrazia, concorrenza, libertà d’impresa, sostenibilità ambientale e sociale si tengono insieme. E non c’è sviluppo economico che possa essere pensato fuori dai binari su cui viaggiano i valori democratici, le strutture del welfare, la ricerca scientifica, i più equilibrati rapporti sociali. L’intera cultura politica europea e occidentale del Novecento ne è ricca di testimonianze.

Ma su queste parole è indispensabile insistere, ancora una volta, proprio nei nostri tempi così controversi e contraddittori, animati da drammatiche tensioni geopolitiche e avviliti dalla prepotenza di tentazioni autoritarie, ascoltate teorie sulle “democrazie illiberali”, derive populiste e inquietanti diffusioni di fake news, fattoidi e post-verità. E in cui la straordinaria, rapidissima diffusione dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi processi creativi non solo incide profondamente sulla rappresentazione della realtà ma può “crearla”, costruendo discorsi e immagini fake ma all’apparenza reali e in grado di condizionare radicalmente giudizi politici, orientamenti culturali, costumi e consumi. Una “verità artificiale” che inquina la vita reale.

E’ utile, per riflettere su questo stato di cose, il giudizio di un uomo d’impresa, Marco Tronchetti Provera, leader della Pirelli, che da quest’anno è sostenitrice del “Premiolino”, antico e prestigioso riconoscimento per le migliori “firme” del giornalismo italiano: “Nel mondo di oggi avere ancora il senso del valore della firma di chi scrive, di chi dà una notizia ma anche la sua interpretazione, credo che sia un cardine per la democrazia”. E dunque, “se noi terremo in futuro al centro della nostra attenzione le firme, il valore del giornalista, la sua formazione culturale e daremo spazio ai giovani perché possano crescere, garantiremo che si possa continuare a essere un paese libero. E’ un tema non solo italiano, ma che esiste un po’ ovunque”.

Puntare sui giovani giornalisti è una scelta strategica. Nonostante la crisi della stampa, insiste Tronchetti, “l’informazione è valorizzata dalle persone che guardano i fatti, cercano di capirli e li raccontano, sui giornali, in Tv e sugli altri media”. Da formare e fare crescere, “per continuare a garantire, nel corso del tempo, a chi legge la possibilità di farsi un’opinione”.
Il “Premiolino”, presieduto da Chiara Beria di Argentine, da questo punto di vista, non è solo un premio. Ma anche l’occasione per fare il punto, anno dopo anno, sullo stato di salute dell’informazione e ribadire i fondamenti del rapporto tra libertà di stampa e democrazia, con un occhio attento pure all’importanza dell’informazione qualificata rispetto all’economia, alla finanza, al lavoro e alla trasparenza del mercato (i sostenitori iniziali del premio, alla sua nascita, nel 1960, erano due imprenditori milanesi con una solida cultura di valori pubblici, Piero e Giansandro Bassetti).

Tra i riferimenti culturali e istituzionali che hanno caratterizzato l’ultima edizione (con la premiazione dei vincitori, il 2 ottobre scorso, al Piccolo Teatro di Milano), accanto all’articolo 21 della Costituzione italiana (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure”) e al 1°Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (“Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti”), sono risuonate le parole di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Usa, in una lettera del 1787 all’amico Edward Carrington.
Parole considerate un vero e proprio cardine della libertà d’informazione per una comunità democratica. Eccole: “Sono persuaso che il buon senso delle persone sarà sempre considerato il miglior esercito. Potrebbero essere in errore per un lasso di tempo, ma presto finiranno per correggersi. Il popolo è l’unico censore dei suoi governanti: e anche gli errori terranno questi ultimi più stretti ai principi della loro istituzione. Punire questi errori in maniera troppo severa significherebbe sopprimere l’unica salvaguardia della libertà pubblica”. Dunque, insiste Jefferson, “il modo per prevenire queste interposizioni irregolari è fornire alle persone di informazioni complete sui loro affari attraverso il canale dei giornali pubblici e fare in modo che quei giornali si diffondano a tutte le masse”.
La conclusione è netta: “Le fondamenta dei nostri governi sono le opinioni della gente, il primo obiettivo dovrebbe essere quello di mantenere questo diritto; e se toccasse a me decidere se dovremmo avere un governo senza giornali o i giornali senza un governo, non esiterei un momento a preferire la seconda ipotesi”.

Alle imprese serve una buona informazione. Libera, indipendente, di qualità e dunque autorevole, capace di “dare voce a chi voce non ha”, di rappresentare, di fronte ai decisori politici e ai protagonisti dei vari poteri, i valori e gli interessi di cui si nutre una “società aperta”, una democrazia liberale. E, naturalmente, di dare spazio critico ai valori di chi intraprende, stimola ricerca e innovazione, costruisce lavoro e benessere, si rivela fattore di cambiamento. Perché i mercati su cui le imprese competono vivono di fiducia, basata appunto sulla possibilità di verificare fatti, dati, indicazioni secondo cui orientare gli investimenti e le scelte di produzione e consumo. Perché le “asimmetrie informative” sono nemiche di una competizione efficace. E perché l’incrocio tra diritti e doveri, libertà e responsabilità, interessi individuali e visioni generali, di cui appunto vive l’impresa, ha bisogno di luoghi e spazi in cui fare crescere il confronto delle idee, esprimere critiche, orientare in modo trasparente i giudizi.

Dette così, sono parole di buona teoria politica generale, solide nel corso del tempo, valide per tutti i processi politici, economici e culturali in cui siamo abituati a vivere.
Democrazia, concorrenza, libertà d’impresa, sostenibilità ambientale e sociale si tengono insieme. E non c’è sviluppo economico che possa essere pensato fuori dai binari su cui viaggiano i valori democratici, le strutture del welfare, la ricerca scientifica, i più equilibrati rapporti sociali. L’intera cultura politica europea e occidentale del Novecento ne è ricca di testimonianze.

Ma su queste parole è indispensabile insistere, ancora una volta, proprio nei nostri tempi così controversi e contraddittori, animati da drammatiche tensioni geopolitiche e avviliti dalla prepotenza di tentazioni autoritarie, ascoltate teorie sulle “democrazie illiberali”, derive populiste e inquietanti diffusioni di fake news, fattoidi e post-verità. E in cui la straordinaria, rapidissima diffusione dell’Intelligenza Artificiale e dei suoi processi creativi non solo incide profondamente sulla rappresentazione della realtà ma può “crearla”, costruendo discorsi e immagini fake ma all’apparenza reali e in grado di condizionare radicalmente giudizi politici, orientamenti culturali, costumi e consumi. Una “verità artificiale” che inquina la vita reale.

E’ utile, per riflettere su questo stato di cose, il giudizio di un uomo d’impresa, Marco Tronchetti Provera, leader della Pirelli, che da quest’anno è sostenitrice del “Premiolino”, antico e prestigioso riconoscimento per le migliori “firme” del giornalismo italiano: “Nel mondo di oggi avere ancora il senso del valore della firma di chi scrive, di chi dà una notizia ma anche la sua interpretazione, credo che sia un cardine per la democrazia”. E dunque, “se noi terremo in futuro al centro della nostra attenzione le firme, il valore del giornalista, la sua formazione culturale e daremo spazio ai giovani perché possano crescere, garantiremo che si possa continuare a essere un paese libero. E’ un tema non solo italiano, ma che esiste un po’ ovunque”.

Puntare sui giovani giornalisti è una scelta strategica. Nonostante la crisi della stampa, insiste Tronchetti, “l’informazione è valorizzata dalle persone che guardano i fatti, cercano di capirli e li raccontano, sui giornali, in Tv e sugli altri media”. Da formare e fare crescere, “per continuare a garantire, nel corso del tempo, a chi legge la possibilità di farsi un’opinione”.
Il “Premiolino”, presieduto da Chiara Beria di Argentine, da questo punto di vista, non è solo un premio. Ma anche l’occasione per fare il punto, anno dopo anno, sullo stato di salute dell’informazione e ribadire i fondamenti del rapporto tra libertà di stampa e democrazia, con un occhio attento pure all’importanza dell’informazione qualificata rispetto all’economia, alla finanza, al lavoro e alla trasparenza del mercato (i sostenitori iniziali del premio, alla sua nascita, nel 1960, erano due imprenditori milanesi con una solida cultura di valori pubblici, Piero e Giansandro Bassetti).

Tra i riferimenti culturali e istituzionali che hanno caratterizzato l’ultima edizione (con la premiazione dei vincitori, il 2 ottobre scorso, al Piccolo Teatro di Milano), accanto all’articolo 21 della Costituzione italiana (“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni e censure”) e al 1°Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti (“Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti”), sono risuonate le parole di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Usa, in una lettera del 1787 all’amico Edward Carrington.
Parole considerate un vero e proprio cardine della libertà d’informazione per una comunità democratica. Eccole: “Sono persuaso che il buon senso delle persone sarà sempre considerato il miglior esercito. Potrebbero essere in errore per un lasso di tempo, ma presto finiranno per correggersi. Il popolo è l’unico censore dei suoi governanti: e anche gli errori terranno questi ultimi più stretti ai principi della loro istituzione. Punire questi errori in maniera troppo severa significherebbe sopprimere l’unica salvaguardia della libertà pubblica”. Dunque, insiste Jefferson, “il modo per prevenire queste interposizioni irregolari è fornire alle persone di informazioni complete sui loro affari attraverso il canale dei giornali pubblici e fare in modo che quei giornali si diffondano a tutte le masse”.
La conclusione è netta: “Le fondamenta dei nostri governi sono le opinioni della gente, il primo obiettivo dovrebbe essere quello di mantenere questo diritto; e se toccasse a me decidere se dovremmo avere un governo senza giornali o i giornali senza un governo, non esiterei un momento a preferire la seconda ipotesi”.

“L’anima” della gomma Pirelli in mostra al Museo Diffuso dell’Università di Milano-Bicocca

Inaugura oggi, presso la Biblioteca dell’Università di Milano-Bicocca, l’esposizione Birth: nascere non basta, la prima mostra organizzata dal Museo Diffuso Bicocca (MuDiB), realtà nata con lo scopo di mettere in connessione non solo i diversi dipartimenti dell’Ateneo ma anche le numerose anime del nostro quartiere.
La complessità del tema scelto, la nascita, è indagata attraverso prospettive differenti e articolata in quattro nuclei tematici – nascita dell’uomo, delle idee, delle piante e del museo – con oggetti, fotografie, testimonianze video e scritti che raccontano esperienze, progetti e ricerche. L’ultima sezione del percorso è dedicata alla nascita del MuDiB, affiancando al patrimonio dell’Università oggetti appartenenti ad altre realtà culturali o musei universitari presenti nel territorio circostante, con l’obiettivo di incuriosire i visitatori e invitarli a scoprire direttamente le loro collezioni.

Il quartiere Bicocca consolida lo stretto legame tra l’Università e gli Headquarters Pirelli: l’area, oggi sede delle due istituzioni e della Fondazione Pirelli con l’Archivio Storico aziendale, nasce infatti a partire dal 1906, quando Giovanni Battista Pirelli firma l’acquisizione di 116 ettari tra i comuni di Niguarda e Greco Milanese per espandere la produzione oltre gli stabilimenti di via Ponte Seveso.
La Fondazione Pirelli partecipa all’esposizione dell’Università mostrando le infinite possibilità di un materiale versatile come la gomma. Inizialmente trasformato in tubi, cinghie, valvole e guarnizioni, il caucciù giunge a interessare praticamente ogni aspetto della vita quotidiana, dallo sport al tempo libero, con i numerosi beni per il consumo portati da Pirelli sul mercato.
È però alla fine degli anni Quaranta che la gomma diventa anche design. Grazie alla collaborazione dell’azienda con l’artista Bruno Munari nascono i giocattoli in gommapiuma armata, animati cioè da filo metallico snodabile, assolute icone del disegno industriale internazionale: nel 1949 il gatto “Meo Romeo” e nel 1953 la “Scimmietta Zizì”, vincitrice l’anno seguente della prima edizione del Compasso d’oro.
Essenzialità formale, leggerezza e approccio pedagogico: un giocattolo rivoluzionario che ha fatto la storia, in mostra fino al 31 dicembre all’Università di Milano-Bicocca.

Inaugura oggi, presso la Biblioteca dell’Università di Milano-Bicocca, l’esposizione Birth: nascere non basta, la prima mostra organizzata dal Museo Diffuso Bicocca (MuDiB), realtà nata con lo scopo di mettere in connessione non solo i diversi dipartimenti dell’Ateneo ma anche le numerose anime del nostro quartiere.
La complessità del tema scelto, la nascita, è indagata attraverso prospettive differenti e articolata in quattro nuclei tematici – nascita dell’uomo, delle idee, delle piante e del museo – con oggetti, fotografie, testimonianze video e scritti che raccontano esperienze, progetti e ricerche. L’ultima sezione del percorso è dedicata alla nascita del MuDiB, affiancando al patrimonio dell’Università oggetti appartenenti ad altre realtà culturali o musei universitari presenti nel territorio circostante, con l’obiettivo di incuriosire i visitatori e invitarli a scoprire direttamente le loro collezioni.

Il quartiere Bicocca consolida lo stretto legame tra l’Università e gli Headquarters Pirelli: l’area, oggi sede delle due istituzioni e della Fondazione Pirelli con l’Archivio Storico aziendale, nasce infatti a partire dal 1906, quando Giovanni Battista Pirelli firma l’acquisizione di 116 ettari tra i comuni di Niguarda e Greco Milanese per espandere la produzione oltre gli stabilimenti di via Ponte Seveso.
La Fondazione Pirelli partecipa all’esposizione dell’Università mostrando le infinite possibilità di un materiale versatile come la gomma. Inizialmente trasformato in tubi, cinghie, valvole e guarnizioni, il caucciù giunge a interessare praticamente ogni aspetto della vita quotidiana, dallo sport al tempo libero, con i numerosi beni per il consumo portati da Pirelli sul mercato.
È però alla fine degli anni Quaranta che la gomma diventa anche design. Grazie alla collaborazione dell’azienda con l’artista Bruno Munari nascono i giocattoli in gommapiuma armata, animati cioè da filo metallico snodabile, assolute icone del disegno industriale internazionale: nel 1949 il gatto “Meo Romeo” e nel 1953 la “Scimmietta Zizì”, vincitrice l’anno seguente della prima edizione del Compasso d’oro.
Essenzialità formale, leggerezza e approccio pedagogico: un giocattolo rivoluzionario che ha fatto la storia, in mostra fino al 31 dicembre all’Università di Milano-Bicocca.

Quale leadership per le imprese neonate

Una tesi discute gli aspetti cruciali dell’organizzazione e della gestione delle startup

 

Nuove imprese e quindi nuovi orizzonti, forse. Perché non è detto che un’impresa nuova sia per davvero in grado non solo di continuare ad esistere, ma, soprattutto, di essere in grado di fare un salto di qualità rispetto alle altre. Questione di capacità e di imprenditorialità. Di leadership.

E’ attorno alle relazioni tra leadership  e nuove imprese che ragiona Emem Akpanekong con la sua ricerca presentata come tesi in Business Administration sostenuta presso la Liberty University, School of Business, Lynchburg (USA) nell’agosto di quest’anno.

L’indagine prende le mosse da una constatazione. Le startup svolgono un ruolo vitale nelle opportunità di lavoro, nella creazione di nuovi mercati e nello sviluppo economico di una nazione. E’ necessario però rendersi conto che queste imprese “devono affrontare diverse sfide, soprattutto nelle fasi iniziali a causa del contesto imprenditoriale altamente incerto”. Oltre alla capacità tecnica e organizzativa, è necessario allora avere a disposizione una leadership che sia in grado di far superare alle imprese nate da poco quel passaggio “dall’infanzia alla adolescenza e all’età adulta”.

Per approfondire il tema, Akpanekong ha quindi affrontato prima la teoria e poi la pratica con uno studio qualitativo su un singolo caso accompagnato da 17 fondatori e leader di quattro startup.

Da tutto questo sono stati identificati quattro temi: l’impatto del comportamento della leadership sulla cultura della startup; gli approcci di leadership che guidano il successo delle startup; lo sviluppo di comportamenti di leadership emergenti a causa del cambiamento dell’ambiente imprenditoriale delle startup; il miglioramento delle prestazioni organizzative guidato dallo sviluppo della leadership.

La tesi di Emem Akpanekong cerca di mettere in fila teoria e dati su un tema complesso, e compie così un’operazione utile per la comprensione di quella particolare cultura d’impresa propria delle aziende che si affacciano alla produzione e al mercato.

Impact of leadership for startup companies

Emem Akpanekong

Tesi, Degree of Doctor of Business Administration

Liberty University, School of Business, Lynchburg (USA)

 

Una tesi discute gli aspetti cruciali dell’organizzazione e della gestione delle startup

 

Nuove imprese e quindi nuovi orizzonti, forse. Perché non è detto che un’impresa nuova sia per davvero in grado non solo di continuare ad esistere, ma, soprattutto, di essere in grado di fare un salto di qualità rispetto alle altre. Questione di capacità e di imprenditorialità. Di leadership.

E’ attorno alle relazioni tra leadership  e nuove imprese che ragiona Emem Akpanekong con la sua ricerca presentata come tesi in Business Administration sostenuta presso la Liberty University, School of Business, Lynchburg (USA) nell’agosto di quest’anno.

L’indagine prende le mosse da una constatazione. Le startup svolgono un ruolo vitale nelle opportunità di lavoro, nella creazione di nuovi mercati e nello sviluppo economico di una nazione. E’ necessario però rendersi conto che queste imprese “devono affrontare diverse sfide, soprattutto nelle fasi iniziali a causa del contesto imprenditoriale altamente incerto”. Oltre alla capacità tecnica e organizzativa, è necessario allora avere a disposizione una leadership che sia in grado di far superare alle imprese nate da poco quel passaggio “dall’infanzia alla adolescenza e all’età adulta”.

Per approfondire il tema, Akpanekong ha quindi affrontato prima la teoria e poi la pratica con uno studio qualitativo su un singolo caso accompagnato da 17 fondatori e leader di quattro startup.

Da tutto questo sono stati identificati quattro temi: l’impatto del comportamento della leadership sulla cultura della startup; gli approcci di leadership che guidano il successo delle startup; lo sviluppo di comportamenti di leadership emergenti a causa del cambiamento dell’ambiente imprenditoriale delle startup; il miglioramento delle prestazioni organizzative guidato dallo sviluppo della leadership.

La tesi di Emem Akpanekong cerca di mettere in fila teoria e dati su un tema complesso, e compie così un’operazione utile per la comprensione di quella particolare cultura d’impresa propria delle aziende che si affacciano alla produzione e al mercato.

Impact of leadership for startup companies

Emem Akpanekong

Tesi, Degree of Doctor of Business Administration

Liberty University, School of Business, Lynchburg (USA)

 

Imparare una nuova cultura del produrre

La sfida del passaggio ad una società sempre più virtuale

 

Altro che manifattura e industria. A guardar bene quanto accade nel sistema economico e sociale, la digitalizzazione sempre più spinta, la rete sempre più pervasiva,  l’affermazione dei social portano a superare l’idea e l’immagine della “società liquida” messa a punto oltre vent’anni fa per arrivare ad una “modernità gassosa”. Qualcosa di assolutamente nuovo e da mettere ancora ben a fuoco ma con cui occorre fare bene i conti. Anche nel sistema della produzione. Leggere l’ultimo saggio di Francesco Morace – “Modernità gassosa” -, serve proprio per questo.

L’autore individua e racconta una società sempre più volatile, che evapora sulla spinta dei social media e di una dimensione digitale sul punto di farsi dominante. Morace cerca di rispondere ad una domanda: perché la realtà è evaporata fino a farsi “gassosa”? Con i social siamo entrati nell’era del consumo di noi stessi: non solo della nostra immagine ma anche di un’esistenza che si polverizza. Con infinite possibilità di scelta a nostra disposizione ci sentiamo liberi come non mai, ma lo sguardo degli altri ci sottopone a una pressione sociale mai vista e il rischio di passi falsi è sempre dietro l’angolo. Il digitale produce nuove opportunità, ma nello stesso tempo rende aleatorio il mondo del lavoro. L’intelligenza artificiale avanza ma anche le sue allucinazioni, e il rischio che ci renda più stupidi è tangibile. Doveva essere un’epoca di pace e ci ritroviamo nel mezzo di conflitti la cui logica ci sfugge.

Morace analizza le ricadute concrete di uno scenario tanto complesso sulle condizioni di vita di tutti noi, cercando di descrivere le “tecniche di volo” necessarie ad affrontarlo. Tecniche utili per tutti, anche per chi fa impresa e deve adattare la propria cultura del lavoro e della produzione a condizioni così mutevoli e nuove. Una sorta di sfida verso una nuova cultura del produrre che non sprechi nulla del passato, ma sia capace di aggiungere un presente nuovo e inaspettato.

Modernità gassosa

Francesco Morace

Egea, 2023

La sfida del passaggio ad una società sempre più virtuale

 

Altro che manifattura e industria. A guardar bene quanto accade nel sistema economico e sociale, la digitalizzazione sempre più spinta, la rete sempre più pervasiva,  l’affermazione dei social portano a superare l’idea e l’immagine della “società liquida” messa a punto oltre vent’anni fa per arrivare ad una “modernità gassosa”. Qualcosa di assolutamente nuovo e da mettere ancora ben a fuoco ma con cui occorre fare bene i conti. Anche nel sistema della produzione. Leggere l’ultimo saggio di Francesco Morace – “Modernità gassosa” -, serve proprio per questo.

L’autore individua e racconta una società sempre più volatile, che evapora sulla spinta dei social media e di una dimensione digitale sul punto di farsi dominante. Morace cerca di rispondere ad una domanda: perché la realtà è evaporata fino a farsi “gassosa”? Con i social siamo entrati nell’era del consumo di noi stessi: non solo della nostra immagine ma anche di un’esistenza che si polverizza. Con infinite possibilità di scelta a nostra disposizione ci sentiamo liberi come non mai, ma lo sguardo degli altri ci sottopone a una pressione sociale mai vista e il rischio di passi falsi è sempre dietro l’angolo. Il digitale produce nuove opportunità, ma nello stesso tempo rende aleatorio il mondo del lavoro. L’intelligenza artificiale avanza ma anche le sue allucinazioni, e il rischio che ci renda più stupidi è tangibile. Doveva essere un’epoca di pace e ci ritroviamo nel mezzo di conflitti la cui logica ci sfugge.

Morace analizza le ricadute concrete di uno scenario tanto complesso sulle condizioni di vita di tutti noi, cercando di descrivere le “tecniche di volo” necessarie ad affrontarlo. Tecniche utili per tutti, anche per chi fa impresa e deve adattare la propria cultura del lavoro e della produzione a condizioni così mutevoli e nuove. Una sorta di sfida verso una nuova cultura del produrre che non sprechi nulla del passato, ma sia capace di aggiungere un presente nuovo e inaspettato.

Modernità gassosa

Francesco Morace

Egea, 2023

6 milioni di italiani nei musei d’impresa, il turismo industriale è utile all’economia 

Quasi 6 milioni di italiani (5,8 milioni, per l’esattezza), negli ultimi quattro anni, hanno visitato un museo d’impresa, un archivio storico aziendale o un luogo d’archeologia industriale. Sono stati mossi dal desiderio di capire meglio cosa c’è dietro gli oggetti icone del miglior made in Italy, di conoscere la storia delle imprese e l’arte e il design collegati, di sapere quali siano i rapporti tra industrie e territori. Sono giovani (la maggior parte hanno fra i 30 e i 44 anni), con un alto livello di istruzione, vengono soprattutto dalle regioni del Nord. E giudicano l’esperienza fatta “educativa e formativa”. E fra i 34milioni di italiani che, appunto negli ultimi quattro anni, hanno fatto un viaggio o almeno una gita fuori porta, oltre al 17% che ha già visto un museo d’impresa, c’è un buon 21% che volentieri ci andrebbe. Una occasione interessante per sviluppare il “turismo industriale”. E una prospettiva quanto mai stimolante per chi ha a cuore la conoscenza della storia economica, il rilancio della cultura d’impresa e una più diffusa e responsabile comprensione del ruolo delle nostre aziende manifatturiere e dei servizi per migliorare lo sviluppo economico del nostro paese.

I musei più frequentati? Quello della Ferrari a Maranello, seguito dal Villaggio Crespi d’Adda in provincia di Bergamo, dal Museo storico Alfa Romeo ad Arese, dal Museo Lavazza a Torino e dall’Archivio Storico Olivetti a Ivrea. C’è spazio per crescere e valorizzare altre realtà un po’ in tutta Italia.

I dati emergono da una ricerca su “Il turismo industriale in Italia: dimensioni, percezione e potenzialità di sviluppo” curata da Nomisma su incarico di Museimpresa (l’associazione nata oltre vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria e oggi forte di oltre 130 tra iscritti e sostenitori istituzionali, tra grandi, medie e piccole imprese e autorevoli istituzioni economiche e culturali). E potrà fare da base per un vero e proprio “Osservatorio sul turismo industriale”, misurandone le dimensioni e le potenzialità e valutandone l’impatto sulle imprese stesse e sui territori. Un obiettivo possibile: costruire maggiori e migliori sinergie tra i musei d’impresa e le rassegne di scienza e architettura, le associazioni storiche, i festival sulla scienza e l’economia, le manifestazioni culturali (insistendo, per esempio, sulla letteratura, il cinema e la fotografia sul lavoro e l’industria).

La ricerca è stata presentata nello scorso fine settimana durante il Seminario annuale di Museimpresa a Matera, a Pisticci (nel museo Essenza Lucano), ad Altamura (con un incontro al Museo del pane di Vito Forte, Oropan) e al museo del Confetto Nucci ad Andria. Il tema del seminario: “Carte d’archivio, mappe di sviluppo”. Con un occhio d’attenzione per il Mezzogiorno. Non solo per dare maggior valore all’industria manifatturiera, cardine essenziale d’una crescita economica e sociale meglio equilibrata. Ma anche per ragionare su come evitare le derive negative del cosiddetto overtourism (l’invasione di città e paesi da parte di turisti frettolosi e sciatti, sostanzialmente disattenti alle bellezze di ambienti e territori) e qualificare l’offerta turistica mettendo in risalto valori culturali, sociali, architettonici, scientifici e industriali di luoghi carichi di storia, intraprendenza, capacità di “fare, fare bene e fare del bene”.

I territori dei musei e degli archivi d’impresa, infatti, sono esempi interessanti dei legami tra imprese, scienza, tecnologia e cultura. Ospitano “fabbriche belle” e cioè architettonicamente ben progettate, ambientalmente sostenibili, luminose e sicure (gli esempi sono oramai numerosi, oltre allo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese progettato la Renzo Piano, la “fabbrica nel giardino dei ciliegi”). Confermano le relazioni virtuose tra produttività e qualità del lavoro, nel segno di un vero e proprio “umanesimo industriale”. E proprio nel rapporto con le culture locali e con le tradizioni dei distretti produttivi (meccanici, chimici, farmaceutici, automotive, tessili, agroalimentari, legno e arredo, etc.) testimoniano una caratteristica tipica del made in Italy: le sinergie tra competitività e inclusione sociale, tra senso profondo della bellezza (il design ne è testimonianza fondamentale) e dinamica inclinazione all’innovazione.

La geografia dei nostri archivi e musei d’impresa, insomma, racconta la realtà di un’Italia intraprendente, operosa, cosciente di quanto la testimonianza della propria storia sia una leva fondamentale dello sviluppo sostenibile, un patrimonio economico e culturale indispensabile per costruire un miglior futuro delle nuove generazioni.

Una leva da valorizzare, soprattutto adesso, mentre l’economia annaspa, tra bassa crescita e preoccupazioni per l’alto livello dell’inflazione e dei tassi (che bloccano gli investimenti e fanno crescere il costo del debito pubblico, sottraendo risorse agli interventi pubblici per riforme e sviluppo). E tocca ancora una volta alle imprese fare tutto il possibile perché le loro capacità produttive e di export sostengano il Pil oltre la soglia stentata dello “0,…”.

Per farlo, è indispensabile, appunto, anche raccontare il nostro patrimonio imprenditoriale, storico e contemporaneo, più e meglio di come non si sia fatto finora, con un dialogo aperto, critico, sincero, tra imprese e personalità della cultura, della letteratura, del teatro e del cinema. Con una relazione dialettica tra “saper fare” e “far sapere”. Usando bene – ecco un altro aspetto messo in luce dalla ricerca Nomisma, tutte le opportunità offerte dal mondo digitale.

Raccontare cosa? Che imprese industriali, banche, assicurazioni, società di servizi documentano come le capacità di “fare cose belle che piacciono al mondo” (secondo la brillante definizione dello storico Carlo M. Cipolla) siano state e siano ancora strumenti di crescita sui territori d’origine delle imprese ma anche originali asset di competitività sui mercati internazionali.

Ecco allora perché il turismo industriale, su cui si concentra la ricerca di Nomisma per Museimpresa, non è solo un viaggio nei luoghi del lavoro e della produzione industriale, ma è soprattutto uno stimolante percorso di scoperta dell’importanza dei legami tra scienza e valori umanistici, tra nuove tecnologie e solido senso di comunità.

Un viaggio nello spazio aperto delle “mani che pensano”. Uno straordinario capitale sociale.

Quasi 6 milioni di italiani (5,8 milioni, per l’esattezza), negli ultimi quattro anni, hanno visitato un museo d’impresa, un archivio storico aziendale o un luogo d’archeologia industriale. Sono stati mossi dal desiderio di capire meglio cosa c’è dietro gli oggetti icone del miglior made in Italy, di conoscere la storia delle imprese e l’arte e il design collegati, di sapere quali siano i rapporti tra industrie e territori. Sono giovani (la maggior parte hanno fra i 30 e i 44 anni), con un alto livello di istruzione, vengono soprattutto dalle regioni del Nord. E giudicano l’esperienza fatta “educativa e formativa”. E fra i 34milioni di italiani che, appunto negli ultimi quattro anni, hanno fatto un viaggio o almeno una gita fuori porta, oltre al 17% che ha già visto un museo d’impresa, c’è un buon 21% che volentieri ci andrebbe. Una occasione interessante per sviluppare il “turismo industriale”. E una prospettiva quanto mai stimolante per chi ha a cuore la conoscenza della storia economica, il rilancio della cultura d’impresa e una più diffusa e responsabile comprensione del ruolo delle nostre aziende manifatturiere e dei servizi per migliorare lo sviluppo economico del nostro paese.

I musei più frequentati? Quello della Ferrari a Maranello, seguito dal Villaggio Crespi d’Adda in provincia di Bergamo, dal Museo storico Alfa Romeo ad Arese, dal Museo Lavazza a Torino e dall’Archivio Storico Olivetti a Ivrea. C’è spazio per crescere e valorizzare altre realtà un po’ in tutta Italia.

I dati emergono da una ricerca su “Il turismo industriale in Italia: dimensioni, percezione e potenzialità di sviluppo” curata da Nomisma su incarico di Museimpresa (l’associazione nata oltre vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria e oggi forte di oltre 130 tra iscritti e sostenitori istituzionali, tra grandi, medie e piccole imprese e autorevoli istituzioni economiche e culturali). E potrà fare da base per un vero e proprio “Osservatorio sul turismo industriale”, misurandone le dimensioni e le potenzialità e valutandone l’impatto sulle imprese stesse e sui territori. Un obiettivo possibile: costruire maggiori e migliori sinergie tra i musei d’impresa e le rassegne di scienza e architettura, le associazioni storiche, i festival sulla scienza e l’economia, le manifestazioni culturali (insistendo, per esempio, sulla letteratura, il cinema e la fotografia sul lavoro e l’industria).

La ricerca è stata presentata nello scorso fine settimana durante il Seminario annuale di Museimpresa a Matera, a Pisticci (nel museo Essenza Lucano), ad Altamura (con un incontro al Museo del pane di Vito Forte, Oropan) e al museo del Confetto Nucci ad Andria. Il tema del seminario: “Carte d’archivio, mappe di sviluppo”. Con un occhio d’attenzione per il Mezzogiorno. Non solo per dare maggior valore all’industria manifatturiera, cardine essenziale d’una crescita economica e sociale meglio equilibrata. Ma anche per ragionare su come evitare le derive negative del cosiddetto overtourism (l’invasione di città e paesi da parte di turisti frettolosi e sciatti, sostanzialmente disattenti alle bellezze di ambienti e territori) e qualificare l’offerta turistica mettendo in risalto valori culturali, sociali, architettonici, scientifici e industriali di luoghi carichi di storia, intraprendenza, capacità di “fare, fare bene e fare del bene”.

I territori dei musei e degli archivi d’impresa, infatti, sono esempi interessanti dei legami tra imprese, scienza, tecnologia e cultura. Ospitano “fabbriche belle” e cioè architettonicamente ben progettate, ambientalmente sostenibili, luminose e sicure (gli esempi sono oramai numerosi, oltre allo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese progettato la Renzo Piano, la “fabbrica nel giardino dei ciliegi”). Confermano le relazioni virtuose tra produttività e qualità del lavoro, nel segno di un vero e proprio “umanesimo industriale”. E proprio nel rapporto con le culture locali e con le tradizioni dei distretti produttivi (meccanici, chimici, farmaceutici, automotive, tessili, agroalimentari, legno e arredo, etc.) testimoniano una caratteristica tipica del made in Italy: le sinergie tra competitività e inclusione sociale, tra senso profondo della bellezza (il design ne è testimonianza fondamentale) e dinamica inclinazione all’innovazione.

La geografia dei nostri archivi e musei d’impresa, insomma, racconta la realtà di un’Italia intraprendente, operosa, cosciente di quanto la testimonianza della propria storia sia una leva fondamentale dello sviluppo sostenibile, un patrimonio economico e culturale indispensabile per costruire un miglior futuro delle nuove generazioni.

Una leva da valorizzare, soprattutto adesso, mentre l’economia annaspa, tra bassa crescita e preoccupazioni per l’alto livello dell’inflazione e dei tassi (che bloccano gli investimenti e fanno crescere il costo del debito pubblico, sottraendo risorse agli interventi pubblici per riforme e sviluppo). E tocca ancora una volta alle imprese fare tutto il possibile perché le loro capacità produttive e di export sostengano il Pil oltre la soglia stentata dello “0,…”.

Per farlo, è indispensabile, appunto, anche raccontare il nostro patrimonio imprenditoriale, storico e contemporaneo, più e meglio di come non si sia fatto finora, con un dialogo aperto, critico, sincero, tra imprese e personalità della cultura, della letteratura, del teatro e del cinema. Con una relazione dialettica tra “saper fare” e “far sapere”. Usando bene – ecco un altro aspetto messo in luce dalla ricerca Nomisma, tutte le opportunità offerte dal mondo digitale.

Raccontare cosa? Che imprese industriali, banche, assicurazioni, società di servizi documentano come le capacità di “fare cose belle che piacciono al mondo” (secondo la brillante definizione dello storico Carlo M. Cipolla) siano state e siano ancora strumenti di crescita sui territori d’origine delle imprese ma anche originali asset di competitività sui mercati internazionali.

Ecco allora perché il turismo industriale, su cui si concentra la ricerca di Nomisma per Museimpresa, non è solo un viaggio nei luoghi del lavoro e della produzione industriale, ma è soprattutto uno stimolante percorso di scoperta dell’importanza dei legami tra scienza e valori umanistici, tra nuove tecnologie e solido senso di comunità.

Un viaggio nello spazio aperto delle “mani che pensano”. Uno straordinario capitale sociale.

Mercati preoccupati per l’economia italiana. La crisi di fiducia colpisce imprese e ceti deboli

“Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”. Sono parole di Martin Wolf, autorevole editorialista del “Financial Times”. E sono state al centro di uno del passaggi fondamentali del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a metà settembre, all’assemblea annuale di Confindustria (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), dedicato a chiarire, alla luce della Costituzione, i valori e le responsabilità dell’impresa nel promuovere lavoro e benessere e nell’essere parte essenziale di un capitale sociale in cui la competitività si lega con la solidarietà, la produttività con la promozione e l’inclusione sociale.

Mercato. E fiducia. Relazioni di lungo periodo. E istituzioni in grado di garantire quella fiducia e di promuovere scambi senza eccessivi squilibri né asimmetrie informative, diseguaglianze forti tra chi conosce le condizioni della situazione economica e chi invece le subisce. Né dirigismo né sovranismo economico, dunque. Né “finanza di rapina” né corsa al profitto a discapito della sicurezza sul lavoro.

C’è infatti un filo robusto che lega l’intraprendenza individuale alla consapevolezza d’essere parte di una comunità. E, come insegna la migliore letteratura economica del Novecento (i cui riflessi animano la nostra Costituzione), sviluppo economico, welfare e democrazia sono reciprocamente legati. Una frattura tra loro blocca la crescita, altera negativamente gli equilibri sociali e, in fin dei conti, manda in frantumi il patto sociale su cui si regge, appunto, la democrazia liberale, con il suo intreccio virtuoso di diritti e doveri.

L’economia civile (che comprende impresa, mercato e spirito di comunità e cittadinanza) è l’orizzonte indicato da Mattarella, ricordando la sapiente e lungimirante lezione dell’illuminismo napoletano. Che vale la pena leggere anche come economia “circolare”, “giusta”, “sostenibile”, con sintesi in cui si ritrovano i valori liberali, il pensiero sociale cattolico e il riformismo socialista, le grandi correnti ideali e politiche che stanno alla base della Costituzione.

Mercato, dunque. Da fare funzionare bene, come spazio fisico e virtuale aperto e ben regolato, trasparente e accessibile, controllato e garantito da sanzioni che colpiscono chi infrange le regole. È costituito su un valore che non si può tradire, pena la crisi del mercato stesso: la fiducia. La fiducia degli investitori e dei risparmiatori. La fiducia reciproca tra gli attori economici. La fiducia tra gli operatori e le autorità pubbliche che stabiliscono le condizioni e le norme per gli investimenti e i controlli correlati. La fiducia nelle informazioni secondo cui si fanno le scelte.

Le nostre imprese, di tutto ciò, sono fortemente consapevoli. Vivono sui mercati, europei e internazionali. Dai mercati aperti ed efficienti dipendono per le loro merci, nelle nicchie a maggior valore aggiunto (proprio dove, cioè, la fiducia è un valore ancora più essenziale). Sui mercati recuperano capitali e sui mercati investono in altre imprese all’estero. E sanno bene che mettere in crisi la fiducia sui mercati significa ritrovarsi fortemente indebolite di fronte a una concorrenza sempre più dura, selettiva, severa.

Purtroppo, c’è aria di crisi di fiducia, in queste settimane, in Italia. Il “Financial Times”, a metà della scorsa settimana, dando voce alle preoccupazioni degli investitori internazionali, ha criticato gli emendamenti del disegno di legge Capitali che potrebbero alterare la dialettica tra maggioranze e minoranze azionarie delle società, mettendone in crisi la governabilità. Altre critiche si sono levate contro le norme preparate in ambienti di governo sui crediti deteriorati, considerate “distorsive del mercato dei capitali” (secondo il Center of European Law and Finance). E le severe contestazioni delle banche contro le tasse sui cosiddetti “extraprofitti” hanno costretto il governo a una chiara marcia indietro sul provvedimento, lasciando comunque una scia di perplessità che non fa affatto bene al mercato.

L’andamento dello spread tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi (ma anche rispetto a quelli della Grecia, più apprezzati dei nostri e dunque meno costosi) è testimone di questo stato di cose. “Sfiducia Italia”, titola “La Stampa” (21 settembre). Polemiche giornalistiche a parte, è evidente, proprio sui mercati finanziari, l’aumento delle perplessità sulle scelte di un governo che alza il tono delle polemiche con la Ue, continua a non sottoscrivere il Mes, parla di rinvio della riforma del Patto di Stabilità e si muove su partite economiche delicate (Ita, Tim, etc.) sollevando più critiche e timori di quanto non alimenti certezze di lungo periodo. E l’incertezza del decisore politico è tra le preoccupazioni più diffuse sui mercati, allontanando gli investitori che potrebbero guardare con interesse al nostro Paese.

Vale la pena, per avere un’autorevole evidenza degli umori, leggere le parole di Robert Shiller, professore a Yale, premio Nobel per l’economia 2013: “Gli investitori internazionali sono delusi. Troppa improvvisazione” (“la Repubblica”, 24 settembre). E ancora, con un giudizio politicamente trasversale: “Il populismo, di destra e di sinistra, rappresenta l’esatto contrario di quello che la fonetica sembra indicare: è il male di un popolo che non crede in se stesso: e di una classe politica che rinuncia a governarlo secondo una linea precisa, bensì con misure estemporanee o prive di logica. Il risultato è una narrazione erratica, che non aiuta la crescita”.

Vanno ascoltati, insomma, i mercati internazionali. Soprattutto in un paese, come l’Italia, che ha bisogno di riscuotere solida fiducia all’estero per vendere i suoi prodotti (la nostra crescita dipende fortemente dall’export) ma anche per raccogliere risorse per finanziare il proprio altissimo debito pubblico. E, naturalmente, per attrarre investimenti qualificati per imprese che creino sviluppo, lavoro e benessere.

Parlando di mercati, c’è un’altra tendenza da cui guardarsi: quella di chi gioca a contrapporre i mercati finanziari internazionali con i “mercati rionali” ovvero gli “speculatori” rappresentati da banche e Borse e il popolo. Se n’era fatto interprete, molti anni fa, un politico abitualmente dotato di verve polemica, Clemente Mastella, che nel 1994, da ministro del Lavoro nel primo governo Berlusconi, aveva proclamato: “C’è chi voleva guardare solo ai mercati internazionali, questa cosa che tutti richiamano ma nessuno sa dove sta. Io ho guardato anche a quelli rionali, dove alla vecchina posso dire che ho salvaguardato le pensioni”.

Nel tempo, Mastella era stato emulato da parlamentari ed esponenti di governo sia di centro-destra che di centro-sinistra.

Ma la frase “Noi stiamo con i mercati rionali e non con quelli finanziari” fa effetto, va benissimo nella retorica della polemica sui social media o in Tv. Non risponde, però, alla realtà. E dunque contribuisce a fare danno proprio a chi frequenta “i mercati rionali”.

L’andamento del potere d’acquisto di salari e pensioni, infatti, dipende anche dal costo del denaro (influenzato dalla spread), dall’andamento dell’inflazione, dai livelli di crescita economica fortemente sensibile anche agli investimenti internazionali che influenzano il benessere diffuso. In poche parole, dal clima di fiducia che orienta i mercati. Tutti. Da quelli internazionali a quelli rionali, un passo dopo l’altro.

Mercati da capire e rispettare, dunque. Perché ne va dello stato di salute della nostra economia. E della qualità di vita della comunità.

(Foto: Getty Images)

“Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”. Sono parole di Martin Wolf, autorevole editorialista del “Financial Times”. E sono state al centro di uno del passaggi fondamentali del discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a metà settembre, all’assemblea annuale di Confindustria (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), dedicato a chiarire, alla luce della Costituzione, i valori e le responsabilità dell’impresa nel promuovere lavoro e benessere e nell’essere parte essenziale di un capitale sociale in cui la competitività si lega con la solidarietà, la produttività con la promozione e l’inclusione sociale.

Mercato. E fiducia. Relazioni di lungo periodo. E istituzioni in grado di garantire quella fiducia e di promuovere scambi senza eccessivi squilibri né asimmetrie informative, diseguaglianze forti tra chi conosce le condizioni della situazione economica e chi invece le subisce. Né dirigismo né sovranismo economico, dunque. Né “finanza di rapina” né corsa al profitto a discapito della sicurezza sul lavoro.

C’è infatti un filo robusto che lega l’intraprendenza individuale alla consapevolezza d’essere parte di una comunità. E, come insegna la migliore letteratura economica del Novecento (i cui riflessi animano la nostra Costituzione), sviluppo economico, welfare e democrazia sono reciprocamente legati. Una frattura tra loro blocca la crescita, altera negativamente gli equilibri sociali e, in fin dei conti, manda in frantumi il patto sociale su cui si regge, appunto, la democrazia liberale, con il suo intreccio virtuoso di diritti e doveri.

L’economia civile (che comprende impresa, mercato e spirito di comunità e cittadinanza) è l’orizzonte indicato da Mattarella, ricordando la sapiente e lungimirante lezione dell’illuminismo napoletano. Che vale la pena leggere anche come economia “circolare”, “giusta”, “sostenibile”, con sintesi in cui si ritrovano i valori liberali, il pensiero sociale cattolico e il riformismo socialista, le grandi correnti ideali e politiche che stanno alla base della Costituzione.

Mercato, dunque. Da fare funzionare bene, come spazio fisico e virtuale aperto e ben regolato, trasparente e accessibile, controllato e garantito da sanzioni che colpiscono chi infrange le regole. È costituito su un valore che non si può tradire, pena la crisi del mercato stesso: la fiducia. La fiducia degli investitori e dei risparmiatori. La fiducia reciproca tra gli attori economici. La fiducia tra gli operatori e le autorità pubbliche che stabiliscono le condizioni e le norme per gli investimenti e i controlli correlati. La fiducia nelle informazioni secondo cui si fanno le scelte.

Le nostre imprese, di tutto ciò, sono fortemente consapevoli. Vivono sui mercati, europei e internazionali. Dai mercati aperti ed efficienti dipendono per le loro merci, nelle nicchie a maggior valore aggiunto (proprio dove, cioè, la fiducia è un valore ancora più essenziale). Sui mercati recuperano capitali e sui mercati investono in altre imprese all’estero. E sanno bene che mettere in crisi la fiducia sui mercati significa ritrovarsi fortemente indebolite di fronte a una concorrenza sempre più dura, selettiva, severa.

Purtroppo, c’è aria di crisi di fiducia, in queste settimane, in Italia. Il “Financial Times”, a metà della scorsa settimana, dando voce alle preoccupazioni degli investitori internazionali, ha criticato gli emendamenti del disegno di legge Capitali che potrebbero alterare la dialettica tra maggioranze e minoranze azionarie delle società, mettendone in crisi la governabilità. Altre critiche si sono levate contro le norme preparate in ambienti di governo sui crediti deteriorati, considerate “distorsive del mercato dei capitali” (secondo il Center of European Law and Finance). E le severe contestazioni delle banche contro le tasse sui cosiddetti “extraprofitti” hanno costretto il governo a una chiara marcia indietro sul provvedimento, lasciando comunque una scia di perplessità che non fa affatto bene al mercato.

L’andamento dello spread tra i titoli pubblici italiani e quelli tedeschi (ma anche rispetto a quelli della Grecia, più apprezzati dei nostri e dunque meno costosi) è testimone di questo stato di cose. “Sfiducia Italia”, titola “La Stampa” (21 settembre). Polemiche giornalistiche a parte, è evidente, proprio sui mercati finanziari, l’aumento delle perplessità sulle scelte di un governo che alza il tono delle polemiche con la Ue, continua a non sottoscrivere il Mes, parla di rinvio della riforma del Patto di Stabilità e si muove su partite economiche delicate (Ita, Tim, etc.) sollevando più critiche e timori di quanto non alimenti certezze di lungo periodo. E l’incertezza del decisore politico è tra le preoccupazioni più diffuse sui mercati, allontanando gli investitori che potrebbero guardare con interesse al nostro Paese.

Vale la pena, per avere un’autorevole evidenza degli umori, leggere le parole di Robert Shiller, professore a Yale, premio Nobel per l’economia 2013: “Gli investitori internazionali sono delusi. Troppa improvvisazione” (“la Repubblica”, 24 settembre). E ancora, con un giudizio politicamente trasversale: “Il populismo, di destra e di sinistra, rappresenta l’esatto contrario di quello che la fonetica sembra indicare: è il male di un popolo che non crede in se stesso: e di una classe politica che rinuncia a governarlo secondo una linea precisa, bensì con misure estemporanee o prive di logica. Il risultato è una narrazione erratica, che non aiuta la crescita”.

Vanno ascoltati, insomma, i mercati internazionali. Soprattutto in un paese, come l’Italia, che ha bisogno di riscuotere solida fiducia all’estero per vendere i suoi prodotti (la nostra crescita dipende fortemente dall’export) ma anche per raccogliere risorse per finanziare il proprio altissimo debito pubblico. E, naturalmente, per attrarre investimenti qualificati per imprese che creino sviluppo, lavoro e benessere.

Parlando di mercati, c’è un’altra tendenza da cui guardarsi: quella di chi gioca a contrapporre i mercati finanziari internazionali con i “mercati rionali” ovvero gli “speculatori” rappresentati da banche e Borse e il popolo. Se n’era fatto interprete, molti anni fa, un politico abitualmente dotato di verve polemica, Clemente Mastella, che nel 1994, da ministro del Lavoro nel primo governo Berlusconi, aveva proclamato: “C’è chi voleva guardare solo ai mercati internazionali, questa cosa che tutti richiamano ma nessuno sa dove sta. Io ho guardato anche a quelli rionali, dove alla vecchina posso dire che ho salvaguardato le pensioni”.

Nel tempo, Mastella era stato emulato da parlamentari ed esponenti di governo sia di centro-destra che di centro-sinistra.

Ma la frase “Noi stiamo con i mercati rionali e non con quelli finanziari” fa effetto, va benissimo nella retorica della polemica sui social media o in Tv. Non risponde, però, alla realtà. E dunque contribuisce a fare danno proprio a chi frequenta “i mercati rionali”.

L’andamento del potere d’acquisto di salari e pensioni, infatti, dipende anche dal costo del denaro (influenzato dalla spread), dall’andamento dell’inflazione, dai livelli di crescita economica fortemente sensibile anche agli investimenti internazionali che influenzano il benessere diffuso. In poche parole, dal clima di fiducia che orienta i mercati. Tutti. Da quelli internazionali a quelli rionali, un passo dopo l’altro.

Mercati da capire e rispettare, dunque. Perché ne va dello stato di salute della nostra economia. E della qualità di vita della comunità.

(Foto: Getty Images)

Prima di tutto, l’impresa competente

L’analisi della relazioni strette tra fattore umano e innovazione tecnologica trova sintesi in un libro appena pubblicato

L’uomo prima di tutto. Anche in un’epoca in cui la trasformazione digitale della produzione (e in molti casi quasi anche dalla stessa nostra vita), appare farla da padrona. Eppure, alla fine di ogni “storia d’impresa”, ciò che più conta è quello che tecnicamente si indica come “fattore umano”: donne, uomini, giovani, anziani che riescono comunque a mettere l’ultima parola. Non, si badi bene, il trionfo della tecnologia a tutti i costi e nemmeno quello dell’umanità, ma qualcosa di diverso, più complesso e pervasivo. Comprendere questo insieme contraddittorio e reale di condizioni, è determinante per capire dove davvero va l’impresa (e quali strumenti usare per farla andare nella direzione voluta). Attorno a questo nodo importante di temi hanno ragionato – con chiarezza ed efficacia -, Tatiana Mazali (sociologa esperta di processi culturali e comunicativi), Paolo Neirotti (ingegnere specializzato in strategia e organizzazione) e Giuseppe Scellato (economista) scrivendo a sei mani “L’impresa competente. Scelte manageriali, lavoro e innovazione digitale”.

Il punto di partenza è la constatazione della complessità di quanto sta accadendo con la trasformazione chiamata Quarta rivoluzione industriale: qualcosa di ancora poco studiato e in cui accanto alle ipertecnologie continua ad avere un ruolo determinante il fattore umano. La capacità dell’uomo di favorire oppure ostacolare l’innovazione è il centro dei ragionamenti di Mazali, Neirotti e Scellato che affrontano il tema mettendo insieme quanto origina dalla sociologia, dagli studi organizzativi dall’economia dell’innovazione.

Al centro, dunque, sono le persone che emergono con le loro competenze ed esperienze, gli atteggiamenti, le storie di vita, le aspirazioni di futuro. Gli autori affrontano questo insieme di argomenti facendo sintesi di diversi anni di analisi ma soprattutto attraverso gli esiti di una ricerca sul campo che ha voluto indagare quale sia oggi il rapporto fra tecnologie e competenze.

Il libro di poco più di 150 pagine inizia con una fotografia della trasformazione che sta avvenendo e poi continua in tre tappe: gli investimenti digitali delle imprese e le competenze che occorrono, il cambiamento delle stesse competenze, l’approfondimento delle relazioni tra innovazione, formazione e organizzazione. Nel libro anche una serie importante di testimonianze dall’interno delle imprese (di ogni tipologia e dimensione) che arricchisce e completa la teoria.

Il libro di Mazali, Neirotti e Scellato (che beneficia anche della cura editoriale di Annalisa Magone), affronta davvero un tema complesso e in continuo cambiamento, ma lo fa cercando di porre dei paletti utili per la comprensione e, soprattutto, per la creazione di una cassetta di attrezzi che accompagnino chi legge anche oltre il libro stesso.

L’impresa competente. Scelte manageriali, lavoro e innovazione digitale

Tatiana Mazali, Paolo Neirotti, Giuseppe Scellato

Marsilio, 2023

Preprints202309.1064.v1 2023-09-24 15_23_56

L’analisi della relazioni strette tra fattore umano e innovazione tecnologica trova sintesi in un libro appena pubblicato

L’uomo prima di tutto. Anche in un’epoca in cui la trasformazione digitale della produzione (e in molti casi quasi anche dalla stessa nostra vita), appare farla da padrona. Eppure, alla fine di ogni “storia d’impresa”, ciò che più conta è quello che tecnicamente si indica come “fattore umano”: donne, uomini, giovani, anziani che riescono comunque a mettere l’ultima parola. Non, si badi bene, il trionfo della tecnologia a tutti i costi e nemmeno quello dell’umanità, ma qualcosa di diverso, più complesso e pervasivo. Comprendere questo insieme contraddittorio e reale di condizioni, è determinante per capire dove davvero va l’impresa (e quali strumenti usare per farla andare nella direzione voluta). Attorno a questo nodo importante di temi hanno ragionato – con chiarezza ed efficacia -, Tatiana Mazali (sociologa esperta di processi culturali e comunicativi), Paolo Neirotti (ingegnere specializzato in strategia e organizzazione) e Giuseppe Scellato (economista) scrivendo a sei mani “L’impresa competente. Scelte manageriali, lavoro e innovazione digitale”.

Il punto di partenza è la constatazione della complessità di quanto sta accadendo con la trasformazione chiamata Quarta rivoluzione industriale: qualcosa di ancora poco studiato e in cui accanto alle ipertecnologie continua ad avere un ruolo determinante il fattore umano. La capacità dell’uomo di favorire oppure ostacolare l’innovazione è il centro dei ragionamenti di Mazali, Neirotti e Scellato che affrontano il tema mettendo insieme quanto origina dalla sociologia, dagli studi organizzativi dall’economia dell’innovazione.

Al centro, dunque, sono le persone che emergono con le loro competenze ed esperienze, gli atteggiamenti, le storie di vita, le aspirazioni di futuro. Gli autori affrontano questo insieme di argomenti facendo sintesi di diversi anni di analisi ma soprattutto attraverso gli esiti di una ricerca sul campo che ha voluto indagare quale sia oggi il rapporto fra tecnologie e competenze.

Il libro di poco più di 150 pagine inizia con una fotografia della trasformazione che sta avvenendo e poi continua in tre tappe: gli investimenti digitali delle imprese e le competenze che occorrono, il cambiamento delle stesse competenze, l’approfondimento delle relazioni tra innovazione, formazione e organizzazione. Nel libro anche una serie importante di testimonianze dall’interno delle imprese (di ogni tipologia e dimensione) che arricchisce e completa la teoria.

Il libro di Mazali, Neirotti e Scellato (che beneficia anche della cura editoriale di Annalisa Magone), affronta davvero un tema complesso e in continuo cambiamento, ma lo fa cercando di porre dei paletti utili per la comprensione e, soprattutto, per la creazione di una cassetta di attrezzi che accompagnino chi legge anche oltre il libro stesso.

L’impresa competente. Scelte manageriali, lavoro e innovazione digitale

Tatiana Mazali, Paolo Neirotti, Giuseppe Scellato

Marsilio, 2023

Preprints202309.1064.v1 2023-09-24 15_23_56

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