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Cultura, genere e impresa, intreccio virtuoso

Sintetizzati in un articolo le relazioni importanti tra elementi solo in apparenza diversi delle organizzazioni della produzione

Capire il senso vero dell’impresa dalle persone che la animano e la rendono viva. Questione di cultura e di approccio conseguente. Tema che deve prendere forma dal contesto in cui l’impresa nasce e cresce, dalla cultura più ampia in cui si muove, dal territorio, dalla sua storia, dalle persone che lo vivono.  Relazioni complesse quelle tra cultura, umanità e impresa. Rapporti che vanno compresi e attorno ai quali ragiona Emmanuel Adeyemi con il suo “Culture, Gender, and Business” contributo da poco pubblicato che sottolinea, appunto, l’importanza “di – scrive lo stesso autore -, comprendere come questi fattori si intersecano e influenzano vari aspetti del mondo degli affari, comprese le pratiche organizzative, gli stili di leadership, le dinamiche del posto di lavoro e i risultati economici”.

Adeyemi esplora quindi il modo in cui i fattori culturali modellano i ruoli, le aspettative e le opportunità di genere nel contesto aziendale; e discute le implicazioni delle influenze culturali sulla partecipazione, sul progresso e sulle esperienze complessive delle donne nel mondo degli affari. La ricerca si compone di tre parti fondamentali. La prima, approfondisce i casi della cultura e delle imprese in Paesi come Cina, India, Israele, Giappone. La seconda tocca le relazioni tra il fare impresa e la religione. La terza parte approfondisce la questione di genere nelle organizzazioni della produzione.

Comprendere l’interazione tra cultura, genere e impresa – la conclusione di Emmanuel Adeyemi -, è essenziale non solo per promuovere luoghi di lavoro inclusivi e diversificati. Le organizzazioni che abbracciano la diversità culturale e l’uguaglianza di genere, viene precisato, “tendono a mostrare maggiore creatività, innovazione e adattabilità. Beneficiano inoltre di una maggiore soddisfazione dei dipendenti, di migliori processi decisionali e di migliori prestazioni finanziarie”.

L’analisi di Emmanuel Adeyemi ha il merito di sintetizzare in poche pagine chiare un tema complesso e  in evoluzione, che deve essere recepito per davvero nelle aziende e che ha l’effetto di cambiare radicalmente la cultura del produrre.

 

Culture, Gender, and Business

Adeyemi Emmanuel

M.A History and Strategic Studies, University of Lagos, Akoka.

 

Sintetizzati in un articolo le relazioni importanti tra elementi solo in apparenza diversi delle organizzazioni della produzione

Capire il senso vero dell’impresa dalle persone che la animano e la rendono viva. Questione di cultura e di approccio conseguente. Tema che deve prendere forma dal contesto in cui l’impresa nasce e cresce, dalla cultura più ampia in cui si muove, dal territorio, dalla sua storia, dalle persone che lo vivono.  Relazioni complesse quelle tra cultura, umanità e impresa. Rapporti che vanno compresi e attorno ai quali ragiona Emmanuel Adeyemi con il suo “Culture, Gender, and Business” contributo da poco pubblicato che sottolinea, appunto, l’importanza “di – scrive lo stesso autore -, comprendere come questi fattori si intersecano e influenzano vari aspetti del mondo degli affari, comprese le pratiche organizzative, gli stili di leadership, le dinamiche del posto di lavoro e i risultati economici”.

Adeyemi esplora quindi il modo in cui i fattori culturali modellano i ruoli, le aspettative e le opportunità di genere nel contesto aziendale; e discute le implicazioni delle influenze culturali sulla partecipazione, sul progresso e sulle esperienze complessive delle donne nel mondo degli affari. La ricerca si compone di tre parti fondamentali. La prima, approfondisce i casi della cultura e delle imprese in Paesi come Cina, India, Israele, Giappone. La seconda tocca le relazioni tra il fare impresa e la religione. La terza parte approfondisce la questione di genere nelle organizzazioni della produzione.

Comprendere l’interazione tra cultura, genere e impresa – la conclusione di Emmanuel Adeyemi -, è essenziale non solo per promuovere luoghi di lavoro inclusivi e diversificati. Le organizzazioni che abbracciano la diversità culturale e l’uguaglianza di genere, viene precisato, “tendono a mostrare maggiore creatività, innovazione e adattabilità. Beneficiano inoltre di una maggiore soddisfazione dei dipendenti, di migliori processi decisionali e di migliori prestazioni finanziarie”.

L’analisi di Emmanuel Adeyemi ha il merito di sintetizzare in poche pagine chiare un tema complesso e  in evoluzione, che deve essere recepito per davvero nelle aziende e che ha l’effetto di cambiare radicalmente la cultura del produrre.

 

Culture, Gender, and Business

Adeyemi Emmanuel

M.A History and Strategic Studies, University of Lagos, Akoka.

 

“Oltre la pista: la Formula Uno e i pneumatici che ne hanno rivoluzionato la storia”

Fondazione Pirelli ad Archivi Aperti 2023

È in programma dal 13 al 22 ottobre Archivi Aperti, la manifestazione promossa da Rete Fotografia giunta quest’anno alla IX edizione. Il tema del 2023 sarà “Gli archivi dei fotografi italiani: un patrimonio da valorizzare”.

Per questa iniziativa Fondazione Pirelli propone visite guidate alla mostra “Oltre la pista: la Formula Uno e i pneumatici che ne hanno rivoluzionato la storia”, dedicata alla storia dell’azienda nelle competizioni e dei prodotti sviluppati per le gare. Sarà l’occasione per approfondire la conoscenza, attraverso i materiali originali d’archivio, dei fotografi e delle agenzie che hanno immortalato l’impegno di Pirelli nel mondo delle corse automobilistiche e il loro rapporto di committenza con l’azienda.

Sono infatti migliaia gli scatti impressi su molteplici supporti (positivi, negativi, diapositive) che compongono il ricco fondo fotografico conservato nel nostro Archivio Storico e che ripercorrono oltre cento anni di successi nel motorsport, di ricerca tecnologica e di collaborazioni su pista e su strada, tracciando la progettazione e lo sviluppo di pneumatici che hanno fatto la storia in questo settore: dallo Stella Bianca allo Stelvio, passando dal P7 al P Zero, fino al recentissimo P Zero E.

Questo patrimonio documenta il prezioso contributo di tecnici e ingegneri di Pirelli nel backstage del campionato di F1 1 negli anni in cui è presente in questa importante competizione,  dal 1950 al 1956  e dal 1981 al 1991 (prima del rientro nel 2011) ei successi dei piloti che hanno fatto grande la storia del motosport: da Nigel Mansel a Micheal Schumacher che hanno guidato e vinto sui circuiti più importanti del mondo.  Una storia anche di grandi nomi della fotografia a cui Pirelli ha commissionato servizi fotografici e che negli anni sono diventati punto di riferimento nel mondo delle corse. Dall’agenzia Foto Strazza – uno dei più famosi studi in ambito sportivo – a Federico Patellani, grande fotografo che ha firmato le prime copertine della Rivista Pirelli nei primi anni ’50. Per poi arrivare, in anni recenti, alle agenzie italiane, come lo Studio Colombo ed Europhotocine, e alle realtà internazionali con cui Pirelli tutt’ora collabora.

Le visite guidate sono programmate su due turni con inizio alle ore 17 e 18.30 con ingresso da Viale Sarca 220 a Milano.

L’ingresso è gratuito e su prenotazione fino a esaurimento posti, iscrivendosi tramite il seguente link di prenotazione:

Oltre la pista: la Formula Uno e i pneumatici che ne hanno rivoluzionato la storia Archivi Aperti 2023 – Fondazione Pirelli

Fondazione Pirelli ad Archivi Aperti 2023

È in programma dal 13 al 22 ottobre Archivi Aperti, la manifestazione promossa da Rete Fotografia giunta quest’anno alla IX edizione. Il tema del 2023 sarà “Gli archivi dei fotografi italiani: un patrimonio da valorizzare”.

Per questa iniziativa Fondazione Pirelli propone visite guidate alla mostra “Oltre la pista: la Formula Uno e i pneumatici che ne hanno rivoluzionato la storia”, dedicata alla storia dell’azienda nelle competizioni e dei prodotti sviluppati per le gare. Sarà l’occasione per approfondire la conoscenza, attraverso i materiali originali d’archivio, dei fotografi e delle agenzie che hanno immortalato l’impegno di Pirelli nel mondo delle corse automobilistiche e il loro rapporto di committenza con l’azienda.

Sono infatti migliaia gli scatti impressi su molteplici supporti (positivi, negativi, diapositive) che compongono il ricco fondo fotografico conservato nel nostro Archivio Storico e che ripercorrono oltre cento anni di successi nel motorsport, di ricerca tecnologica e di collaborazioni su pista e su strada, tracciando la progettazione e lo sviluppo di pneumatici che hanno fatto la storia in questo settore: dallo Stella Bianca allo Stelvio, passando dal P7 al P Zero, fino al recentissimo P Zero E.

Questo patrimonio documenta il prezioso contributo di tecnici e ingegneri di Pirelli nel backstage del campionato di F1 1 negli anni in cui è presente in questa importante competizione,  dal 1950 al 1956  e dal 1981 al 1991 (prima del rientro nel 2011) ei successi dei piloti che hanno fatto grande la storia del motosport: da Nigel Mansel a Micheal Schumacher che hanno guidato e vinto sui circuiti più importanti del mondo.  Una storia anche di grandi nomi della fotografia a cui Pirelli ha commissionato servizi fotografici e che negli anni sono diventati punto di riferimento nel mondo delle corse. Dall’agenzia Foto Strazza – uno dei più famosi studi in ambito sportivo – a Federico Patellani, grande fotografo che ha firmato le prime copertine della Rivista Pirelli nei primi anni ’50. Per poi arrivare, in anni recenti, alle agenzie italiane, come lo Studio Colombo ed Europhotocine, e alle realtà internazionali con cui Pirelli tutt’ora collabora.

Le visite guidate sono programmate su due turni con inizio alle ore 17 e 18.30 con ingresso da Viale Sarca 220 a Milano.

L’ingresso è gratuito e su prenotazione fino a esaurimento posti, iscrivendosi tramite il seguente link di prenotazione:

Oltre la pista: la Formula Uno e i pneumatici che ne hanno rivoluzionato la storia Archivi Aperti 2023 – Fondazione Pirelli

Al via il nuovo programma didattico 2023-2024 di Fondazione Pirelli Educational

Pirelli in Indonesia: dalle prime piantagioni di caucciù a modello di responsabilità sociale

La storia del legame tra l’azienda milanese e l’Indonesia risale a oltre un secolo fa. È infatti dai primi del XX secolo che Pirelli inizia ad acquistare ettari di terreno coltivati con alberi della gomma nel sud-est asiatico. Proprietà di cui andare orgogliosi, come testimonia, nel 1922, un cartello disegnato con cura a china che rappresenta tutte le sedi dell’azienda – tra siti produttivi, commerciali e piantagioni, appunto – e nei suoi primi cinquant’anni di attività. Piantagioni fotografate anche da Girolamo Bombelli, i cui scatti indonesiani sono raccolti in due album conservati nel nostro Archivio Storico. Istantanee che già allora evocavano orgoglio e cura, anche nella produzione della materia prima. Soggetti, quelli delle piantagioni, che nel 1963 sono stati protagonisti di un altro servizio fotografico, questa volta di Fulvio Roiter, per la Rivista Pirelli. E non potrebbe che essere così, visto che per Pirelli la gomma naturale è un ingrediente di primaria importanza per la produzione dei propri pneumatici. Fin dagli inizi dell’attività, gli ingegneri Pirelli hanno percorso il mondo con l’obiettivo di trovare le piantagioni migliori di caucciù. Ricerca della qualità unita all’attenzione all’ambiente e alla sostenibilità lungo tutto il ciclo di vita del prodotto. E rispetto per le persone. Un approccio che da sempre contraddistingue Pirelli, un modello che coinvolge tutti i paesi dove l’azienda è presente.

L’attenzione alla sostenibilità trova in Indonesia uno dei più concreti esempi, a partire dalla formazione dei contadini dediti alla coltivazione dell’albero della gomma e alla raccolta del caucciù. Agricoltori che fanno un mestiere complesso e delicato e che sono il primo anello di una catena di qualità che porta fino al prodotto finale, il pneumatico. Oggi Pirelli acquista la gomma naturale da aziende che fungono da “processori”, che comprano cioè la gomma naturale grezza direttamente dai farmer e la lavorano per renderla utilizzabile dall’industria. In particolare, nel 2014 Pirelli ha stretto un legame con Kirana Megatara, un’azienda che possiede il 18% circa del mercato indonesiano della gomma naturale. Collaborazione che va ben oltre il rapporto commerciale. E l’ingrediente in più si chiama responsabilità sociale d’impresa. Le due aziende, infatti, sono attive nell’ambito delle iniziative di sostenibilità a favore dei coltivatori locali e delle loro famiglie, come quelle che riguardano la formazione e il diritto allo studio. Ogni anno, infatti, vengono erogate borse di studio in favore dei figli dei contadini per aiutarli nella loro crescita culturale e lavorativa; e ogni anno si concentra l’attenzione dell’azienda sulle ricadute ambientali delle coltivazioni. Tutto senza trascurare altre occasioni di coesione aziendale, come la tapping competition, una vera gara tra i miglior intagliatori di alberi della gomma che ha però anche lo scopo di diffondere consapevolezza tra i farmer circa le migliori tecniche di coltivazione e intaglio, necessarie per ottenere un prodotto sempre più puro.

L’esperienza di Pirelli in Indonesia, tuttavia, non si ferma qui. Accanto alla produzione di materia prima di eccellenza, dall’aprile del 2012 la joint venture con Astra Otoparts ha dato il via alla produzione di pneumatici per motociclette destinati al mercato del sud est asiatico con un ruolo importante nell’ambito della produzione mondiale di pneumatici con la P Lunga.

Il 28 ottobre 2021, poi, è stato avviato un progetto triennale nella foresta indonesiana di Hutan Harapan, in collaborazione con BMW Group e BirdLife International, che prevede attività a supporto delle comunità locali, della conservazione delle foreste e della protezione di specie animali a rischio.

Efficienza e sostenibilità, quindi, come leve di competitività, ma anche fondamenti di una cultura attenta a tutti gli aspetti della produzione industriale. Pirelli in Indonesia lo dimostra.

La storia del legame tra l’azienda milanese e l’Indonesia risale a oltre un secolo fa. È infatti dai primi del XX secolo che Pirelli inizia ad acquistare ettari di terreno coltivati con alberi della gomma nel sud-est asiatico. Proprietà di cui andare orgogliosi, come testimonia, nel 1922, un cartello disegnato con cura a china che rappresenta tutte le sedi dell’azienda – tra siti produttivi, commerciali e piantagioni, appunto – e nei suoi primi cinquant’anni di attività. Piantagioni fotografate anche da Girolamo Bombelli, i cui scatti indonesiani sono raccolti in due album conservati nel nostro Archivio Storico. Istantanee che già allora evocavano orgoglio e cura, anche nella produzione della materia prima. Soggetti, quelli delle piantagioni, che nel 1963 sono stati protagonisti di un altro servizio fotografico, questa volta di Fulvio Roiter, per la Rivista Pirelli. E non potrebbe che essere così, visto che per Pirelli la gomma naturale è un ingrediente di primaria importanza per la produzione dei propri pneumatici. Fin dagli inizi dell’attività, gli ingegneri Pirelli hanno percorso il mondo con l’obiettivo di trovare le piantagioni migliori di caucciù. Ricerca della qualità unita all’attenzione all’ambiente e alla sostenibilità lungo tutto il ciclo di vita del prodotto. E rispetto per le persone. Un approccio che da sempre contraddistingue Pirelli, un modello che coinvolge tutti i paesi dove l’azienda è presente.

L’attenzione alla sostenibilità trova in Indonesia uno dei più concreti esempi, a partire dalla formazione dei contadini dediti alla coltivazione dell’albero della gomma e alla raccolta del caucciù. Agricoltori che fanno un mestiere complesso e delicato e che sono il primo anello di una catena di qualità che porta fino al prodotto finale, il pneumatico. Oggi Pirelli acquista la gomma naturale da aziende che fungono da “processori”, che comprano cioè la gomma naturale grezza direttamente dai farmer e la lavorano per renderla utilizzabile dall’industria. In particolare, nel 2014 Pirelli ha stretto un legame con Kirana Megatara, un’azienda che possiede il 18% circa del mercato indonesiano della gomma naturale. Collaborazione che va ben oltre il rapporto commerciale. E l’ingrediente in più si chiama responsabilità sociale d’impresa. Le due aziende, infatti, sono attive nell’ambito delle iniziative di sostenibilità a favore dei coltivatori locali e delle loro famiglie, come quelle che riguardano la formazione e il diritto allo studio. Ogni anno, infatti, vengono erogate borse di studio in favore dei figli dei contadini per aiutarli nella loro crescita culturale e lavorativa; e ogni anno si concentra l’attenzione dell’azienda sulle ricadute ambientali delle coltivazioni. Tutto senza trascurare altre occasioni di coesione aziendale, come la tapping competition, una vera gara tra i miglior intagliatori di alberi della gomma che ha però anche lo scopo di diffondere consapevolezza tra i farmer circa le migliori tecniche di coltivazione e intaglio, necessarie per ottenere un prodotto sempre più puro.

L’esperienza di Pirelli in Indonesia, tuttavia, non si ferma qui. Accanto alla produzione di materia prima di eccellenza, dall’aprile del 2012 la joint venture con Astra Otoparts ha dato il via alla produzione di pneumatici per motociclette destinati al mercato del sud est asiatico con un ruolo importante nell’ambito della produzione mondiale di pneumatici con la P Lunga.

Il 28 ottobre 2021, poi, è stato avviato un progetto triennale nella foresta indonesiana di Hutan Harapan, in collaborazione con BMW Group e BirdLife International, che prevede attività a supporto delle comunità locali, della conservazione delle foreste e della protezione di specie animali a rischio.

Efficienza e sostenibilità, quindi, come leve di competitività, ma anche fondamenti di una cultura attenta a tutti gli aspetti della produzione industriale. Pirelli in Indonesia lo dimostra.

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Territori d’impresa e non solo

Un nuovo contributo di Aldo Bonomi aiuta a capire sempre meglio cosa si muove tra società ed economia

 

Distretti prima, territori complessi dopo, “bioregioni urbane” adesso. Lo sforzo di comprensione di ciò che è accaduto e sta accadendo oggi, porta gli osservatori attenti ad approfondire modelli che sappiano spiegare la realtà con un senso compiuto. Esercizio non solo teorico, quello di capire i movimenti sociali ed economici nei territori. Sforzo di comprensione utile anche a chi fa impresa – imprenditore o manager che sia -, e cioè a chi ogni giorno deve confrontarsi (o scontrarsi) con ciò che è fuori (ma anche dentro) le fabbriche oppure gli uffici.

Per chi è impegnato nel complesso percorso che porta a capire meglio la realtà, fa bene leggere una delle ultime analisi di Aldo Bonomi – “Dai distretti sociali alle bioregioni urbane” -, che parte dai microcosmi individuati qualche anno fa e arriva, come dice il titolo stesso del suo intervento, alle “bioregioni” passando, appunto, per i distretti.

Bonomi, prima di tutto, approfondisce proprio l’idea di distretto,  e il suo forse eccessivo uso, per collegarla poi all’emergere del welfare come nuovi modello di sviluppo e di risposta alle difficoltà dell’economia e della società in generale. Distretto, dunque, come luogo fisico e non, dove “organizzare consapevolmente le aspirazioni comunitarie” avendo chiara l’importanza dei criteri umanistici da mettere in pratica. Qui, nell’analisi di Bonomi concetti come quello di sussidiarietà e “intelligenza comunitaria” calzano bene per sintetizzare le caratteristiche dei distretti.

Distretti, dunque, e poi piattaforme territoriali come sintesi di produzione ed “estrazione di valore”. Teorie che, lo scrive lo stesso Bonomi, si confrontano continuamente con “l’esperienza concreta sul campo” che può dare origine  anche ad “elementi di contrapposizione intrecciati a forma di cooptazione”.

Complessità, quindi, che comunque la fa da padrona. E territorio da assumere “come bene comune e capitale sociale”. Territorio che, con i distretti, è animato dall’ascolto, dalla presenza di attori specializzati, di luoghi riconoscibili, di tempi d’azione determinati. Ambiti in cui, sottolinea Bonomi, sempre di più il sociale prende spazio e autorevolezza. Un sociale che si inserisce tra welfare, produzione e politica e che può rappresentare una provocazione positiva un po’ per tutti, anche per la buona cultura d’impresa.

Leggere Aldo Bonomi è sempre qualcosa di impegnativo, ma anche di assolutamente utile e importante.

Dai distretti sociali alle bioregioni urbane

Aldo Bonomi

UP Best Practice in Scholarly Publishing (DOI 10.36253/fup_best_practice)

Aldo Bonomi, Dai distretti sociali alle bioregioni urbane, pp. 115-127, 2023

Un nuovo contributo di Aldo Bonomi aiuta a capire sempre meglio cosa si muove tra società ed economia

 

Distretti prima, territori complessi dopo, “bioregioni urbane” adesso. Lo sforzo di comprensione di ciò che è accaduto e sta accadendo oggi, porta gli osservatori attenti ad approfondire modelli che sappiano spiegare la realtà con un senso compiuto. Esercizio non solo teorico, quello di capire i movimenti sociali ed economici nei territori. Sforzo di comprensione utile anche a chi fa impresa – imprenditore o manager che sia -, e cioè a chi ogni giorno deve confrontarsi (o scontrarsi) con ciò che è fuori (ma anche dentro) le fabbriche oppure gli uffici.

Per chi è impegnato nel complesso percorso che porta a capire meglio la realtà, fa bene leggere una delle ultime analisi di Aldo Bonomi – “Dai distretti sociali alle bioregioni urbane” -, che parte dai microcosmi individuati qualche anno fa e arriva, come dice il titolo stesso del suo intervento, alle “bioregioni” passando, appunto, per i distretti.

Bonomi, prima di tutto, approfondisce proprio l’idea di distretto,  e il suo forse eccessivo uso, per collegarla poi all’emergere del welfare come nuovi modello di sviluppo e di risposta alle difficoltà dell’economia e della società in generale. Distretto, dunque, come luogo fisico e non, dove “organizzare consapevolmente le aspirazioni comunitarie” avendo chiara l’importanza dei criteri umanistici da mettere in pratica. Qui, nell’analisi di Bonomi concetti come quello di sussidiarietà e “intelligenza comunitaria” calzano bene per sintetizzare le caratteristiche dei distretti.

Distretti, dunque, e poi piattaforme territoriali come sintesi di produzione ed “estrazione di valore”. Teorie che, lo scrive lo stesso Bonomi, si confrontano continuamente con “l’esperienza concreta sul campo” che può dare origine  anche ad “elementi di contrapposizione intrecciati a forma di cooptazione”.

Complessità, quindi, che comunque la fa da padrona. E territorio da assumere “come bene comune e capitale sociale”. Territorio che, con i distretti, è animato dall’ascolto, dalla presenza di attori specializzati, di luoghi riconoscibili, di tempi d’azione determinati. Ambiti in cui, sottolinea Bonomi, sempre di più il sociale prende spazio e autorevolezza. Un sociale che si inserisce tra welfare, produzione e politica e che può rappresentare una provocazione positiva un po’ per tutti, anche per la buona cultura d’impresa.

Leggere Aldo Bonomi è sempre qualcosa di impegnativo, ma anche di assolutamente utile e importante.

Dai distretti sociali alle bioregioni urbane

Aldo Bonomi

UP Best Practice in Scholarly Publishing (DOI 10.36253/fup_best_practice)

Aldo Bonomi, Dai distretti sociali alle bioregioni urbane, pp. 115-127, 2023

Impresa, non solo profitto

Sintetizzati in un libro appena pubblicato i principi e le linee guida per valorizzare il capitale umano nelle aziende

L’impresa che esiste non solo per il profitto, ma anche come agente di sviluppo sociale. L’impresa “sfruttatrice”, votata alla crescita del proprio bilancio e non allo sviluppo equilibrato di un sistema economico e sociale. Oggi sono di fatto ancora questi i due capi del dibattito sul ruolo delle imprese, sulle loro funzioni e sull’importanza che possono avere. Questione davvero di cultura d’impresa che si fa responsabilità sociale oppure si riduce ad una mera tecnica gestionale.

Un contributo importante al dibattito – perché aiuta a fare ordine sull’argomento -, è “Il capitale umano in azienda. Prospettive di valore e modelli di riferimento”, libro scritto a più mani da Paolo Ceruzzi, Enrico Sorano, Alberto Sardi e Francesco Natalini e pubblicando di recente.

Il volume, poco più di 130 pagine, parte dalle critiche che Papa Francesco ha più volte mosso al sistema economico basato sul profitto definendolo un modello vorace. Secondo il Pontefice le precarie condizioni della nostra casa comune sono dovute principalmente a un modello economico che è stato seguito per troppo tempo, orientato al profitto, con un orizzonte limitato, basato sull’illusione della crescita economica infinita, un sistema che viene definito disastroso.

Si tratta della critica ad una serie di modelli aziendali opposti a quelli che, invece, conducono a migliorare il benessere sociale, ambientale ed economico sia dell’azienda, sia delle famiglie in un’ottica di lungo periodo.

Il libro è quindi un percorso guidato verso la comprensione del concetto di azienda e dell’insieme di pratiche che permettono l’attuazione di un modello aziendale indirizzato verso il benessere dei lavoratori così da condurre a un migliore benessere economico, sociale e ambientale.

Chi legge, viene così condotto lungo un percorso che aiuta la creazione di un bagaglio di attrezzi conoscitivi utili a comprendere orientamenti diversi nei confronti dell’impresa, altri da quelli che hanno nella buona chiusura dei conti l’unico traguardo da raggiungere.

Il capitale umano in azienda. Prospettive di valore e modelli di riferimento

Paolo Ceruzzi, Enrico Sorano, Alberto Sardi, Francesco Natalini

Libreria Editrice Vaticana, 2023

Sintetizzati in un libro appena pubblicato i principi e le linee guida per valorizzare il capitale umano nelle aziende

L’impresa che esiste non solo per il profitto, ma anche come agente di sviluppo sociale. L’impresa “sfruttatrice”, votata alla crescita del proprio bilancio e non allo sviluppo equilibrato di un sistema economico e sociale. Oggi sono di fatto ancora questi i due capi del dibattito sul ruolo delle imprese, sulle loro funzioni e sull’importanza che possono avere. Questione davvero di cultura d’impresa che si fa responsabilità sociale oppure si riduce ad una mera tecnica gestionale.

Un contributo importante al dibattito – perché aiuta a fare ordine sull’argomento -, è “Il capitale umano in azienda. Prospettive di valore e modelli di riferimento”, libro scritto a più mani da Paolo Ceruzzi, Enrico Sorano, Alberto Sardi e Francesco Natalini e pubblicando di recente.

Il volume, poco più di 130 pagine, parte dalle critiche che Papa Francesco ha più volte mosso al sistema economico basato sul profitto definendolo un modello vorace. Secondo il Pontefice le precarie condizioni della nostra casa comune sono dovute principalmente a un modello economico che è stato seguito per troppo tempo, orientato al profitto, con un orizzonte limitato, basato sull’illusione della crescita economica infinita, un sistema che viene definito disastroso.

Si tratta della critica ad una serie di modelli aziendali opposti a quelli che, invece, conducono a migliorare il benessere sociale, ambientale ed economico sia dell’azienda, sia delle famiglie in un’ottica di lungo periodo.

Il libro è quindi un percorso guidato verso la comprensione del concetto di azienda e dell’insieme di pratiche che permettono l’attuazione di un modello aziendale indirizzato verso il benessere dei lavoratori così da condurre a un migliore benessere economico, sociale e ambientale.

Chi legge, viene così condotto lungo un percorso che aiuta la creazione di un bagaglio di attrezzi conoscitivi utili a comprendere orientamenti diversi nei confronti dell’impresa, altri da quelli che hanno nella buona chiusura dei conti l’unico traguardo da raggiungere.

Il capitale umano in azienda. Prospettive di valore e modelli di riferimento

Paolo Ceruzzi, Enrico Sorano, Alberto Sardi, Francesco Natalini

Libreria Editrice Vaticana, 2023

Mattarella e gli illuministi napoletani: alle radici dell’economia civile che piace alle imprese

“Economia civile”, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando all’Assemblea di Confindustria, caratterizzata da un titolo esemplare: “Impresa, lavoro e democrazia: la strada della Costituzione” e convocata in una data simbolica, il 15 settembre, “giornata internazionale della democrazia”. E ne ha indicato l’origine negli scritti di Antonio Genovesi, illuminista napoletano, il primo in Europa ad avere una cattedra di economia, nel 1754.

Economia civile, e cioè fondata sull’idea che il mercato avrebbe contribuito alla costruzione di un mondo più libero ed egualitario (Adam Smith considerava, appunto, Genovesi un maestro e un ispiratore) ma anche sulla valorizzazione della persona, come “realtà relazionale fatta per la reciprocità”, ispirata cioè sia dall’interesse individuale sia dalla solidarietà sociale. Il mercato come spazio centrale. E il bene comune e le virtù civili come riferimenti essenziali.

Eccolo, il senso della citazione di Mattarella, accanto ad altri riferimenti a intellettuali ed economisti rilevanti nella nostra storia (Carlo Cattaneo, Luigi Einaudi). Legandola alla consapevolezza che “il mercato, l’impresa, l’economico sono in sé luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità, fraternità” e che dunque “l’economia è civile, il mercato è vita in comune, e condividono la stessa legge fondamentale: la mutua assistenza”.

Nella sua relazione introduttiva, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, aveva definito l’impresa come “lo spazio democratico in cui i valori del bene comune e della responsabilità sociale devono manifestarsi nella loro concretezza, così come è accaduto nei mesi durissimi della pandemia” e aveva proposto un mercato del lavoro “inclusivo”, specialmente per giovani e donne, rendendo così effettivo il diritto al lavoro. I riferimenti sono stati ripresi dal presidente della Repubblica: “Tutto ciò induce alla consapevolezza che i luoghi di vita, le persone, i cittadini che li animano, sono parte, irrinunciabile, del progetto di coesione sociale, di libertà, di diritti e di democrazia della Repubblica”.

C’è evidente, insomma, nelle parole del presidente Mattarella agli imprenditori, nel segno della Costituzione, il riferimento all’utilità e alla responsabilità sociale dell’impresa. E al nesso essenziale tra libertà, democrazia, sviluppo economico e inclusione sociale. Un riferimento rinforzato dal richiamo a un altro illuminista napoletano, l’abate Ferdinando Galiani, ammirato nei salotti degli enciclopedisti francesi frequentati da Diderot, Montesquieu e Voltaire: “La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

La parola “felicità” usata dal presidente Mattarella con gli imprenditori rinvia a un altro suo intervento recente, il 25 agosto, al “Meeting per l’amicizia tra i popoli” di Rimini. Eccolo: “Nel dibattito pubblico si cita, sovente, il ‘diritto alla felicità’ elencata – come da perseguire – assieme a quelli alla vita e alla libertà, nella Dichiarazione di indipendenza, del 4 luglio 1776, degli Stati Uniti. È già interessante notare l’influenza del pensiero di esponenti della cultura del nostro Paese su quel testo. Nel confronto tra Beniamino Franklin e il filosofo napoletano Gaetano Filangieri fu, infatti, l’insegnamento di quest’ultimo a suggerire di sostituire alla espressione ‘diritto alla proprietà’ quella relativa alla felicità”.

Ha insistito Mattarella: “Non vi è definizione equivalente nella nostra Carta costituzionale. Eppure, vi sono pochi dubbi circa il fatto che gli articoli della Costituzione delineino una serie di diritti, e chiedano, alla Repubblica, una serie di azioni positive per conseguire condizioni che rendano gratificante l’esistenza; sia pure senza la pretesa che la felicità sia una condizione permanente; quasi che la vita, con le sue traversie, non introduca momenti di segno diverso”.

Genovesi, Galiani, Filangieri. Perché tanta attenzione? L’illuminismo napoletano della metà del Settecento è una delle stagioni più fertili del pensiero economico e civile della storia italiana. Ha un’eco internazionale. Trova sintonie con le riflessioni degli illuministi milanesi riuniti attorno alla rivista “Il Caffè” dei fratelli Pietro e Alessandro Verri e alle lezioni di Cesare Beccaria contro la pena di morte e sulle relazioni tra diritti, doveri, libertà e responsabilità. E costituisce un punto alto del pensiero che lega il riformismo politico e sociale con le esigenze di sviluppo economico e sociale. Il buon governo con leggi e regole. E la costruzione di un robusto “capitale sociale” che stimoli il progresso, più equo ed equilibrato.

Rileggere oggi quelle riflessioni e riproporle nel discorso pubblico significa insistere per un salto di qualità sia dell’impegno politico sia dell’orizzonte di valori e culture in cui iscrivere l’impegno degli attori economici e sociali. Valorizzare una tradizione di pensiero civile ed economico che affonda le sue radici nel tardo Medio Evo e nell’Umanesimo (fra il Costituto di Siena del 1309 con l’elogio della bellezza come strumento di buon governo e le lezioni morali de “L’arte di mercatura” di Benedetto Cotrugli), si ripropone tra Ottocento e Novecento con Cavour e Cattaneo, la dottrina sociale della Chiesa e il riformismo socialista di Turati e Treves e trova ampi spazi anche nella storia d’impresa, con il mecenatismo e la filantropia dei Crespi, di Alessandro Rossi e dei Marzotto e degli Zegna e la contemporanea attenzione alle responsabilità dell’imprenditore di Adriano Olivetti e di Alberto e Leopoldo Pirelli, per fare solo alcuni nomi possibili.

Sono tutti temi che risuonano negli interventi di Papa Francesco sull’economia “giusta” e “circolare” e trovano spazio in un’ampia letteratura economica che, archiviata la stagione del liberismo d’assalto e della finanza globale da greed is good ( il motto dello spregiudicato interprete di “Wall Street” diretto da Oliver Stone), rilegge in modo contemporaneo il liberalismo con robuste venature sociali di John Maynard Keynes (di cui Federico Caffè è stato tra gli interpreti più fertili) ma anche il Codice di Camaldoli ispirato dal pensiero cattolico (“L’uomo è, per sua natura, un essere socievole: sussiste, cioè, fra gli uomini una naturale solidarietà, fratellanza e complementarietà, per cui le esigenze delle singole, personalità non possono essere pienamente soddisfatte che nella società”, commentato così dal presidente Mattarella: “E’ il binomio persona-comunità a sorreggere un ordinamento che non deve essere intrusivo, ma diretto a valorizzare pluralità e libertà”).

In questo contesto, ecco, appunto, l’economia civile, riletta e aggiornata dalle riflessioni di Stefano Zamagni e Luigino Bruni. E l’insieme delle scelte delle imprese italiane che fanno della sostenibilità, della green economy, della cultura e della solidarietà sociale non etichette di facile comunicazione ma dei veri e propri asset di crescita e di competitività.  

Il riferimento di fondo è la Costituzione. Perché, per usare le parole del presidente di Confindustria Bonomi. “esprime anche l’animo delle imprese italiane”. E perché, appunto, “non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione nel momento in cui definisce le regole del gioco. Il principio non è quello della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione”, per riprendere il discorso in Confindustria del presidente della Repubblica.

Né dirigismo né protezionismo, tipici di un percorso di involuzione che – la Storia insegna – portano all’autoritarismo. E nessuna tentazione di alimentare la paura del futuro. Semmai, la consapevolezza che “le imprese sono veicoli di crescita, di innovazione, di formazione, di cultura, di integrazione, di moltiplicazione di influenza, fattore di soft-power. E sono, anche, agenti di libertà”. Infatti, “generare ricchezza è una rilevante funzione sociale. È una delle prime responsabilità sociali dell’impresa. Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive”. Ancora un riferimento, all’ultimo libro di Martin Wolf: “Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”.

Funzione sociale del fare impresa. Responsabilità. L’economia civile, appunto.

(foto: Getty Images)

“Economia civile”, ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, parlando all’Assemblea di Confindustria, caratterizzata da un titolo esemplare: “Impresa, lavoro e democrazia: la strada della Costituzione” e convocata in una data simbolica, il 15 settembre, “giornata internazionale della democrazia”. E ne ha indicato l’origine negli scritti di Antonio Genovesi, illuminista napoletano, il primo in Europa ad avere una cattedra di economia, nel 1754.

Economia civile, e cioè fondata sull’idea che il mercato avrebbe contribuito alla costruzione di un mondo più libero ed egualitario (Adam Smith considerava, appunto, Genovesi un maestro e un ispiratore) ma anche sulla valorizzazione della persona, come “realtà relazionale fatta per la reciprocità”, ispirata cioè sia dall’interesse individuale sia dalla solidarietà sociale. Il mercato come spazio centrale. E il bene comune e le virtù civili come riferimenti essenziali.

Eccolo, il senso della citazione di Mattarella, accanto ad altri riferimenti a intellettuali ed economisti rilevanti nella nostra storia (Carlo Cattaneo, Luigi Einaudi). Legandola alla consapevolezza che “il mercato, l’impresa, l’economico sono in sé luoghi anche di amicizia, reciprocità, gratuità, fraternità” e che dunque “l’economia è civile, il mercato è vita in comune, e condividono la stessa legge fondamentale: la mutua assistenza”.

Nella sua relazione introduttiva, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, aveva definito l’impresa come “lo spazio democratico in cui i valori del bene comune e della responsabilità sociale devono manifestarsi nella loro concretezza, così come è accaduto nei mesi durissimi della pandemia” e aveva proposto un mercato del lavoro “inclusivo”, specialmente per giovani e donne, rendendo così effettivo il diritto al lavoro. I riferimenti sono stati ripresi dal presidente della Repubblica: “Tutto ciò induce alla consapevolezza che i luoghi di vita, le persone, i cittadini che li animano, sono parte, irrinunciabile, del progetto di coesione sociale, di libertà, di diritti e di democrazia della Repubblica”.

C’è evidente, insomma, nelle parole del presidente Mattarella agli imprenditori, nel segno della Costituzione, il riferimento all’utilità e alla responsabilità sociale dell’impresa. E al nesso essenziale tra libertà, democrazia, sviluppo economico e inclusione sociale. Un riferimento rinforzato dal richiamo a un altro illuminista napoletano, l’abate Ferdinando Galiani, ammirato nei salotti degli enciclopedisti francesi frequentati da Diderot, Montesquieu e Voltaire: “La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

La parola “felicità” usata dal presidente Mattarella con gli imprenditori rinvia a un altro suo intervento recente, il 25 agosto, al “Meeting per l’amicizia tra i popoli” di Rimini. Eccolo: “Nel dibattito pubblico si cita, sovente, il ‘diritto alla felicità’ elencata – come da perseguire – assieme a quelli alla vita e alla libertà, nella Dichiarazione di indipendenza, del 4 luglio 1776, degli Stati Uniti. È già interessante notare l’influenza del pensiero di esponenti della cultura del nostro Paese su quel testo. Nel confronto tra Beniamino Franklin e il filosofo napoletano Gaetano Filangieri fu, infatti, l’insegnamento di quest’ultimo a suggerire di sostituire alla espressione ‘diritto alla proprietà’ quella relativa alla felicità”.

Ha insistito Mattarella: “Non vi è definizione equivalente nella nostra Carta costituzionale. Eppure, vi sono pochi dubbi circa il fatto che gli articoli della Costituzione delineino una serie di diritti, e chiedano, alla Repubblica, una serie di azioni positive per conseguire condizioni che rendano gratificante l’esistenza; sia pure senza la pretesa che la felicità sia una condizione permanente; quasi che la vita, con le sue traversie, non introduca momenti di segno diverso”.

Genovesi, Galiani, Filangieri. Perché tanta attenzione? L’illuminismo napoletano della metà del Settecento è una delle stagioni più fertili del pensiero economico e civile della storia italiana. Ha un’eco internazionale. Trova sintonie con le riflessioni degli illuministi milanesi riuniti attorno alla rivista “Il Caffè” dei fratelli Pietro e Alessandro Verri e alle lezioni di Cesare Beccaria contro la pena di morte e sulle relazioni tra diritti, doveri, libertà e responsabilità. E costituisce un punto alto del pensiero che lega il riformismo politico e sociale con le esigenze di sviluppo economico e sociale. Il buon governo con leggi e regole. E la costruzione di un robusto “capitale sociale” che stimoli il progresso, più equo ed equilibrato.

Rileggere oggi quelle riflessioni e riproporle nel discorso pubblico significa insistere per un salto di qualità sia dell’impegno politico sia dell’orizzonte di valori e culture in cui iscrivere l’impegno degli attori economici e sociali. Valorizzare una tradizione di pensiero civile ed economico che affonda le sue radici nel tardo Medio Evo e nell’Umanesimo (fra il Costituto di Siena del 1309 con l’elogio della bellezza come strumento di buon governo e le lezioni morali de “L’arte di mercatura” di Benedetto Cotrugli), si ripropone tra Ottocento e Novecento con Cavour e Cattaneo, la dottrina sociale della Chiesa e il riformismo socialista di Turati e Treves e trova ampi spazi anche nella storia d’impresa, con il mecenatismo e la filantropia dei Crespi, di Alessandro Rossi e dei Marzotto e degli Zegna e la contemporanea attenzione alle responsabilità dell’imprenditore di Adriano Olivetti e di Alberto e Leopoldo Pirelli, per fare solo alcuni nomi possibili.

Sono tutti temi che risuonano negli interventi di Papa Francesco sull’economia “giusta” e “circolare” e trovano spazio in un’ampia letteratura economica che, archiviata la stagione del liberismo d’assalto e della finanza globale da greed is good ( il motto dello spregiudicato interprete di “Wall Street” diretto da Oliver Stone), rilegge in modo contemporaneo il liberalismo con robuste venature sociali di John Maynard Keynes (di cui Federico Caffè è stato tra gli interpreti più fertili) ma anche il Codice di Camaldoli ispirato dal pensiero cattolico (“L’uomo è, per sua natura, un essere socievole: sussiste, cioè, fra gli uomini una naturale solidarietà, fratellanza e complementarietà, per cui le esigenze delle singole, personalità non possono essere pienamente soddisfatte che nella società”, commentato così dal presidente Mattarella: “E’ il binomio persona-comunità a sorreggere un ordinamento che non deve essere intrusivo, ma diretto a valorizzare pluralità e libertà”).

In questo contesto, ecco, appunto, l’economia civile, riletta e aggiornata dalle riflessioni di Stefano Zamagni e Luigino Bruni. E l’insieme delle scelte delle imprese italiane che fanno della sostenibilità, della green economy, della cultura e della solidarietà sociale non etichette di facile comunicazione ma dei veri e propri asset di crescita e di competitività.  

Il riferimento di fondo è la Costituzione. Perché, per usare le parole del presidente di Confindustria Bonomi. “esprime anche l’animo delle imprese italiane”. E perché, appunto, “non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione nel momento in cui definisce le regole del gioco. Il principio non è quello della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione”, per riprendere il discorso in Confindustria del presidente della Repubblica.

Né dirigismo né protezionismo, tipici di un percorso di involuzione che – la Storia insegna – portano all’autoritarismo. E nessuna tentazione di alimentare la paura del futuro. Semmai, la consapevolezza che “le imprese sono veicoli di crescita, di innovazione, di formazione, di cultura, di integrazione, di moltiplicazione di influenza, fattore di soft-power. E sono, anche, agenti di libertà”. Infatti, “generare ricchezza è una rilevante funzione sociale. È una delle prime responsabilità sociali dell’impresa. Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive”. Ancora un riferimento, all’ultimo libro di Martin Wolf: “Democrazia e mercato hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione”.

Funzione sociale del fare impresa. Responsabilità. L’economia civile, appunto.

(foto: Getty Images)

Risuona. La presentazione della serie podcast prodotta da Chora Media e promossa da Fondazione Pirelli

Si terrà mercoledì 4 ottobre 2023 alle ore 19 da Upcycle | Milano Bike Cafè la presentazione di Risuona. La serie podcast, promossa da Fondazione Pirelli e prodotta da Chora Media, racconta le risonanze tra passato e futuro, in una Milano che scorre veloce come le ruote di una bicicletta attraverso la voce di Gino De Crescenzo, in arte Pacifico, cantautore e narratore del podcast, e il sound design di Andrea Girelli di Chora Media. Con un esclusivo viaggio immersivo realizzato esclusivamente per loro, i partecipanti raggiungeranno i luoghi che hanno fatto la Storia di Milano e di Pirelli. Un giro in bici… tutto da ascoltare!

A presentare il progetto, il CEO Editor-in-Chief di Chora Media Mario Calabresi, il Direttore di Fondazione Pirelli Antonio Calabrò e Sara Poma, Head of Chora Studio. Modera Francesca Berardi, giornalista e Senior Content Producer di Chora Studio.

Mobilità sostenibile, apertura all’incontro e allo scambio reciproco di professionalità differenti, tipica anche della cultura politecnica pirelliana, sono valori che risuonano persino nel luogo che ospiterà l’evento: Upcycle | Milano Bike Cafè. La serata si concluderà con un aperitivo.

L’evento è gratuito e a ingresso libero fino a esaurimento posti.

È possibile prenotarsi qui.

Vi aspettiamo!

Si terrà mercoledì 4 ottobre 2023 alle ore 19 da Upcycle | Milano Bike Cafè la presentazione di Risuona. La serie podcast, promossa da Fondazione Pirelli e prodotta da Chora Media, racconta le risonanze tra passato e futuro, in una Milano che scorre veloce come le ruote di una bicicletta attraverso la voce di Gino De Crescenzo, in arte Pacifico, cantautore e narratore del podcast, e il sound design di Andrea Girelli di Chora Media. Con un esclusivo viaggio immersivo realizzato esclusivamente per loro, i partecipanti raggiungeranno i luoghi che hanno fatto la Storia di Milano e di Pirelli. Un giro in bici… tutto da ascoltare!

A presentare il progetto, il CEO Editor-in-Chief di Chora Media Mario Calabresi, il Direttore di Fondazione Pirelli Antonio Calabrò e Sara Poma, Head of Chora Studio. Modera Francesca Berardi, giornalista e Senior Content Producer di Chora Studio.

Mobilità sostenibile, apertura all’incontro e allo scambio reciproco di professionalità differenti, tipica anche della cultura politecnica pirelliana, sono valori che risuonano persino nel luogo che ospiterà l’evento: Upcycle | Milano Bike Cafè. La serata si concluderà con un aperitivo.

L’evento è gratuito e a ingresso libero fino a esaurimento posti.

È possibile prenotarsi qui.

Vi aspettiamo!

Premio Campiello 2023: premiati i vincitori

Si conclude la sessantunesima edizione del Premio Campiello con la Cerimonia di Premiazione dei Vincitori che si è svolta sabato 16 settembre presso il Teatro La Fenice di Venezia. La serata è stata presentata da Francesca Fialdini e Lodo Guenzi ed è stata trasmessa in diretta su RAI 5.

Ad aggiudicarsi l’ambito riconoscimento letterario, che dal 1962 premia alcuni dei più grandi autori della letteratura italiana, è stata Benedetta Tobagi, con il libro “La resistenza delle donne” (Einaudi Editore).

(Per conoscere l’autore e il suo libro potete visionare l’intervista di Fondazione Pirelli, cliccando qui)

Durante la cerimonia Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello, hanno premiato anche i vincitori della seconda edizione del Premio Campiello Junior, il riconoscimento promosso dalla Fondazione Pirelli e rivolto alle opere italiane di narrativa e poesia per i ragazzi. Per la categoria 7-10 anni è stato premiato Nicola Cinquetti, con il libro “L’incredibile notte di Billy Bologna” (Lapis Edizioni), mentre per la categoria 11-14 anni ha ritirato il premio Davide Rigiani, vincitore con il suo romanzo “Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino” (minimum fax).

(Per conoscere gli scrittori vincitori del Campiello Junior potete visionare le interviste di Fondazione Pirelli cliccando qui)

Il Premio Campiello Junior prosegue con la sua terza edizione, per rimanere aggiornati sulle prossime iniziative potete visitare i siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org

Si conclude la sessantunesima edizione del Premio Campiello con la Cerimonia di Premiazione dei Vincitori che si è svolta sabato 16 settembre presso il Teatro La Fenice di Venezia. La serata è stata presentata da Francesca Fialdini e Lodo Guenzi ed è stata trasmessa in diretta su RAI 5.

Ad aggiudicarsi l’ambito riconoscimento letterario, che dal 1962 premia alcuni dei più grandi autori della letteratura italiana, è stata Benedetta Tobagi, con il libro “La resistenza delle donne” (Einaudi Editore).

(Per conoscere l’autore e il suo libro potete visionare l’intervista di Fondazione Pirelli, cliccando qui)

Durante la cerimonia Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello, hanno premiato anche i vincitori della seconda edizione del Premio Campiello Junior, il riconoscimento promosso dalla Fondazione Pirelli e rivolto alle opere italiane di narrativa e poesia per i ragazzi. Per la categoria 7-10 anni è stato premiato Nicola Cinquetti, con il libro “L’incredibile notte di Billy Bologna” (Lapis Edizioni), mentre per la categoria 11-14 anni ha ritirato il premio Davide Rigiani, vincitore con il suo romanzo “Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino” (minimum fax).

(Per conoscere gli scrittori vincitori del Campiello Junior potete visionare le interviste di Fondazione Pirelli cliccando qui)

Il Premio Campiello Junior prosegue con la sua terza edizione, per rimanere aggiornati sulle prossime iniziative potete visitare i siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org

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La pazienza di chi può vincere

In un libro appena pubblicato l’analisi della situazione del Paese e l’indicazione del cammino da intraprendere per farlo ripartire

L’Italia che vince oppure l’Italia che perde. Il Paese delle eccellenze oppure il Paese dei fallimenti. Sempre di più il dibattito attorno alla situazione della nostra società e della nostra economia oscilla tra questi due estremi. Retaggi storici, visioni distorte o comunque parziali, istantanee condizionate da filtri particolari, racconti falsati da obiettivi di parte, restituiscono immagini limitate della realtà e, soprattutto, la prospettiva di un futuro non certo rassicurante. Questione anche di cultura – a tutti i livelli – che deve ricominciare daccapo. È attorno a questo nocciolo di considerazioni che prende forma “L’eccellenza non basta”, l’ultimo libro di Paolo Manfredi da poco pubblicato.

Impegnato da oltre vent’anni sul fronte del rapporto tra digitale, sistemi territoriali e PMI, Manfredi delinea nelle prime pagine dell’opera l’immagine di un’Italia “Paese affaticato, un tessuto un po’ liso, puntinato di meraviglia. Non certo l’unico Paese a versare in una condizione poco brillante nell’era della crisi permanente, certamente però il principale dell’Occidente a dare da più di trent’anni la solida impressione di avere il futuro alle spalle”. Ma anche di un Paese zavorrato “da problemi mai risolti e da nuovi fardelli, il cui peso sembra destinato ad aumentare” e in cui “il richiamo alle eccellenze, che per lungo tempo ha coperto i problemi, non basta più: partecipano sempre meno delle sorti collettive del Paese e una comunità sempre più anziana e affaticata stenta a produrne di nuove”. Detto in altro modo, nonostante i suoi innegabili punti di forza, oggi l’Italia appare come un Paese sempre più vecchio, con pochi ragazzi mal valorizzati da un’istruzione in affanno, sempre più dipendente dalla rendita di posizione di quello che si può ancora vendere. L’esatto contrario, insomma, dell’Italia che ha fatto fortuna e creato marchi di eccellenza, che si sono progressivamente scollati dal milieu territoriale, culturale e distrettuale che li aveva partoriti, magari rimanendo al loro interno ma guardando sempre più fuori che dentro. Un fenomeno, quest’ultimo, che non riguarda più soltanto le aziende ma anche famiglie, professionisti, studenti. O interi territori.

Ma quindi che fare? Manfredi delinea due possibilità. La prima è lasciare che le eccellenze prosperino senza curarsi del resto (territori, persone, imprese) destinato a deperire. La seconda è lavorare per costruire un’economia paziente, circolare e basata su innovazione, competenze rinnovate, lavoro e biodiversità, che organizzi e dia forza a tutte quelle energie, oggi disperse e sprecate, di artigiani, imprenditori, sindaci, cooperatori, contadini, comunità, e semplici cittadini che tengono insieme – e in vita – il tessuto socioeconomico italiano, per disegnare un Paese più inclusivo, innovativo, proiettato al futuro.

Manfredi racconta tutto questo in poco meno di 150 pagine limpide e chiare che passano dalla descrizione del mondo intorno all’Italia, poi del “grande futuro dietro di noi” e quindi arrivano a delineare i due traguardi che è possibile raggiungere.

Il libro di Paolo Manfredi è, tutto sommato, un libro percorso dall’ottimismo della consapevolezza dei grandi problemi da risolvere, ma anche della forza che abbiamo per risolverli. Chi legge, comprende perché non dobbiamo rassegnarci al declino ma costruire un’economia su misura per tutti noi.

L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia

Paolo Manfredi

Egea, 2023

In un libro appena pubblicato l’analisi della situazione del Paese e l’indicazione del cammino da intraprendere per farlo ripartire

L’Italia che vince oppure l’Italia che perde. Il Paese delle eccellenze oppure il Paese dei fallimenti. Sempre di più il dibattito attorno alla situazione della nostra società e della nostra economia oscilla tra questi due estremi. Retaggi storici, visioni distorte o comunque parziali, istantanee condizionate da filtri particolari, racconti falsati da obiettivi di parte, restituiscono immagini limitate della realtà e, soprattutto, la prospettiva di un futuro non certo rassicurante. Questione anche di cultura – a tutti i livelli – che deve ricominciare daccapo. È attorno a questo nocciolo di considerazioni che prende forma “L’eccellenza non basta”, l’ultimo libro di Paolo Manfredi da poco pubblicato.

Impegnato da oltre vent’anni sul fronte del rapporto tra digitale, sistemi territoriali e PMI, Manfredi delinea nelle prime pagine dell’opera l’immagine di un’Italia “Paese affaticato, un tessuto un po’ liso, puntinato di meraviglia. Non certo l’unico Paese a versare in una condizione poco brillante nell’era della crisi permanente, certamente però il principale dell’Occidente a dare da più di trent’anni la solida impressione di avere il futuro alle spalle”. Ma anche di un Paese zavorrato “da problemi mai risolti e da nuovi fardelli, il cui peso sembra destinato ad aumentare” e in cui “il richiamo alle eccellenze, che per lungo tempo ha coperto i problemi, non basta più: partecipano sempre meno delle sorti collettive del Paese e una comunità sempre più anziana e affaticata stenta a produrne di nuove”. Detto in altro modo, nonostante i suoi innegabili punti di forza, oggi l’Italia appare come un Paese sempre più vecchio, con pochi ragazzi mal valorizzati da un’istruzione in affanno, sempre più dipendente dalla rendita di posizione di quello che si può ancora vendere. L’esatto contrario, insomma, dell’Italia che ha fatto fortuna e creato marchi di eccellenza, che si sono progressivamente scollati dal milieu territoriale, culturale e distrettuale che li aveva partoriti, magari rimanendo al loro interno ma guardando sempre più fuori che dentro. Un fenomeno, quest’ultimo, che non riguarda più soltanto le aziende ma anche famiglie, professionisti, studenti. O interi territori.

Ma quindi che fare? Manfredi delinea due possibilità. La prima è lasciare che le eccellenze prosperino senza curarsi del resto (territori, persone, imprese) destinato a deperire. La seconda è lavorare per costruire un’economia paziente, circolare e basata su innovazione, competenze rinnovate, lavoro e biodiversità, che organizzi e dia forza a tutte quelle energie, oggi disperse e sprecate, di artigiani, imprenditori, sindaci, cooperatori, contadini, comunità, e semplici cittadini che tengono insieme – e in vita – il tessuto socioeconomico italiano, per disegnare un Paese più inclusivo, innovativo, proiettato al futuro.

Manfredi racconta tutto questo in poco meno di 150 pagine limpide e chiare che passano dalla descrizione del mondo intorno all’Italia, poi del “grande futuro dietro di noi” e quindi arrivano a delineare i due traguardi che è possibile raggiungere.

Il libro di Paolo Manfredi è, tutto sommato, un libro percorso dall’ottimismo della consapevolezza dei grandi problemi da risolvere, ma anche della forza che abbiamo per risolverli. Chi legge, comprende perché non dobbiamo rassegnarci al declino ma costruire un’economia su misura per tutti noi.

L’eccellenza non basta. L’economia paziente che serve all’Italia

Paolo Manfredi

Egea, 2023

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